CAPITOLO 4

Gli altri attori

Quando si progetta un sistema o un’applicazione software, uno dei primi passi è stabilirne i confini, cioè definire che cosa ne fa parte e con cosa si interfaccia. Nel nostro caso, oltre alla famiglia, di chi dobbiamo tener conto quando parliamo di tecnologia digitale? Sicuramente dobbiamo considerare amici e compagni di classe dei nostri figli, poi l’ambiente sociale in cui si muovono, la scuola e infine le aziende tecnologiche che forniscono strumenti e servizi.


Di scuola abbiamo già parlato. Può essere un’alleata o andare a rimorchio dei giganti della tecnologia digitale. I compagni spesso sono quelli che realmente influenzano i nostri figli (“Ma come, non hai il telefonino?”) ma su di loro abbiamo scarso controllo. Partiamo perciò da chi ci fornisce servizi e strumenti tecnologici. Sono loro quelli che hanno reso possibile la rivoluzione digitale che conosciamo. Non riesco a immaginare come sarebbe difficile creare e conoscere cose nuove se, per esempio, non esistessero i motori di ricerca (Google, Bing, …). Di questi strumenti dobbiamo essere loro grati, però dobbiamo anche essere consapevoli del loro ruolo nel definire l’ambiente digitale dove ci muoviamo noi e i nostri figli.

Le aziende tecnologiche non sono propriamente altruiste

Ovunque ci voltiamo, troviamo servizi gratuiti, utili e soprattutto comodi: le ricerche con Google, lo spazio di archiviazione di Dropbox, le mappe e le indicazioni stradali di Waze, i messaggi attraverso WhatsApp, i contatti con Facebook e tanti altri. Tutti questi servizi rendono possibile la nostra vita digitale che senza di loro non esisterebbe o sarebbe molto diversa.


Però dobbiamo renderci conto che quando una ditta commerciale, che fino a prova contraria non è un ente di beneficenza, dà qualcosa gratuitamente deve fare i soldi da qualche altra parte. Il primo modo a cui pensiamo sono gli annunci pubblicitari che infarciscono ogni uso delle applicazioni e ogni pagina web. Magari li consideriamo fastidiosi, ma accettabili. Il discorso cambia quando si parla di dati personali che permettono di conoscerci meglio di quanto riusciamo a fare noi stessi. In altre parole cediamo il controllo sulla nostra identità digitale in cambio della comodità di qualche servizio.


A volte la comodità d’uso non c’entra proprio. Pensiamo all’applicazione FaceApp1 , che, data una nostra foto, ci fa vedere come saremo fra tot anni. Simpatica, ma solleva due interrogativi: primo, siamo sicuri che la foto del viso non venga utilizzata per tutt’altro? Secondo, ho provato a installarla e l’applicazione vuole avere accesso a tutte le mie foto sul telefono. Ma è proprio necessario? Non si tratta di essere paranoici, ma piuttosto di valutare queste preoccupazioni rispetto al beneficio di un divertimento momentaneo. Anzi, più che momentaneo. Avete notato che in rete non si parla più di questa applicazione?


Ancora un esempio. Quando acquistiamo con la carta di credito spesso ci viene proposto di memorizzarne i dati in modo da rendere più semplici e veloci gli acquisti successivi. A parte il fatto che facilitare l’acquisto va a tutto vantaggio del venditore e non nostro, avere dei dati così sensibili in giro per il mondo a me non lascia tranquillo, i casi di elenchi di carte di credito trafugati si sprecano. E poi risparmiare forse quindici secondi all’acquisto successivo ci cambia la vita?


Ecco, forse è proprio dal tempo che dovremmo partire per ragionare su questi argomenti assieme ai nostri ragazzi. Il tempo che ci sembra di risparmiare usando certe applicazioni ci cambia la vita? Il tempo che ci fanno perdere lo conteggiamo mai? Il rischio di uso improprio dei nostri dati è controbilanciato da benefici che ne valgano la pena?


Riassumendo, dovremmo trasmettere ai nostri giovani la consapevolezza di cosa barattiamo con la comodità o la gratuità. Queste considerazioni non ci devono portare a rinunciare in blocco a tutto ciò che ci viene proposto, in fondo sono opportunità che ci vengono offerte, ma essere consapevoli degli effetti delle nostre azioni dobbiamo esserlo sempre.

I bambini, innocenti bersagli

Leggendo in rete o partecipando a fiere specializzate, si ha l’impressione che le ditte tecnologiche si preoccupino della crescita dei nostri giovani in questo mondo sempre più digitale. Alcune poi fanno sfoggio di pedagogisti e psicologi a supporto delle loro offerte. Tutto bene, quindi?


Io rimango sempre molto dubbioso. Già concordavamo che queste società non si muovono se non per soldi. In più i bambini, ma anche gli adolescenti, sono vulnerabili perché non hanno sviluppato ancora sufficienti protezioni e senso critico per opporsi a questo bombardamento di attenzioni e proposte. Per farsi un’idea di cosa questo significhi, c’è il libro piuttosto angosciante di Juliet Schor2 Nati per comprare dove si parla delle onnipresenti pubblicità mirate ai bambini, di una cultura di marketing che sostituisce tutto ciò che è proprio del bambino, come il divertimento non strutturato, con il tempo libero commercializzato, le feste dal McDonald’s, per intenderci. Il risultato è un marketing che fa sì che i bambini “credano di essere ciò che possiedono” e si convincano che i prodotti pubblicizzati siano necessari per la loro sopravvivenza sociale. In altre parole, le pubblicità non li influenzano solo per quello che vogliono acquistare, ma anche per quello che pensano di essere e per come si percepiscono. Per questo noi genitori dovremmo sentire potente la responsabilità di allevarli con valori forti e con la capacità di ragionare sulle informazioni che li bombardano. Per me, il consumismo è solo un mucchio di rumore che tenta di soffocare questo lavoro educativo, usando un enorme numero di stratagemmi per convincere i nostri figli a non prendere decisioni ponderate, in particolare quando si tratta di beni materiali o del denaro.


Anche un’attività innocua, come guardare su YouTube video di giocattoli, non credo che dovremmo permetterla a cuor leggero: si tratta sostanzialmente di esporre i bambini a informazioni commerciali che, appunto, non fanno altro che alimentare il consumismo e insegnano ai più giovani che la sicurezza in se stessi e il benessere sono collegati allo status e alla ricchezza, ovvero all’accumulazione di beni materiali.


Anche noi genitori dovremmo fare un esame di coscienza. Siamo preoccupati per così tanti pericoli per i nostri figli ma raramente notiamo la minaccia più grande di tutte, lo sforzo del marketing che mira a trasformare i bambini in piccoli consumatori ossessionati dallo status e carenti di attenzione. Tutto questo lo capiamo, ma se la nostra preoccupazione principale è che nostro figlio venga emarginato perché non ha il cellulare, mentre i suoi compagni e amici ce l’hanno, allora forse dobbiamo domandarci che cosa è veramente importante per noi riguardo a nostro figlio e alla sua cerchia di coetanei. Una motivazione un po’ terroristica per affrontare questa analisi ce la dà Schor nel suo libro dove dimostra che non sono i bambini con problemi quelli che abbracciano i valori del consumismo; sono i bambini che abbracciano i valori del consumismo che diventano bambini con problemi. Teniamolo a mente.


Anche se i nostri figli, più che noi stessi, sono sotto attacco da parte di un marketing spietato e privo di scrupoli, possiamo reagire e, dialogando con i nostri figli, possiamo aiutarli a distinguere tra video e messaggi di puro stampo commerciale e tutto quanto invece stimola la creatività e la capacità di comunicazione. Parlando con loro e ascoltandoli possiamo trasmettere quali sono i veri valori che vale la pena di vivere. Quello che è in gioco è niente meno che il benessere emotivo e sociale dei nostri figli.

Due esempi di strategie d’attacco

Per quello che ci interessa, alcune delle armi impiegate in questo attacco ai nostri “abitanti del futuro” sono la distrazione continua e, collegata a questo, l’opacità. Lo so, sto andando contro quanto avevo affermato all’inizio del libro, cioè che gli aspetti negativi li avrei relegati alla fine. Ma in questo caso gli attori che plasmano la nostra società digitale hanno così tanta influenza da diventare non un dettaglio marginale nella vita dei nostri “nativi digitali”, ma la forza trainante.


Ora prendete in mano lo smartphone e provate a far caso alla quantità di elementi di distrazione presenti: gli avvisi di nuovi messaggi e nuovi contenuti, le notifiche di imperdibili offerte commerciali e infine le pubblicità. Nessuna società commerciale vuole che tu ti possa immergere profondamente in una qualsiasi attività, perché questo vorrebbe dire ridurre la quantità di pubblicità a cui sei esposto. Anche un’attività prettamente commerciale come fare shopping dal telefono è pensata per distrarti il più possibile perché così sei portato a prendere decisioni sbagliate, sei impossibilitato a confrontare prezzi e offerte e magari compri d’impulso anche ciò che non ti serve.


Un altro tipo di distrazione nasce quando le aziende vogliono soddisfare esigenze che nemmeno pensiamo di avere. Per carità, se ascoltassero solamente le richieste degli utenti, magari invece delle automobili avremmo carrozze con cavalli più veloci e migliori ammortizzatori, come sembra abbia detto Henry Ford. Non è questo il punto però. Il punto è chi ha il controllo: noi che valutiamo criticamente sulla base delle nostre esigenze o noi che passivamente seguiamo quel che ci viene proposto?


Per distrarre meglio, le tecnologie informatiche non sono trasparenti. Chi è mai riuscito a comprendere le implicazioni dei “Termini di Servizio” o delle “Licenze” che dobbiamo accettare durante un’installazione? Anni fa uno sviluppatore burlone incluse nella licenza della sua applicazione l’obbligo per l’utente di sacrificare il suo primogenito ed è rimasto stupito dal non aver ricevuto nessuna rimostranza. Tutte le aziende, poi, vogliono che i loro prodotti sembrino facili da usare e questo rende più difficile capire in caso di problemi cosa stia andando storto e così imparare abbastanza da sistemarli se capitasse di nuovo3 . Ancora una volta cediamo il controllo in cambio della comodità.

Dati, contenuti e social

Un commento trovato su YouTube: “Anni fa ho installato la app Google che all’epoca non era già integrata su Android, e mi chiede: ‘Vuoi autorizzare la localizzazione per ottenere informazioni sul traffico etc…’ io dico sì per provare … 7 secondi dopo mi dice ‘12 minuti per tornare a casa dal lavoro’ … cioè, ma se già lo sai dove lavoro e dove abito … perché mi chiedi il permesso?”


Gira in rete un filmato intitolato Pizzeria Google4 che ci fa vedere in maniera scherzosa, ma neanche tanto, quello che un gigante della tecnologia sa di noi e come utilizza queste informazioni.


La privacy è la più grande sfida che dobbiamo affrontare oggi e lo sarà ancora di più in futuro. È una sfida difficile perché il problema non è fisicamente evidente. Come può essere vero qualcosa che non sentiamo o vediamo, che non ci richiede di spendere alcuno sforzo o energia? Ma per i giganti tecnologici i dati, o meglio la nostra identità digitale, sono considerati il nuovo petrolio, una nuova fonte di ricchezza. È qualcosa di cui siamo parzialmente consapevoli, ma per comodità accettiamo di scambiare queste risorse con prodotti e servizi gratuiti.


Uscendo dal campo tecnologico ritroviamo le stesse logiche e problemi. Pensiamo, per esempio, alle carte fedeltà dei supermercati. Ormai presentarle alla cassa è quasi automatico e ci sentiamo strani se le dimentichiamo a casa. Così facendo, però, in cambio di un premio che spesso non ci piace nemmeno, consegniamo al reparto marketing le nostre abitudini d’acquisto che, incrociate con tutti gli altri dati cui sono in possesso, creano una fotografia perfetta di noi stessi, della nostra vita e di cosa potremmo comprare se solo venissimo convinti un po’ di più.


Non parliamo solo di dati astratti. Quando guardiamo ai contenuti che produciamo per un social, per esempio, siamo noi col nostro lavoro che facciamo prosperare e guadagnare soldi a palate ai vari Facebook, Twitter e simili, ma non riusciamo a valutare il valore del nostro contributo. Il risultato, comunque, è che non saremo ricompensati per l’impegno profuso e per di più soffriremo una perdita di privacy su una scala mai vista prima. Certo, ci sono siti come Medium5 che remunerano il lavoro di chi provvede a scriverne i contenuti, ma è più l’eccezione che la regola. Come contropartita accedere ai contenuti di una tale piattaforma non è gratuito. Costa, poco, ma costa. Forse questo diverrà un modello di business in futuro: cedo i miei dati e contenuti in cambio di una remunerazione oppure pago affinché i miei dati non vengano raccolti. Chissà se tutto questo di realizzerà.


Un discorso a parte meritano le applicazioni FOSS (Free and Open Source Software) che spesso sono più complete del corrispondente software commerciale. Per esempio io uso Gimp6 per ritoccare le immagini e questo programma è al pari con Photoshop e non costa come quest’ultimo una montagna di soldi, ma è addirittura gratuito. Questi programmi sono scritti da persone al di fuori del loro lavoro professionale, senza ricevere nessun compenso. Che cosa, allora, le motiva a produrre tali capolavori di ingegneria? Innanzitutto questi sviluppatori decidono autonomamente di lavorare su un certo pezzo di software perché si considerano e vogliono essere riconosciuti come i migliori del campo. E poi vogliono che quello che hanno costruito venga utilizzato. Ci troviamo di fronte quindi a una gratuità molto differente da quella di un Instagram o Facebook.


A chi appartengono i contenuti che abbiamo scritto? Se il sito dove li ho pubblicati muore, ho la possibilità di recuperarli? Le mie foto sono sotto il mio controllo oppure le ho consegnate, per esempio, a Flickr? La pagina Site Death7 elenca un’impressionante quantità di servizi che sono morti negli ultimi anni. Leggendo l’elenco ci rendiamo conto che solo alcuni di questi permettevano di esportare i propri contenuti e dati. Uno che offre un simile servizio è Google da cui, se volete fare una prova, potete esportare tutto ciò che vi appartiene8 e stupirvi di quante cose siano. Mettiamo però in conto che spesso non riusciamo a farlo se siamo confinati su una piattaforma limitata come può essere quella di uno smartphone.


Cosa dire della comodità d’uso degli assistenti vocali casalinghi? Google Home, Facebook Portal, Amazon Echo e le TV a comando vocale di Samsung sono comode, ma avere per casa qualcuno che mi ascolta ventiquattr’ore al giorno e che manda quello che dico a server situati chissà dove non mi lascia tranquillo. Tutti i produttori fanno solenni promesse che la privacy viene sempre rispettata, ma come esserne sicuri di fronte a una tecnologia opaca? Del resto c’è almeno una ditta che ha ammesso di aver trascritto le conversazioni ascoltate, non si sa per quale scopo.


Il discorso un po’ cinico che ho sentito dal patron di Facebook e altri è: “Ma se non hai nulla da nascondere di cosa ti preoccupi?”. Non è che faccia mai qualcosa di illegale, ma essere sicuro che qualcosa è mia e soltanto mia è un diritto. Come essere certo che chi ha le informazioni che mi riguardano si comporti allo stesso modo? Pensate al caso di un politico ripreso da una telecamera di sorveglianza. Magari in un fotogramma appare anche una nota modella che andava per i fatti suoi. Chi mi assicura che quell’immagine non possa essere utilizzata per montare una inesistente love story fra i due e magari ricattarli? E poi che fiducia mi danno altisonanti discorsi su privacy e diritti dell’utente quando ho così tanti esempi di tradimenti a questa fiducia?

Pratica!

1. Siamo consapevoli del problema? Solo se lo siamo noi possiamo aiutare i nostri nativi digitali che, a quanto pare, non si preoccupano minimamente di difendere i propri dati personali.


2. Chiediamoci se è proprio necessario. Le informazioni che ci chiedono sono proprio necessarie per accedere a quel servizio? Dobbiamo per forza autorizzare tutti gli usi dei nostri dati che ci vengono proposti?


3. Studiamo le impostazioni della privacy sulle piattaforme social. Non accettare i default proposti.


4. Diamo un valore ai dati e alle foto che consegniamo a un servizio. Se sparissero come reagiremmo? Riusciamo a mantenere i dati a cui teniamo, foto, scritti, numeri di telefono e indirizzi da qualche altra parte che non sia un sito o servizio su cui non abbiamo controllo?

Le tecnologie digitali in famiglia
Le tecnologie digitali in famiglia
Mario Valle
Nemiche o alleate? Un approccio Montessori.Come risponde il cervello di un bambino alle sollecitazioni di un mondo tecnologico e che cosa possiamo fare per consentire un uso appropriato dei dispositivi tecnologici? Il mondo dei nostri figli è dominato dalla tecnologia: tablet, smartphone e computer costituiscono ormai parte integrante della loro vita; compito di noi genitori è quello di “prepararli al futuro” e educarli all’uso delle nuove tecnologie. Ma come?Mario Valle, esperto di supercomputer, nel libro Le tecnologie digitali in famiglia si rifà al pensiero di Maria Montessori (grande ammiratrice delle tecnologie del suo tempo e profonda conoscitrice della mente del bambino) per provare a delineare questo futuro: come risponde il cervello di un bambino alle sollecitazioni di un mondo tecnologico e che cosa possiamo fare per consentire un uso appropriato di questi dispositivi?Non si tratta, quindi, di demonizzare o idolatrare la tecnologia, ma di analizzare il presente per prepararsi al futuro. A questo punto si impone una riflessione: la civiltà ha dato all’uomo, per mezzo delle macchine, un potere molto superiore a quello che gli era proprio ma, perché l’opera della civiltà si sviluppi, bisogna anche che l’uomo si sviluppi. Il male che affligge la nostra epoca viene dallo squilibrio originato dalla differenza di ritmo secondo il quale si sono evoluti l’uomo e la macchina: la macchina è andata avanti con grande velocità mentre l’uomo è rimasto indietro. Così l’uomo vive sotto la dipendenza della macchina, mentre dovrebbe essere lui a dominarla.Maria Montessori, Dall’infanzia all’adolescenza Conosci l’autore Mario Valle lavora da oltre trent’anni nei campi più disparati della scienza e dal 2003 è al Centro Svizzero di Calcolo Scientifico (CSCS) di Lugano, a stretto contatto con scienziati e ricercatori, utilizzando quotidianamente supercomputer e tecnologie di punta.Tramite suo figlio, che ha frequentato una scuola Montessori, si è avvicinato a questo mondo e si è appassionato alla concreta scientificità delle idee della Dottoressa Montessori. Ora studia e approfondisce questi temi e condivide le sue riflessioni in pubblicazioni, corsi e presentazioni pubbliche.