II fare dei bambini
di Grazia Honegger Fresco
Le loro azioni spontanee possiamo scoprirle solo se essi si trovano in condizione di autentica libertà di scelta. Di un giaguaro o di un topolino di campagna chiusi in gabbia possiamo conoscere assai poco delle loro abilità, attacco e difesa, cibo, cura della prole, rifugio ecc. Jean-Henri Fabre osservava le formiche senza distruggere i loro formicai; di altri insetti si limitava a notare le fasi di sviluppo nei loro luoghi di crescita. Eppure, ne ha scoperte di cose! Osservare senza alterare, né invadere. Nelle strutture tradizionali con bambini o con ragazzi si fa tutt’altro: si assegnano a una classe creando gruppi artificiali, sulla base dell’anno di nascita, il più possibile simili anche per capacità. (Da non molto si accetta la co-educazione di ambo i sessi e l’ingresso ai diversi per etnia/ colore di pelle). Anche se tavolini posti in modo variato hanno sostituito i banchi in tre file, gli “alunni” sono tutti seduti in attesa dell’ordine di un adulto o della sua lezione, da ricordare e da ripetere con la massima precisione possibile. Chi non è in grado di farlo, è giudicato incapace, punito con il “brutto voto”. Più stanno zitti e fermi in ascolto passivo, più ricevono lodi e premi, spinti così a una continua competizione che umilia i lenti, i timidi. Sembrano marionette tenute per i fili da docenti più o meno abili nel mantenere “la disciplina” o soldatini, ligi al dovere, con tanto di divisa che li fa apparire – a uno sguardo superficiale – tutti identici tra loro.
Questo modello affermatosi nell’Ottocento ha avuto molti critici, ma a demolirlo in modo definitivo a inizio Novecento è stata Montessori, che ha denunciato il banco, l’uso del sistema bastone/carota, e ha annotato le sue osservazioni di ragazzini considerati irrecuperabili e di piccoli “normali”, considerati però come capricciosi e distruttivi. Osservare era stato lo strumento diagnostico della facoltà di medicina dove si era laureata, in un’epoca in cui non ne esistevano altri e lei lo trasferì nel lavoro con i ragazzini fatti uscire dal manicomio, poi con i bambini fino a sei anni a San Lorenzo. Guardò gli uni e gli altri con fiducia, interesse e via via arricchì lo spazio di lavoro con proposte tra le quali potessero scegliere a piacere.
Che noia le cose tutte uguali! Meglio eliminare anche i doppioni, introdurre se mai varianti, per ravvivare la curiosità. Montessori (ma oltre a lei anche Goldschmied) si rese ben presto conto che dovevano cominciare liberando gli adulti da tanti pregiudizi sui bambini, aiutarli a sentirsi, prima che docenti, educatori in grado di controllare il proprio tono di voce, eliminare l’atteggiamento giudicante e dittatoriale per favorire l’auto-educazione. In compenso apprezzare fin dalla nascita la potente vita psichica di ogni essere umano, le sensibilità che lo guidano nella crescita, i cambiamenti che emergono nel passare degli anni della “lunga infanzia umana”.
Perché tutto parte dalla libera scelta? È il gesto più antico, fin dai popoli raccoglitori in cerca di cibo. Di qui, attraverso scoperte e invenzioni, siamo arrivati dopo millenni al mondo attuale e ancora scegliamo. Il commercio, le leggi, le arti, il cibo, il vestiario… ogni aspetto dell’esistenza umana è basato sulla scelta. Quelli che possono scegliere meno sono i bambini e i ragazzi in famiglia o nelle strutture in cui i genitori li immettono, delegando ad altri adulti il compito di averne cura: passaggio diventato meno formativo, al contrario più informativo, al fine di rendere facilmente valutabili i risultati. Montessori ha demolito anche questo aspetto, mettendo in luce la crescita equilibrata, la capacità di “polarizzare la propria attenzione” e di divenire indipendenti nella cura di sé e delle cose: figli e allievi liberati dalla paura, grazie al rispetto con cui vengono seguiti, all’assenza di aiuti inutili, di ordini e di sgridate.
Se gli adulti cambiano il loro abito antico di giudici e diventano guide delicate e presentano l’uso di maniglie, rubinetti, utensili (come aprire e chiudere una porta / usare le forbici per ottenere tagli esatti / come portare un bicchiere pieno d’acqua senza versarla /o usare il pennello perché il colore non sgoccioli). Noi adulti conosciamo tutti i segreti per agire al meglio: mostriamoli adagio un giorno dopo l’altro per assicurare a ogni bambino altrettanti incoraggianti successi. Come diceva Bruno Munari (1996), insegnare il come, non il che cosa. Non si danno modelli da copiare, lezioncine da ripetere a pappagallo; tanto meno compiti a casa, perché le cose si risolvono meglio nel grande gruppo dove, accanto al lavoro individuale che consente approfondimenti, può crescere il gusto di “fare insieme” con il compagno più gradito o trovare l’aiuto necessario senza per questo essere giudicati.
Bambini inquieti, distratti, aggressivi o, al contrario, insicuri, ritrosi, lentamente cambiano, raggiungono uno stato di calma interiore, di attenzione prolungata, di interesse spontaneo verso gli altri, processo definito da Montessori di “normalizzazione”. Il bambino “normale” non è il solito, disobbediente, piantagrane, capriccioso, volubile (“Si sa, è un bambino”), ma una persona ordinata, attenta a ciò che sta facendo, capace di sane iniziative, pronta ad aiutare altri senza che gli venga detto di farlo e quindi socievole. Questo non significa che la situazione sia sempre pacifica, ma è possibile affrontare gli ostacoli con la necessaria pacatezza.
Di che cosa si occupano i bambini? Tutto dipende dal ventaglio di proposte che la casa o la classe mettono a loro disposizione, partendo dall’osservazione dei loro giochi spontanei. Se consideriamo i piccoli nei primi 18-30 mesi soprattutto, vediamo il loro piacere nello sperimentare nei modi più diversi come le cose entrino in rapporto tra loro – il bambino sulla riva del mare con il dentro e fuori della sabbia o dei sassolini; aiutare la mamma a vuotare la borsa della spesa; aprire lo sportello, estrarne i pentolini, rimetterli dentro, chiudere, riaprire, ricominciando dieci, venti volte; infilare conchiglie o bottoni in un barattolo, i turaccioli in una scatolina…. Come ci ha mostrato Goldschmied con il Gioco Euristico: provare, sperimentare, catalogare, seriare compiendo le prime operazioni logico matematiche che il piccolo non sa neppure di avere, ma che già utilizza inconsapevolmente.
Abbiamo così scoperto un vero e proprio alfabeto del lavoro umano (come mi è piaciuto chiamarlo) di attività binarie ripetibili in modo uguale, come: / infilare e sfilare/ riempire e vuotare/ tirare e spingere/ aprire e chiudere / sovrapporre a torre e far cadere. Dentro ogni coppia di azioni a contrasto innumerevoli e originali le invenzioni dei bambini, che prendono spunto dagli oggetti che trovano. A volte due piccoli agiscono l’uno vicino all’altro, ciascuno preso in un’attività ripetuta, si guardano, ma proseguono attenti a ciò che stanno esplorando: non si imitano, né si scambiano gli oggetti. Può accadere anche a 18-20 mesi che uno cominci e un compagno entri con altre modalità, in collaborazione, un’azione ritmata a due, in grande concentrazione, grazie al clima calmo e non competitivo. [Per es. in uno dei nostri nidi è stato filmato un piccolo alle prese con un lungo tubo di cartone: viene avvicinato da una bimbetta con alcune noccioline che si ferma a osservare. A un certo momento ne fa correre una nel tubo, la nocciolina cade fuori, lei corre a raccoglierla, lui abbassa il tubo, lei vi mette di nuovo dentro la nocciolina, lui la fa scorrere fuori. Insieme avviano un gioco, che – ovviamente senza parole a questa età – si esaurisce dopo una decina di minuti e i due si separano in cerca di altro].
Queste semplici azioni sembrano futili, di scarso significato in quanto prive di finalità se non l’azione stessa: ma intanto, già intorno ai due anni, portano a constatare che il grande non entra nel piccolo; il troppo cade fuori da un contenitore minuscolo; pezzi di legno si sovrappongono più facilmente di ciottoli tondeggianti; molti oggetti cadendo fanno rumore; l’acqua bagna, ma si può asciugare con una spugnetta o con un piccolo strofinaccio... Ogni bambino/bambina, originale nella propria indagine, proprio in questi primi anni comincia a esprimere la capacità di un’intensa concentrazione, un potere mentale prezioso, da proteggere al massimo anche per tanti aspetti della futura vita adulta.
Quando hanno realizzato tanta esplorazione personale, scatta il gioco di imitazione. Non è il “far finta di…”, come si usa dire, ma fare come il genitore, il dottore, la maestra: dar da mangiare al pupazzo preferito, curare le bambole malate, metterle a letto coprendole con un lenzuolino, disporle in fila per cantare loro la ninna nanna imparata al nido...
I neuroni specchio sono da tempo in azione e lo sguardo è già più rivolto verso l’esterno. Emergono talune preferenze: un piccolo gioco con scherzetto finale per poter dire subito dopo: “Ancora!”; tagliare la frutta con un coltellino adatto; guardare un libro; lavare e asciugare piattini e posate; fare impronte con i colori a dita…Non disturbiamoli quando sono profondamente assorti nelle loro attività. Piccoli geni in erba, sono al lavoro più importante: la costruzione di sé. Quando inventano qualcosa di rischioso, interveniamo, ma con garbo, senza spaventarli, tanto meno sgridarli. Non sanno nulla dei pericoli, devono conoscerli a gradi, non nella paura, piuttosto scoprendo come affrontarli o evitarli. Seguiamoli nelle loro proposte, evitiamo di escluderle a priori come assurdità. Diamo però limiti precisi, secondo il criterio dei pochi No e dei molti Si, gli uni e gli altri fermi e coerenti in casa tra i familiari o tra casa e nido.
Imparano dalle esperienze per prove e tentativi, come diceva Galileo del suo impegno di astronomo. Lasciamo che ci aiutino nelle pulizie domestiche con la spugna o una scopa di dimensioni ridotte, in cucina a impastare, usare formine per biscotti, decorare pizzette…Libera scelta non significa fare qualunque pazzeria: i confini aiutano a crescere, a sentirsi protetti e i piccoli lo intuiscono molto bene.
Un esempio: quando la piccola Laila di 30 mesi mi viene a trovare, cerca tra le mie cose un certo barattolino di crema per le mani, lo prende, le dico di sì con un sorriso e lei dice “poca poca”, sempre ricordando la prima volta, mesi addietro, in cui l’aprì e io le dissi: “poca poca”. Lei ripete allo stesso modo, misurando il gesto per metterne, seria, una briciola sulla sua mano e una sulla mia.
Grande rilievo assumono nella relazione con i bambini le parole che usiamo, il tono della voce, la misura nel dialogo. Fin da neonati ci ascoltano. Per questo, anche se sembrano non ascoltare, non capire, dovremmo sempre preannunciare ciò che stiamo per fare con loro e su di loro e, dopo, dire che cosa sia avvenuto (ora ti levo il pannolino / ecco ora non sei più bagnato). Così pure ci ha insegnato Pikler che chiedeva alle educatrici di Lòczy di anticipare sempre con le parole ciò che si proponeva al bambino perché la prevedibilità dell’azione lo contiene e lo fa sentire protetto, dentro la relazione con la persona che si occupa di lui o lei.
Attenzione, però: “Le parole tue sien conte”, per dirla con Dante. Non fiume di discorsi in cui il bambino si perde, meglio brevi frasi che accompagnano le esperienze, alimentando la costruzione del linguaggio e insieme rafforzando il legame affettivo.
Anche nel nido tra l’educatrice di riferimento e il bambino di cui si prende cura, le parole – oltre il gesto – sottolineano aspetti della capacità tipicamente umana del comunicare. Evitiamo, come si sente fare con una falsa aria “montessoriana” di mettere in bocca al bambino parole che lui non saprebbe usare. Per esempio, quando chiede di un certo gioco e l’adulto gli risponde: “Vuoi prendere quel lavoro?”. Oppure lo interpella chiamandolo con termini di apprezzamento (“Bravo, Carino, Bellezza”), ma con un tono che dice esattamente il contrario. Elinor Goldchmied, contraria all’enfasi affettiva verso i bambini e al continuo supporto elogiativo, proponeva di usare piuttosto “bene” che “bravo” perché il primo si riferisce a una azione appena fatta condividendola, il secondo esprime un giudizio sulla persona. Ci sono educatrici che affibbiano nomignoli o diminutivi a certi bambini e non ad altri (“Ma che c’è di male?”) senza rendersi conto di esprimere una preferenza o un giudizio negativo, termini che confondono un piccolo che sta costruendo il suo Sé.
Quando cresce e si mostra intento nelle attività che ha scelto, dobbiamo astenerci dal parlare, dal distrarlo spostando la sua attenzione da ciò che ha intrapreso (salvo ovviamente i pericoli) all’adulto. Un’azione che, se abituale, annulla la capacità innata di concentrarsi. Un comportamento che non “si impara” in seguito, ma è uno stato mentale innato da proteggere, rispettandolo ogni volta che lo si osservi: che sia lo sguardo del bambino su una lampada accesa o sulle foglie mosse dal vento oltre la finestra, o un’esperienza del dentro e fuori di oggetti da un contenitore o il momento del pranzo quando s’impegna nell’uso indipendente del cucchiaio oppure …
Mi è accaduto di osservare durante un pranzo di famiglia con una decina di persone, una piccola di 2 anni e mezzo che, radunati attorno a sé tre o quattro bicchieri con poca acqua, per circa quindici minuti, silenziosa e attentissima, in mezzo alle rumorose voci degli adulti, ha attuato una splendida attività di travaso, senza versarne neppure una goccia.
In un’altra occasione ho osservato un bambino di nemmeno 2 anni che, trovati alcuni fazzoletti stirati, ha trascorso circa mezz’ora ad aprirli e a ripiegarli con cura, secondo la stiratura.
In un nido una proposta di infilo, preparata per i bambini che avevano ormai superato i 3 anni, è stata presa da un piccolo di 38 mesi che ha usato in grande concentrazione l’ago già pronto con il filo di cotone da macchina, per infilarvi molte stelline di pasta prese da una proposta di travaso. Il fatto interessante è che egli dapprima ha riunito tutto il necessario, mostrando di avere al riguardo un suo progetto: lo ha immaginato.
Altro aspetto importante è il dare una giusta sistemazione agli oggetti che un bambino preferisce usare. Ancora: sia Pikler che Goldschmied ci hanno mostrato come l’ordine esterno dei giochi, dei materiali, delle abitudini della giornata al nido aiutino l’ordine “interno” del bambino e lo tranquillizzino. Un’amica che aveva poco spazio e poco denaro aveva fissato in un angolo di casa quattro cassette da frutta, di quelle alte di legno, ben lisciate, come piano d’appoggio basso, comodissimo per il figliolino. “Non smetto di meravigliarmi nel vedere che cosa riesce a fare con quelle sue piccole mani”, commentò questa madre.
Fidiamoci della loro incredibile memoria, del loro innato senso di ordine, usiamo gentilezza e, dal tempo antico, non dimentichiamo il buon esempio.