CAPITOLO 9

Le relazioni sociali nel mondo tecnologico

Le reti sociali ormai fanno parte della vita dei nostri giovani. Per loro non sono uno strumento come noi pensiamo, sono una parte della loro vita che si dipana fra due mondi interallacciati: Il Reale e l’Oltremondo1 , che è il mondo dei social e del Web. Per loro, citando ancora Alessandro Baricco2 : “in un sistema in cui il mondo e l’oltremondo digitale girano uno nell’altro generando un unico sistema di realtà, mettersi lì a tracciare la linea di demarcazione fra reale e irreale in Fifa 2018, gli sembrerà curioso almeno quanto mettersi a separare le verdure in un minestrone, o chiedersi se gli angeli sono maschi o femmine o transgender. Sono angeli, ecco cosa sono. E quello è un minestrone, santo cielo”.


Noi genitori al contrario siamo troppo spesso convinti che stare su una rete sociale come Facebook o Instagram sia solo una perdita di tempo e che lì i nostri figli si trasformino in belve sanguinarie. Anche in questo ci è difficile abbandonare le nostre esperienze consolidate. Nei tempi andati sembrava tutto più semplice e lineare: le mamme portavano i figli al parco giochi, chiacchieravano fra loro mentre i bambini cominciavano a interagire con i loro pari. I più grandicelli si lanciavano in giochi di gruppo, come calcio o nascondino. Gli adolescenti avevano il loro muretto dove riunirsi a parlare e i papà scappavano dopo il lavoro a bere una birra con gli amici al bar.


La realtà però non è cambiata perché siamo e restiamo animali sociali, desideriamo il contatto con i nostri simili e vogliamo collaborare con loro. Siamo definiti dalle relazioni con chi ci sta vicino e siamo inestricabilmente legati l’uno all’altro. Addirittura le neuroscienze ci confermano che, quando stiamo al fianco di un’altra persona, riproduciamo in maniera automatica nella nostra mente quello che deduciamo sia nella sua. Tutto questo è ancora valido nel mondo virtuale frequentato dai nostri figli e da noi stessi.


Quello che si è aggiunto alla socialità come viene vissuta oggi sono una serie di contraddizioni: una volta le persone tenevano un diario personale e si arrabbiavano se qualcuno lo leggeva, mentre adesso pubblicano gli affari loro sul Web e ci rimangono male se nessuno li legge. Prima vivevano una socialità limitata alla ristretta cerchia delle loro conoscenze fisiche, mentre oggi farsi conoscere per quel che sono e vivere le relazioni sociali è qualcosa che si allarga al mondo intero. In rete gira la battuta: “La gente era scema anche prima, ma lo sapeva solo la sua famiglia”. Più seriamente, il Dalai Lama richiama la nostra attenzione su un’altra contraddizione: “Questa è un’epoca dove tutto viene messo in vista sulla finestra per occultare il vuoto della stanza”. È un problema non tecnologico, ma che è stato portato sotto i riflettori dalla tecnologia. Viviamo poi in un mondo che da una parte punta tutto sulla connessione, sul sapere a rete, sulla velocità e sulla comunicazione istantanea, ma dall’altra vive ancorato al passato, quando i figli erano sottomessi a genitori autoritari e a scuola il potere della conoscenza era in mano all’insegnante.


Ma la contraddizione che più spaventa noi genitori riguarda i legami sociali. I giovani di oggi sembrano iperconnessi, ma in realtà li vediamo scollegati dal prossimo. Più la tecnologia cerca e proclama di “connettere” le persone, più le persone danno l’impressione di essere diffidenti e disconnesse. Dare la colpa di tutto questo alle nuove tecnologie digitali, ai social e alle chat è solo un modo per distogliere l’attenzione dalla necessità di educare i giovani. Il rischio è di precipitare in un pericoloso vuoto educativo, in primis se non si insegna loro a connettersi veramente con il prossimo, riconoscendolo e rispettandolo. Zygmunt Bauman, il sociologo dal nome impronunciabile, ci dà un indizio su dove stia la difficoltà: “I legami umani sono stati sostituiti dalle connessioni. Mentre i legami richiedono impegno, connettere e disconnettere è un gioco da bambini”. Creare un legame, certo. Ma qualcuno insegna ai nostri ragazzi la differenza fra connessione e legame? Sanno da che parte cominciare per costruire un rapporto affettivo o di amicizia? Sono coscienti del fatto che la tecnologia impoverisce le emozioni e la loro manifestazione rendendo difficile trasmetterle attraverso la rete? Certo, non è detto che gli incontri reali siano meno ipocriti di quelli virtuali, ma spero ci siamo capiti.

A volte ho il dubbio che la causa di questa ondata di solitudine sia da imputare a noi adulti che, pur lamentando l’uso eccessivo di smartphone e tablet da parte dei nostri figli, mostriamo di non avere controllo sul nostro proprio rapporto con i dispositivi digitali. Ricordiamoci del potere dell’imitazione: “Lo fanno mamma e papà, quindi è una cosa buona”. Il punto è che le persone e soprattutto i bambini, imparano da chi amano tutto ciò che informerà la loro vita.


Oltre a correggere il nostro rapporto con la tecnologia, dovremmo imparare a scoprirne e apprezzarne gli aspetti positivi invece di demonizzarla per partito preso. La socializzazione mediata da uno schermo ha, per esempio, un effetto di disinibizione salutare: le persone sono più propense a lasciarsi andare, a comunicare in maniera sincera i propri sentimenti e le proprie emozioni. Soprattutto per gli adolescenti la mancanza di presenza fisica porta ad avere minori pregiudizi e dà libertà per sperimentare identità diverse. Oltre a questo, un “buon” utilizzo delle reti sociali spesso aumenta l’autostima e il benessere soggettivo, come uno studio recentissimo3 ha scoperto analizzando gli effetti del prendersi una settimana di “vacanza” dalle reti sociali sul benessere percepito. Il risultato è stato sorprendente; chi si comportava in maniera passiva in rete, consumando informazioni senza comunicare con gli altri, non ha avuto nessun effetto dall’allontanarsene; mentre chi le utilizzava in maniera attiva, creando contenuti e comunicando direttamente con gli altri, ha ridotto il suo benessere percepito. Ecco qui un primo suggerimento per vivere bene la socialità in rete: non essere passivi, contribuire.


Parlando di aspetti positivi, ne sta emergendo anche un altro legato alla socializzazione in rete: la nascita di giochi cooperativi, in cui i giocatori non devono competere ma devono cooperare per vincere4 . In questi giochi si registra un fenomeno inaspettato: i giocatori lodano lo spirito di aiuto reciproco e la mancanza di pregiudizi nei confronti di chi non ha ancora acquisito le abilità necessarie. Contrariamente a come pensano gli adulti, molti giocatori sono sensibili alle emozioni generate dalla collaborazione e dall’altruismo. Alla base c’è sempre l’essere umano come animale sociale che dà più significato alle sue azioni quando queste fanno parte di un progetto di gruppo.


Infine vale la pena di menzionare il non trascurabile ruolo vissuto dai social nelle rivoluzioni in Egitto, in Tunisia e a Hong Kong. Non è mio compito analizzare come sono poi finite queste proteste, mi interessa solo far notare come la tecnologia qui è stata al servizio di un ideale e come il potere politico all’inizio è stato preso in contropiede da un qualcosa che non rientrava nei suoi vecchi schemi di pensiero.


Quindi, che significa socializzare? Che cosa possiamo trasmettere ai nostri figli? Socializzare non è stare forzatamente assieme agli altri come pretende qualche maestra di troppo (“Signora, suo figlio non socializza”). Significa per prima cosa essere in grado di ascoltare e di mediare. Significa conoscere se stessi, i propri limiti e i propri pregi. Non siamo persone cattive, ma abbiamo passato così tanto tempo a guardarci l’un l’altro attraverso uno strano tipo di vetro che filtra le parti buone, che abbiamo dimenticato come sono e persino dove trovarle. E se non le troviamo noi stessi, come possiamo trasmetterle?

La società del World Wide Web

Proviamo a gettare uno sguardo a quella che doveva essere la società virtuale per eccellenza. Parliamo del World Wide Web – semplicemente Web per gli amici – l’immenso mare d’informazioni e connessioni tra saperi. Tim Berners-Lee, che lo ha inventato, ha sempre avuto una visione molto chiara di cosa doveva essere la sua creatura: “Ho fatto un sogno riguardante il Web… ed è un sogno diviso in due parti. Nella prima parte, il Web diventa un mezzo di gran lunga più potente per favorire la collaborazione tra i popoli. Ho sempre immaginato lo spazio dell’informazione come una cosa a cui tutti abbiano accesso immediato e intuitivo, non solo per navigare ma anche per creare. […] Inoltre, il sogno della comunicazione diretta attraverso il sapere condiviso dev’essere possibile per gruppi di qualsiasi dimensione, gruppi che potranno interagire elettronicamente con la medesima facilità che facendolo di persona5 . Un bellissimo sogno. Anni prima un sogno del genere l’aveva espresso, molto in anticipo sui tempi, Maria Montessori. Nell’introduzione a un suo testo, scritta da qualcuno che la conosceva bene, troviamo: “Montessori era affascinata dalla tecnologia del suo tempo, che assolutamente la incantava e dove vedeva opportunità per unire il nostro mondo e un mezzo attraverso il quale una società mondiale interconnessa avrebbe potuto dare sostegno agli altri e così far avanzare il genere umano”6 . Una visione modernissima e un ideale entusiasmante. Del resto Maria Montessori era una persona proiettata verso il futuro. Per lei questa visione di una società interconnessa informava ogni sua proposta, tanto che parlava di un “Piano Cosmico” in cui tutti gli esseri viventi, la terra, l’aria e l’acqua sono interdipendenti e interconnessi. Non è solamente un’altra forma di ecologia, è ben di più, è immaginare ogni creatura appartenente alla materia o alla vita – uomo compreso – impegnata a collaborare per il bene di tutti attraverso un suo compito inconscio. Se fosse vissuta oggi sono convinto che avrebbe in qualche modo incluso anche il “cosmo virtuale” del Web in questa visione.


Sotto sotto anche i giovani hanno capito meglio di noi la visione di un universo virtuale, ma utile e d’aiuto alla loro crescita. Un libro molto simpatico di Aldo Cazzullo7 riassume questa visione con la voce di sua figlia Rossana: “La rete è lo spazio delle libertà, offre tantissime occasioni: leggere gli scrittori che preferisci, ascoltare la musica che ti va in quel momento, parlare con una persona di cui senti la mancanza, soprattutto conoscerne di nuove. E il telefonino può aiutarti a stare meglio anche con la persona che hai di fronte. Quante volte siamo andati a cercare su Wikipedia il nome che non ricordavi, ci siamo visti i gol della Juve in diretta, abbiamo salutato i cuginetti su Skype? Non è vero che il telefonino ci isola dal mondo, ce lo crea. Possiamo decidere di stare soli, o possiamo decidere di stare con gli altri. Possiamo spegnerlo e uscire con gli amici, o confrontarci con gli stessi amici stando a casa”.


Invece che cosa ci ritroviamo? Sempre più “giardini chiusi”, isole sconnesse da cui non è facile uscire verso il mare del Web, leggi contro la neutralità della rete, tra i cui effetti c’è quello di trasformare ciò che nella testa dei padri fondatori e tanti visionari era nato libero, in una prigione, dove le “camere dell’eco” e le “bolle filtranti” fanno vedere solo quello che vogliamo vedere, incontrare solo gente che la pensa come noi e ascoltare ciò che già sappiamo. Questi cambiamenti epocali sono testimoniati anche dalle statistiche sul numero di persone che effettuano ricerche su Google che da un po’ di anni non fanno altro che diminuire8 . Che cosa dovrebbe andare a cercare la gente in mare aperto se hanno già tutto quello che gli interessa attorno a loro, nel loro orticello? E al diavolo le possibili scoperte!


Come per altri temi il primo passo è essere consapevoli di questi pericoli e trasmettere il sogno originale per far intravvedere ai nostri figli che cosa potrebbe essere questa immensa risorsa. Magari loro troveranno il modo di riportare sui binari giusti anche questo mondo virtuale che stiamo lasciando loro in eredità.

I giardini chiusi

La trasformazione del Web dall’essere uno strumento di conoscenza e unione a essere un immenso negozio chiuso fra muri e steccati per Mike Elgan9 è già avvenuta: “L’internet che vedi è stata recentemente riprogettata per lusingare, assecondare e convalidare – non per provocare, illuminare e istruire”. Che perdita! Opponiamoci per quanto possiamo a questa deriva, almeno rendendoci conto che esiste.


Potremmo cominciare a essere consapevoli che Facebook, TikTok, Instagram e altri non sono il Web! Sono dei bei giardini chiusi tra alte mura in cui è il tuo lavoro a far guadagnare lo Zuckerberg di turno. Lo mette bene in chiaro il Ministero dell’Istruzione tedesco: “Sempre più spesso ci sono insegnanti e studenti che parlano su Facebook di questioni legate alla scuola e noi non lo vogliamo […] Il modello commerciale delle reti sociali non è compatibile con la missione educativa delle scuole pubbliche”.


Sembra un controsenso, ma anche i motori di ricerca come Google o Bing fanno la loro parte nell’impoverimento della conoscenza perché sono programmati per farci trovare solo quello che cerchiamo abitualmente e sanno quello che vogliamo trovare. Per esempio, un amante dei viaggi difficilmente si imbatterà in un’analisi della politica egiziana o nella descrizione di un posto non turistico, ma intrigante. La conseguenza ovvia è che viene uccisa sul nascere la serendipità, di cui abbiamo già parlato. Se siamo circondati sempre e solo da persone che la pensano come noi, queste scoperte a sorpresa non possono avvenire. Se visitiamo siti sempre sullo stesso tema sarà difficile imbattersi in una pagina o una foto interessante che mai avremmo cercato. Dobbiamo recuperare invece la capacità che hanno i bambini di esplorare senza uno scopo preciso e di meravigliarsi per le scoperte inattese.

Le camere dell’eco

Nei loro sforzi per fornire servizi su misura a chi naviga in rete, ma soprattutto perché ci vogliono consumatori, le aziende del Web troppo spesso ci intrappolano in una “gabbia filtrante”, una filter bubble, come la definisce Eli Pariser10,11 , che ostacola l’accesso a informazioni che potrebbero stimolarci o allargare la nostra visione del mondo e che ci fa arrivare nient’altro che le notizie e le informazioni che condividiamo e i prodotti che più probabilmente consumeremo. La società online diviene così una “camera dell’eco” (echo chamber) che ci rimanda indietro noi stessi, senza l’arricchimento degli altri. Non è una questione secondaria, un problema meramente personale. Nel suo discorso di addio il presidente Barack Obama ha parlato di tutto questo come di una minaccia alla democrazia, perché “il ritirarsi nelle nostre bolle […] in particolare nei nostri feed dei social media, circondati da persone che ci somigliano e condividono la stessa visione politica e che non mettono mai in dubbio le nostre convinzioni […] fanno sì che diventiamo sempre più sicuri nelle nostre bolle tanto che iniziamo ad accettare solo informazioni, vere o no, che si adattano alle nostre opinioni, invece di basare le nostre opinioni sulle evidenze che sono là fuori”12 .


Non era questo il pensiero di Maria Montessori riguardo alle tecnologie. Per lei queste erano: “un mezzo attraverso il quale una società mondiale interconnessa avrebbe potuto dare sostegno agli altri e così far avanzare il genere umano”. E così possono essere per noi, non è un bell’ideale da coltivare?

Abbiamo bisogno delle reti sociali?

Il cofondatore di Facebook, Chris Hughes, si lamentava che “nonostante tutti gli sforzi delle aziende per convincerci del contrario, non abbiamo bisogno dei social media per tutte le cose per cui ci è stato detto che ne abbiamo bisogno”. Non abbiamo bisogno di social media per impegnarci in politica o per esplorare le nostre città o per trovare nuove cose da fare. E non ne abbiamo bisogno per capire il mondo. Se ci pensiamo bene, le uniche persone che hanno effettivamente bisogno dei social media sono le persone che li hanno creati e continuano a farci soldi – e anche loro li stanno usando sempre meno13 .


Non abbiamo nemmeno bisogno dei social media per fare ciò che i suoi fondatori spesso trascurano di menzionare. Non abbiamo bisogno di queste piattaforme social per contribuire a rendere più semplice la sorveglianza aziendale o governativa sulla nostra vita. Non abbiamo bisogno dei social media per facilitare le molestie e lo stalking. Non ne abbiamo bisogno per diffondere cospirazione e violenza. Né abbiamo bisogno di avvelenare il nostro dialogo democratico o di infettare le nostre menti con pericolose sciocchezze antiscientifiche.


Più semplicemente, senza arrivare a una scelta così importante come quella di uscire dai social che frequentiamo, basterebbe imparare a non sentire il bisogno di fare la telecronaca di tutto quello che si fa, per quanto originale o interessante che sia. Ridurre la vita a una serie di descrizioni in corso d’opera rischia di toglierle senso. Dobbiamo fare esperienze su cui valga la pena di scrivere e rifletterci abbastanza perché ciò che scriviamo abbia senso. Agire deliberatamente e non reattivamente è più importante che postare molto e subito; scrivere quando si ha qualcosa da dire, non quando parla qualcun altro. Possiamo riservare i social a particolari momenti della giornata, in questo modo il social resta al suo posto e si evita di passare tempo online inutilmente14 .


Un barlume di speranza viene da una ricerca15 che registra un forte calo del tempo che trascorriamo sui social. Gli utenti sembrano preferire le piattaforme di messaggistica e non quelle strapiene di post e condivisioni di cui alla fin fine non importa nulla a nessuno.


Dobbiamo concludere che la socialità in rete è tutta da buttare? No, perché è tutta questione di consapevolezza, come raccontano i monaci buddisti intervistati da Alex Soojung-Kim Pang16 . La loro vita sembra essere esattamente l’opposto di quella di un frequentatore di Facebook o Instagram. Ci mostrano invece quello che per loro deve essere un social: uno strumento per avvicinare nuove persone alla dottrina, in questo caso buddista, per condividere le loro conoscenze con la comunità di seguaci e per essere vicini a loro, anche se non fisicamente. Il loro segreto? La consapevolezza di ciò che è importante, come il dedicare tempo alla meditazione e il sapere che questi sono strumenti per un fine, non il fine in se stesso.

Pratica!

1. Rispolveriamo la Netiquette. Sono passati trent’anni dalla nascita del Web e molti di noi ancora distinguono lo spazio virtuale da quello reale, comportandosi in maniera radicalmente differente. La nostra personalità online ormai non è più distinta da quella della vita di tutti i giorni ed è il momento di imparare i principi della buona creanza in rete, quella che gli americani chiamano Netiquette, il galateo della rete. Vediamone i punti principali:

Non si scompare nel nulla dai social. Impariamo a farlo con stile, senza sbattere la porta.

Non si scrive una mail o un messaggio tutto in maiuscolo perché equivale a urlare.

Leggere le chat solo quando si ha il tempo di rispondere.

Non essere assillanti.

Se si chiede aiuto a risolvere un problema, far vedere che si sono provate tutte le strade per risolverlo autonomamente.

Nulla è dovuto. Se qualcuno non risponde a una richiesta d’aiuto mettiamoci l’anima in pace.

Non c’è più bisogno del linguaggio condensato da SMS. Scrivere TVTB invece di “ti voglio tanto bene” non fa risparmiare nulla, specialmente con le tastiere che intelligentemente completano le nostre frasi. Se proprio non vuoi scrivere in modo leggibile, manda un messaggio vocale.

Certi acronimi fanno tanto vecchio e stantio. Per esempio LOL (“Laughing Out Loud” ridere a crepapelle). Meglio usare la emoji della faccina con le lacrime di gioia.

Non sai chi c’è dall’altra parte, quindi evita battute o sfottò su particolari gruppi di persone.

Non manifestare platealmente la tua ignoranza contribuendo a diffondere falsità e bufale.

Non pubblicare o condividere mai nulla che riguardi anche altri senza avere l’esplicito consenso di tutte persone coinvolte.


2. Alleniamoci in un gruppo famiglia. Creiamo un gruppo famiglia su un qualche social per aiutarli ad acquisire un po’ di esperienza pratica di relazione e rispetto in rete. Noi per primi proviamo a parteciparvi attivamente spiegando perché ci si deve comportare in una certa maniera. Certo, bisogna farlo ben prima dell’adolescenza quando, soprattutto in campo tecnologico, ci hanno ormai etichettati come inutili e fuori dal tempo.


3. Non c’è bisogno di lasciarli soli in rete. Ogni tanto, sedetevi accanto ai vostri figli e guardate assieme i video che a loro piacciono così tanto. Comportandovi in questo modo dimostrerete che vi importa quel che guardano, ma soprattutto questo atteggiamento li incoraggerà a pensare quale potrebbe essere la vostra reazione a un determinato contenuto anche quando voi non siete presenti.


4. Creare un contro-ambiente. Invece di vietare, proviamo a creare in famiglia un ambiente che sia più interessante di quello che vorremmo vietare. O forse un contro-contro-ambiente, visto che i media e la comunicazione globale hanno già formato un ambiente che si impone in antitesi alla realtà. Usiamo la lettura, diamo l’esempio leggendo noi stessi. Non ignoriamo i messaggi negativi ma proponiamo interventi e confronti volti a controbilanciarli.


5. Sperimentare una vacanza digitale. Provare a stabilire un giorno o determinati periodi lontani da ogni dispositivo digitale o almeno dalle applicazioni che sappiamo usurpare la nostra consapevolezza. Riempiamo però il tempo guadagnato con attività coinvolgenti come cucinare o andare a pesca con i figli.


6. Non essere passivi, contribuire. Incoraggiare un uso attivo delle risorse in rete, postando sotto il nostro controllo, almeno inizialmente, qualche foto o qualche testo.

Le tecnologie digitali in famiglia
Le tecnologie digitali in famiglia
Mario Valle
Nemiche o alleate? Un approccio Montessori.Come risponde il cervello di un bambino alle sollecitazioni di un mondo tecnologico e che cosa possiamo fare per consentire un uso appropriato dei dispositivi tecnologici? Il mondo dei nostri figli è dominato dalla tecnologia: tablet, smartphone e computer costituiscono ormai parte integrante della loro vita; compito di noi genitori è quello di “prepararli al futuro” e educarli all’uso delle nuove tecnologie. Ma come?Mario Valle, esperto di supercomputer, nel libro Le tecnologie digitali in famiglia si rifà al pensiero di Maria Montessori (grande ammiratrice delle tecnologie del suo tempo e profonda conoscitrice della mente del bambino) per provare a delineare questo futuro: come risponde il cervello di un bambino alle sollecitazioni di un mondo tecnologico e che cosa possiamo fare per consentire un uso appropriato di questi dispositivi?Non si tratta, quindi, di demonizzare o idolatrare la tecnologia, ma di analizzare il presente per prepararsi al futuro. A questo punto si impone una riflessione: la civiltà ha dato all’uomo, per mezzo delle macchine, un potere molto superiore a quello che gli era proprio ma, perché l’opera della civiltà si sviluppi, bisogna anche che l’uomo si sviluppi. Il male che affligge la nostra epoca viene dallo squilibrio originato dalla differenza di ritmo secondo il quale si sono evoluti l’uomo e la macchina: la macchina è andata avanti con grande velocità mentre l’uomo è rimasto indietro. Così l’uomo vive sotto la dipendenza della macchina, mentre dovrebbe essere lui a dominarla.Maria Montessori, Dall’infanzia all’adolescenza Conosci l’autore Mario Valle lavora da oltre trent’anni nei campi più disparati della scienza e dal 2003 è al Centro Svizzero di Calcolo Scientifico (CSCS) di Lugano, a stretto contatto con scienziati e ricercatori, utilizzando quotidianamente supercomputer e tecnologie di punta.Tramite suo figlio, che ha frequentato una scuola Montessori, si è avvicinato a questo mondo e si è appassionato alla concreta scientificità delle idee della Dottoressa Montessori. Ora studia e approfondisce questi temi e condivide le sue riflessioni in pubblicazioni, corsi e presentazioni pubbliche.