Dati, contenuti e social
Un commento trovato su YouTube: “Anni fa ho installato la app Google che all’epoca non era già integrata su Android, e mi chiede: ‘Vuoi autorizzare la localizzazione per ottenere informazioni sul traffico etc…’ io dico sì per provare … 7 secondi dopo mi dice ‘12 minuti per tornare a casa dal lavoro’ … cioè, ma se già lo sai dove lavoro e dove abito … perché mi chiedi il permesso?”
Gira in rete un filmato intitolato Pizzeria Google4
che ci fa vedere in maniera scherzosa, ma neanche tanto, quello che un gigante della tecnologia sa di noi e come utilizza queste informazioni.
La privacy è la più grande sfida che dobbiamo affrontare oggi e lo sarà ancora di più in futuro. È una sfida difficile perché il problema non è fisicamente evidente. Come può essere vero qualcosa che non sentiamo o vediamo, che non ci richiede di spendere alcuno sforzo o energia? Ma per i giganti tecnologici i dati, o meglio la nostra identità digitale, sono considerati il nuovo petrolio, una nuova fonte di ricchezza. È qualcosa di cui siamo parzialmente consapevoli, ma per comodità accettiamo di scambiare queste risorse con prodotti e servizi gratuiti.
Uscendo dal campo tecnologico ritroviamo le stesse logiche e problemi. Pensiamo, per esempio, alle carte fedeltà dei supermercati. Ormai presentarle alla cassa è quasi automatico e ci sentiamo strani se le dimentichiamo a casa. Così facendo, però, in cambio di un premio che spesso non ci piace nemmeno, consegniamo al reparto marketing le nostre abitudini d’acquisto che, incrociate con tutti gli altri dati cui sono in possesso, creano una fotografia perfetta di noi stessi, della nostra vita e di cosa potremmo comprare se solo venissimo convinti un po’ di più.
Non parliamo solo di dati astratti. Quando guardiamo ai contenuti che produciamo per un social, per esempio, siamo noi col nostro lavoro che facciamo prosperare e guadagnare soldi a palate ai vari Facebook, Twitter e simili, ma non riusciamo a valutare il valore del nostro contributo. Il risultato, comunque, è che non saremo ricompensati per l’impegno profuso e per di più soffriremo una perdita di privacy su una scala mai vista prima. Certo, ci sono siti come Medium5
che remunerano il lavoro di chi provvede a scriverne i contenuti, ma è più l’eccezione che la regola. Come contropartita accedere ai contenuti di una tale piattaforma non è gratuito. Costa, poco, ma costa. Forse questo diverrà un modello di business in futuro: cedo i miei dati e contenuti in cambio di una remunerazione oppure pago affinché i miei dati non vengano raccolti. Chissà se tutto questo di realizzerà.
Un discorso a parte meritano le applicazioni FOSS (Free and Open Source Software) che spesso sono più complete del corrispondente software commerciale. Per esempio io uso Gimp6
per ritoccare le immagini e questo programma è al pari con Photoshop e non costa come quest’ultimo una montagna di soldi, ma è addirittura gratuito. Questi programmi sono scritti da persone al di fuori del loro lavoro professionale, senza ricevere nessun compenso. Che cosa, allora, le motiva a produrre tali capolavori di ingegneria? Innanzitutto questi sviluppatori decidono autonomamente di lavorare su un certo pezzo di software perché si considerano e vogliono essere riconosciuti come i migliori del campo. E poi vogliono che quello che hanno costruito venga utilizzato. Ci troviamo di fronte quindi a una gratuità molto differente da quella di un Instagram o Facebook.
A chi appartengono i contenuti che abbiamo scritto? Se il sito dove li ho pubblicati muore, ho la possibilità di recuperarli? Le mie foto sono sotto il mio controllo oppure le ho consegnate, per esempio, a Flickr? La pagina Site Death7
elenca un’impressionante quantità di servizi che sono morti negli ultimi anni. Leggendo l’elenco ci rendiamo conto che solo alcuni di questi permettevano di esportare i propri contenuti e dati. Uno che offre un simile servizio è Google da cui, se volete fare una prova, potete esportare tutto ciò che vi appartiene8
e stupirvi di quante cose siano. Mettiamo però in conto che spesso non riusciamo a farlo se siamo confinati su una piattaforma limitata come può essere quella di uno smartphone.
Cosa dire della comodità d’uso degli assistenti vocali casalinghi? Google Home, Facebook Portal, Amazon Echo e le TV a comando vocale di Samsung sono comode, ma avere per casa qualcuno che mi ascolta ventiquattr’ore al giorno e che manda quello che dico a server situati chissà dove non mi lascia tranquillo. Tutti i produttori fanno solenni promesse che la privacy viene sempre rispettata, ma come esserne sicuri di fronte a una tecnologia opaca? Del resto c’è almeno una ditta che ha ammesso di aver trascritto le conversazioni ascoltate, non si sa per quale scopo.
Il discorso un po’ cinico che ho sentito dal patron di Facebook e altri è: “Ma se non hai nulla da nascondere di cosa ti preoccupi?”. Non è che faccia mai qualcosa di illegale, ma essere sicuro che qualcosa è mia e soltanto mia è un diritto. Come essere certo che chi ha le informazioni che mi riguardano si comporti allo stesso modo? Pensate al caso di un politico ripreso da una telecamera di sorveglianza. Magari in un fotogramma appare anche una nota modella che andava per i fatti suoi. Chi mi assicura che quell’immagine non possa essere utilizzata per montare una inesistente love story fra i due e magari ricattarli? E poi che fiducia mi danno altisonanti discorsi su privacy e diritti dell’utente quando ho così tanti esempi di tradimenti a questa fiducia?