CAPITOLO 4

Montessori, Pikler e Goldschmied:
intrecci di sguardi e originalità

Avvertenze di lettura

di Emanuela Cocever


Le tre grandi figure di donna pioniere nell’ambito della cura e dell’educazione dei bambini piccoli che questo libro desidera fare conoscere sono contemporanee, anche se Montessori realizza la parte centrale della sua opera nella prima metà del secolo scorso, mentre Pikler nella seconda metà e Goldschmied inizia la sua attività alla fine degli anni ’30.


Più volte, nel corso dei precedenti capitoli, nel descrivere e argomentare le idee sullo sviluppo e sulle condizioni attraverso le quali gli adulti possono accompagnarlo, sulle pratiche educative, sulle organizzazioni di vita comunitaria dei bambini e degli adulti, è stato scritto che esse condividono molti riferimenti teorici e molte preoccupazioni pratiche. Ma, come ha scritto Canevaro nell’introduzione, ciascuna lo fa a modo proprio.


In questo ultimo capitolo vogliamo approfondire questo modo di guardare alla loro opera. È un’operazione delicata che prende in considerazione, accanto a elementi fortemente caratterizzanti, dettagli e sfumature. A volte, i dettagli e le sfumature sono contingenti, altre volte molto significativi, alcuni sono esplicitamente sottolineati dalle stesse protagoniste nei loro scritti o nelle loro affermazioni, altri ricavabili da parole che ci giungono attraverso traduzioni o anche indirettamente. Un esempio: tutte tre attribuiscono un’importanza fondamentale ai materiali a disposizione dei bambini, perché essi li usino di loro iniziativa nel corso delle loro attività. Ma sappiamo che Montessori ha parlato molto esplicitamente del ruolo che questi occupano nel suo progetto educativo, si è preoccupata delle parole che usava, sostituendo per esempio il termine ‘materiale didattico’ con ‘materiale sensoriale’, mentre Pikler parla di ‘giochi o ‘giocattoli’.1 A sua volta Goldschmied esplicitamente preferisce non offrire ai bambini nei primi tre anni giochi o giocattoli strutturati e dichiara chiaramente invece l’importanza di proporre una vasta gamma di materiali naturali che ne stimolino un utilizzo soggettivo e creativo.


Proponendo alcune considerazioni che diano contenuto a quanto ci pare condiviso fra queste tre pioniere e a quanto le caratterizza, pur nella loro grande diversità, pensiamo di fare cosa utile a chi desidera conoscere e utilizzare le loro esperienze, dato che le elaborazioni fedeli al pensiero originale lo arricchiscono e aiutano noi, che veniamo dopo, a realizzarle nei nostri contesti.


Ma la proposta richiede cautela, sia da parte di chi scrive, che da parte di chi legge: nello scritto che segue sono messi a fuoco alcuni aspetti dei temi trattati, quelli salienti a una conoscenza sedimentata delle esperienze, ma comunque parziale (non si tratta di una ricerca comparativa) e gli aspetti presi in considerazione non esauriscono quanto ciascuna ha elaborato e scritto nel corso del tempo.

Alla ricerca di fili conduttori

di Barbara Ongari

Ci si trova di fronte a tre grandi personalità le quali, pur nella assoluta originalità dei propri rispettivi percorsi formativi e lavorativi e pur nella irripetibilità della vicenda personale e umana di ciascuna, appaiono portatrici di alcuni messaggi che accomunano le loro sensibilità pedagogiche relativamente ai bisogni dei bambini nelle età precoci e alle modalità educative più adeguate a farvi fronte.


Si cercherà di mettere in evidenza alcuni spunti tematici che possono essere rintracciati nelle concezioni che ciascuna di esse, in modo indipendente, ha messo a punto circa il ruolo educativo degli adulti.


Quale sfondo storico-culturale alle riflessioni che seguiranno, mi pare possa opportunamente essere proposta una premessa più generale relativa ad alcuni filoni tematici innovativi nella concezione della salute e della malattia, che avevano iniziato a diffondersi in Europa verso la fine dell’Ottocento, in un clima profondamente trasformativo che sicuramente può avere influenzato, almeno in parte, il pensiero di queste tre grandi figure di professioniste in ambito educativo. Vale la pena ricordare, in proposito, che Montessori e Pikler erano laureate in medicina e che Goldschmied aveva ottenuto un diploma sanitario quale assistente sociale psichiatrica. Tutte tre nella loro attività hanno fortemente sottolineato l’importanza di cogliere e potenziare le possibili connessioni tra l’ambito della salute fisica e mentale con quello dell’educazione.


In questo inquadramento generale, si può anzitutto far riferimento ad alcuni spunti metodologici che – soprattutto il pensiero psicoanalitico – aveva messo a punto nella pratica clinica e che gli studiosi di psicologia infantile avevano, in parte, fatto propri. In particolare l’idea che normalità e patologia non siano due realtà esistenziali radicalmente diverse, biologicamente fondate e avvicinabili tramite discipline rigorosamente differenziate. Al contrario iniziava ad affermarsi l’ipotesi che esse potessero essere considerate quali polarità di un continuum ideale, che consentisse di studiare la normalità a partire dalla atipicità e che, viceversa, la conoscenza di quest’ultima permettesse di cogliere aspetti dello sviluppo tipico che tendono talvolta a passare inosservati, soprattutto nelle età precoci. Secondariamente, in armonia con il diffondersi di orientamenti di pensiero di tipo positivista che stavano cambiando i presupposti e le pratiche di molte scienze a partire dalla medicina, veniva sempre più affermata l’importanza di privilegiare il metodo dell’osservazione diretta dei comportamenti, mettendo in secondo piano approcci più tradizionali (quali, per esempio, il metodo ricostruttivo).

Contesti di privazione e sofferenza: laboratori di conoscenza e di benessere

di Emanuela Cocever

Fra i contenuti comuni che i progetti educativi di Montessori, Goldschmied e Pikler contengono, alcuni sono più volte espressi nelle loro parole e nei loro scritti, per esempio la necessità di accogliere i bambini nel mondo senza impedire loro di trasformare il mondo, la convinzione che cambiamento e apprendimento non siano fenomeni che si decretano dall’esterno, ma ogni soggetto deve assumerne l’iniziativa. Altri appaiono dalle loro pratiche: fra questi la determinazione ad affrontare le difficoltà e l’emarginazione nella quale vivevano i bambini di cui si sono occupate senza ricorrere all’esclusione, facendo dei problemi un laboratorio di conoscenza nel quale immaginare un’educazione migliore per tutti.


Tutte e tre queste pioniere dell’educazione hanno elaborato il nucleo delle loro idee e delle loro pratiche di fronte a bambini in situazioni di grave disagio individuale e/o sociale: Montessori ha fatto, agli inizi del ’900, una scelta personale originale in tal senso, Goldschmied e Pikler si sono trovate coinvolte in vicende storiche – la guerra e l’immediato dopoguerra – nelle quali la scelta era quasi obbligata e che però, nel suo concretizzarsi, non è stata meno originale.


Tutte motivano la loro iniziativa con la constatazione che si può fare di più e meglio per i soggetti cui si interessano: che si tratti dei figli di famiglie disgregate dalla guerra, di bambini di quartieri degradati di grandi città, di bambini privati della loro madre, Montessori, Goldschmied e Pikler, hanno in comune il fatto di non fermarsi al rispetto della giustizia, ma assumono, come regola del loro agire l’attenzione al bisogno e l’applicazione a trovare modi capaci di rispondervi. Così facendo realizzano con originalità e vigore (vigore non di un momento ma di tutta una vita) un atteggiamento che, nei più recenti studi, soprattutto angloamericani e francesi viene definito come care, l’atteggiamento cioè, che considera il non lasciare gli altri in situazione di bisogno, una ingiunzione etica alla pari con il non agire ingiustamente verso gli altri.2 Da questa posizione è derivata, per le tre donne di cui ci siamo occupate la capacità di leggere i bisogni anche fuori dalle categorie e griglie istituzionali dominanti, la capacità di rispondervi inventando nuove forme d’azione cercando e trovando dispositivi e risorse capaci di realizzare gli obiettivi auspicati.

Continuità piuttosto che categorie

Ancora nel corso dei suoi studi, Montessori incrocia, dagli anni ’90 dell’800, l’attività scientifica con un impegno sociale, femminista. Intendeva mettere le sue competenze mediche sulla maternità, la psichiatria infantile e la pediatria al servizio delle donne, per contribuire alla loro emancipazione, ma anche perché le sembrava necessario che la società riconoscesse il valore sociale della maternità. Quando inizia a occuparsi di bambini con deficit intellettivo o con problemi psichiatrici orienta la ricerca e l’attività per favorirne la crescita non tanto attraverso azioni mediche – ecco la sua originalità – ma con interventi educativi, anche didattici, attentamente adattati e combinati. Fa riferimento alle esperienze di J. Itard ed E. Séguin. Jean Gaspard Itard, è un medico francese che, circa un secolo prima aveva chiesto alle autorità – allora ministro degli interni era Lucien Bonaparte – di avere in affidamento un ragazzino di circa 10 anni trovato nei boschi dell’Aveyron, apparentemente vissuto allo stato selvaggio. Il fenomeno dell’abbandono di bambini in natura non era, all’epoca, eccezionale come può apparire a noi oggi: quelli di loro che utilizzavano parole venivano ricoverati negli asili per ‘idioti’, quelli che non parlavano nell’istituto dei Sordomuti a Parigi e lì passavano il resto della loro vita. Itard faceva parte della Societé des observateurs des hommes, una associazione di medici e pensatori illuministi che riflettevano appassionatamente su quello che noi oggi chiameremmo ‘l’innato e l’acquisito’: il ragazzino – che venne chiamato Victor – non sapeva comportarsi come richiesto in società, parlare, giocare perché era stato abbandonato o era stato abbandonato perché deficiente? Itard ottenne l’affido del ragazzo che accolse in casa sua. Victor, Itard e la sua governante, M.me Guérin vissero per diversi anni una avventura appassionante nel corso della quale M.me Guérin introdusse con successo il ragazzo alle abitudini di vita quotidiana, cura personale, scambi, mentre il dottore cercava di svilupparne le abilità intellettive: parlare, leggere, realizzare semplici operazioni logiche. Per lavorare con Victor, Itard su uno sfondo teorico vicino al sensismo di Condillac, mise a punto un insieme di oggetti reali, di uso quotidiano e materiali didattici, raffigurazioni degli oggetti e lettere di legno, di dimensioni tali da essere usate dalle mani del bambino, in numerose attività di associazione, composizione. Eduard Séguin fu allievo di Itard, portò avanti e approfondì il lavoro del suo maestro, in particolare quanto all’utilizzo di materiali per l’educazione e l’istruzione di bambini con difficoltà di apprendimento e problemi mentali. Si trasferì negli Stati Uniti, dove la sua attività si sviluppò con successo.3


Anche Montessori trovò la sua esperienza coi bambini disabili efficace e, quando l’Istituto Romano Beni Stabili di Roma le chiese di creare un luogo di accoglienza educativa per i bambini delle famiglie sottoproletarie che abitavano i complessi delle case popolari, colse l’occasione di sperimentare percorsi di apprendimento per bambini costretti a vite misere e disordinate, ma senza particolari problemi di apprendimento. Era convinta che i materiali e il metodo che avevano dato buoni risultati in bambini con piccole o grandi difficoltà di sviluppo, sarebbero stati vantaggiosi per tutti bambini. A partire da questa previsione o scommessa totalmente riuscita, nascono le Case dei bambini, si sviluppa il Metodo e la innovazione educativa e pedagogica che esso comporta.


Per tutta la vita, Montessori pratica un interesse di ricerca condotta sul filo dell’idea che, con parole di oggi, potremmo formulare in questo modo: l’intelligenza non è una sola e il suo sviluppo può percorrere strade diverse, non la stessa per tutti i bambini, né avere la stessa meta. Imparare si può in molti modi ed è fondamentale che chi si occupa di educare o di insegnare, lo faccia a partire da una scommessa positiva sul suo interlocutore, preoccupandosi di creare, attorno a lui o lei, un ambiente ricco di risorse adatte al suo qui-ed-ora, perché intraprendere il percorso gli sia desiderabile e lo faccia sentire, fin da subito, capace. Piuttosto che la dicotomia fra la marginalità che crea un deficit intellettivo e il deficit intellettivo che crea marginalità, Montessori guarda allo sviluppo dei bambini come a un’unica linea evolutiva e auspica che chi sta attorno a qualunque bambino sappia rendere significativo quello che incontra.

Se vuoi aiutare un bambino, aiuta chi si occupa di lui4

Gli intensi rapporti di E. Goldschmied con i disagi dell’infanzia che incontra comportano un atteggiamento costante e iniziative operative che variano col variare dei contesti. La responsabilità nei confronti dei bambini che condizioni storiche e sociali privano del benessere necessario a crescere. La guerra che disgrega le famiglie, ma soprattutto la povertà che paralizza, nelle famiglie, la possibilità di pensare e realizzare la cura dei bambini sono l’oggetto di una militanza politica che la accompagna per tutta la vita; guida le sue scelte di formazione, la scelta delle relazioni personali e professionali, a Londra, a Trieste, a Milano, di nuovo a Londra e poi nella costellazione di servizi per la prima infanzia che, in Inghilterra e in Italia le chiedono di accompagnarli. Nel corso degli anni il suo lavoro assume aspetti diversi: dalla presa in carico della vita quotidiana di bambini accolti in residenze alternative alla famiglia, alla organizzazione di una rete di sevizi. Ma questi impegni a carattere istituzionale sono sempre accompagnati dalla stessa preoccupazione per la vita del bambino, che si costruisce tanto grazie a una spinta interna quanto grazie all’ambiente esterno: Goldschmied è convinta che il benessere dei bambini sia responsabilità di politica sociale e di politica tout court e altrettanto è convinta che, in ognuno di loro, la voglia di crescere, la possibilità di stare al mondo come soggetto autonomo e responsabile, dipendono dalla possibilità di sperimentare attraverso il gioco, attività e iniziativa. Questa è una possibilità che un adulto può metter loro a disposizione attraverso alcuni accorgimenti, quale che sia il luogo in cui cresce, famiglia o servizio, quali che siano le risorse a disposizione. All’adulto che se ne cura spetta creare un ambiente accogliente e interessante, creare cioè le condizioni perché un bambino faccia. Le condizioni sono principalmente due: la sicurezza affettiva che ogni bambino può sperimentare grazie alla relazione empatica con una figura di cura e la possibilità di giocare grazie alla disponibilità di materiali che rispondono alla sua voglia di esplorare coi sensi e con la mente. Creare un ambiente di vita che realizzasse le condizioni ricordate è stata la preoccupazione etica e professionale di Goldschmied nel corso di tutta la sua vita, declinata in diverse sfumature nella sua attività formativa in strutture residenziali e nidi.


Quello che – ai miei occhi – più merita di essere sottolineato, nell’opera di Goldschmied, circa il suo modo di farsi carico dei bambini (e delle loro famiglie) in difficoltà, è come ha aiutato gli adulti a occuparsene. Un modo di condividere la sua competenza decisamente diverso da quello praticato da Montessori e Pikler, un modo che non consisteva nel dare risposte a genitori o educatrici, ma nel cercarle assieme a loro. Era capace di proporre e portare a buon fine una ricerca comune, in un andamento che definirei cooperativo (il termine è mio). C’è un bambino difficile, un bambino in difficoltà? Siamo noi adulte in difficoltà? Parliamone. Goldschmied era capace di creare una situazione di parola nella quale il problema e la conoscenza del problema hanno lo stesso valore per individuare la mossa che – come diceva F. Dolto – permette di spostare la puntina del disco dal solco in cui si è incagliata.

Qualcosa di buono diverso dalla famiglia

Pikler e Goldschmied, a un capo e all’altro dell’Europa in guerra, entrambe impegnate in quello che oggi chiamiamo welfare, si trovano a fare i conti con condizioni di vita dell’infanzia in parte analoghe. I fili del loro rapporto con le difficoltà dell’infanzia si intrecciano, a volte aderiscono l’uno all’altro, altre divergono.


Prima che le pesanti nuvole della guerra appaiano sull’Europa, Emmi Pikler, vive a Vienna la vita di una studentessa diligente, ben disposta a approfittare della ricchezza di vita culturale che, negli anni ’20 e i primi anni ’30, la città offre. Allora, Pikler non pensa – per quello che ne sappiamo – né si preoccupa in particolare di bambini in difficoltà, ma, paradossalmente sono loro che si fanno notare da lei. L’ospedale in cui fa pratica, si trova a essere interfaccia fra due quartieri molto diversi: uno abitato dalla grande borghesia, l’altro da proletariato e sottoproletariato; la capacità dei bambini che arrivano in pediatria dai quartieri poveri, di cadere meno e meglio, quindi di farsi meno male quando giocano all’aperto, rispetto a quella dei bambini che nei giardini sono accompagnati da governanti e sorvegliati colpisce medici e infermieri. Pikler, in seguito, farà risalire a quella esperienza, l’idea del vantaggio che comporta in termini di armonia e competenza motoria, per un bambino che cresce, potersi muovere liberamente, di propria iniziativa, senza ricevere consigli.


Questa intuizione si approfondisce e, arricchita di considerazioni sulle connessioni fra movimento, attività, pensiero, diventa la linea che guida la pratica professionale di Pikler pediatra – una pratica solo privata, per le restrizioni imposte agli ebrei dal governo Horty – fra la fine degli anni ’30 e la metà degli anni ’40. In quello stesso periodo Emmi Pikler ha una attività militante vicina al partito comunista, allora movimento clandestino di opposizione al governo, niente che riguardi in particolare l’infanzia.


Il suo impegno torna a concentrarsi sull’infanzia nell’immediato dopoguerra, quando riceve dal Ministero della Sanità l’incarico di dirigere prima una residenza per bambini figli di genitori morti o scomparsi in guerra, Casa Rakosi, e poi la residenza per bambini orfani o allontanati dalla famiglia, che diventerà Lòczy. Un incarico pubblico, istituzionale con cui il nuovo governo ungherese affrontava il grave problema con cui tutte le nazioni europee si sono confrontate nel dopoguerra, quello di bambini orfani, o temporaneamente costretti a vivere lontani dalle famiglie. La posizione del governo ungherese era alimentata, come quella degli altri dell’Est Europa, da una prospettiva ideologica che faceva affermare che “in un regime socialista non ci sono orfani”. Una prospettiva forte di politica sociale, la cui concretizzazione, nei risvolti psicologici e pedagogici e nella vita quotidiana dei bambini, venne affidata a Pikler.


Come accennato nella biografia, la scelta di Pikler di adoperarsi perché i bambini che vivono in una collettività potessero crescere in buona salute, autonomi, responsabili, creativi, come i bambini che crescono in famiglia, è stata una scelta minoritaria; altre figure di spicco impegnate in questo campo, si adoperavano perché ai bambini ‘senza famiglia’ ne venisse proposta una sostitutiva o alternativa. Studiose e ricercatrici come Anna Freud in Inghilterra, Jeanne Aubry in Francia, ma anche cittadini innovatori, come, in Italia, Don Zeno e Nomadelfia operarono allora in quella direzione.


Al riconoscimento che tale direzione era destinata ad affermarsi fino a diventare, oggi, quasi esclusiva, voglio accostarne un altro: per molto tempo, subito dopo la guerra e non solo, fino alla fine degli anni cinquanta, i bambini senza famiglia hanno continuato a essere accolti in istituti, allora chiamati brefotrofi, dove vivevano vite difficili e spesso trascurate (anche Elinor Goldschmied ha lavorato, nella prima metà degli anni ’50, nel brefotrofio di Trieste, realizzando una significativa formazione del personale di cura, centrata sulla trasmissione del valore dell’osservazione e del gioco libero). Mentre la vita dei bambini, a Lòczy, era una vita di benessere. Ne testimonia una ricerca catamnestica realizzata dall’OMS nel 1972 su bambini che avevano passato i primi tre anni di vita o parte di essi, nell’istituto ungherese.

Diversamente da quanto succede per Montessori e Goldschmied, quello che fa di Pikler un punto di riferimento per chi si occupa di prima infanzia, è un’esperienza istituzionale: Lòczy e i bambini – mediamente 35 – che vi hanno vissuto, assieme a un gruppo di operatori, in successione, dal 1946 ai primi anni ’90.


Ho già scritto che le idee guida di Pikler sullo sviluppo del bambino e la cura attraversano, senza soluzione di continuità, la sua esperienza personale, professionale privata e la realizzazione di una struttura istituzionale, non modellata sulla famiglia. Ma il modo di metterle in pratica, attraverso i passaggi, cambia e molto. Per Pikler, un bambino che cresce ha bisogno delle stesse cose, che cresca in famiglia o in un servizio, ma il modo in cui i suoi bisogni possono essere soddisfatti da una mamma o da un’educatrice sono diversi.“Una mamma cura il suo bambino perché gli vuole bene, una educatrice vuol bene a un bambino perché lo cura” (S. Lebovici).


Come un’educatrice diventa professionista della cura, secondo Pikler, è indicato nella parte del testo dedicata alle biografie. Un aspetto che merita attenzione in questo capitolo, dove il fuoco è posto sull’azione di queste tre grandi pioniere nei confronti dei bambini svantaggiati, perché la sua idea – divergente rispetto ad altre contemporanee – su come rispondere ai bisogni di bambini che crescono lontani dalla famiglia, è stata una scelta di successo, per i bambini a lei affidati, se accostata a quella di altre drammatiche esperienze di vita collettiva di bambini.


Ma il punto che voglio trattare è un altro ed è il modo in cui Pikler ha diretto l’Istituto.

Lòczy, negli anni della sua piena attività era una collettività di più di 70 persone. Circa 30 bambini e più di 40 adulti: educatrici, psicopedagogiste, personale sanitario, ragionieri, lavandaie, cuoche, un giardiniere (l’unico uomo dell’équipe).5 Tenere il timone di questo insieme non è impresa da poco. E il benessere dei bambini, lo sguardo sempre più affollato e critico di operatori e ricercatori in visita, testimonia una qualità che non veniva meno.6 Certamente, come Montessori e Goldschmied, anche Pikler ha saputo circondarsi di collaboratrici con le quali ha intrattenuto rapporti di stima, apprezzamento (affetto), ma i dati di relazione non ci aiutano a spiegare l’esperienza in modo da renderla trasmissibile.


Quello che Pikler chiedeva alle educatrici non era facile, per niente spontaneo, la convinzione si costruiva attraverso una specie di impalcatura, un accompagnamento all’operato della singola educatrice che la sostenesse fino a quando, vedendo i bambini che crescono bene grazie alle sue cure, non ne avesse più bisogno. Questo accompagnamento era un sistema di scambi imbricati l’uno nell’altro:

  • ogni educatrice lavora secondo uno scenario che le è proposto. Lavora con tre colleghe in un gruppo di 6 – 8 bambini: nel corso del suo lavoro osserva, in particolare due di loro, secondo una traccia costruita per far sì che si tratti di scrivere quello che il bambino fa (non quello che non fa);
  • ogni settimana ha un incontro con le tre colleghe, nel quale si scambiano le osservazioni e ne discutono;
  • ogni mese legge e discute le osservazioni con una pedagogista
  • una volta ogni tre mesi ne discute con la direttrice.
  • A loro volta, le pedagogiste hanno incontri regolari fra di loro e con la direttrice.

Una serie ricorrente di approfondimenti e di circolazione delle informazioni, nelle quali si discute sempre di un bambino.

Il fare degli educatori

di Barbara Ongari

Maria Montessori: favorire il fare da solo

Il suo approccio all’educazione dell’infanzia con sviluppo sia normale che atipico risente certamente della nuova impostazione positivista che all’epoca si andava sempre più affermando nelle facoltà scientifiche e nella pratica della medicina. Per conoscere qualunque fenomeno, in particolare ciò che attiene all’essere umano, occorre partire dall’osservazione costante della realtà e dedicare una cura continua alla raccolta dei dati in tal modo osservati. Maria Montessori fin dalla giovinezza è stata una convinta sostenitrice del metodo dell’osservazione attenta e minuziosa, il quale – solo – permette di superare quell’atteggiamento, comunemente diffuso, di “cecità” nei confronti dell’infanzia.7 Contro di esso la sua lotta è stata sempre attivamente costante.

In qualità di assistente alla cattedra di psichiatria a Roma, ella aveva lavorato nel manicomio dove erano ricoverati ragazzini oligofrenici in età scolare, definiti “idioti”. Oltre alle difficoltà di apprendimento, ella aveva avuto modo anche di rilevare la frequenza dei litigi che avvenivano tra di loro: analizzando i loro comportamenti e il contesto ambientale, era giunta a concludere che tali conflitti dipendevano dal fatto che essi non avevano nulla da fare con le mani e quindi la loro energia si dissipava in questo modo socialmente inadeguato. Pertanto, nel corso di due anni, ne aveva intrapreso la rieducazione mettendo a loro disposizione materiali da manipolare e organizzare, sulle orme dell’esperienza fortemente incoraggiante svolta in Francia dai medici Itard e Séguin,8 che ella aveva avuto modo di conoscere e condividere, ritenendo che presupposto di fondo di qualunque intervento educativo sia il rispetto dovuto a ogni bambino, considerato il costruttore della propria personalità. I principi da essi proposti per una “nuova educazione” e il successo ottenuto avevano convinto Montessori della necessità di combattere attivamente quello che lei considerava “lo spreco dell’infanzia”. Da qui nasce la sua intuizione (“l’idea di fondo” come amava definirla) che i loro metodi, rivelatisi ben funzionanti nell’ambito della pedagogia riparatrice, potessero in realtà rappresentare principi generali per sviluppare la personalità in modo sorprendente in tutti i domini dello sviluppo, negli ambiti educativi normali. Tali principi infatti, oltre a migliorare le prestazioni nei casi di grave deficienza, sono in grado di elevare le competenze dei bambini normali, in quanto evidenziano il valore cruciale, ai fini dello sviluppo cognitivo e simbolico, di un’educazione dei cinque sensi. Questa deve essere attuata non tramite lezioni verbali, che Montessori giudica “assurde”,9 bensì tramite esperienze fatte direttamente dai bambini. La premessa è che occorre avere fiducia nelle potenzialità in essi presenti e pronte a essere attivate. È proprio sulla base di tali esperienze sensoriali che ogni bambino arriva alla possibilità di costruire i concetti che gli permettono di organizzare progressivamente la propria conoscenza della realtà esterna. Nel volume Autoeducazione (1916), all’inizio del terzo capitolo, ella riferisce di aver scoperto, tramite l’osservazione, la capacità dei bambini piccoli di concentrarsi e di polarizzare l’attenzione per tempi lunghi, che in precedenza non era stata rilevata da nessuno e che tuttora era scarsamente considerata come basilare. “Per me è stato l’inizio di tutto”, scrive. Testimonia inoltre come la realizzazione delle “Case dei Bambini”, quali ambiti di vita educativi per la prima infanzia, fosse derivata dalle sue esperienze di osservazione e cura di bambini anormali (1950).


Nel percorso che porta ogni bambino a conoscere la realtà fisica e sociale sulla base di uno stile soggettivo, il ruolo dell’educatore o dell’insegnante è quello di proporsi in uno stato di attenzione partecipe, evitando qualunque intervento diretto e qualunque giudizio.


Sotto questo aspetto, va ricordato come continua sia stata la denuncia di Montessori contro strumenti educativi da lei giudicati totalmente inadeguati e controproducenti: lodi, minacce, punizioni fisiche e verbali. All’adulto educatore spetta il compito di “gettare un raggio di luce e passare oltre, non opprimere con le parole”, garantendo a ciascuno la possibilità di scegliere liberamente i materiali che ne attirano l’attenzione e l’interesse e favorendone la libera sperimentazione.


Sono potenti le affermazioni con cui ella traccia il confine tra essere educatore (insegnando a ciascuno a fare da solo) e l’assumere, al contrario, un atteggiamento “servile”, sostituendosi al bambino nel portare a termine un’azione o un progetto. Una modalità, quest’ultima, che spesso viene considerata dagli adulti come più facile e sbrigativa, ma che invece si rivela profondamente dannosa sul piano psicologico, nella misura in cui induce pigrizia e fa crescere nella mente del bambino l’idea della propria impotenza. Il rischio è grande: quanto più l’essere umano si sente incapace, tanto più sviluppa emozioni rabbiose.

Il rispetto dovuto a ogni bambino passa necessariamente per Maria Montessori attraverso un atteggiamento continuo di rispetto del suo corpo infantile e delle funzioni preziose a esso connesse, evitando dunque qualunque tipo di intrusione: sia nella forma di violenza fisica (assai diffusa nell’educazione del tempo!) sia anche di effusioni (baci e carezze) non richieste. Lo stare fisicamente accanto al bambino in modo costruttivo si caratterizza per una attenzione a quanto ognuno sta facendo, con uno sguardo che offre fiducia e contenimento, in una posizione di vicinanza rispettosa dei confini dell’essere corporeo dell’altro.


Questa modalità di proporre una presenza fisica empatica, ma attenta a non invadere lo spazio infantile, è presente anche nell’approccio educativo di Pikler e Goldschmied, in un ideale filo di continuità dei valori che ispirano l’atto educativo per ciascuna delle tre.


Per quanto riguarda Emmi Pikler, il riconoscimento e l’attenzione calorosa verso ogni bambino nei momenti dell’accudimento fisico, sono documentati in modo esemplare nei filmati girati a Lòczy: l’educatrice anticipa verbalmente a voce le piccole pratiche di accudimento quotidiano, che verranno svolte “in collaborazione”, attendendo che il piccolo sia ben sveglio e attento, disponibile a farsi toccare per essere lavato, vestito ecc. Si può citare, a titolo di esempio, una breve sequenza filmica in cui l’educatrice mostra a un bimbo seduto due magliette di diverso colore e gli chiede quale preferisca, attende di cogliere la direzione dello sguardo del piccolo per fargli delicatamente indossare la maglietta prescelta.


Infine va sottolineato come Montessori, Pikler e Goldschmied abbiano considerato come cruciale nella professionalità dell’educatore la necessità di evitare qualunque parola di gergo o di soprannome riferita ai bambini o ai loro genitori (“principessa, monellaccio” ecc.) Il rispetto per i bambini in quanto persone si esprime anche attraverso le modalità verbali con cui ci si rivolge a ciascuno. A questo proposito occorre lamentare come questo principio-cardine della professionalità dell’educatore non sempre venga ottemperato nella pratica anche attuale dei servizi: troppe volte accade che genitori e bambini vengono apostrofati o etichettati in modo davvero poco professionale!


Montessori, Pikler e Goldschmied hanno compreso bene che queste azioni apparentemente semplici, richiedono invece un auto-monitoraggio e una formazione continui.


Per Maria Montessori dunque lo sviluppo cognitivo si basa sull’esperienza sensoriale: il che l’ha indotta a dedicare un impegno fervoroso per far fabbricare una gamma ricchissima di materiale didattico, appositamente creato, di cui dotare le strutture prescolastiche e scolastiche. In particolare, tutto il materiale sensoriale derivante dalla natura. Ella ne parla come del “libro base” per ogni conoscenza scientifica, soprattutto nel periodo dai 3 ai 6 anni, quando l’intrinseca curiosità e la spinta alla conoscenza presente nei bambini sono al massimo della potenzialità. Per attrarre il loro sguardo e supportarne la motivazione, i materiali costruiti dagli esseri umani devono essere attraenti, come tutto ciò che si vede in natura (colori, dettagli, adorni) e in grado di rispondere all’intimo desiderio di rendersene padrone. Montessori entra nel dettaglio delle caratteristiche che gli oggetti debbono possedere:

  • essere molto semplici e finalizzati
  • mettere in rilievo una qualità alla volta (grandezza, lunghezza, suono, colore)
  • in ogni serie vi devono essere pochi oggetti che permettano di svolgere le attività predilette a questa età, quali appaiare e graduare (es.10 incastri cilindrici 10 cubi e prismi e aste, 6 incastri piani, 8 campanelli ecc.)
  • essere privi di decorazioni superflue
  • arnesi di vita comune in misura ridotta, ma curati e graziosi, per le attività quotidiane (spazzare, pulire, lavare, stirare ecc.)
  • contenere in sé il controllo dell’errore, rispetto a cui “ogni aiuto inutile è un ostacolo allo sviluppo”.

Il successo nell’uso di tali oggetti è la precisione del gesto e l’esattezza dell’esecuzione che il bambino ne fa: attraverso di essa passa la presa di consapevolezza di sé e delle proprie capacità (“il sapere è un potere che eleva la coscienza”) e permette di riparare da soli eventuali errori nell’assemblaggio, senza intervento adulto. L’attenzione e il rispetto per la bellezza suggestiva dei materiali e delle loro potenzialità comportano di conseguenza, nella prospettiva di Montessori, la regola che ogni oggetto debba essere collocato in uno spazio proprio, ben visibile e a disposizione dell’iniziativa di ogni singolo bambino.


La dimensione di “garbo ed eleganza nell’uso degli oggetti”, di cui la Montessori è stata una fervida sostenitrice e la valorizzazione di tutti i materiali presenti in natura rappresentano un aspetto che accomuna il suo pensiero a quello di Elinor Goldschmied, pur se si notano accenti specifici che rendono unici i rispettivi approcci. Anzitutto la loro attenzione professionale si è concentrata su fasi evolutive diverse, dal momento che la Goldschmied ha dedicato le sue proposte di attività prevalentemente, anche se non esclusivamente, ai bambini nei primissimi mesi e anni di vita, mentre Montessori ha studiato più nel dettaglio l’età prescolare e scolare. Inoltre Goldschmied in tutti gli scritti e in tutti gli interventi di formazione ha insistito sull’importanza che i materiali siano tra loro differenziati e presentino caratteristiche di varietà, in modo da attirare la curiosità dei bambini molto piccoli e soddisfare il loro desiderio di manipolarli.


Entrambe sono state comunque sempre animate dalla profonda convinzione che sia la qualità intrinseca dei materiali a motivare ogni bambino rispetto a tutte le possibili strategie di scoperta e di utilizzo. Ciascuno è spinto a impegnarsi nell’esplorazione attiva delle cose sulla base della propria libera scelta e delle proprie personali preferenze, mettendo in campo modalità di azione e ritmi individuali. L’adulto educatore ha il compito di dedicarsi a una costante osservazione accurata, mai invasiva, nel rispetto dei tempi soggettivi di ciascuno, con uno sguardo empatico alle emozioni di diversa polarità che accompagnano in ogni piccola persona il percorso di esplorazione della realtà (entusiasmo, frustrazione, gioia, ansia ecc.).


Un’altra fondamentale regola sociale sostenuta da Montessori è relativa al fatto che occorre abituare i bambini a una “attesa paziente” che li sostenga nella determinazione a lavorare con il materiale prescelto, quando questo si trova nelle mani di un compagno: evitando quindi di cercare di impadronirsene e aspettando il proprio turno.


Su questo punto la posizione di Elinor Goldschmied, che pure condivide l’importanza di favorire nel gruppo dei bambini atteggiamenti di rispetto, è leggermente diversa, perché deriva dalla constatazione evolutiva che nelle primissime età della vita non sia ancora sviluppata la capacità di attendere. Pertanto Goldschmied ritiene che spetti all’adulto organizzare l’ambiente dotandolo di una quantità sufficiente di materiali da gioco, per fare in modo che ogni bambino possa dedicarsi alla loro manipolazione e alla scoperta delle loro qualità sensoriali, senza creare difficoltà agli altri. Ella ha documentato nei suoi scritti e diffuso con costanza nel corso degli incontri di formazione la necessità di organizzare i materiali in modo selettivo e ordinato nello spazio, sistemando la stanza in maniera piacevole per sostenere nel corso di ogni giornata il desiderio di esplorazione dei bambini piccoli, evitando così che l’ambiente educativo anche solo temporaneamente si presenti come “un campo di battaglia”. Con il crescere dell’età dei bambini l’educatore può sollecitare la loro disponibilità a collaborare al riordino dei materiali, sempre nel rispetto della loro individualità, sulla base dell’esempio ed evitando inutili richieste verbali. I filmati sul Gioco Euristico mostrano in modo chiaro ed esaustivo le modalità con cui l’educatore, stando in silenzio e utilizzando una gestualità lenta e tranquilla invita i bambini a partecipare al riordino dei materiali contenuti nelle sacche.10

Emmi Pikler e la ricerca della giusta distanza emotiva

di Emanuela Cocever

In un servizio che lavora ispirandosi a Emmi Pikler, cosa ci si aspetta da una educatrice? La risposta è legata ad alcune considerazioni già apparse in altre parti del testo, sui bisogni dei bambini: autonomia e socializzazione si costruiscono attraverso la soddisfazione della sicurezza affettiva. I bambini che crescono in una collettività hanno gli stessi bisogni di quelli che crescono in famiglia. In particolare, la possibilità di sperimentare la propria capacità di fare, di prendere iniziative, di essere liberi nel movimento e nel gioco sono in funzione dell’esperienza della fiducia che nasce dall’essere interlocutori attivi di una relazione attenta e costante nel tempo.


Pikler è interessata ai diversi modi in cui una mamma o una educatrice li soddisfano. Entrambe costruiscono una relazione empatica con il bambino, ma gli ‘ingredienti’ della relazione sono disposti in un ordine diverso: una mamma sente con il bambino, è con il bambino, fa con il bambino, mentre un’educatrice fa con il bambino, è con lui e sente con lui. La mamma e il suo bambino sono parte di una storia familiare che esiste nel tempo e nello spazio, prima e dopo di loro; una educatrice inizia e finisce una relazione che sta all’interno di limiti precisi di tempo e di spazio. In questa prospettiva, il ruolo della mamma e di una educatrice che si cura di un bambino piccolo che cresce, per quanto riguarda la soddisfazione della libertà di movimento e dell’autonomia, non sono (quasi) diversi l’uno dall’altro: occorre mettere a disposizione del bambino uno spazio e dei materiali che gli permettano di prendere iniziative, non interferire con queste, ma accompagnarle con attenzione costante e fare in modo che il bambino sia consapevole di questa attenzione.


Le cose sono diverse per quanto attiene la costruzione di una relazione che crei sicurezza. Secondo Emmi Pikler, per una professionista i gesti costruiscono la relazione educativa, sono la mediazione attraverso cui l’intenzione dell’adulto arriva a un bambino, i momenti delle cure del corpo sono al centro del suo impegno. Compito dell’adulto è aiutarlo a soddisfare i suoi bisogni, confermarlo nell’incontro con sé.


Le cure del corpo non sono (solo) un’operazione funzionale, sono la base del sentimento di sicurezza e del sano sviluppo della personalità del bambino. Non sono (solo) un’attività comune fra due partner, ma una complessa unità psicologica. In particolare, quando un bambino vive all’interno di una collettività, i momenti di cura sono quelli in cui si incontra, intimamente e ricorrentemente, con l’educatrice e con sé stesso. In questi momenti, diversamente da quelli di gioco, il bambino ha bisogno dell’adulto per realizzare l’attività. Compito dell’adulto è aiutarlo a soddisfare i suoi bisogni e confermarlo nell’incontro con sé. Cosa che si può realizzare con un atteggiamento che Maria Vincze definisce cooperativo: gesti delicati e parole amichevoli non bastano, il bambino deve sentire che le parole sono rivolte proprio a lui, che la persona nelle cui mani si trova o che è di fronte a lui, aspetta una risposta e gli manifesta questa attesa con gli occhi, le mani, le parole. Un vero dialogo fra adulto e bambino si stabilisce solo se questa è una esperienza abituale, se un bambino è abituato a gesti che lo interrogano e aspettano una risposta. Risposta che, inizialmente, assume l’aspetto della distensione, del rilassamento, poi diventa un’azione che collabora, con quella dell’educatrice, all’attività che stanno facendo assieme.11

La presenza di un’educatrice di riferimento nella vita quotidiana12 di ogni bambino è un punto fondamentale del pensiero di Emmi Pikler e nell’organizzazione del servizio residenziale che è stato Lòczy e del nido che ne prosegue l’attività. Le note che seguono si riferiscono a quando, a Lòczy, i bambini vivevano in gruppi di 6-8, seguiti da 3-4 educatrici nell’arco della giornata. Ognuna di loro era educatrice di riferimento di due bambini.


Ogni educatrice si sforza di conoscere il bambino/la bambina il meglio possibile. Tiene conto delle sue caratteristiche, dei suoi bisogni, dei suoi ritmi; procura al bambino o alla bambina sicurezza affettiva, lo/a mette in grado di vivere attivamente, di interessarsi al mondo, di essere curioso/a, di aver voglia di crescere; cura l’ambiente perché sia invitante. Vi stabilisce punti di riferimento chiari perché il bambino possa orientarvisi; invia messaggi chiari quanto a regole. Permette di capire e integrare le norme sociali; guida il bambino nella socializzazione in modo che, nel percorso, il bambino si senta importante, buono e possa sviluppare la sua identità individuale; aiuta il bambino a vivere in continuità con sé stesso.


Un’educatrice di riferimento fa le stesse cose che fa qualsiasi altra educatrice nei confronti dei bambini con cui lavora, ma le fa in un’ottica diversa. In considerazione della situazione istituzionale, vive, con il bambino, alcuni momenti ‘speciali’, è lei che prepara le feste di compleanno, che accompagna il bambino per le visite mediche o in caso di ospedalizzazione, che parla col bambino, della sua storia, della presenza o assenza dei genitori, lo accompagna nel percorso di affido o adozione. Ma soprattutto si preoccupa che il bambino si senta importante, buono e possa sviluppare la sua identità individuale; aiuta il bambino a vivere in continuità con sé stesso.


La definizione della coppia educatrice-bambino non è lasciata al caso: in previsione dell’arrivo di un nuovo bambino, l’abbinamento nasce da una discussione dell’équipe (educatrici, pedagogista, psicologa). È fondamentale che l’educatrice di riferimento costruisca i suoi rapporti col bambino in modo consapevole e sia cosciente della responsabilità che assume nei confronti del bambino. La coscienza della responsabilità è la base indispensabile per assumere questa posizione, su di essa può poi costruirsi la conoscenza del bambino e il saper fare. I fattori che aiutano lo stabilirsi e l’evolvere nel tempo della relazione che l’educatrice di riferimento costruisce col bambino: l’attenzione, la cura, la riflessione.


L’osservazione è lo strumento dell’attenzione la cui pratica è oggetto di un sostegno articolato a tutti i livelli dell’istituzione.


Si basa su:

  • punti di attenzione concordati e definiti
  • attenzione ai dettagli
  • presa di appunti appena possibile
  • redazione degli appunti (a fine giornata, settimana, mese e fine della permanenza del bambino nella struttura) secondo diversi strumenti di raccolta: piano dello sviluppo, diario, monografia. Queste diverse forme di annotazione sono oggetto di discussioni regolari con le colleghe e le coordinatrici dei gruppi. “Annotare e redigere per iscritto le osservazioni aiuta l’educatrice a gestire i suoi legami con il bambino, a restare sulla via stretta delle emozioni, senza cadere negli estremi di una eccessiva vicinanza o di una messa a distanza pericolosa. L’osservazione e la descrizione dei minimi dettagli crea la vicinanza che è alla base di una buona relazione. L’educatrice vede e annota le mille piccole cose che caratterizzano un bambino, per esempio: prendendo il biberon ingoia molta aria, quando è sul piano di gioco cerca subito il flacone viola, al mattino, quando si sveglia, ha bisogno di un quarto d’ora per mettersi in movimento … Questo tipo di osservazioni non sono fini a sé stesse, aiutano l’educatrice a adattarsi ai bisogni del bambino: gli darà il biberon con un ritmo più rapido, se il bambino lo preferisce; dopo pranzo lo metterà a dormire sulla terrazza, se fuori si addormenta meglio che all’interno”.13
Elinor Goldschmied e l’adulto che guida da dietro

di Barbara Ongari

Si è visto come Elinor avesse iniziato la sua attività professionale verso la fine della seconda guerra mondiale in una casa di accoglienza per bambini senza famiglia, profondamente disturbati e traumatizzati. Il cambiamento da lei sperimentato nel loro comportamento dopo la riorganizzazione della loro vita quotidiana tramite la presenza di adulti di riferimento stabili e continuativi è diventato il criterio chiave nel corso della sua lunghissima attività di consulenza e formazione: da applicare anche nei servizi per bambini che hanno alle spalle un contesto familiare e che frequentano servizi diurni. Ferma è divenuta fin da allora la sua convinzione che il bisogno di sicurezza emotiva rappresenti l’esigenza primaria e fondamentale per ogni essere umano, trasversalmente alle diverse condizioni ambientali in cui si trova a vivere. Nei primi anni di vita solo relazioni significative possono rappresentare una “barriera” nei confronti di possibili forme di disadattamento, permettendo a ogni piccolo di diventare una persona emotivamente sicura e in grado di esprimere le proprie potenzialità.


In particolare Goldschmied riteneva importante ricreare nei luoghi di accoglienza collettiva un clima interpersonale caloroso, simile a quello familiare, partendo dal presupposto che tutti i bambini hanno bisogno di fare l’esperienza di relazioni che permettano loro di costruire la fiducia in se stesso e negli altri: a casa, nelle istituzioni diurne e in quelle residenziali. Si riportano in tal senso qui alcuni stralci di una relazione da lei tenuta a uno dei primi convegni italiani di psicologia14: “occorre fare in modo che i bambini piccoli, privati di una normale vita familiare, non si trovino gravemente in svantaggio per mancanza di quel senso di sicurezza che darebbe loro la possibilità di fronteggiare adeguatamente la vita da adolescenti e da adulti”. A conferma di questa convinzione riporta le conquiste evolutive e i successi educativi ottenuti da bambini accolti nell’ambito di tre differenti contesti di vita comunitaria: un gruppo di 10 bambini ospiti del Villaggio della Madre e del Fanciullo (Milano), le cui madri lavoravano all’interno o all’esterno della struttura durante la giornata; un gruppo sperimentale di 8 bambini menomati fisicamente e mentalmente (età mentale dai 15 mesi ai 4 anni a fronte di una età reale dai 2 anni e mezzo ai 6 anni) ricoverati presso l’Ospedale Psichiatrico di Mombello (Milano) e infine un piccolo gruppo di bambini accolti nel convalescenziario a Ortona Mare15 per fragilità di salute, dove si promuovevano, per quanto possibile, le visite delle madri per mantenere legami emotivi positivi con i figli. In tutte tre queste comunità che ospitavano bambini per ragioni diverse (salute, povertà, disgregazione familiare) Goldschmied ha organizzato la loro vita in piccoli gruppi, affidandoli a figure professionali di riferimento stabili, in grado di rappresentare “l’entità familiare, al fine di dar loro modo di percepire un senso di sicurezza”. Accanto a ciò, il sostegno offerto (ove possibile) alle relazioni primarie di attaccamento con le figure genitoriali le ha permesso di documentare a livello scientifico i risultati positivi ottenuti relativamente alle loro prestazioni cognitive/ linguistiche e al loro sviluppo affettivo.


Il ruolo chiave per la salute mentale svolto dalla persona di riferimento è dunque il cuore del suo approccio pedagogico. In tutta la sua attività, Goldschmied si è battuta affinché i professionisti nel campo della salute e dell’educazione comprendessero l’importanza di prevedere il funzionamento delle comunità di accoglienza per i bambini, sani o ammalati, basandolo su questo criterio, ritenendolo una condizione necessaria e prioritaria per l’esplicitazione di ogni dominio della personalità e per una crescita psicologica sana.


Per quanto riguarda le modalità di funzionamento dei nidi, nel suo primo e fondamentale libro in italiano16 ella descrive in modo dettagliato il ruolo dell’educatrice di riferimento, declinandone con cura i dettagli di intervento educativo. Questo si caratterizza sostanzialmente per due aspetti di fondo. Il fatto di proporsi nei confronti dei genitori quale interlocutore stabile e affidabile, nella misura in cui condivide con essi la cura e la responsabilità quotidiana del loro bambino, riconosciuto e accompagnato nella sua insostituibile individualità. Contemporaneamente, l’appartenenza a un’équipe di operatori che organizzano l’accudimento, le attività e la gestione quotidiana nel servizio in modo da favorire il benessere di ogni persona, grande e piccola.


Più concretamente, che cosa vuol dire per un adulto educatore accompagnare professionalmente la crescita dei bambini piccoli nel nido?


Il presupposto di partenza è che la natura delle relazioni che si instaurano tra i bambini e chi si prende cura di loro costituisca la base per una personalità in grado di sviluppare progressivamente modalità adeguate di auto-regolazione, biologica e psicologica, e la sicurezza emotiva su cui si fonda l’autostima. Lo sviluppo della consapevolezza dei propri stati interni, delle proprie emozioni, dei propri pensieri e di quelli delle persone intorno, in una parola, l’esperienza interiore di Sé e degli altri come individui differenziati e la capacità di mentalizzare le vicende interpersonali è connessa alla possibilità di disporre di esperienze ripetute con persone stabili e continuative. Il bambino ha in sé ogni risorsa per diventare protagonista attivo della propria evoluzione personale, ma “solo a determinate condizioni”. Soprattutto nelle comunità infantili, la predisposizione delle varie situazioni della vita quotidiana, dei giochi e dei momenti di cura, negli spazi interni e all’esterno, deve costituire l’oggetto di una attenzione continua, di ricerca di soluzioni sempre nuove e contingenti, di ascolto e di osservazione dei contesti e delle persone, di mediazioni e di valorizzazione dei dettagli.

In questo suo primo libro, Goldschmied specifica le tre funzioni cruciali svolte quotidianamente dall’educatrice di riferimento nei confronti del piccolo gruppo di bambini di cui è responsabile, nell’ambiente del nido a loro assegnato (il localino base). Su questi possono realizzarsi progressivamente rapporti di fiducia, prevedibilità e rassicurazione: “quella di organizzatrice, nella quotidiana routine, del buon uso dell’ambiente (sia interno che esterno) e quindi del materiale da gioco; quella di accorta agevolatrice e orientatrice nel contesto in cui i bambini scelgono, e attuano, i loro giochi; e quella di iniziatrice (insegnante) che dirige le attività di gruppo e dà le necessarie indicazioni al bambino che ne ha bisogno (non nel senso del dirigere da davanti ma di guidare da dietro)… Nel corso della giornata l’educatrice svolgerà tutte e tre le funzioni, separatamente ma anche contemporaneamente; manterrà cioè il controllo su tutto il gruppo dei bambini che giocano allo scopo di creare, e stabilire, la giusta atmosfera, la più adatta alla concentrazione”.17


In un libro successivo, scritto con due colleghi inglesi “Persone chiave” al nido18, uscito postumo in Italia, ella è riuscita a definire in modo sempre più dettagliato la differenza tra essere educatore nel nido ed essere persona di riferimento: con la sottigliezza, l’acume e la precisione del suo pensiero. Entrambi ruoli importanti, ma non la stessa cosa. Con le soddisfazioni e le fatiche che vi sono connesse.


In effetti, la focalizzazione univoca sul benessere del bambino non è sufficiente.


Facendo tesoro dei principi di fondo delle teorie relazionali e dell’attaccamento, sempre più ella ha ribadito che l’attenzione al bambino è intrinsecamente intrecciata a quella rivolta ai suoi adulti di riferimento. Da qui la sua radicata convinzione che il punto di partenza di ogni intervento educativo nei servizi sia l’ascolto dei vissuti e lo sforzo di entrare nel punto di vista di chi, in quanto genitore o educatore, ha responsabilità di accudimento e educazione nei confronti delle persone più piccole.


Nella sua attività di formatrice Goldschmied ha riservato sempre uno sguardo empatico e aperto al benessere psico-fisico di tutto il personale nel nido (e dei genitori), dedicandosi alla cura dei minimi dettagli della loro presenza nello spazio, ma soprattutto del loro “stare emotivo” dentro al contesto, accogliendone le diverse emozioni che necessariamente ne nascono: nella certezza che la serenità emotiva dei bambini ne sia la conseguenza.


Nelle righe seguenti l’approccio Persona Chiave si specifica nelle sue caratteristiche differenziali rispetto ad altre modalità di approccio educativo: “È un modo di lavorare nei servizi in cui l’intero focus e l’organizzazione sono rivolti a facilitare e supportare relazioni strette di attaccamento tra i singoli bambini ed i singoli operatori. Esso significa un coinvolgimento e un impegno personale e reciproco tra un membro dello staff e le famiglie”.19 Goldschmied non intende certo sminuire il lavoro di ogni operatore nell’ambito del sistema nido, anzi nella sua attività nei servizi non ha mai mancato di valorizzarne l’importanza essenziale, ma chiarendo con la sottigliezza e la delicatezza che le sono proprie lo spartiacque per cui, nel momento in cui un operatore si pone come Persona chiave, il suo ruolo va oltre. “Definisce una relazione professionale che ha un significato emotivo diretto dal punto di vista del bambino e della sua famiglia. L’essenza del ruolo della Persona Chiave è di rappresentare per il bambino qualcuno che è ‘la chiave’ …in quanto ha un significato emotivo quotidiano speciale per il bambino e la sua famiglia”.20


La Persona Chiave ha un ruolo cruciale soprattutto per quanto riguarda le situazioni di accudimento corporeo (igiene, pasto e sonno). “Poiché è importane assicurare al bambino una continuità di esperienze a alto livello qualitativo (delle quali il suo corpo è il punto focale) si cercherà comunque di far sì che, per quanto possibile, sia la stessa persona a manipolare, nutrire, cambiare e lavare uno stesso gruppetto di bambini”“Nel corso di queste operazioni il bambino ha bisogno di sentirsi al centro delle attenzioni del ‘suo’ adulto. Occorrerebbe quindi che tale persona avesse il tempo di dedicarsi a lui con serenità, di coccolarlo, giocare con lui e parlargli, cosicché il contatto risulti piacevole a entrambi”.21

Le allieve che l’hanno accompagnata nei suoi interventi di formazione ricordano bene come non vi sia stata volta in cui ella non abbia insistito sulle modalità con cui è bene accostarsi al corpo dei piccoli per far fronte alle loro continue esigenze di igiene, di nutrizione, di relax, di consolazione, di incoraggiamento. A titolo di esempio, si può accennare a come Goldschmied affrontava con pazienza e attenzione al dettaglio il modo in cui si soffia il naso ai bambini piccoli (tutti conoscono la necessità di intervenire continuamente nei confronti dei nasi colanti!), evitando mosse rozze (quali piombare alle spalle o dall’alto) e suggerendo invece l’importanza di mettersi di fronte in modo garbato, verbalizzando l’azione. Utile anche predisporre comodi barattoli per eliminare i fazzoletti sporchi, che spesso nella pratica quotidiana finiscono nelle tasche degli adulti, in una moltiplicazione di germi. Così come si può far cenno alla sua pionieristica proposta della scaletta davanti al fasciatoio (ora in dotazione di tutti i nidi) per permettere ai bambini di salirvi da soli: sottolineando il significato ansiogeno del sentirsi sollevati di peso e messi orizzontali, in una fase evolutiva in cui si è raggiunta la stazione eretta e la capacità di camminare da soli. Piccoli dettagli di questo tipo caratterizzano l’intervento dell’educatrice in ogni momento della giornata in cui la relazione passa dalle mani, dagli occhi e dalla voce e tra il corpo dell’adulto e del bambino non vi è la mediazione dei materiali di gioco.


Invece, nei momenti di gioco, il ruolo dell’adulto è quello di facilitare, orientare e supportare l’esplorazione attraverso una precisa, continua e attenta cura dei materiali messi a disposizione, esponendoli, riordinandoli con garbo e riorganizzandoli in modo da favorire il mantenimento dell’interesse dei bambini, sostenendo la loro spinta a entrare in contatto con altre persone adulte, altri oggetti, altri bambini.


Per la Persona Chiave i bambini di cui si occupa non sono “un gruppo”: sono persone che vivono insieme, con caratteristiche individuali, temperamentali, abitudini, espressioni emotive del tutto personali, con cui si condivide la giornata e il susseguirsi degli eventi, oltre che delle emozioni che li accompagnano.


A queste condizioni, la persona di riferimento per un bambino e i suoi genitori è in effetti “la chiave” per la crescita.


A livello organizzativo, la proposta di questo tipo di progettazione del lavoro educativo non è immediata né automatica: richiede invece motivazione, studio condiviso della realtà irripetibile di ogni specifica comunità, ascolto e rispetto del punto di vista di ognuno, supporto e cura per ogni particolare aspetto del funzionamento da parte di chi ha mansioni di coordinamento o formazione/supervisione. Un modello di lavoro che può essere realizzato con successo e soddisfazione solo se il punto di vista di tutto il personale, le fatiche e le emozioni nello scambio quotidiano con bambini e genitori trovano cittadinanza, legittimazione e ricerca comune di soluzioni pratiche.


Per quanto riguarda gli oggetti, la sua preferenza dichiarata è stata sempre per materiali naturali, che in se stessi possano essere suggestivi delle infinite azioni che con essi possono essere fatte: la ricchissima gamma dei “verbi del fare” che può essere osservata fin da quando il bambino nei primissimi mesi inizia a disporre della coordinazione occhio-mano-bocca.22


Questa attenzione alla qualità sensoriale e percettiva degli oggetti è certamente uno degli aspetti che maggiormente accomunano la posizione di Elinor Goldschmied a quella di Maria Montessori. Sono moltissimi i passaggi nei suoi testi, così come è ben nota la sua insistenza negli interventi formativi, in cui ella sottolinea l’importanza della selezione accurata degli oggetti da offrire, tenendo conto dell’età dei bambini. Gli oggetti devono avere caratteristiche specifiche (essere attraenti, belli, piacevoli ai cinque sensi, differenziati, maneggiabili, sicuri) e la loro dotazione in ogni ambiente deve essere tale da garantire la quantità sufficiente a permetterne l’utilizzo da parte di tutti, evitando conflitti per il loro possesso. La realtà è diversificata e ogni bambino può imparare a scegliere, ad avere gusti e preferenze proprie, laddove sia accompagnato in questa importante acquisizione personale e sociale.


La manutenzione degli oggetti e della loro integrità è affidata all’educatrice di riferimento, che provvede a tenerli puliti, aggiustati e a sostituirli in caso siano deteriorati: come ognuno farebbe a casa propria con i propri beni più preziosi. La Goldschmied ha insistito sull’importanza che il materiale sia abbondante, nell’obiettivo di ridurre le contese tra bambini e permettere a ognuno di sviluppare un interesse personale su oggetti diversi. È l’intervento regolativo da parte dell’educatrice che permette ai piccoli di fare una esperienza che si rivela significativa per la loro maturazione personale.


Con il crescere dell’età dei bambini, l’educatore sollecita la loro collaborazione affinché ogni cosa abbia una sua collocazione ordinata e piacevole nell’ambiente (ad. es. i libri nello scaffale-libreria), in una modalità che sostiene il passaggio evolutivo dalla etero-regolazione all’auto-regolazione tramite la co-regolazione con l’adulto.23


L’ipotesi di fondo, come si è visto anche per Maria Montessori, è che occorre che ogni bambino sia lasciato assolutamente libero nella scelta dei materiali: imparare a scegliere è il presupposto affinché crescendo possa diventare una persona responsabile, in grado di rispondere delle proprie decisioni.


L’atteggiamento di fondo centrato sul rispetto nei confronti dei bambini può essere ritrovato nella pratica educativa proposta anche da Emmi Pikler, in un ideale filo di continuità dei valori che ispirano l’atto educativo per tutte tre queste Maestre.

I materiali

di Emanuela Cocever

Una intenzione comune

Pierre Bovet riassume quello che distingue i pensatori e gli operatori dell’Educazione attiva nella considerazione che “invece di profittare delle facoltà ricettive del bambino per imprimere su questa cera molle conoscenze e abitudini [… 1 essi vedono anche e soprattutto, nel bambino, un organismo eminentemente attivo le cui facoltà si sviluppano principalmente attraverso l’azione”.24


Montessori, Goldschmied e Pikler condividono, esplicitamente o meno, completamente o in parte questo pensiero e sono convinte dell’adeguatezza di questa considerazione a proposito di bambini anche molto piccoli: un bambino che sta bene, prova curiosità e attenzione per il mondo esterno e, quali che siano le condizioni di maturazione in cui si trova, si impegna ad agire. Guarda parti del suo corpo, oggetti, ne fa uso e sperimenta possibilità, agendo di sua iniziativa: in questo modo acquisisce conoscenza e abilità. A condizione che l’ambiente in cui si trova gliene offra le opportunità, non ha bisogno che qualcuno gli insegni ad agire. Ogni bambino in condizione di sicurezza affettiva, quindi all’interno di una relazione significativa con un adulto di riferimento, è in grado di interessarsi al mondo esterno, ed è capace di agire il suo interesse attraverso l’osservazione, l’esplorazione, la progettazione, l’azione, ed è anche in grado di monitorare questo percorso con aggiustamenti ricorsivi; l’apprendimento – tanto in forma di pensiero che di abilità pratiche – che un bambino realizza in questo modo, ha una qualità che non accompagna gli apprendimenti e le abilità raggiunte su sollecitazione esterna. Si tratta di abilità mentali e pratiche accompagnate dalla meta abilità del saper costruire l’abilità. È l’apprendimento di qualcosa e, nello stesso tempo, l’apprendimento del come si apprende e questo facilita la possibilità di costruire abilità in altri contesti.


Mi sembra appropriato accostare a queste considerazioni quella di Winnicott sulla differenza fra l’agire del bambino a seguito di una sollecitazione o stimolazione, che lo colloca in una posizione di reattività, e l’agire di propria iniziativa che lo fa sperimentare qualcosa dell’ordine della creatività.


Il ruolo dell’adulto, in questa prospettiva, è quello di curare il benessere del bambino (un bambino che non si sente conosciuto e apprezzato individualmente, che ha sonno, fame, è stanco o non si sente bene, non ha voglia di giocare) e l’ambiente, in modo che il bambino abbia oggetti e materiali che corrispondono al suo interesse e alle sue capacità, che evolvono nel tempo. Anziché impegnarsi a far vedere come fare ai bambini, si impegna nel mettere a disposizione e garantire l’accordo fra materiali disponibili e interesse del bambino. Cura questa evoluzione attraverso l’osservazione dell’interesse del bambino che, a grandi linee, si può vedere distribuito, ricorsivamente, secondo tre momenti:

  • ripetere, ripercorrere il sapere e saper fare consolidato. Il bambino alimenta la sua voglia di agire attraverso la sicurezza che si costruisce grazie al risperimentare, attraverso gesti, azioni e situazioni di cui e in cui si sente sicuro, basate su competenze già acquisite;
  • confermare le nuove conquiste. L’‘appena scoperto’ dà luogo a una vera e propria esplosione di soddisfazione, per l’allargamento dei confini fisici e mentali;
  • tentare il nuovo.

Tutte e tre queste Maestre non si preoccupano soltanto del materiale a disposizione dei bambini, ma, come ritengono questo la variabile fondamentale per costruire la qualità della loro esperienza di attività, così ritengono le condizioni ambientali materiali che circondano gli adulti che si occupano dei bambini, altrettanto condizionanti la qualità del loro comportamento. Tutte e tre pensano che dare indicazioni o consigli su ‘come fare’ non sia, da solo, efficace per trasmettere alle operatrici gli atteggiamenti e i comportamenti desiderati. È importante creare, attorno alle insegnanti o educatrici, condizioni materiali che facilitino o addirittura rendano necessari determinati modi di fare. Pikler e Goldschmied sottolineano, per esempio, l’importanza del fatto che nell’interazione con un bambino o con un gruppo di bambini, l’educatrice sia sola, Montessori evoca l’intimità che caratterizza i momenti in cui l’insegnante affianca il bambino. La presenza delle colleghe, attorno, diventa facilmente occasione di un attenuarsi dell’attenzione rivolta al o ai bambini, a favore di scambi fra le adulte. Anche se questi hanno per oggetto il o i bambini, sono, comunque, una distrazione della concentrazione nei loro confronti. Goldschmied in particolare, negli incontri di formazione con le educatrici, si occupa ampiamente delle dimensioni e della organizzazione degli oggetti d’uso quotidiano, dei piani di seduta o di appoggio che riducano il più possibile la fatica dell’operatrice. Montessori e Pikler invitano educatrici e insegnanti ad avere sempre a portata di mano gli oggetti o le suppellettili necessarie alla realizzazione delle attività di cura (pasto, cambio), perché i momenti si svolgano in continuità, senza interruzioni dovute all’‘andare a cercare’ qualcosa che manca. Alzarsi per prendere un piatto è una delle possibili interruzioni della continuità dell’attenzione reciproca fra adulto e bambino; tanto più disorientante quanto più il bambino è piccolo.


Il libro più ampio e dettagliato di Emmi Pikler (1976, non tradotto in italiano) utilizzato anche dalle educatrici a Lòczy è un libro pensato per i genitori ed è un insieme di indicazioni su cosa è importante valorizzare con l’attenzione, nell’osservare un bambino che cresce; di proposte illustrate su quale predisposizione dello spazio, degli arredi e dei materiali permette al bambino di esprimere e manifestare le sue capacità e iniziative a chi lo guarda.


Il pensiero che guida indicazioni, raccomandazioni e pubblicazioni delle tre Educatrici è la convinzione che il buon accompagnamento alla crescita di un bambino attivo e autonomo è l’interesse empatico nei suoi confronti. L’interesse (per una professionista) non coincide con l’affetto, non è spontaneo, si costruisce attraverso l’osservazione. Ambiente, arredi, materiali costruiscono l’impalcatura di questa costruzione necessaria. L’esperienza della soddisfazione che nasce dal vedere un bambino che cresce bene grazie alle proprie cure dà forma alla competenza professionale.


Accanto alla condivisione dello sfondo presentato, ognuna delle tre Educatrice insiste su alcune caratteristiche particolari e su alcuni modi di uso dei materiali.

Accenti diversi

Elinor Goldschmied. Esplorazione, concentrazione, scelta

Elinor Goldschmied, come Pikler e diversamente da Montessori, a proposito dell’attività dei bambini, parla di gioco. È convinta che, perché un bambino abbia voglia di giocare di sua iniziativa, è necessario che l’ambiente gli metta a disposizione materiali diversi dai giocattoli confezionati, materiali che lo incuriosiscano, che gli suscitino degli interrogativi, che gli forniscano opportunità di percezione variate e gradevoli e si prestino all’esplorazione e alla combinazione. Materiali che non sono attivi loro, ma lasciano l’iniziativa ai bambini. Il frequente richiamo di Goldschmied all’interesse di materiali di vita quotidiana e di recupero, non vuol dire assolutamente che gli oggetti non siano pensati o che la loro scelta sia lasciata al caso, anzi, procurarseli può comportare anche una certa fatica. Nei primi anni della sua attività in Italia, di fronte alla assenza totale di materiale di questo tipo nei servizi in cui lavorava, Elinor Goldschmied aveva addirittura attivato trasporti e scambi di ‘buoni materiali’ fra servizi.25 L’attenzione ai materiali proposti ai bambini, assieme all’alimentazione della competenza professionale delle educatrici, sono i temi conduttori di tutta la sua vita professionale. Come già detto, sono materiali poco strutturati e prevalentemente naturali ma studiati nei minimi dettagli quanto alle qualità percettive che mettono a disposizione dei bambini. Permettono lo strutturarsi di un pensiero costruttivo, attraverso il quale ogni bambino può scoprire le proprietà senso percettive e formali degli oggetti, le possibilità di funzionamento e assemblaggio.


Le proposte variano con il variare dell’età, col modificarsi delle abilità motorie e delle posture di base nelle quali i bambini giocano, in particolare con la possibilità o meno di spostarsi e camminare. Per i bambini nel primo anno di vita, la cui domanda principale di fronte agli oggetti che incontrano è Cos’è questo?26 è interessante avere a disposizione una offerta molto ampia di oggetti vari, di materiali di dimensione tale da poter essere afferrati e manipolati, diversi per sostanza, percezione tattile che il bambino di questa età sperimenta in particolare attraverso le mani e la bocca. Per i bambini che camminano e per i quali il movimento è attività privilegiata, la cui domanda di base, nei confronti degli oggetti è Cosa posso fare con questo? secondo Goldschmied è interessante avere a disposizione serie di materiali, sempre non strutturati, magari riciclati, che permettano di compiere le azioni di esplorazione che accompagnano la costruzione della conoscenza negli aspetti logico-matematico e fisico.27 I bambini che possono agire e giocare in questo modo, accanto alla esperienza conoscitiva, fanno, secondo Goldschmied una fondamentale esperienza legata alla dimensione sociale e anche morale. Quella della scelta. In situazioni di formazione, commentare le osservazioni su momenti di gioco attorno al Cestino dei Tesori o al Gioco Euristico era, per Goldschmied, occasione di spaziare su problematiche educative che vanno ben l’oltre l’infanzia e che lei giudicava interessanti anche da un punto di vista politico.“Vogliamo veramente sviluppare tutte le possibilità dei bambini? Diciamo di sì, ma non è detto che lo facciamo: ‘non toccare’, ‘stai tranquillo’. Diciamo di volere sviluppare le possibilità del bambino? Il nostro comportamento dice:‘No’”.28 Come possiamo preoccuparci della capacità (spesso non capacità) di scegliere dei nostri adolescenti se non li mettiamo in condizioni di esercitarsi a farlo fin da piccoli?

Le educatrici si preoccupano dell’ambiente perché offra sempre al bambino le condizioni che lo invitano a fare e innescano, in questo modo, un circolo virtuoso: osservando la passione, concentrazione, progettualità e perseveranza con le quali i bambini si impegnano nell’azione, traggono elementi per rendere queste condizioni possibili nel tempo.

Emmi Pikler Libertà di movimento e gioco libero

Come Goldschmied, Pikler quando parla di giochi e materiali, pensa a oggetti che non sono stati creati per i bambini: oggetti di uso quotidiano, disponibili all’interno di una casa (per esempio disponibili in cucina) e non in formato ridotto, ma scelti perché di dimensioni adatte alla manipolazione dei bambini nelle diverse età. Diversamente da Goldschmied, non esclude oggetti commerciali, giocattoli, purché non ‘didattici’ e nemmeno animati: oggetti che non fanno niente da soli, ma possono fare se usati dai bambini. Le sue collaboratrici, nel tempo, hanno dettagliato alcuni criteri di scelta, che incrociano elementi che riguardano acquisto, età dei bambini, sicurezza, valore educativo e varietà:

  • resistenti, solidi, lavabili, non smontabili, in buono stato, non troppo piccoli (secondo l’età dei bambini), privi di angoli acuti;
  • semplici, che offrano diverse opportunità percettive, in quantità sufficiente per il numero di bambini per cui sono messi a disposizione. Manipolabili, semplici e che mettano il bambino in grado di agire da solo;
  • diversi per dimensione, peso, colore, forma che permettano diversi modi di manipolazione a seconda delle possibilità fisiche e intellettuali proprie dell’età del bambino.

Date queste (relativamente) semplici condizioni, l’attenzione di Pikler attira l’attenzione delle educatrici su quello che il bambino fa con i materiali a disposizione: “Durante il gioco libero l’attività e l’interesse del bambino non devono essere orientati nella direzione auspicata dall’adulto. L’obiettivo di questi momenti è quello di permettere ai bambini, neonati e più grandi, di praticare liberamente il gioco che hanno scelto, a modo loro e per tutto il tempo che desiderano, e che questo avvenga in posizioni confortevoli per i bambini, che possano essere assunte e abbandonate liberamente. Questo obbiettivo richiede una organizzazione adeguata, pensare la quale è compito degli adulti. In questo modo si permette ai bambini di elaborare ogni tappa del loro sviluppo, di loro iniziativa, negli ambiti nei quali hanno attitudine (motricità, manipolazione). Ne deriva una migliore qualità, non solo della loro attività ed esperienze negli ambiti particolari, ma una più completa realizzazione di tutta la personalità, negli aspetti creativi e nelle diverse competenze”.29

All’interno di una situazione di vita di gruppo dei bambini, il ruolo dell’educatrice è, per Pikler come per Montessori, assicurare il quadro nel quale queste condizioni si realizzano e si mantengono, rinnovandosi nel tempo e un sistema di regole condivise nel gruppo. Mantenere tali condizioni per i bambini che sono ognuno diverso dagli altri e man mano che cambia la loro età, richiede una attenzione costante da parte sua e l’aggiornamento di interventi che riguardano lo spazio, il tempo, la selezioni dei materiali a disposizione. È un’educatrice al servizio dei bambini attraverso la sua attenzione, che non interviene nel gioco, disponibile e pronta a essere interpellata.


A proposito di attenzione, riporto il contenuto di un’attività di formazione che ha per tema il gioco libero dei bambini e il ruolo dell’adulto ripresi in una sequenza video che dura circa 15 minuti. Quando si lavora attorno all’esperienza di Pikler, la formazione si svolge quasi sempre a partire da riprese video di bambini realizzate nei momenti di vita quotidiana, di cure del corpo e di gioco. Sono occasioni che permettono di dare concretezza all’attenzione che si può prestare a un bambino che gioca di sua iniziativa o realizza una attività in cooperazione con l’adulto. L’esempio è quello di un bambino di poco più di cinque mesi, Joco, che, supino su un piano di legno, gioca con pochi oggetti, che ha scelto fra pochi altri disposti attorno a lui, a portata di mano: in particolare un sonaglio di legno (un bastoncino di legno di circa 10 cm da una delle cui estremità partono cinque pezzetti di corda che terminano in una pallina di legno) e un porta sapone di plastica morbida, coperto di ventose di circa 7 cm di diametro... il bambino è tranquillo, attivo, manipola ora l’uno ora l’altro oggetto, a volte lo mette in bocca, alterna momenti di intensa manipolazione ad altri in cui lascia le braccia a riposo, ai suoi fianchi, e si guarda attorno … Andando oltre la prima impressione, si arriva a individuare sorprendenti dettagli della manipolazione (più di 50 variazioni), e a rilevare un variare dell’attenzione rivolta all’attività in corso, che alterna momenti di attenzione fluttuante (il bambino guarda quello che sta facendo, ma è molto disponibile a eventuali sollecitazioni che gli vengono dall’esterno), sostenuta e concentrata (quando sembra che per il bambino non esista altro che l’effetto della sua manipolazione sull’oggetto).

Maria Montessori. L’idea di un percorso (di apprendimento)

Parlare di materiali nel progetto educativo Montessori sposta lo sguardo quanto a fascia d’età dei bambini per cui sono pensati e ci mette in presenza di caratteristiche fin qui non apparse. I ‘materiali Montessori’30 si propongono per un arco di vita che va dai tre ai dodici anni, sono oggetti non presenti in natura o nella vita domestica, ma costruiti e strutturati in modo da configurare un insieme coerente, pensato per accompagnare la crescita e la costruzione dell’apprendimento del bambino dall’età della scuola dell’infanzia fino a quella della scuola media e anche oltre. Sono inoltre argomento del dibattito pedagogico italiano e internazionale da molti decenni. Questo mette quindi/anche, chi scrive, di fronte a una ampiezza e complessità di variabili trattate da una abbondante letteratura sia disciplinare, sia divulgativa che richiede una breve aggiunta all’avvertenza posta in apertura di questo paragrafo. Il suo scopo è illustrare come alcune idee di fondo che accomunano le tre pioniere di cui parliamo permettono accenti diversi e si realizzano attraverso accorgimenti concreti che variano, sempre però restando fedeli ad alle idee originali. Non è la presa di posizione in un dibattito scientifico né l’esegesi di alcuni testi o dell’evoluzione del pensiero dell’una o altra.


Convinta, come Goldschmied e Pikler, che il bambino impara attraverso l’azione, Montessori si preoccupa di evitare l’organizzazione della vita di classe/sezione attorno a qualcosa di simile alla lezione: mette a disposizione dei bambini materiali che possono esplorare in modo autonomo. Materiali pensati e costruiti a questo scopo che non informano né insegnano, ma danno al bambino la possibilità di ordinare a sua misura tutti gli attributi possibili della realtà: colore, forma, dimensione, sonorità, peso, odore, sapore. Nel suo insieme, il materiale sensoriale è un sistema di oggetti (per lo più di legno o di cartone robusto, di dimensioni adatti a essere tenuti e manipolati dalle mani di un bambino di questa età) raggruppati secondo una qualità fisica dei corpi – colore, forma, dimensione, suono, stato di ruvidezza, peso temperatura:

  • incastri
  • blocchi (cubi, prismi, aste)
  • serie diverse di cilindri
  • scatole colorate, scatole delle gradazioni, gradazioni a ruota
  • e ancora scatole contenenti figure geometriche, solidi, materiale sonoro, per esplorazione tattile (superficie, consistenza, peso, calore, odore).

Ogni singolo gruppo rappresenta la medesima qualità, ma in gradi diversi; una graduazione dove la differenza fra oggetto e oggetto varia regolarmente ed è, quando possibile, stabilita matematicamente.


Il materiale non è imposto, ma presentato e messo a disposizione dei bambini, in modo che ognuno di essi possa usarlo se e quando lo interessa.

Secondo Montessori, il bambino si trova immerso in un flusso complesso e confuso di impressioni sensoriali e il materiale sensoriale – ognuno nel suo campo – ha l’obbiettivo di aiutare la mente del bambino a mettere a fuoco una particolare qualità, lo fa isolando, di volta in volta, lo stimolo sensoriale. Manipolando gli oggetti, i bambini analizzano e classificano concretamente le esperienze sensoriali per poi integrarle fra loro con i propri tempi. “Il bambino normale31 non ha bisogno di stimoli che lo risveglino. Egli è sveglio e i suoi rapporti con l’ambiente sono innumerevoli e continui. Egli ha bisogno di ordinare il caos formato nella sua coscienza dalla moltitudine di sensazioni che il mondo gli ha dato”.32 Anche per Montessori è importante che i bambini possano scegliere di loro iniziativa il materiale da usare: “Ven-nero adottate le credenze dove il materiale è posto a disposizione dei bambini che lo scelgono secondo i loro bisogni interiori. E così il principio della scelta accompagnò quello della ripetizione”.33 Alcuni altri principi accompagnano la messa disposizione del materiale: i materiali portano con sé la possibilità del controllo materiale dell’errore e sono disponibili in quantità limitata. Diversamente da quanto auspicato da numerose trattazioni sull’argomento, Montessori valorizza la presenza, sugli scaffali, di un unico esemplare di ogni materiale perché vi vede l’occasione di sperimentare il valore dell’attenzione e del rispetto reciproco fra i bambini e quello dell’attesa.


All’insegnante o educatrice spetta presentare i materiali e proteggere il lavoro del bambino. È una mediatrice fra il materiale e ogni bambino. “Come una madre insegna affettuosamente l’uso di un utensile tenendo accanto a sé il bambino e mostrandoli adagio ‘come si fa’, la maestra assume così un ruolo fondamentale di ‘ponte’ fra il bambino e l’ambiente nel momento in cui mostra e adopera l’oggetto sensoriale”. Presentazione non indispensabile, ma “occasione rassicurante di quieta relazione a due, isola di attenzione affettiva in mezzo ad altri”.34

Osservando si cresce

di Barbara Ongari

L’osservazione come base del metodo scientifico

La necessità di utilizzare metodi e strumenti osservativi fa parte integrante dei vari ambiti di cui si è occupata la psicologia scientifica a partire dai primi anni del ’900. Anche le grandi teorie psicologiche sullo sviluppo infantile (si pensi a Piaget, Wallon, Anna Freud, Gesell) sono state costruite a partire da dati ricavati dall’osservazione del comportamento dei bambini. Esula dagli scopi del presente volume ricostruire per esteso e in modo esauriente le vicende assai articolate dei metodi osservativi che, creati a supporto strumentale delle discipline scientifiche (fisica, biologia ecc.), sono stati in seguito applicati nel campo dell’educazione.


Si può solo rilevare che in Italia, dagli anni ’70 in poi, l’importanza di osservare i bambini in situazioni ecologiche al fine di comprenderne lo sviluppo nei contesti di vita singoli o gruppali e implementare proposte pedagogiche realmente adeguate è divenuto, pur con alterne vicende, un criterio di lavoro basilare. Negli anni a seguire è fiorita una letteratura molto vasta, che fa riferimento a metodologie e procedure di tipo diverso (osservazione diretta o indiretta, partecipante o nascosta, a occhio nudo o tramite video-registrazioni) con modalità di raccolta dei dati osservativi che spazia dal tradizionale metodo carta-matita, all’utilizzo di griglie osservative, a check-list più o meno standardizzate ecc.). L’oggetto dell’osservazione può focalizzarsi volta a volta sulle varie competenze evolutive emergenti nei primi anni (pre-linguistiche e linguistiche, motorie, comportamenti sociali nei confronti degli adulti e dei pari, interazione con materiali e oggetti, attitudini legate alle funzioni primarie quali cibo, sonno o igiene, o altro) e può riguardare il singolo bambino o il gruppo, in una varietà di focus tematici differenziati in rapporto agli obiettivi educativi.


Il merito di questo travaso dell’utilizzo dei metodi osservativi alle pratiche pedagogiche va proprio anche alle tre professioniste di cui qui stiamo illustrando alcuni aspetti fondamentali della vita e dell’approccio educativo. Pioniere che – proprio sulla base della formazione medico-scientifica da cui provenivano – hanno diffuso la consapevolezza della centralità di ricorrere a osservazioni attente e dettagliate dei comportamenti dei bambini più piccoli, in grado di sostituire pratiche pedagogiche tradizionali ispirate a valori, principi o ideologie di carattere generale, non in grado di declinarsi sulla realtà della condizione infantile concreta attuale. L’insistenza sull’imprescindibilità di dotare i professionisti (e i genitori, nel caso di Pikler e Goldschmied) di competenze osservative è uno dei fili conduttori che più significativamente accomuna l’approccio innovativo proposto da queste tre grandi personalità nel campo dell’accudimento e dell’educazione.


Cercheremo di ripercorrere, per ciascuna di esse, i passaggi più significativi della valorizzazione del metodo osservativo cui hanno contribuito in maniera del tutto originale.

Maria Montessori e “l’umile esercizio” dell’osservazione come fondamento pedagogico

L’importanza da lei attribuita al metodo osservativo, considerato cruciale nel processo educativo, si basa sulla sua convinzione di fondo relativa alle straordinarie potenzialità di cui ogni essere umano è dotato a partire dalla nascita. L’energia costruttiva, viva e dinamica che caratterizza il bambino fin da piccolissimo è un tesoro nascosto che richiede soltanto di poter essere messo nelle condizioni di rivelarsi agli occhi degli adulti che hanno compiti educativi, in una stagione della vita che ha caratteristiche di assoluta irripetibilità: “Il bambino ha un potere che l’adulto non ha più: quello di costruire l’uomo”.35


Dal momento che i primi anni di vita sono i più importanti per l’organizzazione della personalità da un punto di vista sia fisico sia psichico, è la natura stessa che, nelle specifiche fasi evolutive che portano a maturazione ogni funzione dell’Io (“i periodi sensibili”), prepara l’esplosione delle competenze che caratterizzano ogni fase di sviluppo nelle età precoci: si pensi per esempio all’emergenza del linguaggio o della capacità di scrittura. Osservare i bambini in queste prime epoche evolutive permette di cogliere in maniera puntuale le caratteristiche delle leggi di formazione della psiche che governano lo sviluppo fisiologico e mentale dell’essere umano.


Rigettando quindi una concezione dell’educazione tradizionalmente intesa quale trasmissione di nozioni da parte di adulti (che si ritengono depositari del sapere) a piccoli esseri (intesi come vasi vuoti da riempire), Montessori considera al contrario l’azione educativa come un “processo naturale” di acquisizioni psichiche. Nel suo approccio, l’educazione diventa una scienza razionale (e quindi documentabile, replicabile e affidabile) nella misura in cui si è consapevoli della specificità di tale processo. Montessori propone il paragone con l’embriologia quale descrizione della formazione dei corpi a livello fisiologico. L’educazione è collocata così a livello di pari dignità rispetto ad altre scienze.


Il potenziale umano di ogni bambino per potersi sviluppare ha bisogno di cibo mentale, così come il corpo ha bisogno di nutrirsi per crescere: pertanto il compito degli educatori e degli insegnanti è quello di mettere a disposizione, in modo razionale e adeguato alle diverse età, una vasta gamma di oggetti reali su cui far lavorare l’immaginazione e le abilità sensoriali/percettive e motorie.


Montessori si è sempre battuta con forza per far rispettare l’attività del bambino impegnato autonomamente nella scoperta, costruzione, assemblaggio dei diversi materiali, direttamente ispirato dalla natura stessa degli elementi a disposizione, evidenziandone la portata creativa. Ogni bambino “ricostruisce” il mondo sulla base di un impegno umano e morale che può essere a buon diritto definito come un lavoro. Non un semplice gioco. In questa concezione è possibile mettere in evidenza un importante punto di convergenza con il pensiero di Elinor Goldschmied la quale, studiando i tempi prolungati di concentrazione e di attenzione dei bambini molto piccoli, assorbiti nell’esplorazione del Cestino dei Tesori o dei materiali predisposti per il Gioco Euristico, li considerava del tutto assimilabili alle modalità di coinvolgimento totale con cui gli adulti si dedicano a un lavoro che li appassiona.36 A sua volta, Emmi Pikler ritiene che l’iniziativa soggettiva e la libera scelta delle attività da parte del bambino siano fisiologicamente connesse al suo sviluppo, a condizione che egli si possa muovere autonomamente in uno spazio predisposto per offrire occasioni di interesse e di scoperte, soddisfacendo il suo piacere della scoperta e della curiosità.


Emancipando la pedagogia dallo sfondo filosofico in cui era nata e riposizionandola in un ambito scientifico, Montessori apre dunque la strada a una rivoluzione culturale radicale che aggancia la scienza educativa all’antropologia e alla psicologia sperimentale, donandole uno statuto di affidabilità. Il fondamento della pedagogia scientifica è costituito dallo studio individuale dei bambini, posti in condizione di libertà e di opzioni di scelta. La sua formazione di medico, sviluppata nella cornice positivista emergente in quel periodo storico, la induce a utilizzare in modo costante il metodo osservativo e a valorizzarlo quale presupposto prioritario di conoscenza, ritenendo che non si possa educare nessuno se non lo si osserva. “Il bambino può indurci attraverso la manifestazione di sé stesso a trasformare radicalmente il concetto di educazione, rendendolo pratico, sperimentale e scientifico”.37 Solo disponendo di ampie raccolte dati di tipo osservativo, costruite in modo organico e razionale, gli educatori dei bambini più piccoli e gli insegnanti dei più grandicelli possono dotarsi di un “metodo naturale”, veramente rispettoso della reale natura dei processi educativi e di apprendimento. Fondamentale risulta pertanto mettere ogni bambino, a ogni età, nella condizione di svolgere la propria attività in modo autonomo, permettendogli di “lavorare” motivato dalla propria ispirazione interna, ispirata dalla qualità e dalla natura degli oggetti fisici: non certo adeguandosi alle istruzioni fornite da un educatore/insegnante o a finalità esterne, a lui del tutto estranee.


Il primo passo di ogni processo educativo è allora quello di fare in modo che ogni bambino sia nella situazione per poter fare da sé, lasciandolo agire sulla base delle proprie intenzioni interne e libero di esperimentare il proprio funzionamento nel contatto con le cose, in una continua auto-correzione del proprio operato. Nel rapporto con gli oggetti e i materiali opportunamente creati e messi a disposizione, egli si appassiona, il mondo fisico lo attrae: per cui è spinto a capire, a studiare, in uno sforzo intellettuale che lo prende interamente. Ecco dunque che ritrovare gli oggetti in ordine, nello stesso posto, in una razionalità riconoscibile, gli permette di orientare in modo sempre più preciso la sua scelta, la sua scoperta e il suo progetto. Il compito degli educatori/insegnanti è quello di proporsi come un eventuale aiuto, garantendo in modo continuo l’organizzazione dello spazio e proteggendo l’iniziativa personale, evitando pertanto interventi di intrusione nella progettualità soggettiva di ognuno con l’obiettivo di dirottarla su scopi precostituiti e lontani dalla realtà psicologica della mente infantile. Quanto più, al contrario, essi di dedicano con umiltà a osservare le modalità con cui ogni bambino sviluppa in modo del tutto originale la propria immaginazione creativa, tanto più imparano a conoscerlo e contribuiscono al potenziamento delle sue irripetibili potenzialità.


È interessante cogliere come nel pensiero di Montessori l’esercizio dell’osservazione abbia un carattere di universalità e ricorsività, necessario per crescere in ogni stagione della vita: il bambino osserva le cose per agire su di esse e impara osservandole, l’adulto impara a conoscere il bambino osservandolo con empatia e riconoscendone le straordinarie competenze trasformative. “L’interesse verso l’umanità deve avere un carattere che connette l’osservatore e l’osservato… i maestri devono diventare osservatori dell’umanità…”. L’avvertimento di fondo è relativo alla necessità che l’occhio che osserva sia caloroso, empatico e partecipante, non asettico e valutativo. Solo così “osservando il bambino si impara a perfezionarsi come educatore”.38 Imparare a osservare dunque è la strada maestra per far crescere le proprie competenze professionali.

L’esempio che segue permette di cogliere proprio questa dimensione di apprendimento dell’arte di insegnare derivante dall’esperienza di dedicare uno sguardo empatico ai bambini impegnati in una attività: “Un’altra osservazione rivelò la prima volta un fatto molto semplice. I bambini usavano il materiale, ma era la maestra che lo distribuiva e poi lo rimetteva a posto. Essa mi raccontò che quando faceva questa distribuzione i bambini si alzavano e si avvicinavano a lei: per quante volte li rimandasse al posto essi le ritornavano vicino. La maestra aveva concluso che i bambini erano disubbidienti. Osservandoli capii il loro desiderio di rimettere a posto gli oggetti e li lasciai liberi di farlo. In questo modo sorse una specie di vita nuova: mettere in ordine gli oggetti, riparare a ogni disordine eventuale era una attrattiva vivissima. Se un bicchiere d’acqua cadeva dalle mani di un bambino, altri accorrevano a raccogliere i vetri e ad asciugare il pavimento.

Ma un giorno cadde di mano alla maestra la scatola che conteneva circa 80 tavolette di diversi colori graduati: ricordo il suo imbarazzo perché era difficile riconoscere tante gradazioni di colori: ma ecco che i bambini accorsero e con nostro grande stupore misero a posto rapidamente tutte le gradazioni, mostrando una meravigliosa sensibilità ai colori, superiore alla nostra.


La maestra andò un giorno a scuola un po’ in ritardo e aveva dimenticato di chiudere la credenza. Trovò che molti bambini l’avevano aperta e vi stavano aggruppati attorno. Qualcuno prendeva poi gli oggetti e li portava via. La maestra giudicò questo procedere come un istinto al furto. I bambini che rubano, che mancano di rispetto alla scuola e alla maestra, dimostravano, secondo lei, il bisogno di severità e di educazione morale. Io credetti di interpretare che i bambini ormai conoscevano così bene gli oggetti che potevano sceglierli da sé. E così fu.


Si iniziò così una attività vivace e interessante: i bambini avevano dei desideri particolari e sceglievano le loro occupazioni. Da allora vennero adottate le credenze basse dove il materiale è posto a disposizione dei bambini che lo scelgono secondo i loro bisogni interiori. E così il principio della libera scelta, accompagnò quello della ripetizione dell’esercizio.


È dalla libera scelta che si sono potute fare delle osservazioni sulle tendenze e sui bisogni psichici dei bambini.


Fu una delle prime conseguenze interessanti vedere che i bambini non sceglievano tutto quel materiale scientifico che avevo fatto preparare, ma soltanto alcuni oggetti di esso. Andavano a scegliere pressappoco le stesse cose: alcune poi, con prevalenza evidente. Altri oggetti invece rimanevano abbandonati e si coprivano di polvere.


Io li presentavo tutti, li facevo offrire dalla maestra che spiegava il loro uso; ma i bambini non li riprendevano spontaneamente.


Allora compresi che nell’ambiente del bambino tutto deve essere misurato oltreché ordinato, e che dall’eliminazione di confusione e di superfluità nascono appunto l’interesse e la concentrazione”.39


Si può a buon diritto sottolineare come la concezione montessoriana dell’educatore/insegnante come “servitore” della creatività infantile sia un leit motiv fortemente presente anche nel pensiero di Elinor Goldschmied e di Emmi Pikler: la prima ha continuato a ribadire con chiarezza come il compito dell’educatore sia quello di essere presente stando un passo indietro, evitando di dirigere l’attività del bambino e di indicargli il da farsi. Al contrario, godere con lui di ogni minimo successo ottenuto in autonomia. La seconda riteneva che l’adulto capace di rispettare l’iniziativa dei bambini impara a sviluppare comprensione e pazienza anche in altri contesti umani, implementando la propria crescita personale.


Montessori chiarisce anche che il saper osservare in questa maniera obiettiva e scevra da pregiudizi implica necessariamente nell’adulto un importante lavoro apriori nella propria mente, “ripulendola” dalle rappresentazioni obsolete che ognuno si è costruito circa la natura dei bisogni dell’infanzia e delle sue caratteristiche. A maggior motivo tenuto conto che spesso, nel corso della formazione curricolare, succede che venga proposta una idea delle prime stagioni della vita come di un’età caratterizzata da immaturità psichica e da incapacità. Con la conseguenza di creare un’immagine del ruolo educativo arroccato su una concezione dell’insegnamento paragonabile al riempire delle proprie nozioni il recipiente vuoto di chi ancora non sa.


Anche su questo punto si possono ritrovare affinità tra le idee di Montessori relative alla necessità di una educazione scientifica con l’approccio rispettivamente di Goldschmied alle tematiche dell’apprendimento e di Pikler per quanto riguarda il metodo di intervento professionale degli educatori nelle comunità di accoglienza. Goldschmied non ha mai mancato di criticare in maniera radicale i metodi direttivi degli educatori/ insegnanti, finalizzati a infarcire di contenuti pre-confezionati gli allievi, considerati come passivi ricettacoli di saperi provenienti dall’alto. Ispirandosi alla pedagogia trasformativa di Paulo Freire, ella si è adoperata per sottolineare al contrario l’importanza di valorizzare l’intenzionalità di chi apprende, riducendo le distanze tra chi educa/insegna e chi impara. Emmi Pikler, a sua volta ha fatto diventare l’esperienza a Lòczy come un vero laboratorio di pratiche educative altamente professionalizzate, sintetizzate in una guida metodologica per i centri accoglienza di bambini senza famiglia, che tuttora rappresenta un documento fondamentale per ogni comunità anche non residenziale.40 In essa vengono discussi in modo dettagliato e autorevole le declinazioni operative di alcuni concetti di fondo: la responsabilità educativa, la relazione adulto-bambino, l’organizzazione della giornata, gli strumenti di lavoro, il lavoro di équipe.

Emmi Pikler e l’esercizio dell’osservazione empatica

Scrive Grazia Honegger Fresco, nell’introduzione al volume di Emmi Pikler sullo sviluppo motorio “Il bambino non sa quando è pronto, ma continua a muoversi. Prova e riprova, finché scopre casualmente un nuovo movimento, una posizione di maggiore equilibrio. Allora comincia a ripeterli, correggendo da sé i tentativi non riusciti o le posizioni insicure, finché non sente di possederli del tutto e di poterli ritrovare quando gli occorre, per raggiungere, toccare, trasportare un oggetto”.41


Viene subito in primo piano la sua concezione di fondo relativa allo sviluppo infantile. Il bambino è posto in primo piano come protagonista della propria crescita, che avviene secondo leggi interne definite dal patrimonio genetico soggettivo, le quali per potersi realizzare in modo armonico e graduale richiedono un attento atteggiamento osservativo da parte di chi ha un ruolo di accudimento. Il poter sperimentare in piena libertà il rapporto con la natura, negli spazi interni ed esterni con i materiali da gioco, mette ciascuno nelle condizioni di esplorare, concentrandosi con attenzione sugli oggetti e sulla propria attività in modo autonomo, secondo tempistiche che sono soggettive. “Prendere sul serio un’attività del bambino, la sua, quando agisce da solo: forse non sempre comprendiamo il senso immediato di questa attività, ma cosa importa? Lui lo sa”.42


La costruzione di una relazione contingente, empatica e realmente supportiva per la crescita parte dalla capacità degli adulti di osservare ciascun bambino in modo consapevole. Nella sua attività di pediatra di famiglia, Pikler ha ritenuto centrale aiutare le madri a imparare a conoscere il proprio bambino, tramite osservazioni precise eventualmente annotate in un diario, ma insieme sollecitandole a provare a immedesimarsi nei pensieri e nelle emozioni del figlio, in una comprensione emotivamente condivisa dei suoi vissuti, dal momento che “gli occhi non sono sufficienti per vedere”.43


Osservare è una delle attività più complesse per gli adulti. Molto è stato già scritto in letteratura sulla difficoltà di produrre osservazioni oggettive, ripulite dal filtro soggettivo dell’occhio di chi guarda: aspettative, pregiudizi, valori e quadri teorici di riferimento, emozioni, attribuzioni di significati e tutto un insieme di immagini che tendono a sovrapporsi a quanto si vuole esaminare. Il mondo interno dell’osservatore tende a deformare i contorni di quanto viene osservato: pertanto il compito osservativo deve essere opportunamente reso consapevole, praticato in modo rigoroso e sottoposto a monitoraggio interno ed esterno. Saper svolgere osservazioni oggettive non è intuitivo, né immediato: al contrario è frutto di un allenamento e di un apprendimento che richiede di essere imparato, coscientizzato e controllato.


Per Pikler è soprattutto con i bambini senza genitori che il lavoro degli educatori deve implementarsi di uno sguardo ancora più raffinato e consapevole. Nell’organizzazione del lavoro di cura degli ospiti dell’istituto residenziale di Lòczy, il diario mensile che ogni educatrice redige riportando ogni elemento colto relativo alla crescita, allo stato affettivo e ai bisogni del bambino, è divenuto uno strumento educativo fondamentale per imparare a conoscerlo davvero, in quanto viene compilato sulla base di linee guida definite dallo staff.44

Le numerose osservazioni fatte con bambini neonati o piccolissimi hanno permesso di evidenziare in modo lapidario gli albori della vita psichica e l’intenzionalità presente nell’essere umano fin dalla nascita, che richiedono di essere colti in modo delicato ed empatico dagli adulti, ai quali spetta poi di confrontarsi rispetto ai fatti osservati e al significato che può esservi attribuito.


Riportiamo qui, a titolo di esempio, un’osservazione relativa ai diversi significati del pianto di un bebè, necessariamente legati ai diversi stati psichici nel corso della giornata e alla lettura che ogni adulto può farne, sulla base della conoscenza del piccolo e soprattutto della risonanza emotiva che essi suscitano in lui:45 “Elodie ha 5 settimane. Piange perché, come osserva la sua educatrice, la manica della sua camicetta, troppo lunga, copre in parte la sua mano e le impedisce di succhiarsi il pollice. È troppo piccola per capire la causa del suo malessere; alla sua età non è nemmeno cosciente di aver fatto lei stessa il gesto della mano verso la bocca. L’adulto, constatando il malessere di Elodie e conoscendo questo suo bisogno, ha capito: ha ripiegato la manica della camicetta ed Elodie si è addormentata, tranquilla. Probabilmente, Elodie non ha capito; non si è nemmeno accorta che l’adulto le si è avvicinato. Lei però constata, sulla base di esperienze analoghe, la sparizione del suo malessere: e questo è già un elemento del suo senso di sicurezza; poi a suo tempo, non molto più tardi, Elodie farà il collegamento con l’apparizione dell’adulto”.


Quello che emerge immediatamente da questo trascritto è l’attribuzione di significato che l’educatrice dà del pianto di questa bambina e la risposta che mette in atto per riportarla a uno stato di calma che le consenta di assopirsi. Entrare in sintonia con i bisogni e le richieste di bambini così piccoli è una capacità professionale molto delicata, che richiede pazienza, attenzione, leggerezza di tocco e soprattutto la capacità di identificarsi nella loro situazione emotiva. La creazione di una relazione a questa età e la possibilità di dar vita a una base condivisa di comprensione hanno una valenza interattiva di scambio interpersonale, dove tuttavia le competenze del bebè sono solo allo stato nascente e devono essere decifrate. Nella situazione dell’istituto residenziale occorre uno sforzo specifico da parte dell’educatrice per costruire in modo equilibrato la propria relazione personale con ognuno dei piccoli che le sono affidati.


Ecco quindi come per Pikler e per tutto lo staff che ha gestito Lòczy lo strumento osservativo non è fine a sé stesso: esso rappresenta invece un aiuto fondamentale per corrispondere in modo migliore ai bisogni personali di ogni bambino, in rapporto ai suoi ritmi fisiologici, al suo temperamento e al suo stato emotivo interno46. In una prospettiva relazionale, le osservazioni scritte e raccolte nel diario consentono all’educatrice di mantenere la “giusta distanza” tra le proprie emozioni e i comportamenti del bambino, in quanto facilitano la capacità di conservare diritto e coerente il timone del proprio coinvolgimento interno: evitando sia una eccessiva prossimità, sia un distanziamento che danneggerebbe in modo particolare questi bambini così deprivati. L’educatrice riesce in questo modo a esercitare su sé stessa un auto-controllo consapevole dei propri vissuti, evitando di creare modalità relazionali all’insegna dell’appropriazione e dell’esclusività.


L’esperienza condotta per molti anni a Lòczy ha dimostrato infatti che la pratica osservativa non solo ha migliorato le abilità funzionali nei bambini, ma ha cambiato le immagini interne che le educatrici ne hanno: da qui la trasformazione profonda del loro modo di porsi nella relazione quotidiana, sulla base anche di una rappresentazione maggiormente rasserenata e positiva del proprio ruolo adulto di accompagnamento alla crescita.


I passaggi difficili o gli interrogativi che inevitabilmente inquietano ogni adulto educatore trovano occasione e spazio per essere affrontati e elaborati con i colleghi nelle riunioni del gruppo di lavoro, alla ricerca di soluzioni condivise. Trattandosi infatti di strumenti di lavoro ben definiti, i diari osservativi vengono letti con attenzione dai responsabili pedagogici e discussi dettagliatamente assieme ai colleghi, in una riflessione collettiva che fa crescere individualmente e collettivamente.

Elinor Goldschmied: guardare all’esterno e all’interno di sé

L’aspetto di personalità che soprattutto ha caratterizzato la sua figura, quello che di lei ancora soprattutto ricorda chi ha avuto occasione di frequentarla, è senz’altro l’acutezza e la raffinatezza dello sguardo con cui entrava in contatto con luoghi, persone, oggetti, animali, ambienti naturali. Una osservatrice potente, che riusciva a cogliere in ogni situazione dettagli anche minimi, ma fondamentali per la comprensione del contesto. Uno sguardo comunque sempre caldo ed empatico, puntuale e mirato a migliorare le situazioni di vita e a sostenere le persone, mediante un confronto aperto e tranquillo su quanto ciascuno percepisce della situazione in corso. Senza mai sfumature giudicanti o svalorizzanti.


Si è visto47 come per Goldschmied l’abitudine a studiare ogni aspetto della natura, anche minimo, per carpirne il segreto vitale e creativo abbia contraddistinto gli anni della sua infanzia, in un periodo storico in cui le abitudini culturali prevalenti permettevano ai bambini una grande libertà di gioco e di autonoma esplorazione dentro le mura domestiche e soprattutto negli spazi esterni, naturalmente in ottemperanza a regole familiari ben definite. La scoperta quotidiana delle infinite risorse presenti in ogni elemento naturale (acqua, terra, pietre, legno, erbe e fiori, animaletti) aveva assorbito per molti anni la sua mente infantile, interessata e curiosa anche verso gli assemblaggi/costruzioni/ manipolazioni/creazioni che ognuno di essi, anche il più insignificante, può ispirare all’infinita inventività umana. In tal modo la sua intelligenza si era aperta al gusto e alla meraviglia dell’incontro quotidiano con mille piccole cose da guardare, sentire e toccare. Il rapporto con la natura, studiata con minuzia e coinvolgimento, è diventato un asse portante della sua personalità, in una attitudine a cogliere in modo preciso e coinvolgente quanto esiste nell’ambiente, per valorizzarlo come fonte di conoscenza per ogni bambino, anche il meno fortunato. Allo stesso modo, l’interesse per l’osservazione ha riguardato fin dall’età precoce anche l’area molto complessa dei comportamenti umani, per coglierne i significati e comprendere la situazione psicologica individuale. Questa esigenza è stata sempre per lei prioritaria, fin dai suoi primi anni trascorsi sullo sfondo dell’epoca vittoriana, in cui non era previsto da parte degli adulti il parlare ai bambini delle questioni familiari, meno che mai entrare nel terreno dei sentimenti e dei vissuti. Così, sulla base delle proprie risorse percettive (quanto vedeva e quanto ascoltava) Elinor ha imparato progressivamente a cogliere per conto proprio il senso degli eventi e delle interazioni umane, scrutando in modo scrupoloso le espressioni del volto, le posture e i gesti delle persone di ogni età. Da questo punto di vista si può certamente affermare che ella, privata fin dall’infanzia del supporto educativo delle figure familiari più vicine, è stata la maestra di sé stessa ed ha costruito da sola la propria identità personale.


Già nel corso della sua prima esperienza professionale durante la seconda guerra mondiale, quando le fu affidata la responsabilità della gestione di una comunità di bambini senza famiglia, aveva capito che la metodologia osservativa era lo strumento clinico e educativo elettivo per intervenire a migliorare le condizioni delle situazioni di vita fortemente compromesse. L’obiettivo era quello di comprendere le ragioni dei comportamenti gravemente disturbati dei bambini, che pure ricevevano cure sanitarie e igieniche di buona qualità e pure se gli operatori addetti erano numerosi (ciascun educatore aveva in carico due bambini). Analizzando quotidianamente le reazioni infantili, aveva registrato significativi cambiamenti positivi con il supporto di materiali da gioco naturali e dello sguardo attento ed empatico dell’educatore di riferimento.


Da allora la capacità di riconoscere bisogni e risorse dei piccoli tramite l’osservazione è diventato il metodo fondamentale del suo approccio, da lei proposto agli operatori dei servizi e ai genitori. Infatti, già nel corso della sua prima attività nel periodo post-bellico a Milano per il Villaggio della Madre e del Fanciullo, oltre a organizzare gruppi gioco con i bambini evacuati, Elinor aveva avviato una importante attività educativa con le loro madri, invitandole a stare a guardare insieme le straordinarie e insospettate capacità di concentrazione e di utilizzo creativo degli oggetti da parte dei piccoli e sostenendo contemporaneamente la competenza materna nell’accompagnarne adeguatamente la crescita. Il ruolo centrale da lei assegnato alle abilità osservative nella formazione degli adulti che hanno responsabilità educative è dimostrato dal fatto che, nell’ambito della realizzazione della nuova sede del Villaggio della Madre e del Fanciullo, in cui ha collaborato con gli architetti alla progettazione di una struttura con caratteristiche di innovazione,48 Elinor ha previsto nello spazio soggiorno per gli adulti del nido (educatori, formatori, ricercatori e tirocinanti) un ampio vetro da utilizzare per guardare dall’alto il gioco e gli scambi tra bambini.

Contestualmente, dando spazio anche alla sua passione giovanile per la regia e la scenografia, ha iniziato a realizzare una serie di filmati finalizzati a documentare l’attività creativa dei bambini e la qualità dell’intervento adulto accanto a essi. La possibilità di osservare e ri-osservare le sequenze videoregistrate, ogni volta scoprendo nuovi significativi dettagli nelle intenzioni soggettive e nella negoziazione interattiva di ogni bambino a contatto con oggetti e persone, ha permesso di avviare un esercizio formativo di cruciale importanza per gli adulti. Moltissimi sono stati i filmati da lei realizzati nei vari servizi, in Italia e all’estero, con l’obiettivo di sostenere negli educatori la possibilità di cogliere aspetti sempre diversi e imprevedibili nei bambini e riflettere sul proprio porsi professionale. Alcuni di essi rappresentano tuttora un materiale didattico preziosissimo.


A titolo di esempio, riportiamo qui il commento da lei effettuato a un filmato di un bambino di dieci mesi davanti al Cestino dei Tesori, in cui puntualmente vengono rilevati i passaggi anche minimi per ogni secondo di osservazione:49


Questo bambino indica con precisione il desiderio di scendere dalle braccia della mamma e toccare il materiale che vede per terra. La mamma però non lo lascia finché non è perfettamente sicuro. Si vedono le mani, i piedi e la testa tutto in movimento, tutto è stimolato dalla vista del materiale… Si vede che mentre adopera la mano destra, la mano sinistra è anch’essa sollevata in una posizione di prontezza, si vede che c’è un movimento forte dei piedi e allora bisogna immaginare cosa vuol dire per i bambini di questa età che i piedi siano chiusi nelle scarpe. Il bambino è già in un momento in cui mette assieme i due oggetti, dopo aver esaminato l’oggetto con cura lo passa da una mano all’altra…


(44’’) Mi pare che il bambino in questo momento si sia distratto perché ci sono degli adulti che non conosce…


(48’’) Questo oggetto dentro la tazza è un limone: si vede l’importanza di avere oggetti nei quali si possano mettere altri oggetti e buttarli fuori, in una tipica attività che dura parecchi mesi.


(53’’) Si può dire che simbolicamente prendere le cose e metterle dentro a qualcosa è esattamente ciò che il bambino sta facendo nella sua raccolta di esperienze, che deve interiorizzare, fare sue, per adoperarle in altre situazioni. In conclusione, se non c’è questo tipo di materiale che permette di sperimentare di mettere una cosa dentro l’altra, di tirarla fuori, di rimaneggiarla, lo stimolo al cervello viene molto limitato, in un periodo in cui questo si ingrandisce. Ricordiamo che dalla nascita ai due anni raddoppia di dimensioni…


(69’’) Guardiamo i piedi che sono sempre in una specie di sincronizzazione con le mani …


(76’’) Si vede con molta chiarezza il triangolo occhio mano, oggetto e qualche volta bocca. Ma questa è utilizzata molto meno, salvo mi pare quando succede una esperienza nuova…


(105’’) Si vede che senza sosta questo bambino continua a tirar fuori, a vedere ed esaminare altri oggetti.


(195’’) Si può vedere l’utilità di oggetti che incoraggiano il bambino nei suoi movimenti nell’andare a quattro zampe alla ricerca del materiale che gli rotola intorno….


(202’’) questi piccoli incidenti con il materiale che succedono per caso sono tante volte un inizio di scoperta del bambino di queste cose che rotolano. E si vede come la testa si gira a seguire il sentiero dell’oggetto.

Da questo stralcio osservativo di pochi minuti si può comprendere come l’adulto tenga sotto l’attento controllo dello sguardo lo svolgersi dell’attività e dedichi al bambino una partecipazione attenta ed empatica, sostenendolo emotivamente nella scoperta con la sua presenza ferma, tranquilla e calorosa.


Nella sua lunga attività di formazione e supervisione in ogni nido dove entrava Goldschmied ha sempre dedicato tempo ed energie a esaminare con cura ogni elemento di arredo e ogni materiale da gioco, verificandone la qualità e analizzandone l’uso da parte dei bambini.50 Per esempio, nel momento del pasto il suo occhio attento studiava l’altezza delle sedie (troppo alte/ troppo basse, con/senza braccioli, agganciate al tavolo ecc.) in rapporto al tipo di posizione da esse consentita, così come controllava la dimensione dei cucchiai (troppo piccoli/troppo grandi), la quantità di cibo offerta nei piatti ecc.


Anche alla seduta degli adulti Elinor ha riservato sempre cura e precisione, insistendo sulla necessità che l’educatrice che si trova ad accudire quotidianamente bebè o bambini molto piccoli disponga di sedie o poltrone confortevoli per riuscire a tenerli in braccio quando necessario, offrendo loro lo sguardo e le mani senza sforzo per la colonna vertebrale.


Allo stesso modo, in ogni incontro con un gruppo di lavoro si accertava che tutti i partecipanti fossero accomodati in modo tranquillo e facilitante la conversazione. Controllava la qualità dei sedili, li preparava in numero adeguato in rapporto alle persone previste, evitando in modo deciso che ci fosse chi stesse accovacciato a terra, o appollaiato su mobili troppo alti o costretto su seggioline per bambini: assumendo quindi comunque posture scorrette per la schiena, le articolazioni e la respirazione. È vivo il ricordo di episodi in cui andava alla ricerca nel nido di libri o di altri spessori (anche elenchi telefonici!) per fare in modo di prevedere un appoggio per i piedi delle operatrici, quando le sedute risultavano troppo alte. Piccoli stratagemmi pratici che tuttavia permettono alle persone, grandi e piccole, di stare piacevolmente nel contesto sociale e nell’interazione con gli altri, senza sforzo corporeo. Come si è visto,51 il personale dei nidi ricorda con gratitudine ed entusiasmo la sorpresa sperimentata in modo del tutto imprevedibile nell’incontro con una esperta, che in primis aveva a cuore la loro fatica fisica, oltre che psicologica.


Per Goldschmied dunque la centralità della competenza osservativa costituisce il fondamento del metodo formativo a favore del personale dei servizi per l’infanzia, da lei introdotto e conosciuto con il nome di “Formazione a nido aperto”. Questa pratica innovativa proposta e portata avanti con rigore e costanza, è stata fatta propria dalle sue allieve, che ne continuano l’utilizzo e la valorizzazione.52 La presenza discreta e silenziosa della formatrice durante il normale svolgersi delle attività quotidiane non solo permette di comprendere il comportamento, il gioco e lo sviluppo del bambino da solo e in piccolo gruppo, ma consente una osservazione dell’intervento dell’educatrice per restituirle poi, in un momento individuale e intimo, uno sguardo neutro e empatico, soprattutto non valutativo, per migliorare il suo lavoro. Uno specchio attento e rispettoso, in grado di sostenerne le fatiche e rinforzarne le soddisfazioni. Soprattutto nei primi giorni della presenza al nido del piccolo e del genitore per l’ambientamento, la consuetudine di osservazione congiunta tra genitore e educatrice in un tempo tranquillo permette al bambino di giocare a suo piacimento nel nuovo spazio e con i nuovi materiali: lo sguardo condiviso tra genitore e educatrice avvia la costruzione di una narrazione dello sviluppo del bambino fatta insieme.


L’osservazione dunque per Goldschmied non rappresenta un puro esercizio scientifico fine a sé stesso, ma un metodo rigoroso in coerenza con i suoi obiettivi pro-sociali, quelli cioè di creare in ogni contesto lavorativo le situazioni di benessere necessarie per consentire agli adulti la possibilità di dare libero accesso alla propria mente e alle proprie emozioni. Poter sperimentare momenti facilitanti per l’equilibrio tra il corpo e la mente permette agli operatori di affrontare nella comunicazione con il gruppo dei colleghi e con il formatore gli aspetti più difficili del lavoro di cura: questi possono essere sia ascoltati attraverso l’esplicitazione verbale sia osservati a livello meta-verbale attraverso le espressioni del volto, la gestualità e le posture del corpo. Creare contesti comunicativi che agevolino la consapevolezza dei propri vissuti nella quotidianità del lavoro e la possibilità di portarli al riconoscimento proprio e altrui, crea ambienti interpersonali in cui la formazione include anche la circolazione, la cittadinanza e la possibilità di scambio dei vissuti dei partecipanti e la ricerca dei miglioramenti possibili, all’interno del proprio servizio.

Ecco allora che la pratica osservativa non è mai stata da lei considerata come scissa dall’auto-osservazione. L’importanza, intuita fin dall’infanzia, di riconoscere e dare un nome alle proprie emozioni, per poterle elaborare e negoziare, imparando a vedere dentro sé stessi oltre che dentro agli altri, è stata poi sistematizzata nell’ambito della sua formazione clinica, soprattutto psico-analitica e tramite la partecipazione attiva alle scoperte culturali radicalmente innovative che avvenivano in quel periodo storico da parte di personalità di spicco della psicologia infantile.


Si può concludere che una delle competenze fondamentali che qualifica la professione dell’educatore è la capacità di declinare l’osservazione all’interno oltre che all’esterno, sviluppando quelle forme di insight su di sé, sulla propria storia e sui propri vissuti che permettono una comprensione empatica dello stato della mente dei bambini, leggendone le emozioni nello specchio del proprio mondo interno adulto, senza sovrapporre schemi mentali o ideologici legati al “dover essere”.


Per concludere, Montessori, Pikler, Goldschmied sono tre grandi personalità umane e professionali che si sono battute per affrancare i percorsi educativi infantili dal dominio adulto, convinte che durante i primi anni il poter fare l’esperienza della propria libertà individuale nel gesto creativo pone il fondamento etico della costruzione di una futura personalità adulta ben funzionante, capace di scegliere in modo consapevole e responsabile.


L’osservazione rappresenta, per ciascuna, una dotazione indispensabile di ogni educatore o genitore che voglia accompagnare la crescita infantile in modo efficace. Solo così può cogliere la straordinaria creatività e le competenze nella personalità in evoluzione del bambino, lasciato libero e tranquillo. Per gli educatori, per i genitori, per gli insegnanti saper utilizzare l’osservazione come metodo fondamentale di lavoro costituisce un requisito primario: un’osservazione empatica, affettuosa, rispettosa, che eviti qualunque tipo di intrusione.


Si osserva per arrivare alla possibilità di comprendere ciò che si vede. Si aprono nuovi orizzonti e si scoprono angolature diverse sulla realtà con cui si viene quotidianamente a contatto. Per usare una suggestiva espressione di Bakerman e Gottman, “L’aspetto meraviglioso della metodologia osservativa è che essa potenzia al massimo la possibilità di stupirsi”.


Osservare (ed ascoltare) costituisce una forma di scambio che crea una trama di interazioni, di significati, di vissuti (magari impercettibili) tra adulto e bambino. Le dinamiche emotive che vengono attivate in tale scambio di menti possono diventare oggetto di una migliore consapevolezza per l’educatore nei momenti in cui le sue energie e l’attenzione non sono rivolte al fare, quanto allo stare fermo a guardare e ascoltare in modo calmo e partecipe.

L’osservazione è in realtà un processo fortemente interattivo: il bambino attore modifica lo sguardo dell’adulto che lo osserva e la consapevolezza di quest’ultimo del proprio mondo interno.


Ma va ricordato che si tratta di un esercizio non facile, che richiede pratica, confronto interpersonale e monitoraggio sui propri vissuti. Come già sottolineavano molto tempo fa Myriam David e Geneviève Appel, per migliorare la qualità dell’esperienza quotidiana dei bambini piccoli non basta intervenire sulle caratteristiche esterne del contesto (il tipo struttura, i materiali, gli arredi, orari di lavoro ecc.), ma soprattutto sul proprio modo di porsi nella relazione, imparando a utilizzare uno sguardo, scevro da sovrastrutture, sui bambini ma anche su se stessi come adulti che li accompagnano (le proprie personali convinzioni e le proprie resistenze). A partire da tale lavoro su di sé la relazione può trasformarsi in un vero e proprio incontro. I comportamenti dei bambini riattivano nelle persone che stanno loro vicino con un atteggiamento empatico e partecipante, anche apparentemente inattivo, una serie di emozioni e di vissuti, positivi e negativi, legati al proprio essere stati a loro volta bambini: la gioia della scoperta, la conflittualità con i genitori, l’angoscia per la separazione, l’entusiasmo per la propria autonomia, la gelosia per i compagni, la paura di non riuscire ecc. Sono inviti all’adulto a guardare meglio, con uno sguardo pulito, le solite cose, quelle che sono sfuggite: pur se viste mille volte. Ma si sa che la realtà diventa nuova se guardata con occhi nuovi. Per questo la pratica osservativa costituisce una crescita personale e professionale.


Ecco la grande lezione, professionale e umana, che queste tre Maestre ci hanno lasciato: osservando i piccoli, si diventa grandi.

II fare dei bambini

di Grazia Honegger Fresco

Le loro azioni spontanee possiamo scoprirle solo se essi si trovano in condizione di autentica libertà di scelta. Di un giaguaro o di un topolino di campagna chiusi in gabbia possiamo conoscere assai poco delle loro abilità, attacco e difesa, cibo, cura della prole, rifugio ecc. Jean-Henri Fabre osservava le formiche senza distruggere i loro formicai; di altri insetti si limitava a notare le fasi di sviluppo nei loro luoghi di crescita. Eppure, ne ha scoperte di cose! Osservare senza alterare, né invadere. Nelle strutture tradizionali con bambini o con ragazzi si fa tutt’altro: si assegnano a una classe creando gruppi artificiali, sulla base dell’anno di nascita, il più possibile simili anche per capacità. (Da non molto si accetta la co-educazione di ambo i sessi e l’ingresso ai diversi per etnia/ colore di pelle). Anche se tavolini posti in modo variato hanno sostituito i banchi in tre file, gli “alunni” sono tutti seduti in attesa dell’ordine di un adulto o della sua lezione, da ricordare e da ripetere con la massima precisione possibile. Chi non è in grado di farlo, è giudicato incapace, punito con il “brutto voto”. Più stanno zitti e fermi in ascolto passivo, più ricevono lodi e premi, spinti così a una continua competizione che umilia i lenti, i timidi. Sembrano marionette tenute per i fili da docenti più o meno abili nel mantenere “la disciplina” o soldatini, ligi al dovere, con tanto di divisa che li fa apparire – a uno sguardo superficiale – tutti identici tra loro.


Questo modello affermatosi nell’Ottocento ha avuto molti critici, ma a demolirlo in modo definitivo a inizio Novecento è stata Montessori, che ha denunciato il banco, l’uso del sistema bastone/carota, e ha annotato le sue osservazioni di ragazzini considerati irrecuperabili e di piccoli “normali”, considerati però come capricciosi e distruttivi. Osservare era stato lo strumento diagnostico della facoltà di medicina dove si era laureata, in un’epoca in cui non ne esistevano altri e lei lo trasferì nel lavoro con i ragazzini fatti uscire dal manicomio, poi con i bambini fino a sei anni a San Lorenzo. Guardò gli uni e gli altri con fiducia, interesse e via via arricchì lo spazio di lavoro con proposte tra le quali potessero scegliere a piacere.


Che noia le cose tutte uguali! Meglio eliminare anche i doppioni, introdurre se mai varianti, per ravvivare la curiosità. Montessori (ma oltre a lei anche Goldschmied) si rese ben presto conto che dovevano cominciare liberando gli adulti da tanti pregiudizi sui bambini, aiutarli a sentirsi, prima che docenti, educatori in grado di controllare il proprio tono di voce, eliminare l’atteggiamento giudicante e dittatoriale per favorire l’auto-educazione. In compenso apprezzare fin dalla nascita la potente vita psichica di ogni essere umano, le sensibilità che lo guidano nella crescita, i cambiamenti che emergono nel passare degli anni della “lunga infanzia umana”.


Perché tutto parte dalla libera scelta? È il gesto più antico, fin dai popoli raccoglitori in cerca di cibo. Di qui, attraverso scoperte e invenzioni, siamo arrivati dopo millenni al mondo attuale e ancora scegliamo. Il commercio, le leggi, le arti, il cibo, il vestiario… ogni aspetto dell’esistenza umana è basato sulla scelta. Quelli che possono scegliere meno sono i bambini e i ragazzi in famiglia o nelle strutture in cui i genitori li immettono, delegando ad altri adulti il compito di averne cura: passaggio diventato meno formativo, al contrario più informativo, al fine di rendere facilmente valutabili i risultati. Montessori ha demolito anche questo aspetto, mettendo in luce la crescita equilibrata, la capacità di “polarizzare la propria attenzione” e di divenire indipendenti nella cura di sé e delle cose: figli e allievi liberati dalla paura, grazie al rispetto con cui vengono seguiti, all’assenza di aiuti inutili, di ordini e di sgridate.


Se gli adulti cambiano il loro abito antico di giudici e diventano guide delicate e presentano l’uso di maniglie, rubinetti, utensili (come aprire e chiudere una porta / usare le forbici per ottenere tagli esatti / come portare un bicchiere pieno d’acqua senza versarla /o usare il pennello perché il colore non sgoccioli). Noi adulti conosciamo tutti i segreti per agire al meglio: mostriamoli adagio un giorno dopo l’altro per assicurare a ogni bambino altrettanti incoraggianti successi. Come diceva Bruno Munari (1996), insegnare il come, non il che cosa. Non si danno modelli da copiare, lezioncine da ripetere a pappagallo; tanto meno compiti a casa, perché le cose si risolvono meglio nel grande gruppo dove, accanto al lavoro individuale che consente approfondimenti, può crescere il gusto di “fare insieme” con il compagno più gradito o trovare l’aiuto necessario senza per questo essere giudicati.


Bambini inquieti, distratti, aggressivi o, al contrario, insicuri, ritrosi, lentamente cambiano, raggiungono uno stato di calma interiore, di attenzione prolungata, di interesse spontaneo verso gli altri, processo definito da Montessori di “normalizzazione”. Il bambino “normale” non è il solito, disobbediente, piantagrane, capriccioso, volubile (“Si sa, è un bambino”), ma una persona ordinata, attenta a ciò che sta facendo, capace di sane iniziative, pronta ad aiutare altri senza che gli venga detto di farlo e quindi socievole. Questo non significa che la situazione sia sempre pacifica, ma è possibile affrontare gli ostacoli con la necessaria pacatezza.


Di che cosa si occupano i bambini? Tutto dipende dal ventaglio di proposte che la casa o la classe mettono a loro disposizione, partendo dall’osservazione dei loro giochi spontanei. Se consideriamo i piccoli nei primi 18-30 mesi soprattutto, vediamo il loro piacere nello sperimentare nei modi più diversi come le cose entrino in rapporto tra loro – il bambino sulla riva del mare con il dentro e fuori della sabbia o dei sassolini; aiutare la mamma a vuotare la borsa della spesa; aprire lo sportello, estrarne i pentolini, rimetterli dentro, chiudere, riaprire, ricominciando dieci, venti volte; infilare conchiglie o bottoni in un barattolo, i turaccioli in una scatolina…. Come ci ha mostrato Goldschmied con il Gioco Euristico: provare, sperimentare, catalogare, seriare compiendo le prime operazioni logico matematiche che il piccolo non sa neppure di avere, ma che già utilizza inconsapevolmente.


Abbiamo così scoperto un vero e proprio alfabeto del lavoro umano (come mi è piaciuto chiamarlo) di attività binarie ripetibili in modo uguale, come: / infilare e sfilare/ riempire e vuotare/ tirare e spingere/ aprire e chiudere / sovrapporre a torre e far cadere. Dentro ogni coppia di azioni a contrasto innumerevoli e originali le invenzioni dei bambini, che prendono spunto dagli oggetti che trovano. A volte due piccoli agiscono l’uno vicino all’altro, ciascuno preso in un’attività ripetuta, si guardano, ma proseguono attenti a ciò che stanno esplorando: non si imitano, né si scambiano gli oggetti. Può accadere anche a 18-20 mesi che uno cominci e un compagno entri con altre modalità, in collaborazione, un’azione ritmata a due, in grande concentrazione, grazie al clima calmo e non competitivo. [Per es. in uno dei nostri nidi è stato filmato un piccolo alle prese con un lungo tubo di cartone: viene avvicinato da una bimbetta con alcune noccioline che si ferma a osservare. A un certo momento ne fa correre una nel tubo, la nocciolina cade fuori, lei corre a raccoglierla, lui abbassa il tubo, lei vi mette di nuovo dentro la nocciolina, lui la fa scorrere fuori. Insieme avviano un gioco, che – ovviamente senza parole a questa età – si esaurisce dopo una decina di minuti e i due si separano in cerca di altro].


Queste semplici azioni sembrano futili, di scarso significato in quanto prive di finalità se non l’azione stessa: ma intanto, già intorno ai due anni, portano a constatare che il grande non entra nel piccolo; il troppo cade fuori da un contenitore minuscolo; pezzi di legno si sovrappongono più facilmente di ciottoli tondeggianti; molti oggetti cadendo fanno rumore; l’acqua bagna, ma si può asciugare con una spugnetta o con un piccolo strofinaccio... Ogni bambino/bambina, originale nella propria indagine, proprio in questi primi anni comincia a esprimere la capacità di un’intensa concentrazione, un potere mentale prezioso, da proteggere al massimo anche per tanti aspetti della futura vita adulta.


Quando hanno realizzato tanta esplorazione personale, scatta il gioco di imitazione. Non è il “far finta di…”, come si usa dire, ma fare come il genitore, il dottore, la maestra: dar da mangiare al pupazzo preferito, curare le bambole malate, metterle a letto coprendole con un lenzuolino, disporle in fila per cantare loro la ninna nanna imparata al nido...


I neuroni specchio sono da tempo in azione e lo sguardo è già più rivolto verso l’esterno. Emergono talune preferenze: un piccolo gioco con scherzetto finale per poter dire subito dopo: “Ancora!”; tagliare la frutta con un coltellino adatto; guardare un libro; lavare e asciugare piattini e posate; fare impronte con i colori a dita…Non disturbiamoli quando sono profondamente assorti nelle loro attività. Piccoli geni in erba, sono al lavoro più importante: la costruzione di sé. Quando inventano qualcosa di rischioso, interveniamo, ma con garbo, senza spaventarli, tanto meno sgridarli. Non sanno nulla dei pericoli, devono conoscerli a gradi, non nella paura, piuttosto scoprendo come affrontarli o evitarli. Seguiamoli nelle loro proposte, evitiamo di escluderle a priori come assurdità. Diamo però limiti precisi, secondo il criterio dei pochi No e dei molti Si, gli uni e gli altri fermi e coerenti in casa tra i familiari o tra casa e nido.


Imparano dalle esperienze per prove e tentativi, come diceva Galileo del suo impegno di astronomo. Lasciamo che ci aiutino nelle pulizie domestiche con la spugna o una scopa di dimensioni ridotte, in cucina a impastare, usare formine per biscotti, decorare pizzette…Libera scelta non significa fare qualunque pazzeria: i confini aiutano a crescere, a sentirsi protetti e i piccoli lo intuiscono molto bene.


Un esempio: quando la piccola Laila di 30 mesi mi viene a trovare, cerca tra le mie cose un certo barattolino di crema per le mani, lo prende, le dico di sì con un sorriso e lei dice “poca poca”, sempre ricordando la prima volta, mesi addietro, in cui l’aprì e io le dissi: “poca poca”. Lei ripete allo stesso modo, misurando il gesto per metterne, seria, una briciola sulla sua mano e una sulla mia.


Grande rilievo assumono nella relazione con i bambini le parole che usiamo, il tono della voce, la misura nel dialogo. Fin da neonati ci ascoltano. Per questo, anche se sembrano non ascoltare, non capire, dovremmo sempre preannunciare ciò che stiamo per fare con loro e su di loro e, dopo, dire che cosa sia avvenuto (ora ti levo il pannolino / ecco ora non sei più bagnato). Così pure ci ha insegnato Pikler che chiedeva alle educatrici di Lòczy di anticipare sempre con le parole ciò che si proponeva al bambino perché la prevedibilità dell’azione lo contiene e lo fa sentire protetto, dentro la relazione con la persona che si occupa di lui o lei.


Attenzione, però: “Le parole tue sien conte”, per dirla con Dante. Non fiume di discorsi in cui il bambino si perde, meglio brevi frasi che accompagnano le esperienze, alimentando la costruzione del linguaggio e insieme rafforzando il legame affettivo.


Anche nel nido tra l’educatrice di riferimento e il bambino di cui si prende cura, le parole – oltre il gesto – sottolineano aspetti della capacità tipicamente umana del comunicare. Evitiamo, come si sente fare con una falsa aria “montessoriana” di mettere in bocca al bambino parole che lui non saprebbe usare. Per esempio, quando chiede di un certo gioco e l’adulto gli risponde: “Vuoi prendere quel lavoro?”. Oppure lo interpella chiamandolo con termini di apprezzamento (“Bravo, Carino, Bellezza”), ma con un tono che dice esattamente il contrario. Elinor Goldchmied, contraria all’enfasi affettiva verso i bambini e al continuo supporto elogiativo, proponeva di usare piuttosto “bene” che “bravo” perché il primo si riferisce a una azione appena fatta condividendola, il secondo esprime un giudizio sulla persona. Ci sono educatrici che affibbiano nomignoli o diminutivi a certi bambini e non ad altri (“Ma che c’è di male?”) senza rendersi conto di esprimere una preferenza o un giudizio negativo, termini che confondono un piccolo che sta costruendo il suo Sé.


Quando cresce e si mostra intento nelle attività che ha scelto, dobbiamo astenerci dal parlare, dal distrarlo spostando la sua attenzione da ciò che ha intrapreso (salvo ovviamente i pericoli) all’adulto. Un’azione che, se abituale, annulla la capacità innata di concentrarsi. Un comportamento che non “si impara” in seguito, ma è uno stato mentale innato da proteggere, rispettandolo ogni volta che lo si osservi: che sia lo sguardo del bambino su una lampada accesa o sulle foglie mosse dal vento oltre la finestra, o un’esperienza del dentro e fuori di oggetti da un contenitore o il momento del pranzo quando s’impegna nell’uso indipendente del cucchiaio oppure …


Mi è accaduto di osservare durante un pranzo di famiglia con una decina di persone, una piccola di 2 anni e mezzo che, radunati attorno a sé tre o quattro bicchieri con poca acqua, per circa quindici minuti, silenziosa e attentissima, in mezzo alle rumorose voci degli adulti, ha attuato una splendida attività di travaso, senza versarne neppure una goccia.


In un’altra occasione ho osservato un bambino di nemmeno 2 anni che, trovati alcuni fazzoletti stirati, ha trascorso circa mezz’ora ad aprirli e a ripiegarli con cura, secondo la stiratura.


In un nido una proposta di infilo, preparata per i bambini che avevano ormai superato i 3 anni, è stata presa da un piccolo di 38 mesi che ha usato in grande concentrazione l’ago già pronto con il filo di cotone da macchina, per infilarvi molte stelline di pasta prese da una proposta di travaso. Il fatto interessante è che egli dapprima ha riunito tutto il necessario, mostrando di avere al riguardo un suo progetto: lo ha immaginato.


Altro aspetto importante è il dare una giusta sistemazione agli oggetti che un bambino preferisce usare. Ancora: sia Pikler che Goldschmied ci hanno mostrato come l’ordine esterno dei giochi, dei materiali, delle abitudini della giornata al nido aiutino l’ordine “interno” del bambino e lo tranquillizzino. Un’amica che aveva poco spazio e poco denaro aveva fissato in un angolo di casa quattro cassette da frutta, di quelle alte di legno, ben lisciate, come piano d’appoggio basso, comodissimo per il figliolino. “Non smetto di meravigliarmi nel vedere che cosa riesce a fare con quelle sue piccole mani”, commentò questa madre.


Fidiamoci della loro incredibile memoria, del loro innato senso di ordine, usiamo gentilezza e, dal tempo antico, non dimentichiamo il buon esempio.

Tre sguardi sul bambino
Tre sguardi sul bambino
Grazia Honegger Fresco, Emanuela Cocever, Barbara Ongari
Viaggio alla scoperta di Maria Montessori, Emmi Pikler ed Elinor Goldschmied.Le prospettive educative di tre grandi pioniere dell’educazione che hanno posto in evidenza il ruolo centrale di ogni bambino nella realizzazione del proprio percorso di crescita. Tre sguardi sul bambino, scritto a sei mani dalle autrici Grazia Honegger Fresco, Emanuela Cocever e Barbara Ongari, intende tracciare sinteticamente la vita e le opere di Maria Montessori, Emmi Pikler ed Elinor Goldschmied, tre grandi pioniere dell’educazione, che hanno posto in evidenza il ruolo centrale di ogni bambino nella realizzazione del proprio percorso di crescita. Le prospettive personali con cui ciascuna propone i fondamenti dell’azione educativa (quali l’osservazione, la qualità dei materiali, le modalità dell’intervento adulto) ne mettono in luce l’importanza e l’attualità anche nella pratica professionale degli educatori e degli insegnanti di oggi. Il nostro compito è quello di dare aiuto quando viene richiesto. Se stiamo attenti a non interferire con le attività del bambino e con i suoi interessi, a meno che non diventino pericolosi, sarà la natura a occuparsi del suo sviluppo.Maria Montessori L’essenziale è che il bambino scopra le cose il più possibile da solo. Se lo aiutiamo a trovare la soluzione a tutti i problemi, lo priviamo di qualcosa di essenziale al suo sviluppo. Un bambino che raggiunge qualcosa attraverso la propria esperienza, acquisisce un sapere di qualità superiore a quella che raggiungerebbe se qualcuno gli offrisse la soluzione.Emmi Pikler Gli adulti spesso pensano che, se non intervengono direttamente nel gioco, sono privati di un ruolo; non si rendono conto che è solo la loro presenza a dare fiducia ai bambini mentre giocano e imparano. Elinor Goldschmied Conosci l’autore Grazia Honegger Fresco (Roma, 6 Gennaio 1929 - Castellanza, 30 Settembre 2020), allieva di Maria Montessori, ha sperimentato a lungo la forza innovativa delle sue proposte nelle maternità, nei nidi, nelle Case dei Bambini e nelle Scuole elementari. Sulla base delle esperienze realizzate con i bambini e i loro genitori, ha dedicato molte delle sue energie alla formazione degli educatori in Italia e all'estero.È stata presidente del Centro Nascita Montessori di Roma dal 1981 al 2003 e ne è stata Presidente onorario. È stata consulente pedagogica di AMITE (Associazioni Montessori Italia Europa) e nel 2008 ha ricevuto il premio UNICEF-dalla parte dei bambini.Ha pubblicato numerosi testi di carattere divulgativo. Emanuela Cocever, già ricercatrice del Dipartimento di Scienze dell’educazione di Bologna, svolge attività di ricerca e formazione nell’ambito dell’Educazione Attiva e della Pedagogia Istituzionale. Con il gruppo interdisciplinare Centotrecentoscritture, si occupa di scrittura ed elaborazione dell’esperienza lavorativa nelle professioni di cura. Barbara Ongari, psicoterapeuta infantile, specialista dell’età evolutiva, svolge attività clinica a favore di bambini e famiglie e di formazione per gli operatori socio-sanitari ed educativi.