CAPITOLO 3

L’approccio psico-pedagogico
di Elinor Goldschmied: un tesoro da riscoprire

di Barbara Ongari

Accanto a Maria Montessori ed Emmi Pikler, è una delle tre grandi pedagogiste che hanno attraversato il secolo scorso ed hanno lasciato una traccia fondamentale nel campo dell’accudimento e dell’educazione dei bambini molto piccoli. Una pioniera, che con l’entusiasmo, la generosità, il rigore metodologico e l’acutezza della capacità osservativa si è focalizzata sulla qualità dell’esperienza di vita al nido.


La novità del suo approccio ha introdotto una vera e propria rivoluzione copernicana nella concezione dell’organizzazione dei servizi, da lei intesi come luoghi di vita in cui è fondamentale garantire il benessere di chi vi abita: quello dei bambini unitamente a quello dei loro adulti. Fin dai primi istanti di vita, i bambini sono considerati non come semplici piccoli esseri che richiedono cure nei loro bisogni primari, bensì come persone da rispettare nei loro ritmi biologici e nei loro vissuti e con cui costruire interazioni articolate, emotivamente intense e cognitivamente significative, per favorire la massima opportunità di implementazione dei diversi dominî in cui si realizza la loro personalità. Quindi come individui da comprendere nei loro pensieri e supportare nel percorso di crescita, diverso e unico per ognuno.


In Italia Elinor Goldschmied è nota soprattutto per due originali proposte di gioco, rivelatesi cruciali ai fini del potenziamento della mente e della creatività precoci: il Cestino dei Tesori dedicato ai bambini nel primo anno di vita, che sanno stare seduti ma che ancora non camminano e il Gioco Euristico, un’attività per il secondo anno di vita finalizzata a favorire l’esplorazione e la capacità di concentrazione derivante dall’utilizzo di una serie di oggetti rigorosamente scelti e predisposti.1 Entrambe queste attività rappresentano importanti supporti che permettono ai bambini, fin dalle prime fasi, la possibilità di sviluppare modalità creative di pensiero, capaci di instaurare un rapporto vitale con la realtà esterna e un senso autentico del sé in quanto soggetto capace, come sosteneva Winnicott, di “ricreare” il mondo.


Minor riconoscimento è stato invece riservato all’approccio da lei suggerito per le comunità infantili a livello organizzativo, basato sul concetto della Persona Chiave: una modalità di impostare il lavoro che ha l’obiettivo di creare relazioni interpersonali fortemente individualizzate e rassicuranti con ogni bambino e con i suoi genitori, in grado di implementare la motivazione e la spinta esplorativa, a partire dalla sicurezza emozionale derivante dalla stabilità e continuità dei caregiver di riferimento.2 L’innovazione è qui rappresentata dal fatto che l’attenzione organizzativa deve tener presente comunque sempre, in contemporanea, i vissuti degli adulti oltre che quelli dei bambini.


In tutta la sua lunga attività di formazione e di supervisione Elinor si è proposta nei termini di una presenza di accompagnamento accogliente e riflessiva, trascorrendo giornate intere accanto al personale dei nidi, ascoltandone e condividendone le fatiche fisiche ed emotive, oltre alle soddisfazioni e vivendole dall’interno di ogni specifica realtà organizzativa. Con lei le operatrici (educatrici, coordinatrici e ausiliarie) sono state per la prima volta autorizzate a parlare di sé, a dar voce a un mondo inesplorato di idee, valori e sentimenti.3 Anche i vissuti dei genitori, spesso faticosi e bisognosi di comprensione, sono divenuti il centro della sua costante e attenta presenza nei servizi.


Sul piano metodologico, Elinor Goldschmied ha ribadito infatti la necessità di prendere in considerazione prioritariamente la situazione di vita reale degli adulti, educatori e genitori, impegnati nel complesso lavoro di accudimento e educazione dei bambini piccoli e la qualità degli ambienti concreti dove essi trascorrono il loro tempo, nella convinzione che dal loro stare bene dipende quello dei bambini. Per quanto riguarda gli operatori dei servizi, centrale deve essere l’attenzione da riservare allo svolgersi della loro giornata nello spazio del nido, oltre al loro stare emotivo nella situazione relazionale e lavorativa.


L’unicità del suo pensiero psico-pedagogico consiste nella genialità con cui, sulla base della propria personale esperienza di vita, arricchita dalle riflessioni derivate dalla sua formazione psicoanalitica e dagli scambi (iniziati in giovane età e proseguiti anche negli anni dell’anzianità) con i grandi psicologi infantili del suo tempo, ha declinato in termini educativi e tradotto in suggerimenti operativi il patrimonio di fondamentali innovazioni scientifiche che hanno rivoluzionato la concezione dell’infanzia nello scorso secolo.


Il suo contributo alla qualità dei servizi per la prima infanzia si è focalizzato sulla possibilità di studiare, per ogni singolo nido in cui ha lavorato, situazioni innovative e piacevoli per grandi e piccoli, tenendo conto della specificità del contesto, delle culture di riferimento, delle pratiche ripetute nella quotidianità e della qualità dell’esperienza delle persone che vi operano.


Nessun formatore, prima di lei, aveva dedicato tempo, delicatezza ed empatia all’osservazione minuziosa di come di fatto si svolge la vita degli adulti a contatto con i bambini nei nidi, cogliendo e valorizzando ogni minimo aspetto dell’ambiente, dei materiali e delle interazioni tra i diversi protagonisti, grandi e piccoli.

Una ricostruzione biografica: i semi vengono posti nell’infanzia4

Nasce con il nome di Violet Sinnott il 15 Dicembre del 1910 in un villaggio rurale del Gloucestershire, dove i genitori si erano trasferiti quando il padre, un ingegnere civile, era stato nominato County Surveyor. La madre apparteneva a una famiglia economicamente agiata, composta da tredici figli.

Fin da molto piccola, Elinor chiede di cambiare il proprio nome (lo stesso della madre), per avere una identità propria. Sceglie un nome irlandese, che sottolinea l’appartenenza culturale familiare: a dimostrazione dell’energia che – già fin dall’infanzia – ha messo in tutte le sue decisioni. È quartogenita di sette figli: maggiori di lei sono la sorella Carew e due maschi, dopo di lei seguono tre sorelle femmine. L’ordine di nascita dei figli ha in seguito rappresentato continuamente per lei uno spunto di interesse relativo alle caratteristiche psicologiche che vi sono connesse.


La sua infanzia è segnata da una serie di perdite affettive di importanza fondamentale, le quali hanno profondamente inciso sulle convinzioni che in seguito ella svilupperà relativamente alla struttura della mente e ai bisogni dei bambini nei primi anni di vita. Quando aveva cinque anni, il fratello Edward (detto “Ebby”) muore per una peritonite all’età di otto anni. Ricostruendo nella memoria questo momento così doloroso della sua infanzia, mantiene viva l’immagine della carrozza trainata dal cavallo che lo portava in ospedale, purtroppo troppo tardi.


Questo evento rappresenta per la piccola Elinor un’immensa tragedia, che la getta in un profondo sconforto. Oltre al dolore acuto per la perdita del fratellino, cui era particolarmente legata, la sua morte comporta per lei contestualmente l’esperienza del vuoto comunicativo che ne segue: della persona deceduta non si può più parlare e non è previsto che si possa esserne sconvolti. Lo stile educativo prevalente in quel periodo storico non considerava l’importanza di parlare con i bambini delle emozioni profonde, anche delle vicende dolorose, per aiutarli a elaborarle. Più tardi, nel corso della propria esperienza scolastica e professionale, Elinor comprenderà sempre più chiaramente il fatto che tale abitudine sociale imperante a quel tempo, consistente nella negazione della sofferenza legata al lutto, comporta danni psicologici significativi: da qui l’interesse che ha in seguito approfondito relativamente alla natura delle comunicazioni verbali, oltre che gestuali, rivolte ai bambini che ancora non hanno l’uso della parola.


Non molto tempo dopo questa tragica scomparsa, l’inizio del primo conflitto mondiale obbliga il padre ad allontanarsi da casa, privandola pertanto di una continuità di presenza per lei così centrale.


In riferimento alla figura materna i ricordi sono teneri e affettuosi. Rammenta un piccolo dettaglio visivo di un momento in cui la madre, seduta allo scrittoio, si ferma quando la vede entrare, la abbraccia e con la penna disegna per la sua bambina una piccola margherita. La madre è descritta nei termini di una persona presente e calorosa, sempre disponibile a offrirle accoglienza e gesti d’amore, malgrado retrospettivamente Elinor abbia riconosciuto di essere stata una bambina molto richiestiva. In una intervista autobiografica (2001) si racconta infatti come “seria e facile al pianto” e cita un ricordo molto precoce, risalente all’età di tre anni, in cui rivede sé stessa seduta in mezzo a un viottolo a gridare “aspettatemi! Non vengo se non mi aspettate”, in modo da essere accontentata e fare in modo di fermare le persone per attenderla. Nel corso della sua maturazione successiva è divenuta sempre più consapevole del fatto che l’aver interiorizzato un’immagine rassicurante e solida della presenza affettiva materna le ha permesso di costruire dentro di sé le certezze emotive di fondo che l’hanno accompagnata nella crescita. E sono probabilmente anche questi flash percettivi legati all’interazione con lei, pur così rapidi, di cui è punteggiata la sua infanzia, che sono alla base nell’età adulta della sua eccezionale capacità di insight sul mondo interno infantile e sul significato primario delle relazioni affettive per sostenere la motivazione alla curiosità, il piacere per i legami sociali e l’apprendimento. Si può cogliere dunque come tale rappresentazione materna positiva e calda abbia contribuito allo strutturarsi dentro di lei della convinzione circa l’importanza per i bambini piccoli di sentirsi “tenuti nella mente” da un caregiver privilegiato, in quanto filo conduttore che intesse la costruzione del legame di attaccamento e la sicurezza personale.


Non molto tempo dopo il ritorno del padre dalla guerra, la madre si ammala di cancro. Muore nel 1920, quando Elinor ha 10 anni. Il periodo della malattia materna, l’atmosfera cupa della casa e il mandato del silenzio al personale di servizio e ai visitatori rappresentano per lei ricordi dolorosamente incisi nella memoria. Viene in evidenza, ancora una volta, la sua sofferta sensibilità nei confronti del “non detto” e delle comunicazioni non verbali che hanno circondato quegli eventi. Resta vivo in lei, a distanza di moltissimi anni, il ricordo di un episodio. Un giorno una donna del villaggio si era presentata alla porta di casa chiedendo notizie della madre: Elinor l’aveva accolta rispondendo che stava meglio. Appena questa visitatrice si era allontanata, la cuoca e la cameriera, informate di questo evento, si erano scambiate uno sguardo tacito, che è rimasto impresso nei suoi ricordi come una “spada bruciante di sofferenza”.


Il padre fece in seguito realizzare due vetrate colorate, dedicate rispettivamente al figlio e alla moglie per la chiesa di Whaddon, il villaggio più importante della contea di cui era sovraintendente e in cui abitavano.


Dopo la morte della madre, la cura dei figli viene affidata a zie e cugine nubili. Dell’istruzione vengono incaricati precettori che vengono in casa, dal momento che per la separazione tra le classi imperante all’epoca non era permesso ai bambini di estrazione sociale borghese frequentare la scuola pubblica dove andavano i figli dei contadini, né avere con essi momenti di gioco. Anche questo aspetto diventerà uno dei capisaldi su cui Elinor costruirà in seguito le sue convinzioni politiche all’insegna della eliminazione delle disuguaglianze.


Nel periodo dei suoi 11 anni, il padre contrae un secondo matrimonio (1921) con Adela Peel, un’infermiera appartenente all’alta borghesia, che aveva accudito la moglie durante la malattia. Elinor descrive la matrigna in termini molto positivi, come una persona buona e degna di stima, che si è dedicata alla cura dei figli con affetto e generosità. Purtroppo costei, dopo soli cinque anni si ammala di una forma di disturbo bipolare, che richiede periodi di ricovero in cliniche specializzate. Pertanto anche questa nuova presenza familiare, che avrebbe potuto costituire per Elinor un recupero di serenità dopo i lutti e i drammi legati alla guerra e alle perdite affettive, si è trasformata in una ulteriore esperienza di sofferenza. Adela trascorre gli ultimi dodici anni di vita in una residenza psichiatrica, dove Elinor va regolarmente a visitarla, rendendosi conto con angoscia del declino inarrestabile della mente di questa donna, cui si era affezionata. Da qui si irrobustisce la sua motivazione a dedicarsi in seguito ad approfondire lo studio delle tematiche connesse alla salute mentale.


Un altro aspetto dell’esperienza infantile che ha segnato fortemente l’identità personale di Elinor è il suo profondo legame con la natura e l’attenzione partecipata, precisa e minuziosa che lei ha sempre dedicato all’osservazione dei piccoli sorprendenti dettagli da scoprirvi che continuamente si offrono agli occhi. Durante la malattia della madre, e dopo la sua morte, il trascorrere quasi tutta la giornata all’esterno a giocare, a contatto con foglie, pietre, terra e altro, rappresenta per lei una modalità essenziale di consolazione e di divertimento. A fronte delle perdite affettive che negli anni dell’infanzia e dell’affacciarsi dell’adolescenza l’hanno colpita in sequenza, gettandola in una sofferenza senza nome né possibilità di supporto all’elaborazione, lo stare per molte ore in giardino, costruendo capanne, casette sugli alberi e tende, raccogliendo le verdure dell’orto e cucinandole all’aperto, diviene per lei una strategia resiliente per far fronte a una situazione drammatica, trovando le risorse personali per fronteggiarla e crescere in modo equilibrato. La vicinanza alla realtà multiforme e ricca di potenziali scoperte del mondo naturale è stata sicuramente una fonte tesaurizzante di apprendimento che l’ha sostenuta nel corso della formazione della sua personalità.


All’età di 12 anni, assieme alla sorella maggiore, viene inviata dal padre a Bristol, a casa del nonno paterno, per frequentare la Clifton High School per ragazze. Questa figura di nonno viene da lei descritta nei termini di una brava persona, cui mancava tuttavia la minima conoscenza di che cosa significasse la quotidianità della routine familiare con i bambini. Elinor riporta, con un pizzico d’ironia, un episodio significativo di quel periodo: nel cuore del gelo invernale egli si era deciso a provvedere a collocare una stufetta elettrica per scaldare la loro camera, solo su richiesta esplicita da parte della matrigna.

Nel complesso, gli anni della scuola rappresentano per le due sorelle un periodo positivo e produttivo. Elinor comincia a vagheggiare il sogno di diventare regista o coreografa teatrale, sollecitata dai discorsi di una insegnante. Ma per le ragazze all’epoca le uniche professioni socialmente legittimate erano quelle di maestra o di infermiera. Inoltre il padre era fermo nella convinzione che tutti i suoi figli, maschi e femmine, dovessero seguire studi in grado di permettere loro di raggiungere l’autonomia economica.


Pertanto nel 1929, al termine degli studi superiori, Elinor inizia la frequenza presso l’istituto Fröebel all’università di Roehampton (Londra), dove nel 1932 ottiene il diploma di Insegnante Fröebel. La frequenza all’università comporta per lei anche momenti piacevoli e opportunità di recupero fisico e psicologico dalle fatiche della gestione della casa paterna e dell’assistenza alla matrigna in casa di cura. Racconta infatti che, quando arrivava a Londra, si rilassava e avrebbe desiderato dormire per una settimana.


Alla sua formazione ispirata ai principi pedagogici di Fröebel possono essere fatti risalire alcuni degli aspetti che in seguito caratterizzeranno maggiormente il suo approccio pedagogico: soprattutto l’amore vivificante per la natura, coniugato con l’interesse per ogni minimo particolare osservabile nella realtà. Una seconda dimensione riguarda l’importanza di riconoscere le diverse modalità utilizzate dai bambini per esprimere le emozioni suscitate dal contatto con le cose e con le persone.5

Una donna dalla straordinaria statura umana e professionale

Dopo aver ottenuto il diploma triennale di maestra Fröebel per la scuola primaria, Elinor viene spronata dagli insegnanti a fare domanda di impiego presso la Dartington Hall, una scuola di stampo progressista nel Devon, che nel periodo nazista era diventata il rifugio per alcuni intellettuali di spicco dell’epoca: musicisti, architetti Bauhaus, scrittori e scienziati. Elinor vi inizia a lavorare come maestra ma, appena possibile, chiede di cambiare attività, assumendo la responsabilità della gestione della residenza in cui alloggiavano gli allievi più giovani.


Il contesto culturale in cui Elinor si immerge con entusiasmo è contrassegnato da un clima ricco di suggestioni, che la affaccia su orizzonti del tutti inediti ed eccitanti e apre la sua mente a nuove scoperte. In particolare, avendo dovuto rinunciare alla sua aspirazione adolescenziale di lavorare nel teatro, per intraprendere gli studi in ambito educativo più consoni alle tradizioni in voga per le ragazze del tempo, si diletta comunque a frequentare artisti teatrali e altre personalità afferenti a diverse discipline artistiche. È molto fiera di poter frequentare anche un corso di ceramica sotto la guida di Bernard Leach, allora famoso nel settore.


In quegli anni partecipa alle riunioni degli studenti afferenti al partito comunista, cosa allora del tutto inusuale per una donna appartenente alla sua classe sociale, sospintavi dal profondo e innato senso di giustizia sociale che l’accompagnerà per tutta la vita. È parte attiva anche in alcune dimostrazioni, da loro organizzate, a favore della liberazione della Spagna, essendo rimasta profondamente colpita dall’efferatezza della guerra civile che vi era in corso da anni. Nel 1934 viene incoraggiata a compiere un viaggio a Mosca, dove gioisce dell’opportunità di assistere agli spettacoli del circo e del balletto Bolschoj. Tuttavia l’esperienza del contatto diretto con la realtà del comunismo sovietico le suscita forti e durature perplessità. Un dettaglio simpatico di questo soggiorno è il fatto che per lei, buongustaia e sempre amante della buona cucina, l’incontro con il cibo della Russia risulta decisamente poco gradevole!


In questo contesto, nel 1937, avviene l’incontro con il suo futuro marito, Guido Goldschmied, laureato in diritto internazionale a Padova e assistente all’università di Trieste, dove la sua famiglia di provenienza boema si era trasferita per gestire gli affari del nonno. Guido era emigrato a Londra per seguire un corso di diritto inglese, a seguito della promulgazione in Italia delle leggi antisemite


Nel 1938, ottenuta una borsa di studio, Elinor lascia il lavoro a Dartington per frequentare un corso per Assistente Sociale Psichiatrica presso il Dipartimento di Salute Mentale della London School of Economics (LSE). Si mantiene agli studi anche svolgendo attività di ragazza au pair.


Nell’ambito della formazione alla LSE, caratterizzata dalla presenza di insegnanti in materie sociologiche e umanistiche di grande spessore teorico, Elinor continua ad approfondire lo studio delle scienze psicologiche e sociali e sistematizza in maniera sempre più documentata la sua appartenenza politica alla sinistra. Assiste alle lezioni di Susan Isaacs (1885-1948), una psicoanalista responsabile del Dipartimento per lo Sviluppo Infantile presso l’Institute of Education di Londra, che aveva fondato una struttura di accoglienza per bambini piccoli (la Malting House). L’influenza del suo pensiero sarà fondamentale per l’evoluzione culturale di Elinor. Qui conosce anche John Bowlby (1907-1990), un medico divenuto psico-analista e successivamente fondatore della teoria dell’attaccamento.

Allo scoppio della seconda guerra mondiale (1939), la London School of Economics viene trasferita a Cambridge. Guido, classificato come nemico in quanto cittadino tedesco, viene deportato in Canada. Vi rimane per circa due anni, ma appena se ne offre l’opportunità, egli sceglie di tornare in Inghilterra nel luglio del 1941, malgrado la difficoltà dei lunghi viaggi transoceanici. Da Londra si dedica a diffondere via radio programmi di propaganda antifascista.

In questo biennio Elinor, nell’ambito del tirocinio come assistente sociale psichiatrica ha modo di entrare in contatto con situazioni di terribile povertà economica conseguenti alla Grande Depressione degli anni ’30, sia nei quartieri centrali di Londra sia nelle campagne, toccando con mano gli effetti devastanti sul tessuto sociale. Nello stesso periodo, viene anche inviata a Bradford per offrire supporto a bambini del tutto deprivati sul piano economico e sociale. Descrive la loro assoluta indigenza come un tratto visibile in ogni minimo dettaglio del loro aspetto e del loro comportamento (sguardi, movimenti, postura, assenza totale di vitalità). Ne viene colpita profondamente, tanto che descrive questa esperienza come il punto di svolta definitivo nella sua formazione professionale. Confrontando la propria esperienza di bambina cresciuta nel benessere economico con la constatazione dell’impatto devastante sull’evoluzione della personalità della condizione di miseria materiale (e conseguentemente umana), comprende come questa costituisca per molti bambini un ostacolo di partenza potenzialmente insuperabile per la possibilità di sviluppare una personalità sana sul piano mentale. Il riconoscimento degli effetti gravissimi sullo sviluppo infantile derivanti dall’essere allontanati dai genitori e la consapevolezza della gamma dei comportamenti depressivi che ne consegue6 diventano il fondamento della sua ricerca di soluzioni riparative in tutto il suo lavoro successivo. Rinsaldano anche la sua adesione al partito comunista e la sua convinzione della necessità di un forte impegno politico per riuscire a modificare le politiche pubbliche e per affrontare le gravi problematiche connesse alle disuguaglianze sociali.


In questi anni stringe amicizia con alcune altre personalità di spicco in ambito psicologico, che stavano iniziando a prendere in carico i bisogni emotivi, oltre che materiali, dei bambini sfollati nel corso della guerra: tra di esse possono essere ricordate Evelyn Fox e l’australiana Ruth Thomas. Entrambe, di formazione psicoanalitica, si erano dedicate a dar vita a iniziative di supporto, creando strutture di accoglienza residenziali e, in collaborazione con Winnicott a diffondere consigli e sostegno attraverso la BBC per il pubblico delle madri.7


Negli anni ’40 e ’41 Elinor lavora nello Yorkshire con bambini evacuati nel corso della guerra, che vivevano in strada, senza fissa dimora, né identità.8 Molti erano ebrei rifugiati, strappati a genitori che erano stati trasportati nei campi di concentramento e che vivevano come selvaggi. Elinor resta molto colpita dai danni della miseria umana e materiale che questi bambini esprimevano attraverso gli occhi, il movimento, il corpo e la assoluta passività.


Il 7 novembre 1941 Elinor e Guido si sposano presso il Registry Office di Kensigton, nel pieno dei bombardamenti. La loro esistenza in quel periodo è scandita dalle sirene di guerra, che ogni notte li obbligano a rifugiarsi negli spazi sotterranei della metropolitana, assieme a tanta altra gente terrorizzata. Così testimonia Anna Freud: “Comunque, le lunghe notti senza sonno imposte a tutti i Londinesi dalla possibilità di raid aerei hanno dato un tempo sufficiente per pensare, formulare, concettualizzare”.9


Il 28 marzo 1944 nasce il loro figlio, Marco, che diventerà in seguito un importante architetto internazionalmente riconosciuto. Pochi mesi dopo, stante anche la grave crisi economica, Elinor accetta l’invito di Ruth Thomas che le offre la direzione in qualità di House Mother di un nido residenziale a Pewsey (Wiltshire), in cui erano accolti 25 bambini senza famiglia fra i 2 e i 4 anni. Un’attività fortemente coinvolgente sul piano personale, oltre che professionale, dato che si trattava di bambini privi di radici, “assolutamente selvaggi” e incontrollabili. Il loro comportamento aggressivo e socialmente inaccettabile era descritto da Anna Freud (che collaborava con Ruth Thomas e ne studiava con lei le caratteristiche psicologiche) come “un pozzo di rabbia senza fondo”. Il mandato professionale affidato a Elinor era di riuscire a capire come mai questi bambini, malgrado fossero ben nutriti e ben accuditi dal punto di vista fisico da uno staff sanitario assai preparato, non riuscissero a evolvere. Per Elinor questa è la prima esperienza lavorativa vera e propria. Ella comprende che, al di là di cure fisiche adeguate, la struttura non offriva niente di più. Attraverso l’osservazione costante e attraverso gli scambi diretti con Ruth Thomas (e indiretti con Anna Freud) Elinor giunge alla comprensione sempre più precisa e profonda del significato dei loro comportamenti disturbati. Rivede pertanto radicalmente l’organizzazione interna della comunità e le pratiche di accudimento, creando piccoli gruppi di 4 bambini, ciascuno gestito da due figure stabili ed esclusive. Ogni gruppo dispone di un preciso ambiente di riferimento, distante logisticamente dagli altri. Vale la pena di sottolineare come, già allora, Elinor avesse avuto modo di cogliere la tendenza messa in atto dagli adulti che hanno in carico bambini piccoli, a stare fisicamente vicini, pur in spazi ampi sia all’interno delle strutture che all’esterno, conversando su argomenti non inerenti alle attività in corso e distogliendo di fatto la propria attenzione dai comportamenti dei bambini. Si rende conto allora come questa modalità, che nel corso delle esperienze successive di supervisione nei diversi servizi le apparirà costantemente presente e radicata nelle pratiche operative, sia uno degli aspetti più difficili da modificare nelle attitudini del personale. Nel corso dei momenti di formazione, Elinor si premurerà sempre di sottoporre la constatazione di tali comportamenti adulti alla consapevolezza dei caregiver, per facilitarne il riconoscimento, per riflettere insieme sulle ragioni e per ricercare modalità relazionali più empatiche, basate sull’osservazione partecipata delle iniziative messe in atto dai bambini. Su questo punto cruciale per la professione educativa ella insisterà in tutta la sua lunga carriera di formatrice, in modo puntuale e rigoroso, invitando ogni persona di riferimento a stare in uno spazio differenziato e personalizzato, per poter dedicare uno sguardo attento e accogliente al gruppo di bambini che ha in affidamento, offrendo loro la disponibilità emotiva necessaria a creare una relazione individualizzata.


Infatti in pochissimi mesi Elinor ha potuto documentare gli importanti vantaggi psicologici per i bambini derivanti dalla presenza di una persona che, nel tempo del lavoro, si concentra sul proprio ruolo educativo, fornendo a ciascuno attenzione, facilitazione e supporto. Ha avuto modo di verificare, in modo chiaramente osservabile e incontrovertibile, il rapido cambiamento in senso positivo nel comportamento di questi bambini, come conseguenza della strategia organizzativa: la loro situazione emotiva risultava decisamente migliorata ed essi apparivano tranquilli e collaborativi.


Tali risultati, di importanza fondamentale, la stimolano a studiare sempre più attentamente gli aspetti organizzativi concreti di ogni specifica comunità infantile, approfondendo l’importanza dei singoli dettagli del lavoro di accudimento dei bambini nei primi stadi della vita e le strategie più utili a gestirne il complesso sistema comportamentale, in rapporto alle diverse età e alle esigenze soggettive. A buon diritto i cambiamenti nelle competenze sociali osservati in questi bambini ritenuti “ingestibili”, possono essere considerati come la base di partenza per la progressiva messa a punto dell’approccio Persona Chiave, il quale costituisce certamente l’innovazione metodologica centrale da lei proposta nella progettazione dei servizi prima infanzia.

Di fatto Elinor inizia a sperimentarne pionieristicamente i benefici anche in riferimento alle comunità diurne, già nel corso del 1945, quando – assieme ad alcuni colleghi della LSE divenuti a loro volta genitori – crea un nido cooperativo a Primrose Hill, nella zona nord di Londra.


Da allora l’approccio Persona Chiave diventa il costrutto teorico di fondo che lei proporrà in tutta la sua attività di formatrice e che continuerà a perfezionare negli anni con competenza e passione, nell’obiettivo di tradurre nella realtà dei contesti di vita reali dei bambini l’idea di fondo che ormai appariva scientificamente indiscutibile: essi sono co-protagonisti attivi dello sviluppo della propria personalità e delle relazioni, ma per poterlo diventare necessitano di contesti interpersonali stabili e privilegiati con alcuni caregiver precisi e continuativi di riferimento.10


Nel frattempo a Elinor viene chiesto dalla National Association for Mental Health di raccogliere e sintetizzare tutta la documentazione relativa a queste esperienze del tutto innovative di presa in carico dei bisogni dei bambini. Tali dati confluiranno nel 1946 nella stesura del Curtis Report, un atto ufficiale che a sua volta pone le basi del Children’s Act (1948), il quale rappresenta una pietra miliare nelle politiche sociali pubbliche inglesi a favore dell’infanzia, in quanto mette fine a pratiche prive di regolamentazioni non riconoscibili e scientificamente non supportate.


Alla fine della guerra, nel 1946, su desiderio del marito, si trasferiscono tutti a Trieste stabilendosi nella casa avíta di famiglia, abitata dal nonno di Guido. Elinor nutre affetto per questo “grande anziano patriarca ebreo” e ammira quella sua grande capacità di studiare a fondo le situazioni, che aveva caratterizzato la sua attività commerciale e che gli aveva consentito di costruire una fortuna. A Trieste Elinor insegna inglese e si diverte a cercare di imparare l’italiano, soprattutto nelle sfumature dialettali locali frequentando i mercati rionali.


Tuttavia l’occupazione americana di Trieste e il clima culturale e politico a esso connesso suggeriscono, nel 1948, di trasferirsi a Milano come migliore opportunità di vita. Vi rimangono fino al 1954.


Gli anni milanesi di Elinor sono contrassegnati da un intenso fervore sociale a favore dei bambini piccoli e delle loro madri. Nel 1949 inizia una collaborazione con Elda Scarzella, una signora dell’alta borghesia che dal 1945, sull’onda di un forte fermento sociale finalizzato alla ricostruzione civica post-bellica, si occupava di aiutare le madri nubili con i loro bambini piccoli e offriva accoglienza ai bambini illegittimi. Elinor ne apprezza la grande capacità organizzativa, l’ampiezza di vedute, la forza combattiva nei confronti di ogni pregiudizio. La loro amicizia professionale durerà per tutta la vita di entrambe.11 La signora Scarzella aveva dato vita a una struttura residenziale e diurna, che prenderà in seguito il nome di “Villaggio della Madre e del Fanciullo”, utilizzando dodici baracche prefabbricate, collocate nel giardino di palazzo Sormani, oggi sede della biblioteca comunale. Elinor ne affianca l’attività, inizialmente creando un gruppo gioco per madri e bambini, in cui si occupa soprattutto dell’osservazione del loro comportamento a contatto con materiali naturali diversi.


Nel 1954 Elinor, tornata a vivere a Trieste con la famiglia, continua e consolida la collaborazione con il Villaggio, presso cui si reca una volta al mese per proseguire l’attività di supporto al personale e per progettare il nido previsto per la nuova sede del Villaggio, in corso di realizzazione nel quartiere QT8.12 Vi produce, nel locale brefotrofio, il suo primo importante filmato, Lasciatemi almeno giocare, realizzato a spese del Villaggio della Madre e del Fanciullo, dove sintetizza magistralmente alcune considerazioni sull’importanza del gioco e del movimento nei primi anni di vita, come frutto della sua ormai consolidata esperienza professionale.


Ma nel 1955 l’attende la tragedia più grave della vita: Guido si ammala di cancro e muore nell’estate dello stesso anno. Colpisce il fatto che in quel momento il loro figlio Marco ha 11 anni: più o meno la stessa età in cui Elinor aveva perso la propria madre.


Malgrado questo terribile lutto, ella reagisce continuando a lavorare nella formazione del personale e realizzando altri due importantissimi filmati. Anzitutto L’adulto nel mondo dei più piccoli, anch’esso girato nel brefotrofio di Trieste (su incarico e con materiali e personale del Villaggio della Madre e del Fanciullo), che focalizza in modo dettagliato e raffinato il ruolo educativo dell’adulto con i bambini che trascorrono la giornata al nido.


Nel 1956 Elinor assieme a Marco torna a vivere a Milano, dove continua a lavorare per il Villaggio, offrendo un importante apporto pedagogico. Nel 1957 viene avviata la costruzione della nuova sede del Villaggio in zona S. Siro, dove anche attualmente la struttura continua la propria attività. All’interno di essa, oltre agli spazi di accoglienza e ai servizi per le madri in attesa e con bimbi piccoli, viene realizzato su input di Elinor un nido di cui ella definisce, insieme agli architetti, il progetto interno ed esterno. Viene creato un osservatorio a vetri schermati per guardare i bambini senza essere visti, affinché gli adulti (educatori, genitori, studenti) potessero rilevare in modo ecologico e non invasivo i comportamenti, le preferenze, le attitudini, le modalità di gioco e di relazione tra i coetanei. Un nido con criteri del tutto innovativi, tuttora interessanti per chi si occupa di architetture per l’infanzia, ma all’epoca del tutto rivoluzionario, se si considera che in quegli anni gli unici riferimenti concreti erano i nidi ONMI.13 “Il suo scopo era aiutare le madri a capire i propri bambini, non solo i loro bisogni ma soprattutto le loro risorse e al tempo stesso fare di quel luogo un centro di studi dal periodo del concepimento ai due anni, ‘i mille giorni che contano’, usando le parole di Selma Fraiberg”.14

Dopo pochi mesi dall’inaugurazione, nel 1959 Elinor vi gira un terzo filmato, Infanzia diritto di ogni bambino”, che a sua volta può essere considerato una pietra miliare per le riflessioni sul lavoro degli educatori al nido.


In quegli anni di fermento sociale e culturale, grazie anche alle conoscenze accademiche e professionali mediate dal Villaggio, Elinor sviluppa una intensa attività di scambi con molte realtà assistenziali e educative in diverse città italiane e anche straniere


Alla fine del 1959, assieme a Marco allora quindicenne, Elinor torna a vivere a Londra, ritenendo che lì egli avrebbe potuto frequentare un college e avrebbe certamente avuto migliori opportunità di studio e di formazione. Ma in parte anche perché capisce come fosse difficile per una madre sola affrontare la vita nel clima culturale italiano del dopoguerra.


Effettivamente a Londra non mancano per lei opportunità professionali. Dopo un breve periodo presso il gruppo di lavoro per il benessere infantile all’Hammersmith Hospital (Jewish Board of Guardians Welfare Service) nel 1960 viene nominata Ispettrice per il London City Council nell’ambito della salute mentale dei bambini, cosa che le permette di operare in diversi servizi. Vi lavora lottando contro le discriminazioni scolastiche e contro la politica di inserire in istituti i bambini provenienti da contesti deprivati che disertavano la scuola, ritenendo questa pratica inefficace per la loro integrazione sociale e distruttiva per la vita familiare. Questo servizio verrà abolito nel 1965.


Dal 1965 fino al 1972, anno in cui Elinor si ritira in pensione, lavora per l’Inner London Education Authority (ILEA) dove, in collaborazione con il Servizio Sociale, svolge attività di consulenza e formazione per molti nidi e altre strutture.


In tutta questa fase fertile di idee e di creatività ella coniuga in maniera sempre più precisa le indicazioni teoriche derivate dalla sua formazione psicologica con le riflessioni sviluppate nel corso delle varie esperienze sul campo. Verso la fine degli anni ’70 (precisamente nel 78-79) sintetizza tutti gli spunti e le sperimentazioni ormai ampiamente verificati e formula la proposta del Cestino dei Tesori, attraverso cui documenta la capacità di concentrazione che i bebè mettono nel gioco nel periodo in cui possono stare seduti, ma non sono ancora in grado di camminare.15 Questa proposta di gioco dedicata ai bambini nella seconda metà del primo anno di vita (dai 6 ai 10 mesi circa) diviene anche oggetto della sua dissertazione finale nell’ambito di una borsa post-laurea all’università di Bristol, che lei ottiene sotto la supervisione di Christopher Beedell.


Nel 1979 – con il supporto linguistico della sorella Vivien che abita a Milano – pubblica il suo primo libro in italiano Il bambino nell’asilo nido, un testo che rappresenta tuttora un pilastro fondamentale per la professione degli educatori. In esso documenta con chiarezza il concetto che i bambini sono in grado di potenziare al massimo le proprie competenze innate, ma solo all’interno di condizioni ben definite, le quali vengono proposte e descritte nel libro nei minimi particolari concreti.


Continuando intanto a lavorare regolarmente per Hammersmith e per il Servizio Sociale Fulham mette a punto, in collaborazione con Anita Hugues, la proposta del Gioco Euristico, allo scopo di rispondere in modo mirato al bisogno e al piacere esplorativo dei bambini tra i 12 e i 20 mesi. Insieme producono un filmato che evidenzia con straordinaria efficacia le capacità creative dei bambini nel secondo anno di vita a contatto con materiali non strutturati, rigorosamente selezionati e presentati loro sulla base di precise indicazioni metodologiche.


Nel 1994, in collaborazione con Sonia Jackson, pubblica un secondo libro People Under Three,16 che nel titolo stesso propone una potente sintesi della sua posizione culturale e ideologica. In tre parole Elinor inquadra in modo lapidario il suo modo di concepire i bambini: partner attivi nelle relazioni, autori della propria crescita e cittadini soggetti di diritti. Questo volume è stato pubblicato in Italia nel 1996 con il titolo Persone da zero a tre anni.17

Contemporaneamente, svolge anche attività di consulenza presso la Early Child Unit del National Children’s Bureau, un organismo nazionale diretto da Gillian Pugh. In questo contesto rivolge le sue energie per approfondire il concetto di qualità dei servizi, filtrandola attraverso la sua instancabile attività di formazione, supervisione, conferenze e seminari, ma soprattutto mettendosi sempre dalla parte dei bambini, con una coerenza e una determinazione, che ne hanno fatto una sorta di “avvocato difensore”, in grado di assumere il loro punto di vista sulle cose, sugli eventi, sulle persone.

Nel periodo dell’attività presso il National Children’s Bureau sviluppa una produttiva collaborazione con Peter Elfer e Dorothy Selleck, che si trasforma anche in un’amicizia la quale proseguirà anche dopo il ritiro dal lavoro, sotto forma di incontri sistematici di discussione e confronto che per lo più avvengono in casa. Attraverso gli scambi di idee con questi due colleghi viene così sistematizzato l’approccio “Persona Chiave”, il quale – al termine di una lunga e difficile battaglia ideologica – è attualmente accettato e ufficialmente incorporato nell’Early Years Foundation Stage.18 Tale approccio viene documentato tramite la pubblicazione nel 2003 del volume Key Persons in the Nurseries. Il libro esce postumo in Italia nel 2010 con il titolo “Persone chiave” al nido.19


Il ventennio dal 1978 al 1998 è caratterizzato dai suoi regolari viaggi in Italia, due e tre volte l’anno, in cui si prodiga in una intensa attività di formazione e di supervisione di servizi, soprattutto nel centro nord Italia, in cui ha lasciato tracce indelebili nell’esperienza professionale degli operatori e nella immagine di sé stessi in quanto professionisti.20 L’attività formativa si estende anche in Scozia, in Spagna e negli USA.


Oltre agli incontri diretti con il personale nei servizi, la sua energia produttiva risulta molto ricca, soprattutto di documentazione filmica.21


Per concludere: il suo pensiero e la sua riflessione sulle modalità educative più adeguate a favorire la crescita dei bambini piccoli sono stati continuamente nutriti, affinati e cesellati negli scambi con le personalità di spicco della cultura psicoanalitica e dell’attaccamento e con gli operatori dei servizi, ma soprattutto sono stati sempre rielaborati e riproposti in modo assolutamente originale a partire dai suoi vissuti e dalla sua straordinaria sensibilità, mediante cui ha filtrato tutti i valori e le convinzioni che aveva via via sviluppato a partire dalle proprie esperienze infantili, poi nella formazione accademica e infine attraverso le vicende personali di donna e madre matura.

Elinor è riuscita in modo geniale a trasformare le pratiche quotidiane di chi si cura dei bambini (educatori e genitori) in spazi di vita gradevoli per tutti, grandi e piccoli, portando avanti con inflessibile determinazione le sue convinzioni relative all’importanza del contatto con gli elementi della natura, del gioco, del significato delle relazioni precoci di attaccamento con i caregiver professionisti, della pratica di una osservazione attenta ed empatica dei bambini e della necessità di parlare con loro apertamente dei loro vissuti ed emozioni attraverso un insight compartecipato al loro mondo interno. Nel suo approccio, l’organizzazione della vita quotidiana dei bambini, delle attività e dei materiali da gioco, all’interno e all’esterno delle comunità infantili, così come la strutturazione minuziosa dei momenti di cura legati alla corporeità, viene fatta oggetto di un’attenzione continua, di ricerca di soluzioni condivise, di ascolto e di osservazione dei contesti e delle persone, di mediazioni e di valorizzazione dei dettagli da parte dei gruppi di lavoro.


Ma va ricordato soprattutto che, parallelamente alla conoscenza sempre più precisa dei contesti esterni, Elinor ha continuato a stimolare nelle persone il riconoscimento di sé stessi e del proprio vissuto personale. Solo nella consapevolezza delle proprie emozioni, aspettative, difficoltà e tenendole in considerazione si può arrivare a comprendere anche la mente altrui. Per cogliere il mondo interno infantile è necessario che la stessa cura e la stessa lettura empatica vengano rivolte a cogliere le emozioni e i vissuti delle persone che si occupano dei bambini: soprattutto i genitori e gli operatori dei servizi. I loro sentimenti sia positivi che faticosi e/o ambivalenti rappresentano pertanto il punto focale della formazione e della supervisione.


La coerenza e la determinazione con cui ella ha sviluppato fino all’ultimo le sue proposte, all’insegna di un forte rigore metodologico, rappresentano senz’altro “il logo” più significativo della sua presenza fondamentale nel panorama educativo per la prima infanzia del XX secolo. Ma nel contempo è significativa la sua rinuncia esplicita a utilizzare un linguaggio troppo “tecnico” e modalità formative di tipo accademico, rispetto a cui ha sempre percepito un senso di “non appartenenza”. In questo modo è riuscita a salvaguardare il proprio obiettivo di coltivare in libertà la possibilità di tradurre nella pratica e nella operatività degli educatori le straordinarie e rivoluzionarie scoperte scientifiche del suo tempo, che hanno evidenziato come siano i bambini a essere i protagonisti attivi e competenti del proprio sviluppo.

La sostenibile leggerezza dell’essere, la generatività del metodo formativo e la fedeltà alle persone e alle idee

Il maggiore successo della sua vita – che pure ha anche attraversato molti dei terribili avvenimenti che hanno segnato il Novecento e che fin dall’infanzia l’ha colpita duramente tramite perdite affettive gravi – è stato quello di saper trasformare in un’esperienza creativa tutto ciò che le è capitato di incontrare, rimanendo coerente con la propria ispirazione. Ne emerge la statura umana di una donna che ha continuato a essere sé stessa attraverso esperienze decisamente difficoltose e negative.


Sono questi gli ingredienti che formano la sua straordinaria capacità come formatrice e supervisora nel lavoro educativo con i genitori e con gli operatori.

Sotto questo aspetto, la caratteristica più saliente della sua grande capacità di raggiungere lo stato d’animo altrui era costituita dal tocco leggero e dalla vena ironica, tipicamente inglese, che le permetteva di alleggerire il clima relazionale nell’ambito di contesti in cui le situazioni personali e le dinamiche dei gruppi a volte si proponevano in termini eccessivamente carichi, se non addirittura conflittuali. Nell’incontro con ogni persona che aveva di fronte offriva una profonda e seria attenzione soprattutto ai possibili vissuti di distress, che lei cercava di legittimare e restituire in modo accettabile, con una frase simpaticamente sdrammatizzante, mai offensiva e/o svalutante, suggerendo di provare a vedere le cose sotto un’altra ottica. A fronte di quesiti che venivano sollevati dalle situazioni complesse che regolarmente si verificano nelle dinamiche interpersonali, rispondeva con una battuta scherzosa, in cui trasmetteva però contenuti seri, incoraggianti e propositivi: ben consapevole che nessuno dall’esterno può indirizzare soluzioni miracolistiche. La sua ironia sottile e leggera, oltre che una dote naturale, sembrava aver fatto tesoro degli insegnamenti della tradizione classica, in cui attraverso il sorriso può essere veicolato un messaggio migliorativo dei difetti e delle debolezze tipiche di ogni essere umano: suggerendo quindi all’interlocutore un modo costruttivo come una opportunità per modificare i propri comportamenti e le proprie idee.22


A questo proposito si può citare qualche episodio. Nel corso di una formazione in un nido della cintura milanese, alle educatrici che le chiedevano preoccupate come comportarsi con alcuni genitori che, credendo di fare cosa gradita, portavano al nido in regalo giocattoli dismessi, a volte non più funzionanti, dei loro figli, Elinor sorridendo ha risposto: “Care, cosa direste voi se vi portassero in dono una mela marcia?” Oppure, quando qualcuno le chiedeva come stava, lei era solita sfiorargli leggermente il braccio e abbozzando un sorriso rispondeva: “Ma tu, quanto tempo hai?”, facendo trasparire la complessità che è propria di ogni situazione di vita e la difficoltà di offrire risposte semplificate: nel contempo tuttavia creando complicità ed empatia con l’interlocutore.


Oltre a queste caratteristiche comunicative, l’aspetto che certamente è rimasto maggiormente impresso nelle persone che l’hanno conosciuta e che hanno partecipato a qualche incontro con lei consiste nell’innovazione da lei proposta relativamente alla modalità con cui impostava e gestiva l’attività formativa.


A lei si deve di fatto l’introduzione e la declinazione nei contesti educativi di una metodologia di lavoro basata sull’osservazione diretta, simile a quella che veniva utilizzata dalle grandi personalità della psicoanalisi infantile23 e della psicologia clinica nella psicoterapia rivolta ai bambini.


Per la prima volta nella storia dei servizi Elinor ha proposto una pratica formativa definita “a nido aperto”, che ancora oggi rimane uno strumento privilegiato e prezioso di intervento con i gruppi di lavoro. Ogni percorso di aggiornamento/supervisione iniziava con il suo stare negli ambienti abituali di vita del nido. Nel corso della mattinata, entrava silenziosamente e si sedeva discretamente in un angolo: una presenza attenta, garbata e partecipe mediante lo sguardo di quanto avveniva nella quotidianità di un gruppo di bambini con le singole educatrici, ma del tutto rispettosa e non intrusiva. L’educatrice poteva così percepire una partecipazione emotiva ma non interveniente, dal momento che Elinor limitava al minimo eventuali interventi attivi – e comunque sempre in modo molto lieve e con un tono di voce basso a supporto dell’educatrice. Per esempio, spostare un gioco, oppure toglierlo o aggiungerne un altro, portare il cestino dei fazzoletti vicino all’educatrice per facilitarle il compito di pulire il naso ecc. Se i bambini le si avvicinavano lei stava comunque sempre seduta, interagendo con loro a livello più non verbale che verbale ed evitando di convogliare su di sé la loro curiosità e intrattenerli, distogliendo di fatto la loro attenzione dall’educatrice di riferimento.

Le educatrici erano comunque invitate a stare comodamente sedute, su sedili alti e non a terra, nei momenti di interazione e di gioco con i bambini, oltre che durante gli incontri nel gruppo di lavoro: questa è una delle fondamentali innovazioni da lei introdotte nella pratica educativa e formativa nei servizi dedicati alla prima infanzia. Partendo dall’attenzione costante alla salute fisica e psichica degli adulti che trascorrono molte ore a contatto con i bambini piccoli, il primo approccio di Elinor era relativo a come ogni persona si sentisse in quel momento, invitandola ad accomodarsi in una posizione confortevole e a mettersi a proprio agio. Dall’osservazione dello svolgersi delle attività quotidiane, raccoglieva una serie di elementi che poi rilanciava nel corso di un incontro pomeridiano o serale, in cui le educatrici – libere dalla responsabilità dei bambini – potevano tranquillamente ri-raccontarsi il lavoro, facendolo diventare oggetto di pensiero e di riflessione, certe di trovare ascolto per le fatiche, i possibili disagi, i dubbi legati alla natura del proprio intervento con i bambini o nella comunicazione con gli altri adulti. Lo scambio tra lo sguardo di chi si trova all’interno della situazione e chi la vede dall’esterno creava un’opportunità di confronto e permetteva la possibilità di cambiamento. Si apriva così lo spazio per una riflessione congiunta basata anche sull’auto-osservazione da parte delle educatrici. Per esempio l’eccesso di fatica fisica, soprattutto a livello della schiena, nel sollevare i bambini o tenendoli in braccio, l’aver fatto anche eventuali movimenti inutili che avrebbero potuto essere evitati. Provando così a ripercorrere i singoli passaggi dell’attività di lavoro, tentando di far avventurare la mente in possibili alternative (movimenti più dolci) o sollecitando e favorendo l’iniziativa e l’autonomia dei bambini più grandicelli (per es. invitandoli a salire da soli sul fasciatoio tramite la scaletta da lei ideata e oggi prodotta dalle ditte costruttrici di mobili per nidi).


Le testimonianze24 delle educatrici raccontano i vissuti a contatto con questa nuova modalità di confrontarsi con i tecnici e i professionisti: “Naturalmente esporsi all’osservazione di Elinor poteva essere un grande fardello, più che un privilegio. Ma poi, placata l’ansia grazie alla capacità straordinaria di accogliere senza alcun tipo di giudizio quello che tu facevi, lei riusciva a far molto scemare le preoccupazioni e le ansie… A quel punto noi beneficiavamo della sua capacità di ri-raccontare l’esperienza, di ri-significarla, e anche di nominarla. Allora ci sentivamo più leggere. Il suo arrivo aveva questa capacità di creare questa magia, di accoglienza e di vicinanza, dal punto di vista della presa in mano dei ragionamenti e dei discorsi di tipo educativo. Una cosa che sento di aver imparato molto da lei è di non accontentarsi. Siamo arrivati fino a qua? Bene adesso cosa possiamo fare? Sia tu come tua crescita professionale, ma anche come nido. E questa è un’altra cosa straordinaria che è riuscita a fare con noi, senti che poi diventi autonoma.”


L’incontro con ogni singola educatrice e con il gruppo di lavoro partiva dunque sempre dall’ascolto delle fatiche fisiche e mentali degli adulti, in cui ciascuna persona era invitata discutere l’aspetto maggiormente difficile della giornata. Dalla sua prolungata formazione in ambito clinico Elinor aveva fatto propria la lezione circa l’importanza dell’arte maieutica, consistente nel favorire nelle persone la possibilità di ripensare agli eventi e alle proprie azioni, trovando in proprio le indicazioni per arrivare a modificare situazioni faticose o di disagio. Ha sempre evitato quindi di proporre soluzioni magiche o ricette concrete, consapevole che le risposte ai quesiti più complessi stanno dentro all’individuo. Creava quindi uno spazio relazionale di ascolto e di supporto emotivo per permettere a ciascuno di riscoprire le proprie risorse, stimolando il riavvio del pensiero e supportando il coraggio di tentare strategie nuove per affrontare le difficoltà, in un clima sempre di ascolto e di condivisione, scevro da ogni giudizio o valutazione. La stessa modalità generativa era rivolta anche ai quesiti dei genitori. Gli adulti caregiver si sentivano così autorizzati a provare a modificare le proprie abitudini e i propri pensieri o a mettere in atto cambiamenti concreti, sapendo di essere affiancati da una persona competente ed empatica. Qualcuno in grado di comprendere la natura del problema, per averlo già vissuto personalmente e comunque disponibile a verificare insieme gli esiti di possibili nuove piste operative: incoraggiati, ascoltati, rassicurati circa il fatto che, se le soluzioni sperimentate non avessero portato l’esito desiderato, se ne potevano cercare altre. Nella certezza che spesso non esistono in sé cose giuste o sbagliate, in quanto l’obiettivo è far parlare l’esperienza e farla diventare un sapere.


Per quanto riguarda la formazione in alcuni servizi, dove tornava regolarmente due o tre volte l’anno nel corso dei suoi soggiorni in Italia, il fatto che le operatrici potessero contare su un intervallo di tempo sufficientemente ampio, in cui vi fosse l’opportunità per riorganizzare mentalmente la propria attività, permetteva loro di stabilire un momento condiviso per verificare insieme i cambiamenti introdotti e soprattutto per poter esplicitare i vissuti che li avevano accompagnati.


Nell’incontro interpersonale e nella formazione Elinor ha sempre comunque rigorosamente evitato di avanzare ipotesi interpretative o (peggio che mai) valutative. In particolare nel confronto con le educatrici, attenendosi inflessibilmente al versante educativo, non accettava di far risalire il comportamento dei bambini a possibili stili interattivi presenti in casa o ad atteggiamenti dei genitori: “Questa è stata per me una grande lezione. Mi ha proprio colpito il suo insegnamento: anzitutto rispettare la famiglia, qualsiasi famiglia c’è dietro a questo bambino… a non prendere l’autostrada facilitata, nel dire siccome la famiglia è così ecco perché il bambino è così. Guardiamo al nido cosa sta succedendo. Cosa abbiamo fatto noi fin qua e cosa possiamo fare al nido. E farsi toccare dal dubbio che magari alcuni comportamenti che ci preoccupano del bambino a volte possono esser legati anche a ciò che succede al nido, e non a ciò che succede a casa. Poi ci confrontiamo anche con la famiglia, chiediamo e vediamo. Non troviamo subito il colpevole, subito la cosa che ci assolve... e allora noi saremo più bravi”.25


Infine un accenno a Elinor come una donna dalla sensibilità speciale che, al di là della sua costante e fedele dedizione al lavoro, non ha mai smesso di coltivare relazioni di aiuto “informali” nei confronti di situazioni di disagio o di ingiustizia sociale, su cui ha mantenuto però un grande riserbo. Come tutte le persone dotate di una raffinata intelligenza umana, la personalità di Elinor può essere scoperta progressivamente, penetrando sempre più all’interno di una mente, il cui bisogno di equità sociale ha rappresentato una spinta vitale profonda e ineludibile.

Può essere interessante a questo proposito far cenno all’amicizia, durata molti anni, con Rosie, una donna irlandese nata in una famiglia di zingari che viveva di spettacoli itineranti di musica e danza, e poi con la figlia di lei, Jacqui.26

Elinor ha 17 anni quando incontra per la prima volta Rosie, allora quattordicenne, in occasione di una manifestazione organizzata dalle femministe nell’area di gioco Coram’s Fields in Brunswick Square, finalizzata a protestare contro il progetto di urbanizzazione di questo spazio esplicitamente voluto e destinato ad attività esplorative e ludiche per l’infanzia.27 Questa giovane ragazza dai capelli rossi, affetta da sordità profonda da quando aveva 10 anni come conseguenza del morbillo, si era incatenata alla statua di pietra di un angioletto al cancello di Coram’s Fields e gridava contro la polizia. Quando viene portata via dalle forze dell’ordine, Elinor decide di seguirla in tribunale, per fare in modo di aiutarla a ripagare il danno alla statua e viene a conoscenza della sua storia davvero difficile. Pur dotata di acuta intelligenza, Rosie era stata allontanata da scuola da un paio d’anni a causa dell’atteggiamento emarginante degli insegnanti e lavorava come inserviente nella cucina e nella lavanderia della casa di accoglienza Coram’s Foundling Home, dedicando il tempo libero a confortare i bambini ospiti quando piangevano. Ma questo le aveva procurato le percosse della direttrice della casa.


Il sodalizio con Elinor nasce sulla base dei comuni ideali di giustizia, di lotta contro il pregiudizio sociale nei confronti delle donne e della discriminazione verso le persone appartenenti alle classi inferiori, nonché dalla condivisione di un pensiero profondamente critico nei confronti del metodo vittoriano con cui venivano trattati i bambini, basato unicamente su regole rigide e assolutamente privo di calore e di empatia. Malgrado le occasioni di incontro tra di loro siano state saltuarie, stante il trasferimento di Elinor in Italia, la loro solidarietà durerà fino agli anni della vecchiaia di entrambe, nell’affinità di valori di equità sociale e dei loro temperamenti indomiti, pronti a battersi per gli ideali in cui credono.


Rosie nel 1939 aveva avuto una bimba, Jacqui. Questa era nata prematura in una situazione di totale abbandono sociale nel corso di un lungo travaglio molto sofferto, al termine del quale la madre stremata aveva perso coscienza. A sua insaputa, la piccola era stata raccolta e trasferita in terapia intensiva al Great Ormond Street Hospital e poi per i primi tre mesi in isolamento, stanti gravi problemi respiratori ed ematici genetici. I pediatri si dimostravano molto sensibili alla sofferenza psicologica dei bambini, avendo essi stessi sperimentato perdite e lutti: tra di essi John Bowlby, giovane specialista, aveva molto insistito affinché vi fosse una infermiera di riferimento per accudire, parlare e manipolare la bambina. Ma la madre, credendola morta, era caduta in depressione e di conseguenza ricoverata in un ospedale psichiatrico. A tre mesi circa, Jacqui viene trasferita al primo nido residenziale sperimentale creato da Anna Freud, dove venivano accolti i bambini con le madri in situazioni caratterizzate da separazioni traumatiche e il cui obiettivo era il sostegno alla creazione del legame tra madre-figlio. Rosie, che nel frattempo era stata dimessa, era stata sollecitata a visitare frequentemente la bambina. Ricorderà poi nel suo diario, scritto in età matura, il proprio disappunto quando vedeva la bambina sorridere ad Anna cercandone il contatto preferenziale, a volte respingendo la mamma. Ma “Anna si adoperava a consolarmi, spiegandomi al meglio che poteva le differenze nelle emozioni e nelle relazioni che i bambini vivono in rapporto alle varie persone. Diceva che ovviamente lei voleva bene e accudiva la piccola, così come faceva con tutti i bambini ospitati lì: ma che era certa che avrebbe presto imparato a riconoscermi come la sua vera mamma e mi avrebbe amata per sempre”. In poche settimane Rosie e il marito possono riportare a casa la bambina e riprendere una vita normale.


Ma nel 1941, durante la guerra, il padre scompare in un incidente aereo e la situazione familiare diventa nuovamente problematica, in quanto la madre è costretta a lavorare incessantemente. Così il giudice la ritiene non in grado di accudire la figlia e ne decreta l’inserimento in una struttura statale di accoglienza, più simile a una prigione. Elinor allora interviene e si prodiga ad affiancare Rosie nella sua battaglia giudiziaria per ottenere l’affidamento. Ma la causa è persa, la bambina viene istituzionalizzata e solo dopo una serie articolata di vicende potrà tornare a casa dalla madre.


Quando Jacqui ha 7 anni, Elinor in uno dei suoi viaggi di vacanza a Londra la trova nuovamente ricoverata all’ospedale Great Ormond Street per una serie di gravi contusioni dovute a una caduta accidentale. Vi era stata portata in ambulanza direttamente dal tribunale, dove la madre era stata condannata per supposte violenze nei suoi confronti e le era stata negata ogni possibilità di incontro. Elinor allora va regolarmente a trovare in ospedale la bambina che, traumatizzata dalla separazione, aveva sviluppato una forma di “mutismo elettivo”. Riconoscendola come amica della mamma, malgrado fossero trascorsi alcuni anni, Jacqui riesce a stabilire con lei una comunicazione affettiva attraverso libri e materiale per disegnare. Lentamente recupera le sue funzioni verbali e guarisce, avendo trovato con Elinor la possibilità di esprimersi in tanti linguaggi diversi.


La loro amicizia durerà nel tempo, anche sulla base degli stessi ideali condivisi di giustizia politica e equità sociale. Diplomatasi educatrice, Jacqui ha seguito in un certo senso le orme di Elinor, diventando terapeuta e specializzandosi in arti-terapie. È divenuta poi responsabile di una struttura di accoglienza e riabilitazione per bambini traumatizzati, promuovendo una serie di iniziative di supporto terapeutico per coloro che hanno sperimentato diversi tipi di conflitto, in particolare i rifugiati di guerra (www.warchild.com.uk) e occupandosi della specializzazione degli psicoterapeuti che li seguono presso l’Apricot Therapy Farm Centre. Elinor dagli anni ’90 in poi ne supervisiona l’attività.


Vicende come questa fanno parte della storia non nota della vita di Elinor. Una donna che, anche nel privato dei rapporti interpersonali oltre che professionali, ha continuato a gettare semi su tanti terreni, trovando quelli fertili in grado di farli sbocciare.

Proposte di gioco all’insegna della creatività: il Cestino dei Tesori, il Gioco Euristico e le Isole di Intimità

a cura di Lidia Magistrati

Le proposte di gioco pensate e realizzate da Elinor Goldschmied per il lavoro delle educatrici di asili nido, il Cestino dei Tesori e il Gioco Euristico, sono ben distinte e riferite a periodi di età differenti.


Elinor è giunta a formulare queste attività dopo anni di lavoro, di studio e di osservazione dei bambini da 0 a 3 anni, oltre ad aver raccolto domande, dubbi e punti di vista di tante educatrici nei servizi della prima infanzia (soprattutto in Inghilterra e in Italia). Queste proposte sono state da lei sviluppate e attuate nei minimi dettagli, senza lasciare nulla al caso. Per esempio, sul nome della prima ha preferito “cestino” a “cesto” per evitare che potesse essere confuso con il cesto della biancheria o con un cesto qualsiasi per la raccolta indifferenziata dei giocattoli come si usa in tante case: ha poi dato misure precise perché temeva, visto il nome, che venisse usato uno troppo piccolo. Era convinta che dare indicazioni dettagliate e sempre “ragionate” potesse aiutare educatrici e genitori a capire e sperimentare l’importanza vitale che i bambini siano messi da subito nella condizione di poter esplorare e giocare da soli con il sostegno relazionale e organizzativo dell’adulto. Questi ha infatti un ruolo fondamentale nella preparazione dello spazio, nella ricerca dei materiali da proporre e nel sostenere affettivamente la relazione con i bambini mentre giocano.


L’offerta di materiali poco strutturati e prevalentemente naturali permette l’articolarsi di un pensiero costruttivo, in quanto ognuno può da solo scoprire le proprietà senso-percettive e formali di ogni oggetto, la loro natura e le infinite possibilità di funzionamento e di assemblaggio, attribuendovi significati soggettivi. Viene quindi evitata la noia e la frustrazione connessa a oggetti strutturati, dove non c’è margine per la creazione personale, nella misura in cui essi imbrigliano il pensiero in progettazioni standard o percorsi precostituiti, rispetto a cui la mente del bambino deve semplicemente adeguarsi passivamente.


A questo proposito mi sorge un parallelo tra l’oggi e il periodo e i contesti in cui sia Goldschmied che Montessori che Pikler hanno studiato, osservato, lavorato in situazioni di grande disagio economico e sociale dove i materiali “poveri” creavano miniere di opportunità per i bambini mentre di contro i “ricchi” materiali attuali creano spesso appiattimento e poca concentrazione.


Il Cestino dei Tesori è una proposta di gioco per bambini dai 6 ai 9/10 mesi (dopo l’attivazione tra i 4/5 mesi di una delle coordinazioni motorie più importanti: occhio, mano, bocca), da quando conquistano la posizione seduta e per un periodo di alcuni mesi, variabile per ogni bambino, che è privilegiata rispetto ad altre posture: il bambino vuole e prova piacere a stare seduto. Gli viene quindi proposto un cestino con forma e dimensioni ben precise: senza manici, con fondo piatto, 35/40 cm di diametro sopra e sotto, 12/13 cm di altezza; contenente una varietà molto ampia di oggetti diversi, di casa e di uso comune: oggetti di legno, metallo, stoffa, nastri, gomma, cartone pressato, lisci, ruvidi, pesanti, leggeri, caldi, freddi, sacchettini di stoffe diverse (cotone, raso, velluto) con doppia fodera e contenenti ceci, lenticchie, fagioli, riso. Materiali che stimolano i cinque sensi ma in particolare il tatto e l’oralità, che sono i due sensi che il bimbo ha già molto sviluppati alla nascita e che usa in maniera privilegiata per tutto il primo anno di vita: tocca, manipola e mette in bocca! Il materiale ricco e vario del Cestino dei Tesori permette al bambino di variare la sua esperienza sensoriale e possiamo immaginare, sosteneva Elinor, che di fronte a questi oggetti il bambino si ponga la domanda: “cos’è questo?” iniziando la sua esplorazione per scoprirlo. Lo guarda, lo tocca, lo lecca, lo succhia, lo morde, lo scuote, lo batte, lo lascia e lo riprende. Se lo passa da una mano all’altra o tenendo un oggetto per mano fa una scelta ora per l’uno ora per l’altro. Il Cestino dei Tesori apre un mondo di possibilità esplorative e cognitive ed è stato osservato che bambini così piccoli possono rimanere concentrati in una situazione di piccolo gruppo, con questo materiale a disposizione anche fino a 30/40 minuti ogni volta.


L’adulto ha la funzione di sostenere con lo sguardo, col sorriso, con un cenno del capo il gioco e l’esplorazione dei piccoli stando seduto non a terra ma su un rialzo (cuscino, seggiola bassa) a volte più, altre meno, vicino al gruppo o al singolo bambino. Durante l’attività avrà anche il compito di rimettere nel cestino gli oggetti che inevitabilmente cadranno fuori: i bambini prendono, usano e lasciano cadere, allargando le braccia e con movimenti di chiusura e apertura delle mani. Ancora incapaci di rimettere dentro e tanto meno impossibilitati a essere sollecitati al riordino: che sarà invece un punto cardine, pochi mesi dopo, dell’organizzazione del Gioco Euristico.

Il Cestino dei Tesori non va lasciato sempre a disposizione nella stanza dei piccoli, che tra l’altro può essere abitata da bambini con mesi differenti rispetto al periodo di uso del cestino: va proposto dall’educatrice in uno spazio e in momenti della giornata che riterrà più opportuni. Fuori da questi momenti il cestino va tenuto in un posto sicuro, non alla portata delle mani e degli sguardi dei bambini e possibilmente coperto da un bel telo che proteggerà gli oggetti dalla polvere.


Elinor consigliava di tenere a bada la curiosità e intraprendenza delle educatrici di “far provare” il Cestino dei Tesori a bambini oltre l’anno che si muovono nell’ambiente e stanno imparando a lanciare gli oggetti, anche quelli pesanti, presenti nel cestino; meglio passare al Gioco Euristico.


Invece ho visto proporre e utilizzare con successo il Cestino dei Tesori come una raccolta di oggetti interessanti da esplorare (tipo Isola di Intimità) con bambini dai due ai tre anni, seduti in piccolo gruppo con la loro educatrice, in momenti particolari, di passaggio o in momenti difficili della giornata al nido (per esempio in attesa del pranzo o in attesa di poter andare in bagno, quando i bambini sono stanchi e vanno tenuti raccolti attorno all’educatrice e a materiale che li “sorprenda”).


Nella ricerca del materiale, di grande varietà e quantità, per il cestino Elinor consigliava di far sempre prevalere il proprio “buon senso” rispetto all’idoneità e pericolosità di ogni oggetto: se qualcuno di questi crea preoccupazione va provato, osservato come viene usato dai bambini per decidere se lasciarlo o toglierlo quando e se si è sicure e convinte.


I sacchetti olfattivi aromatizzati, per esempio, inseriti inizialmente nel Cestino dei Tesori sono stati successivamente tolti perché si è osservato che i bambini nel primo anno di vita mettendo tutto in bocca e succhiando a lungo rischiavano l’attivazione di possibili allergie.


I sacchettini profumati (di lavanda, rosmarino, salvia ecc.) possono essere proposti più avanti, intorno ai 18 mesi, come materiale sensoriale a sé stante, in un periodo in cui il bambino, sollecitato, sa indicare e distinguere la bocca dal naso ed è in grado di tenere maggiormente separate le funzioni dei due organi di senso (“ora annusiamo, senti che buon profumo”) e il desiderio di mettere tutto in bocca e succhiare si è attenuato rispetto ai mesi precedenti. O ancora: gli oggetti in cartone spesso, pressato e le scatoline di latta delle caramelle sono buoni strumenti di uso nel cestino, ma essendo materiali facilmente deperibili dalla saliva e dal raschiamento dei dentini dei bambini, vanno controllati spesso e sostituiti, vista anche la grande facilità con cui si trovano.


Le educatrici dovranno presentare e far conoscere con convinzione e competenza il Cestino dei Tesori ai genitori della stanza dei piccoli, rispondendo alle loro domande che verteranno principalmente proprio sulla sicurezza, idoneità, pulizia e manutenzione degli oggetti. Una domanda che spesso viene posta dai genitori, ma anche dagli operatori stessi, è sulla quantità degli oggetti presenti nel cestino: che sottende la preoccupazione di un eccesso, di una sovra stimolazione del bambino. Goldschmied diceva di aver raccolto: “fino a 173 oggetti diversi ma nessuno di plastica” e spiegava che l’esplorazione sensoriale dei bambini è sempre sul singolo oggetto, è la diversità e la quantità degli oggetti a permettergli la ricchezza e la varietà dell’esperienza. Il bambino guarda, manipola, porta alla bocca in una ricerca esplorativa incessante, ma attenta. Non è in questa età e su questa proposta di gioco che deve andare la nostra preoccupazione: ma più avanti quando i nostri bambini saranno riempiti di giochi commerciali e di uso standardizzato. Noteremo sconcertati che giocherà con il nastro, l’etichetta, la carta e la scatola che avvolgevano il gioco, ignorandolo il più delle volte.


Momento importante da riconoscere e gestire da parte dell’educatrice è il passaggio dal Cestino dei Tesori al Gioco Euristico caratterizzato da due aspetti. Uno motorio: il bambino non sta più solo seduto ma inizia a spostarsi nell’ambiente e l’altro evolutivo: l’esplorazione cambia da uno per volta a tanti oggetti.


Intorno all’anno, con lo spostarsi nell’ambiente, il bambino modifica la sua esplorazione e curiosità dagli oggetti del cestino a tutto ciò che incontra sul suo cammino e inizia l’affascinante gioco del dentro e fuori. Da tempo tocca e tira fuori tutto, come fa anche con gli oggetti del Cestino dei Tesori. Ora inizia a provare piacere e a ricercare le situazioni in cui “mettere dentro”. Diventa importante quindi porre a fianco del Cestino dei Tesori uno o due barattoli in cui il bambino potrà inserire gli oggetti.

Il Gioco Euristico è una proposta di gioco per bambini nel secondo anno di vita, dai 12 ai 22/24 mesi, quando sanno stare in piedi da soli e stanno conquistando la deambulazione spontanea, che permette loro di esplorare spazio e ambiente. A questa età il principale interesse è il movimento: girare nell’ambiente per conoscerlo. Tutta la loro attività di gioco spontaneo sembra passare attraverso gli spostamenti, come se fossero impossibilitati a fermarsi. Elinor ha utilizzato la parola euristico, da “eureka” ossia “ho trovato, ho scoperto”, per denominare questa proposta.


Il setting in cui questa attività viene attuata è sempre molto preciso: nel chiuso di una stanza o in uno spazio delimitato e con un numero basso di bambini (mai più di 6-8). Si parla sempre di oggetti e materiali, mai di giocattoli, per porre l’attenzione su materiale “altro”: vario, non strutturato, spesso di riciclo, che permetta al bambino senza suggerimenti o interventi dell’adulto di compiere una serie di azioni: riempire e svuotare, infilare, impilare in orizzontale e in verticale, raggruppare notando le differenze, grande/piccolo, sotto/sopra, uguale/diverso e iniziando ad attivare dei processi logici di individuazione e seriazione che svilupperà e utilizzerà molto più avanti. Il materiale per il Gioco Euristico prevede: anelli per tende di legno e metallo, guarnizioni di gomma, pezzi di tubi di gomma di varie lunghezze e diametri, mollette da bucato di legno (tipo americano), bigodini di vari diametri, catenelle di metallo (di maglia sottile e lunghe max 45/50 cm), palline da pingpong e da tennis, tappi di sughero compatti e di varie misure, pompon di lana, coperchi di metallo (tipo quelli dei barattoli di marmellate), grosse castagne e pigne, coni di cartone spesso, cilindri di cartone di varie misure, nastri di seta, velluto, pizzo, tanti barattoli di metallo, supporti di legno (tipo porta scottex o scorta rotoli carta igienica) per infilare anelli. Il materiale va raccolto e tenuto diviso per tipo, in sacche di stoffa appese a dei ganci, su ogni sacca è importante mettere il nome di ciò che contengono o una foto o cucire uno degli oggetti per aiutare e facilitare la scelta dell’educatrice sia nella preparazione che nel riordino. Sopra ai ganci a cui sono appese le sacche va collocata una mensola sulla quale tenere i barattoli, scatole e contenitori vari. Il tutto non alla portata del bambino: è l’educatrice che lo proporrà nello spazio apposito, nel momento della giornata che riterrà più opportuno, valutando che nel tempo complessivo a disposizione (ad esempio un’ora) sia contemplata la preparazione, l’attività e, importantissimo, il riordino.


Si predispongono a terra diversi mucchietti in numero sufficiente rispetto al numero dei bambini, ma non per forza uno per ogni bambino, non tutti uguali e con lo stesso materiale. L’idea non è “ogni bambino al suo posto con i suoi giochi”: ricordiamoci che i bambini si spostano, osservano e prendono spunto da ciò che vedono fare da altri. Ogni mucchietto dovrà prevedere almeno due o tre tipologie di materiali (esempio: bigodini, tappi di sughero, mollette da bucato in uno, tappi di metallo, catenelle, pompon nell’altro) e alcuni barattoli/contenitori. I bambini mentre usano questo materiale si muovono, si fermano, giocano stando in piedi, in ginocchio, accucciati (raramente e per breve tempo seduti!), osservano cosa fanno gli altri bimbi iniziando a imitarli, usano gli oggetti e se li portano appresso nei loro giri esplorativi alla ricerca di altro materiale interessante. Si è portati a immaginare, sosteneva Elinor, che di fronte a questi oggetti il bambino nel secondo anno di vita si ponga la domanda: “cosa posso fare con questo?” Ha già conosciuto ed esplorato gli oggetti. Ora vuole sperimentare cosa può fare con essi: dentro e fuori da scatole e barattoli, infilare, impilare, separare, unire, ammucchiare, dividere per tipologie diverse.


La possibilità e capacità di sviluppare queste azioni di raggruppamento, seriazione, suddivisione sviluppando un pre-pensiero logico/ matematico avviene in maniera privilegiata proprio nel setting classico del Gioco Euristico, con tanto materiale a disposizione e in piccolo gruppo di bambini.


In particolare, ciò si realizza in modo significativo durante il riordino del materiale, momento fondamentale dell’attività, pensato non solo per coinvolgere i bambini e aiutare l’educatrice a raccogliere l’abbondante materiale sparso per terra, ma perché viene attivata la collaborazione di gruppo dei bambini. Ogni oggetto viene riposto nella sacca giusta insieme agli altri tutti uguali, aiutando così i bambini ad allenare e rafforzare il loro bisogno di ordine, in un periodo particolare della loro mente (per Montessori: periodo sensitivo dell’ordine) e di sentirsi capaci e apprezzati dall’adulto.


L’abbondanza di materiale diminuisce sensibilmente i conflitti per il possesso di un oggetto: zuffe ancora molto presenti nelle interazioni fra bambini di questa età. Qui li vediamo molto contenuti per vari motivi: adulto presente seduto che partecipa osservando, piccolo gruppo, materiale vario interessante e “tanto”, i bambini attivano l’imitazione (importante modalità di apprendimento e crescita) guardando il gioco dell’altro e il fulcro non viene posto sul possesso dell’oggetto (“posso averne tanto”) ma su come utilizzarlo. È ciò che sta facendo l’altro bambino che attiva il desiderio/interesse a imitarlo.

Solitamente il bambino nei primi tre anni di vita è fortemente attratto dall’oggetto che sta manipolando un coetaneo: usato da un altro è per lui fonte di grande interesse. L’oggetto in mano altrui si anima e per questo diventa così interessante da volersene impossessare. Lo stesso, lasciato inanimato sul ripiano, attira molto meno la sua attenzione. Non solo, nella contesa di un oggetto fra due piccoli spesso anche il bambino che lo sta usando, se non ha più su di sé la richiesta dell’altro, questo perde presto interesse anche per lui. Non serve, né è possibile e utile, avere sempre il doppione di un oggetto, perché nel gioco individuale il bambino vuole proprio quello che ha in mano il compagno. Quindi per arrivare verso i tre anni a sapere attendere e rispettare il gioco e il lavoro del compagno, il bambino deve aver fatto precedentemente l’esperienza accompagnato da adulti che gli permettono di sperimentare il piacere e la frustrazione di prendere o rinunciare a una cosa usata da un altro, guidandolo verso il rispetto e l’attesa.

Il Gioco Euristico con la sua abbondanza di materiale e la sua precisa organizzazione (con un inizio, uno sviluppo e una conclusione tramite il riordino finale) permette al bambino anche attraverso la prevedibilità delle azioni di costruirsi un ordine mentale e un pensiero e di spostare il focus del suo interesse da una possibile contesa all’inizio della costruzione di un gioco sociale.


Il ruolo dell’adulto in questa attività, dopo aver predisposto i materiali ed essere entrato nello spazio con il gruppo, è quello di osservare, seduto su una sedia apposita, il gioco dei bambini sostenendoli con lo sguardo, aggiungendo o togliendo materiale o offrendo supporto individuale al bisogno.


Come durante l’uso del Cestino dei Tesori anche durante il Gioco Euristico l’educatrice dovrebbe limitare al massimo il linguaggio e privilegiare altre forme di comunicazione non verbale. Molto spesso si usa sostenere il gioco del bambino dicendogli “bravo”. Invece Goldschmied nelle formazioni metteva in guardia dall’uso ripetitivo e inutile di questo aggettivo portando a riflettere che se abbiamo continuamente bisogno di ripeterlo ne sviliamo il senso, parliamo alle spalle del bambino, mentre un cenno affermativo del capo, un sorriso quando lui ci sta guardando ed è in comunicazione, ha molta più forza e valore.


Negli anni ho potuto osservare nel mio lavoro di formazione nei nidi che sempre più spesso alcuni materiali del Gioco Euristico essendo così vari, ricchi di possibilità e interessanti per i bambini medi vengono lasciati a disposizione, ben suddivisi e ordinati sugli scaffali durante la giornata al nido, oltre a essere proposti nel modo classico come attività di metà mattina. Penso al fascino delle catenelle di metallo. Ricordo una bimba di due anni che ha disposto una catenella per ogni lato di un tavolo quadrato: un altro bimbo, stessa età, osserva e dice “è vuoto”. Insieme hanno preso altre catenelle e hanno riempito lo spazio dentro il perimetro con file di catenelle! Osservare, imitare, collaborare!


Scrive Elinor a proposito del Gioco Euristico: “… le educatrici dicono che il bambino da uno a due anni passa troppo velocemente da un oggetto all’altro, che il materiale da gioco normalmente disponibile al Nido non fissa la sua attenzione se non per pochi minuti, il bambino tende a gettare a terra gli oggetti, non vuole inserire gli spinotti nei fori ‘giusti’. E perché mai dovrebbe farlo? I giochi didattici per intenderci, infatti richiedono una competenza che il bambino nel secondo anno di vita non ha ancora acquisito. Se egli avesse l’uso della parola ci potrebbe dire ‘questi giochi non mi interessano ancora, prima ci sono altre cose che voglio fare’”.28


Si può concludere che attraverso l’osservazione dei bambini impegnati in queste attività si comprende quanta progettualità sia innata in ciascuno, la quale necessita solo di essere riconosciuta e sostenuta.


Le Isole di Intimità sono una proposta di gioco “minore” di Elinor, non conosciuta né diffusa come le altre due e riportata marginalmente nei suoi testi. Fa parte di diritto della sua lunga e attenta formazione nei nidi per sostenere momenti difficili del lavoro quotidiano delle educatrici ed è rivolta in particolare a bambini medi e grandi. Le educatrici dei nidi pubblici dell’ex zona 20 di Milano diretti da Mimma Noziglia negli anni ’90 hanno lavorato con lei sulla relazione educatrice/bambini e sulle Isole di Intimità: ne è testimonianza un interessante filmato del Comune di Milano intitolato La relazione che fa crescere.


Goldschmied ha lavorato nei gruppi di lavoro al nido affrontando situazioni concrete portate dalle educatrici stesse rispetto a momenti difficili o faticosi della giornata al nido, confrontandosi e cercando insieme proposte di soluzioni possibili che venivano poi sperimentate e calate sempre in ogni contesto specifico di lavoro.


In ogni ambiente professionale dove si cercavano e proponevano suggerimenti concreti sono nate le Isole di Intimità: raccolte, collezioni scelte e preparate personalmente da ogni educatrice, collane, bracciali, conchiglie, cartoline, sassi, scatoline, bottoni grossi, bottigliette dei profumi, borsellini. Anche la scelta della scatola/contenitore dove tenere gli oggetti raccolti deve essere fatta con cura e attenzione e rispettare il gusto personale dell’educatrice che l’ha preparata.


Il risultato deve essere una bella scatola!


Viene utilizzata in momenti particolari della giornata al nido, situazioni faticose o di passaggio: prima o alla fine del pranzo prima di andare in bagno, nel tardo pomeriggio con pochi bambini.


Per esempio, tra il pranzo e nel bagno prima della nanna, i bambini sono stanchi, poco capaci di organizzarsi autonomamente e facilmente possono succedere momenti di aggressività e pianto. Spesso anche lo spazio dove si può stare è limitato: bagno occupato, stanza sporca dopo il pranzo. L’educatrice “raccoglie” il suo gruppo e stando tutti seduti propone la sorpresa: una bella scatola piena di rarità e cose preziose, insieme si guardano, si toccano, si provano, si passano da uno all’altro, si nominano, si raccontano diventando, a questo proposito, un buon supporto allo sviluppo del linguaggio dei bambini. Le raccolte sono personali e tenute in posti sicuri non alla portata dei bambini, ma possono essere condivise fra le educatrici, permettendo così un maggior numero di collezioni da utilizzare. Tuttavia vanno tenute con cura e responsabilità nel massimo rispetto reciproco.


Il nome Isole di Intimità si ricollega a un’intimità personale legata sia alla scelta e alla cura del materiale, che a un momento raccolto e intimo dell’educatrice con il gruppo di bambini.


A testimonianza ancora una volta dell’impegno che Goldschmied ha messo all’osservazione, analisi e proposte di soluzioni concrete e fattibili per il lavoro al nido, profuso sempre dall’interno delle strutture e insieme a educatrici, coordinatrici e responsabili istituzionali ove presenti.

L’approccio Persona Chiave

Che cosa significa essere “Persone chiave al nido”? Quali implicazioni nell’organizzazione pratica dei servizi comporta la scelta di questo approccio educativo per lo sviluppo nei primi tre anni di vita dei bambini al nido?


Nel libro “Persone chiave” al nido, frutto di un lungo lavoro di rielaborazione e di riflessione congiunta con Peter Elfer e Dorothy Selleck sulla base della loro esperienza di formatori del personale dei nidi, viene approfondito e sviluppato il concetto di figura di riferimento. Questo ruolo anche in Italia da anni è proposto e diffuso in molti servizi. È certo che ogni educatore nel nido svolge un lavoro importante, in quanto accudisce i bambini nei loro bisogni primari, li osserva, interagisce con loro, si occupa della gestione dell’ambiente, organizza le attività di gioco, parla con i genitori, condivide le scelte nel gruppo di lavoro. Ma la Persona Chiave va oltre: si prende cura di ogni bambino partendo dal suo punto di vista, dai suoi bisogni specifici, dalla sua irripetibile prospettiva personale e da quella dei suoi familiari. “La Persona Chiave è colei per cui ogni bambino è accampato nella mente29 in una modalità il cui nucleo forte è rappresentato dalla possibilità di proporsi come un ancoraggio emotivo e un contenimento, in grado di rassicurare i bambini nel loro percorso esplorativo nei confronti del mondo esterno in modo propulsivo per la loro crescita.


Questo approccio può essere descritto nei termini di una profonda attenzione ai bambini piccolissimi, capace di cogliere il significato dei loro comportamenti, delle loro intenzioni sociali, esplorative e di gioco, ma anche del loro mondo interno e dello stato della loro mente. “La persona-chiave, che si occupa di un piccolo numero di bambini, dovrebbe aiutare ciascuno di essi a trovarsi bene nel servizio e a sviluppare sentimenti di fiducia e di sicurezza nei confronti delle persone intorno, mediante la creazione di un legame affettivo significativo con ogni bambino (e anche con i suoi genitori) ed offrendo una relazione intima individualizzata”30.


Ne deriva una pratica organizzativa in grado di declinare operativamente i risultati della più recente ricerca nell’ambito della neurologia e psicologia clinica che ha evidenziato i bisogni fondamentali in questa fase dello sviluppo precoce, ma dando cittadinanza nel contempo ai vissuti delle educatrici che hanno il compito di sostenere il benessere dei bambini al nido. Le evidenze scientifiche hanno definito in modo incontrovertibile il fatto che la costruzione equilibrata, aperta e flessibile della mente infantile, in modo specifico nei primi tre anni di vita, è in funzione della possibilità di sperimentare relazioni stabili e continuative con alcune figure privilegiate. Il poter godere di modalità relazionali e di accudimento ripetute e prevedibili, rispetto a cui stabilire aspettative sempre più rassicuranti circa la qualità di ogni interazione, è la base dell’organizzazione di un sistema nervoso capace di integrare un numero sempre più ampio di esperienze, di rappresentazioni e di vissuti, pertanto capace di far fronte e di reagire in modo adeguato ai livelli crescenti di stimolazione proposti dal contesto di vita attuale. Il modo in cui i bambini vengono accuditi nei primi anni rappresenta dunque la piattaforma per lo sviluppo della capacità progressiva di forme adattative di auto-regolazione. Queste, a loro volta, favoriscono l’affermarsi della consapevolezza dei propri stati interni, delle proprie emozioni e dei propri pensieri: in una parola, l’esperienza interiore di Sé come persona e la mentalizzazione delle esperienze con le persone e con le cose. “Nel corso dello sviluppo, il processo di auto-regolazione interagisce continuamente con la messa a punto di strategie di rapporto con gli altri, in un movimento reciproco e simultaneo. La capacità del bambino di gestire le proprie emozioni in modo flessibile e adattivo gli permette sia di imparare a riconoscerne l’ampia gamma, ricavandone le informazioni relative a Sé e agli altri, sia di instaurare relazioni di scambio costruttivo con l’ambiente”.31


Per i caregiver professionali, supportare in ogni bambino l’affermarsi della capacità di imparare ad auto-regolare i propri ritmi biologici del tutto soggettivi (l’alternanza dei ritmi sonno-veglia e attività-pausa, l’assunzione del cibo, il pianto ecc.) così come le proprie emozioni, implica il riconoscimento empatico delle profonde differenze inter-individuali e la possibilità di coinvolgere ciascuno (almeno per qualche periodo di tempo nel corso della giornata) in interazioni corporee basate sui tempi interni, diversi per ognuno. La presenza di un adulto sensibile e responsivo è decisiva affinché ogni bambino riesca a imparare a far fronte ai momenti di stress e di frustrazione inevitabili, abbassando il livello di tensione interna e ritrovando un funzionamento tranquillo e aperto alle proposte dell’ambiente circostante. Sappiamo ormai con certezza che ogni essere umano, soprattutto nelle fasi precoci, ha bisogno di trovare persone con cui costruire relazioni di intimità: “l’esperienza di essere corrisposto è insieme ‘riconoscimento’ e ‘incontro’, è il nucleo della relazionalità fondamentale, dell’accessibilità reciproca di menti sensibili per la regolazione congiunta”.32

Organizzare una comunità di accoglienza, seppure utilizzando criteri gestionali ottimali, non è dunque sufficiente: solo le relazioni fortemente individualizzare offrono supporto all’evolvere del pensiero e delle emozioni precoci. L’approccio Persona Chiave permette di impostare nel nido un lavoro che ha l’obiettivo di facilitare la creazione di relazioni di attaccamento sicure tra i bambini e i caregiver, le quali a loro volta costituiscono la base per l’organizzazione della capacità di resilienza. Con le parole di Elinor rappresentano “forse l’inizio di ciò che poi è stato conosciuto come il ‘triangolo di fiducia’ tra genitori, educatori e bambino”.33


La valenza incisiva e decisiva di questo approccio per lo sviluppo infantile è chiaramente dimostrata: per cui gli educatori possono trarne nutrimento e sostegno per la consapevolezza del reale significato del proprio lavoro.34


Ma spesso accade che molti educatori e anche i responsabili delle politiche sociali, pur desiderando offrire ai bambini nei nidi relazioni privilegiate con qualche membro dello staff, di fatto contrappongano una serie di difficoltà nell’attuare questo approccio nella pratica: il timore che il lavoro individuale possa minacciare il lavoro con il gruppo dei bambini; il vivere emozioni dolorose legate all’iniziare a legarsi con un bambino e poi doverlo lasciare; la paura di non riuscire a trattare allo stesso modo tutti i bambini, dedicando uguale attenzione, dimenticando qualcuno o suscitando gelosie; il timore che i bambini maggiormente oggetto di attenzione possano diventare viziati e inoltre che i genitori possano risentirsi. La preoccupazione proposta dai responsabili e dalle educatrici è di conseguenza relativa al fatto che sia più difficile organizzare le sostituzioni del personale, che i bambini e i genitori vogliano solo “la loro educatrice” e che questa possa vivere il “suo” gruppo come proprietà esclusiva, creando tensioni fra le colleghe. Invece Elinor non ha mai parlato del “mio gruppo” ma del “gruppo a me affidato, il gruppo nella mia mente”: non per possederlo, ma per aiutarlo a crescere e ad aprirsi agli altri (adulti e bambini), partendo da una base sicura.


Comunque è fondamentale che queste perplessità e queste resistenze vengano prese in considerazione e affrontate seriamente da parte del gruppo di lavoro, in una dimensione cooperativa che – sola – consente di rendere espliciti quegli impliciti che ogni relazione interpersonale e ogni gruppo di persone comporta, utilizzando anche il supporto eventuale dei coordinatori o dei tecnici incaricati della formazione e della supervisione.


È noto come nel nostro Paese la situazione attuale dei servizi non sia sempre facilitante la pratica professionale (qualità degli ambienti per gli educatori; ferie; opportunità formative; rapporti con i datori di lavoro ecc.). Ma il primo passo che Elinor ha indicato è l’importanza di offrire riconoscimento al fatto che il lavoro stesso di caregiving è comunque denso di emozioni complesse, che devono poter trovare spazio di espressione e di cittadinanza, in quanto fanno parte della esperienza professionale reale e sono comunque ineludibili. Ne deriva la valorizzazione del tempo dedicato alla riflessione sulle pratiche quotidiane nel corso di incontri in cui gli educatori di nido possano sperimentare un tempo per sé in quanto adulti e, possibilmente, la presenza di qualcuno che si prenda cura di loro.


L’insegnamento che ci ha lasciato Elinor è la necessità di mantenere viva l’attenzione sulla qualità dei nidi come servizi per la società civile e come laboratori di ricerca sulle modalità più adeguate per far crescere nel modo migliore le nuove generazioni.


Alcuni nidi, anche in Italia, hanno sperimentato con successo l’accoglienza dei bambini e dei loro genitori utilizzando l’approccio Persona Chiave e ne hanno documentato la soddisfazione professionale, oltre che gli effetti costruttivi sulla propria crescita personale.35

Tre sguardi sul bambino
Tre sguardi sul bambino
Grazia Honegger Fresco, Emanuela Cocever, Barbara Ongari
Viaggio alla scoperta di Maria Montessori, Emmi Pikler ed Elinor Goldschmied.Le prospettive educative di tre grandi pioniere dell’educazione che hanno posto in evidenza il ruolo centrale di ogni bambino nella realizzazione del proprio percorso di crescita. Tre sguardi sul bambino, scritto a sei mani dalle autrici Grazia Honegger Fresco, Emanuela Cocever e Barbara Ongari, intende tracciare sinteticamente la vita e le opere di Maria Montessori, Emmi Pikler ed Elinor Goldschmied, tre grandi pioniere dell’educazione, che hanno posto in evidenza il ruolo centrale di ogni bambino nella realizzazione del proprio percorso di crescita. Le prospettive personali con cui ciascuna propone i fondamenti dell’azione educativa (quali l’osservazione, la qualità dei materiali, le modalità dell’intervento adulto) ne mettono in luce l’importanza e l’attualità anche nella pratica professionale degli educatori e degli insegnanti di oggi. Il nostro compito è quello di dare aiuto quando viene richiesto. Se stiamo attenti a non interferire con le attività del bambino e con i suoi interessi, a meno che non diventino pericolosi, sarà la natura a occuparsi del suo sviluppo.Maria Montessori L’essenziale è che il bambino scopra le cose il più possibile da solo. Se lo aiutiamo a trovare la soluzione a tutti i problemi, lo priviamo di qualcosa di essenziale al suo sviluppo. Un bambino che raggiunge qualcosa attraverso la propria esperienza, acquisisce un sapere di qualità superiore a quella che raggiungerebbe se qualcuno gli offrisse la soluzione.Emmi Pikler Gli adulti spesso pensano che, se non intervengono direttamente nel gioco, sono privati di un ruolo; non si rendono conto che è solo la loro presenza a dare fiducia ai bambini mentre giocano e imparano. Elinor Goldschmied Conosci l’autore Grazia Honegger Fresco (Roma, 6 Gennaio 1929 - Castellanza, 30 Settembre 2020), allieva di Maria Montessori, ha sperimentato a lungo la forza innovativa delle sue proposte nelle maternità, nei nidi, nelle Case dei Bambini e nelle Scuole elementari. Sulla base delle esperienze realizzate con i bambini e i loro genitori, ha dedicato molte delle sue energie alla formazione degli educatori in Italia e all'estero.È stata presidente del Centro Nascita Montessori di Roma dal 1981 al 2003 e ne è stata Presidente onorario. È stata consulente pedagogica di AMITE (Associazioni Montessori Italia Europa) e nel 2008 ha ricevuto il premio UNICEF-dalla parte dei bambini.Ha pubblicato numerosi testi di carattere divulgativo. Emanuela Cocever, già ricercatrice del Dipartimento di Scienze dell’educazione di Bologna, svolge attività di ricerca e formazione nell’ambito dell’Educazione Attiva e della Pedagogia Istituzionale. Con il gruppo interdisciplinare Centotrecentoscritture, si occupa di scrittura ed elaborazione dell’esperienza lavorativa nelle professioni di cura. Barbara Ongari, psicoterapeuta infantile, specialista dell’età evolutiva, svolge attività clinica a favore di bambini e famiglie e di formazione per gli operatori socio-sanitari ed educativi.