CAPITOLO 2

Emmi Pikler

di Emanuela Cocever

Emmi Pikler non si è mai presentata sulla scena pubblica come rappresentante di una in particolare delle scienze dell’educazione. Era una pediatra e, come alcuni pediatri o medici a buon titolo presenti nella storia dell’educazione (da Itard a Korczak, da Montessori a Decroly…) ha praticato un’idea di salute intesa come benessere del soggetto e ha applicato attenzione, preoccupazioni, interventi e suggerimenti a tutti gli ambiti e gli attori che il benessere dei bambini implica. Per questo si può con altrettanta fondatezza parlare della sua pratica in termini di cura, clinica, educazione.

La biografia

Le date

Emmi Pikler nasce a Vienna nel 1902; nel 1908 si trasferisce, con la famiglia, a Budapest, fra il 1920 e il 1930 torna a Vienna dove studia medicina e si specializza in pediatria.


Nel 1930 si sposa e ha due figli.


Dal 1931 al 1945 svolge la pratica professionale a Budapest, insegna in corsi di formazione per puericultrici e maestre giardiniere e pubblica un testo rivolto alle madri Cosa sa fare il vostro bambino. Nello stesso periodo è attiva nel movimento di opposizione al regime di Horty; il marito, resistente comunista, è arrestato e incarcerato dal 1935 al 1944.


Nel 1946 crea, su richiesta del Ministero della salute e della sicurezza sociale, in via Lόczy, di un servizio residenziale per bambini 0-3 anni, orfani.

Dirige il servizio dal 1946 al 1979. Dal 1979, in pensione, svolge attività di formazione in Ungheria e in Germania. Muore a Budapest nel 1984.


L’Istituto è diretto, successivamente, da Judit Falk, Gabriela Puspoki, Anna Tardos.


A partire dal 1984 nascono Associazioni Pikler Lόczy in varie nazioni d’ Europa e del Nord e Sud America.


Sotto la direzione di Anna Tardos, l’istituto prosegue la sua attività e la sua equipe svolge una sempre più intensa attività di formazione per operatori della prima infanzia (educatrici, pedagogisti, psicologi, medici, neuropsichiatri infantili); all’estero, specialmente in Germania, Francia, Svizzera, Italia.


Nel 1998 l’Istituto Pikler-Lόczy passa alla gestione di una Fondazione pubblica con finanziamento privato e sostegno di una Associazione internazionale.


Nella sua attività la Fondazione è affiancata da una Associazione Internazionale che raggruppa associazioni nazionali o gruppi rappresentativi di diversi paesi.1

Lo sfondo2

Arbeitspadagogik, Education Nouvelle, Educazione attiva sono i termini che designano, in diverse aree linguistiche, un insieme di riflessioni ed esperienze educative diverse per riferimenti teorici, intenzioni, condizioni di realizzazione, collocazione nel tempo e nello spazio, accomunati dal considerare il bambino e la bambina, o qualsiasi interlocutore dell’intervento educativo come parte attiva del processo educativo e dal ritenere che ogni apprendimento debba realizzarsi attraverso l’esperienza agita del soggetto in formazione. P. Bovet riassumeva quello che distingue pensatori e operatori che si riconoscono in questo movimento, nella considerazione che invece di preoccuparsi di sfruttare le capacità ricettive del bambino, per imprimere in questa cera molle conoscenze e abitudini […] vedono, anche e soprattutto, nel bambino, l’organismo eminentemente attivo le cui facoltà si sviluppano attraverso l’attività3.


Le esperienze dell’Educazione attiva, all’inizio del 900 e, soprattutto, con la fine della Prima guerra mondiale, diventano, in Europa principalmente, ma non esclusivamente, un movimento che conosce un impulso particolare, mosso da due fenomeni, uno di carattere politico e sociale, l’altro di carattere scientifico e culturale. Un ampio dibattito esce dalla cerchia ristretta di un gruppo di studiosi e operatori per interessare categorie di professionisti della scuola, della salute, politici e amministratori.


L’esperienza dell’ingiustizia nella detenzione del potere e delle tragiche conseguenze che questa comporta nella vita quotidiana di uomini e donne, in particolare quella della imperizia delle gerarchie militari, quindi dell’ingiustizia sociale di fronte ai rischi mortali della guerra, è decisiva per l’affermazione di un’esigenza di giustizia sociale che si afferma esplicitamente in movimenti politici e azioni di diverse organizzazioni sociali. Fra le categorie più attive ci sono quelle degli insegnanti e degli educatori. L’accoglienza riservata ai bambini usciti dalla guerra senza famiglia e la scuola sono al centro di molte rivendicazioni. Freinet, in una lettera degli anni ’20 scrive: “Un popolo che si è unito durante la guerra, non può essere diviso durante la pace […] i padri hanno fatto la guerra assieme nelle trincee […] i figli devono sedersi gli uni accanto agli altri, negli stessi banchi”.4


La diffusione, fra insegnanti e educatori, di quanto alcuni psicologi e i primi psicanalisti stavano studiando circa aspetti fino allora trascurati dello sviluppo, le prospettive aperte dai loro lavori, l’interesse suscitato dai lavori di Wund e Stern in Germania, di Binet in Francia, confermano, a proposito della costruzione della personalità, del carattere, dell’intelligenza, l’intuizione di molti educatori che educazione e apprendimento sono fenomeni complessi nei quali l’attività dell’interlocutore non è meno importante di quella dell’educatore. Il successo dell’educazione dipende da una collaborazione che si può raggiungere tenendo conto di aspetti che erano stati la parte sommersa di un iceberg, la cui esplorazione è finalmente in corso.


Per il movimento dell’EA il bambino è protagonista dello sviluppo e dell’apprendimento, l’adulto, insegnante o educatore, lo accompagna in una posizione che ha due caratteristiche principali: la previsione positiva e l’equilibrio fra quelli che Ph. Meirieu definisce i principi ‘libertà’ e ‘educabilità’:


La storia dell’Educazione attiva è fatta di scommesse: un bambino [o una bambina, un ragazzo, una donna…] è dichiarato ‘perso’, ‘anormale’, ‘ritardato’… ed ecco che un uomo o una donna si fanno avanti e rifiutano questa sentenza. Affermano che ‘si può fare qualcosa’, che non ci si deve rassegnare. Si mettono al lavoro ribellandosi alla fatalità alla quale altri attorno a loro si sottomettono. Inventano metodi, cercano soluzioni, attuano dispositivi per riportare il soggetto che era stato messo ai margini, nello scambio sociale. A volte, anzi, spesso, non ci riescono completamente. Ma il loro interlocutore fa comunque dei progressi. Spesso li fa con difficoltà, ma li fa in modo da non perdere la speranza. Questi uomini e queste donne hanno fatto la scommessa dell’educabilità […] una scommessa infinitamente necessaria. Una scommessa che è il senso del lavoro dell’educatore.5


Questa affermazione evita il rischio della demagogia e si mantiene nel campo drammatico, ma reale dell’educazione, perché è accompagnata dalla considerazione della necessità di ottenere la collaborazione, di attivare la voglia di partecipare al progetto educativo, da parte dell’interlocutore dell’azione educativa.


È necessario che a un certo punto decidiamo di fare qualcosa di noi stessi e l’educatore non può farlo al posto dell’educando, può solo creare le condizioni perché l’altro prenda lui stesso la decisione, si assuma il rischio. Quello che oggi abbiamo capito […] è che non si può crescere al posto di qualcun altro. Si può, si deve, essere presenti, fare il possibile per aiutarlo. È il principio di educabilità...

Ma bisogna rispettare che sia l’altro a decidere, alla fine, del suo destino e dei suoi apprendimenti: è il principio di libertà. Il principio di libertà è indissociabile dal principio di educabilità. Senza rispetto della libertà l’educabilità diventa addestramento. Senza educabilità il rispetto della libertà si trasforma in fatalismo.6


Kerschensteiner, Freinet, Dewey, Baden Powell, Tagore sono nomi di riferimento quando si vuole ricordare il movimento che è, in realtà, un fenomeno con radici ed estensione maggiori, con un andamento carsico nella storia dell’educazione, e i nomi di educatori e pensatori che vi vengono collocati, variano con gli approcci disciplinari e la prospettiva dei ricercatori: Montaigne ed Erasmo sono nominati da alcuni studiosi, Rousseau e Pestalozzi da quasi tutti, Itard dai pochi che lo conoscono, Montessori e Bernfeld di nuovo da alcuni …


Il contributo originale di Emmi Pikler a questo movimento sta nel suo averne realizzato i principi osservando e occupandosi di bambini nei primi tre anni di vita. Sicuramente, nel movimento dell’Educazione attiva il corpo dei bambini è ben presente nel pensiero di educatori e studiosi e nella organizzazione delle esperienze: vivere il corpo e, dove è possibile, a stretto contatto con la natura, è una dimensione importante nei progetti ricordati, da Rousseau a Baden Powell. Ma si tratta di un corpo ‘civilizzato’, ‘culturalizzato’. Man mano che si retrocede nel processo di socializzazione e si arriva al momento in cui i bambini hanno (sono) il corpo per elaborare l’essere al mondo, esperienze e progetti educativi si diradano fino a scomparire e il campo è lasciato all’amore materno, poi, più recentemente, all’attenzione degli psicologi. L’azione educativa è pensata da poche/i.

La storia drammatica e non di rado tragica dei servizi residenziali per bambini molti piccoli, testimonia questo vuoto pedagogico.


Praticare una intensa osservazione dei bambini nell’età in cui il corpo è il loro strumento globale per sentire, entrare in relazione, pensare, mette Emmi Pikler in contatto con fenomeni che, per la maggior parte dei suoi contemporanei sono una specie di terra di nessuno e che per lei, invece, aprono interrogativi, piste di ricerca e risposte operative.


Ho dedicato spazio alla descrizione dello sfondo sul quale si colloca l’opera di Emmi Pikler e lo scenario condiviso con educatori e pensatori dello stesso periodo perché, in un testo come questo, che tratta della conoscenza e della trasmissione di alcune esperienze di grande qualità educativa, è importante conoscere il contesto in cui chi ne è protagonista ha preso le mosse, per non farsi trasportare dall’idea romanticistica che queste siano tratti di una genio che si innalza sopra una diffusa banalità, lasciandosela alle spalle. Le esperienze che a noi sembrano esemplari non nascono nel vuoto.


(Il pensiero comune è una linfa vitale di cui si possono fare usi assai diversi.)

Riconoscere quello che Emmi Pikler deve al territorio e alla cultura in cui è nata e ha vissuto, permette di apprezzarne l’originalità che sta, più che nelle idee, nel modo in cui ha le ha declinate, collegate e agite.


Le idee sono condivise, il modo di comporle nell’operosità, quello è originale…

Se si pensa che l’azione educativa sia costituita essenzialmente dall’applicazione di alcune conoscenze, idee, materiali, si può anche pensare che il trasferimento di quei dispositivi intellettuali e materiali permetta il beneficio che, in principio, è stato ricavato dal loro utilizzo. Ma la riuscita di un’azione educativa non si spiega solo con la presenza di alcuni mediatori. I mediatori sono importanti, ma non sufficienti: la riuscita è fatta da molte piccole cose. In poche parole, mille piccole cose, quasi dei dettagli, fattori estremamente sensibili, dei soggetti particolari, un contesto che non è uguale ad altri, un incontro particolare, un coraggio, una voglia, una posizione, delle parole, un modo di essere che fanno sì che il dispositivo sia abitato e possa arrivare a creare qualcosa.


Un’azione educativa non si riduce dunque a un dispositivo, si realizza nella temporalità, nel corso della quale un progetto si struttura nel possibile, con fallimenti, aggiustamenti, decisioni, ripensamenti, interrogativi, rischi e intelligenza. Si riflette su quello che succede, si modifica, si inventa, si resta aperti a tutti i fattori in gioco, umani e materiali; si fanno delle scelte, si tiene conto degli altri.


In quel contesto particolare, con quel dirigente, quell’architettura, quel sindaco, quei colleghi, quell’ispettore, quei genitori, si è capaci di fare.


La riuscita di un’azione parte da un’idea, poi esige invenzione di fronte all’imprevisto. Si desidera creare qualcosa che non esiste ancora, e questo implica rischiare e sapere che si può fallire Ogni esperienza e legata al tempo, all’intelligenza dell’azione tanto quanto al dispositivo di partenza e al materiale di cui si dispone. Se si confonde l’azione pedagogica con il dispositivo, si cancella la microregolazione all’interno della quale si torna sui propri passi, si cerca di capire perché una cosa funziona e l’altra no, si diventa intelligenti accettando la resistenza.7


La presentazione che segue si dispone attorno alle idee incontrate da Emmi Pikler, si sofferma su quelle scelte e poi elaborate nel tempo, tenendo conto del contesto – che cambia e offre (o meglio impone) circostanze impreviste. La fedeltà alle idee richiede molti cambiamenti, attraverso i quali guadagna profondità e brillantezza.

La formazione

E. Pikler si iscrisse a Medicina nel 1920 e terminò gli studi nel ’27. Colleghe e famigliari ritengono che i sette anni passati a Vienna furono fortemente significativi per lei e che le esperienze che fece in quel periodo influenzarono grandemente le sue scelte successive. Questa convinzione si riferisce a due fatti in particolare: il clima culturale di Vienna negli anni ’20 e l’organizzazione del reparto di Pediatria dell’ospedale presso il quale E. Pikler fece la sua specializzazione.

Un laboratorio di politica sociale per la salute e l’educazione: Vienna negli anni ’20 e ’30.Idee appassionanti...

Quello che avviene a Vienna negli anni ’20 e ’30 è un fenomeno preparato da esperienze precedenti diffuse nel tempo e nello spazio, praticamente in tutte le nazioni coinvolte nel primo conflitto mondiale: la presenza in alcuni posti chiave della amministrazione di questa città, di uomini profondamente coinvolti nel rinnovamento (a Vienna W. Paulsner) permette l’esistenza di realizzazioni istituzionali innovative stabili al punto da potere lasciare tracce documentate.


Nel corso dei quegli anni ’20 del ’900 non erano solo gli educatori che guardavano al lavoro degli psicologi e degli psicanalisti, lo sguardo era reciproco fra professionisti sensibili al contesto e alle preoccupazioni accennate prima, accomunati dalla convinzione che i bambini non crescono solo per via di maturazione e grazie alla buona volontà da parte di chi si cura di loro, ma a seguito dell’intreccio di fenomeni in cui le responsabilità dei vicini prossimi si incrociano e intrecciano con quelli di adulti lontani, con la disponibilità di risorse... L’educazione è un diritto dei bambini e un dovere degli adulti, non solo dei genitori. Si afferma la preoccupazione per l’ambiente (con accezioni assai diverse, per fare solo alcuni esempio, da parte di Montessori, o Kirschensteiner o Claparède).


Emmi Pikler ha sempre sostenuto che deve a Clemens M. Pirquet e Hans Salzer, rispettivamente direttore della Clinica Pediatrica dell’Università di Vienna e responsabile della chirurgia nell’ospedale infantile della città, l’aver capito come ci di deve comportare con i bambini.8


Secondo Judith Falk, è con loro che capì cos’è un buon comportamento di cura. Clemens von Pirquet (1874-1824) fu direttore della clinica pediatrica dell’università di Vienna. I problemi che occupavano principalmente i medici universitari in quel periodo erano legati alle malattie infettive e all’alimentazione e von Pirquet condivise queste preoccupazioni con i suoi colleghi. Nell’ambito della ricerca medica il suo nome è legato agli studi sulla reazione alla tubercolina, ma il suo principale centro di interesse e la sua fama sono legate alla sua capacità clinica. Margareth Mahler, che collaborò con lui per un certo periodo, ne loda le grandi capacità osservative e le intuizioni innovative. Quando, nel 1911 divenne primario della clinica pediatrica vi istituì un dipartimento di “cure pedagogiche”, istituzionalizzando un ambito ospedaliero una forma di intervento in cui si intrecciavano tre ambiti disciplinari: pedagogia, pediatria e psichiatria. L’intreccio si realizzava tanto a livello di ricerca quanto a livello di pratica...


Ciò che caratterizza la pratica clinica di Pirquet è il fatto di considerare le cure somatiche e psichiche come un insieme. Da un lato l’atteggiamento del primario che gioca con i bambini, canta le filastrocche con loro determina l’atmosfera del reparto, dall’altro le sue convinzioni lo portano a cercare complementi all’approccio medico pediatrico.9


Judith Falk ha ascoltato spesso, dalla voce di Emmi Pikler, le caratteristiche più significative del suo approccio clinico: Von Pirquet insisteva perché i giovani medici formati nel suo servizio svolgessero l’insieme delle cure necessarie ai neonati, compreso l’occuparsi della somministrazione dei biberon. I futuri pediatri dovevano conoscere le cure quotidiane del bambino, la sua alimentazione, il modo in cui veniva cambiato. D’altra parte, l’ambiente della clinica era organizzato in modo che i bambini potessero scendere dai loro letti e andare a giocare. I bambini dovevano stare il più possibile all’aperto, nonostante il reparto fosse situato al quarto piano dell’edificio... Parquet fece attrezzare delle terrazze per i neonati...10


Il secondo maestro di Emmi Pikler a Vienna fu Hans Salzer (1861-1944), chirurgo nell’ospedale dei bambini della città di Vienna. Sempre Judith Falk ricorda le parole di Emmi Pikler: Salzer era convinto che era possibile esaminare un bambino e fagli delle medicazioni anche dolorose senza farlo piangere. Nel suo reparto era regola fondamentale avvicinarsi a ogni bambino con delicatezza e considerazione, consapevole del fatto di trovarsi di fronte un bambino attivo, sensibile e capace di reagire.11


Bisognava parlare al bambino, dirgli quello che si sarebbe fatto con lui...

... una in particolare

Nel corso della sua pratica nei reparti di pediatria, Emmi Pikler fu fortemente colpita dalle statistiche relative agli incidenti che causavano visite o ricoveri dei bambini: gli incidenti erano molto più gravi e frequenti per i bambini che provenivano da famiglie ricche, all’interno delle quali i bambini erano sempre accompagnati da balie e governanti; incidenti che avvenivano nel corso della vita di tutti i giorni, in casa o ai giardini: i bambini che giocavano per strada, senza controllo adulto, si facevano male in modo grave molto raramente.


Questa constatazione alimentò in Emmi Pikler l’ipotesi che la possibilità di muoversi in modo autonomo fosse una condizione importante e favorevole per un buon sviluppo. Le statistiche si riferivano a bambini grandi, in età da scuola, ma Emmi Pikler pensò che quanto valeva per loro valeva fin dall’inizio, anche per i neonati; pensò che ogni bambino in buona salute era capace di passare dalla posizione distesa a quella verticale e a camminare, correre… A condizione di poterlo fare secondo il suo ritmo, secondo le sue competenze e potendo decidere quali posture adottare e quali movimenti realizzare questo apprendimento per propria iniziativa, permette al bambino di acquisire una padronanza di quanto appreso, una capacità di autoregolazione che non sempre si sviluppa se gli apprendimenti sono reazioni a sollecitazioni. Da questa convinzione prenderanno le mosse le sue idee sullo sviluppo:

  • ogni bambino in condizione di sicurezza affettiva, quindi all’interno di una relazione significativa con un adulto di riferimento, è in grado di interessarsi al mondo esterno, ed è capace di agire il suo interesse attraverso l’osservazione, l’esplorazione, la progettazione, l’azione, ed è anche in grado di monitorare questo percorso con aggiustamenti ricorsivi;
  • l’apprendimento – tanto in forma di pensiero che di abilità pratiche – che un bambino realizza in questo modo, ha una qualità che non accompagna gli apprendimenti e le abilità raggiunte su sollecitazione esterna. Si tratta di abilità mentali e pratiche accompagnate dalla meta abilità del saper costruire l’abilità. È, quindi, l’apprendimento di qualcosa, ma, nello stesso tempo l’apprendimento del come si apprende e questo facilita al bambino la possibilità di costruire abilità in altri contesti;
  • l’intervento dell’adulto che non sia quello dell’intrattenere una relazione significativa e di mettere a disposizione del bambino un ambiente sicuro e adeguato al suo momento di sviluppo, è una interferenza che distrae il bambino dal suo essere operoso nel mondo. Se anche questa distrazione è accompagnata da uno scambio affettivo sincero, equilibrato, se abituale, ostacola la costruzione, da parte del bambino, di una capacità di autoregolazione e quindi della costruzione della capacità di scegliere, prendere decisioni, progettare, portare a termine i progetti avviati;
  • compito dell’adulto è intrattenere una relazione sicura con il bambino in uno scambio inizialmente di intensa vicinanza, poi, via via più distanziato e accogliente ad altri elementi dell’ambiente. Questo scambio fin dall’inizio, dai primi giorni di vita del bambino è improntato al principio che non si educa un bambino suo malgrado, né senza la sua partecipazione. Fin dalla nascita il bambino è un interlocutore senza la cui presenza attiva il processo educativo non esiste;
  • il primo strumento che aiuta l’adulto a riconoscere nel bambino un interlocutore è l’osservazione;
  • il primo ambito di esperienze e di sviluppo in cui ogni bambino e chi si cura di lui si mettono in relazione col mondo esterno secondo le modalità dette è quello del movimento.12

La Storia e la storia

Nel 1932, Emmi Pikler con il marito e la prima figlia tornarono a Budapest, Emmi Pikler e il marito si impegnarono nella rispettive pratiche professionali e allevarono la loro bambina, Anna, mettendo in pratica le idee che E. Pikler puntualizzava poco alla volta: lasciare che la bambina progredisse nelle posture e nei movimenti a suo ritmo; predisporre un ambiente che fosse sufficientemente ampio perché ci si potesse muovere quanto voleva garantendo le condizioni di sicurezza; metterle a disposizione giochi che potesse manipolare e combinare senza bisogno di un intervento esterno. Prendevano appunti di quanto succedeva. Parlando della sua infanzia, Anna Tordas racconta che il padre era fermo nel sostenere l’ipotesi e incoraggiava la moglie a confermare le scelte fatte: “Continua ad avere pazienza e osserva”.13


Nel 1934 la coppia ebbe un’altra figlia, che morì di polmonite a un anno e mezzo. In quel periodo Emmi Pikler iniziò la sua pratica come pediatra di famiglia: visitava le famiglie a casa perché le leggi antiebraiche non le permettevano di aprire uno studio in cui ricevere pazienti. Continuò questa attività per i 10 anni difficili che seguirono: nel 1936 Gyorgy Pikler fu arrestato per attività sovversiva (era membro del partito comunista) e restò in carcere fino alla fine della Seconda guerra mondiale.

Vita quotidiana e vita professionale

Nel corso di questo decennio Emmi Pikler visitava regolarmente il marito in carcere, lo aiutava nella redazione di scritti tecnici e politici, svolgeva la pratica di pediatra “itinerante”. Teneva anche lezioni in diversi corsi di formazione per figure professionali di cura (maestre giardiniere, infermiere), corsi privati perché gli ebrei non avevano accesso all’insegnamento nelle scuole pubbliche e intratteneva pochi, ma molto significativi scambi con alcune professioniste tedesche come lei interessate ai vantaggi che la libertà di movimento comporta nello sviluppo globale, non solo dei bambini, in primo luogo Elfriede Hangstemberg.


In quegli stessi anni stabilì rapporti significativi con pediatre e educatrici cui avrebbe successivamente chiesto di lavorare con lei a Lóczy.


Claire Zeitler Czimmek ha raccolto, a proposito di questo decennio, testimonianze di uomini e donne che la ebbero come pediatra.


Per prestare la sua opera Emmi Pikler poneva alle famiglie che le si rivolgevano, condizioni precise: che condividessero in modo attivo le sue ipotesi sullo sviluppo. Chiedeva cioè, alle famiglie di collaborare perché le condizioni di libertà nello sviluppo fossero messe in atto e conservate: disposizione di ambienti e materiali, soprattutto osservazioni del bambino da leggere e discutere durante le sue visite erano elementi di base che permettevano il mantenersi della relazione. E. Pikler si adoperava per facilitare la realizzazione delle condizioni di vita familiare che proponeva (aiutava famiglie a trovare alloggi che offrissero spazi favorevoli, favoriva scambi per famiglie per trasferimento di “trucchi”, consigli e aiuto reciproco) ma interrompeva la prestazione della sua opera se le famiglie non realizzavano i comportamenti richiesti (per es. l’osservazione dei bambini).


Emmi Pikler era in relazione con diversi professionisti della salute e dell’educazione, pochi pediatri cui si rivolgeva e cui indirizzava le famiglie che seguiva in presenza di malattie gravi del bambino. Con gli altri pediatri, i testimoni di quegli anni riferiscono di una situazione di disinteresse speculare: ai pediatri non interessavano questioni quali la quantità di tempo che era bene passare all’aperto o il tipo di calzature che i bambini indossavano e a Emmi Pikler non interessava scambiare opinioni con medici che non si appassionavano alla vita quotidiana dei bambini in buona salute. Frequentava invece con assiduità i seminari organizzati dalla Associazione psichiatrica di Budapest, di cui facevano parte, fra altri, Imre e Alice Hermann, Michel Balint.

Lóczy, un’esperienza di cura e di autonomia

Finita la guerra, nel 1946 Emmi Pikler fu incaricata dal Ministero della sanità, della direzione della casa dei bambini “Karkosi”, un orfanatrofio per i figli di militanti comunisti morti durante la guerra. Chiamò a lavorare con lei educatrici e pedagogiste che aveva incontrato nella conduzione dei corsi per puericultrici e maestre giardiniere.


Sempre nello stesso anno i Ministro le propose la creazione di un servizio residenziale per bambini 0-3 anni restati orfani o allontanati da genitori malati (la tubercolosi era una malattia ancora molto diffusa nella Ungheria di quegli anni).


Questi incarichi la fanno entrare nella grande comunità di medici e psicologi reclutati da amministrazioni pubbliche per affrontare il problema dei minori che uscivano dalla Seconda guerra mondiale orfani o comunque definitivamente separati dalle famiglie.14


Pur essendosi precedentemente occupata con convinzione e piacere del benessere dei bambini nelle loro famiglie, nel momento in cui le viene chiesto di occuparsi di bambini costretti a vivere i primi mesi o anni della loro vita, lontani dalla famiglia di origine, in una collettività, Emmi Pikler fa una scelta originale rispetto a quella di altre grandi figure della cura e dell’educazione sue contemporanee. Anna Freud e Dorothy Bellingham sono forse i nomi più conosciuti quanto a esperienza e ricerca sulle vicende dei bambini che vivono gli anni della prima infanzia, lontani dalla famiglia di origine. A conclusione della loro lunga e approfondita ricerca, affermano che una relazione educativa che si sforzi di ripetere le buone qualità della relazione materna, non è compatibile con un’organizzazione di vita di gruppo.15 Questa convinzione è alla base di molte politiche sociali che orientano gli sforzi dei servizi in questo settore alla diffusione dell’affido familiare.


Quando accetta di dirigere Lóczy16 Emmi Pikler si propone tre obiettivi: dimostrare che è possibile, anche dentro una collettività, creare condizioni di vita tali da far sì che un bambino vi cresca sano tanto dal punto di vista fisico che psichico; affermare che i principi in grado di realizzare le condizioni di vita richieste siano gli stessi che aveva constatato efficaci e quindi sostenuto nel suo lavoro con le famiglie; documentare l’evoluzione di questa ipotesi grazie a osservazioni longitudinali di bambini sani, non in situazione sperimentale ma in condizioni di vita regolari. Obiettivi e metodi di questo progetto sono intrecciati: lo scopo del lavoro pratico è contemporaneamente condizione della ricerca.


L’organizzazione del servizio si ispira alle due condizioni che – secondo Emmi Pikler – rendono possibile il fatto che un bambino cresca sano dal punto di vista fisico e psichico: il piacere di fare che nasce dalla possibilità di essere attivo, di propria iniziativa, regolando tempi e ritmi dell’attività e la sicurezza affettiva.

Movimento, attività, pensiero

Il movimento è la prima attività del bambino. Per Emmi Pikler dire ‘movimento’ e dire ‘attività’ è un po’ dire la stessa cosa. Le posture, gli spostamenti sono l’introduzione, sono il modo attraverso cui il bambino realizza la sua attività, il movimento è la prima attività dei bambini e per un certo tempo è l’unica attività che possiamo osservare.


Il collegamento immediatamente successivo a quello fra movimento e attività, è quello fra attività e pensiero. Quindi movimento-attivitàpensiero è un tutt’uno.


Per questo, per Pikler l’attenzione al movimento dei bambini è la guida all’azione dell’adulto, in due sensi:


È l’attenzione che, secondo Pikler, ci permette di rispettare il soggetto che il bambino è. Il bambino di un giorno, il bambino di dodici mesi, il bambino di sedici mesi dipende totalmente da noi per la sua sopravvivenza. La sua dipendenza radicale, però, non ci esime dallo stabilire, con lui o con lei, un rapporto educativo. In che cosa, un rapporto educativo, si differenzia da un rapporto di addestramento o peggio anche di violenza? Si distingue perché il rapporto educativo rispetta, lascia essere il nostro interlocutore il soggetto della sua storia. Io posso proporre, posso avere dei progetti, posso offrire delle condizioni al mio interlocutore di due giorni, di due anni, anche di 20 anni ma a un certo punto, o il mio interlocutore fa propria, elabora la proposta che io gli faccio oppure non c’è educazione.


L’attenzione al movimento è l’atteggiamento, è la pratica che permette a un’educatrice che lavora con i bambini piccoli, di realizzare questo rispetto del soggetto che non è, inizialmente, qualcosa di relazionale, affettivo… La relazione e l’affettività sono fondamentali, ma si costruiscono nel tempo, attraverso i gesti di cura.

Comportamenti di cura

Gruppo e vita in comune possono essere un’esperienza piacevole per bambini molto piccoli e un’opportunità, ma perché lo siano è necessario che ogni bambino ci metta, di suo, la voglia di farne parte. Questa ‘voglia’ (che non è una pulsione, è la spinta creativa diversa dall’atteggiamento reattivo), nasce dalla sicurezza che si costruisce grazie alla possibilità di prendere iniziative e alla attenzione con cui gli adulti colgono i loro segnali e li soddisfano.


Le nostre azioni migliori, più pensate, nei confronti di un bambino, se non incontrano la sua disponibilità a riceverle e a farne uso, non servono a niente.

Il benessere di un bambino in un servizio (e, di conseguenza, il benessere degli adulti che vi lavorano) è, principalmente, vivere condizioni che alimentano questa voglia. E la competenza professionale che la sostiene, passa, in primo luogo da una attenzione individualizzata, e la comprensione, da parte degli adulti, di come lui/lei sta lavorando alla sua crescita e l’intenzione di collaborare alla sua opera.


Nei momenti di cura – che, in un servizio per bambini piccoli, si succedono con un ritmo abbastanza stabile, più o meno ogni 2 h – diversamente da quelli di gioco – il bambino ha bisogno dell’adulto per realizzare l’attività, soddisfare i suoi bisogni primari e non solo, anche per fare l’esperienza della propria continuità. Le cure sono un’occasione per ogni bambino, di ritrovarsi, periodicamente, nel corso della giornata, con sé stesso. Incontrare sé stesso. Compito dell’adulto è tanto aiutarlo nella soddisfazione dei bisogni quanto confermarlo nell’incontro con sé.


Perché l’incontro sia soddisfacente, anche in un gruppo di vita, esistono alcune condizioni favorevoli. Le condizioni sono altrettanti punti di riferimento:

  • persone: il bambino ha bisogno di sapere chi è l’adulto che si occuperà di lui. Deve sapere chi si occupa di lui quando non è con i suoi familiari, sapere da chi dipende (quindi prevedere chi si occupa di lui durante le cure);
  • spazi: quali sono gli spazi in cui si toglie e si mette i vestiti (questo è uno spazio ancora condiviso coi genitori), in cui mangia, in cui gioca e in cui si riposa (cioè dorme in alcuni momenti, ma anche può riposarsi, può isolarsi);
  • sceneggiatura: è opportuno che il gruppo di educatrici che si occupa del bambino condivida il modo di fare durante le cure (come cambiare, come dare da mangiare…), una specie di cultura della cura.

Questo può essere definito l’aspetto ‘tecnico’ del lavoro di cura in un servizio. È importante non fare confusione fra ‘sapere fare’ e ‘saper essere’; non confondere spontaneità, intuizione (propri di una relazione), con l’improvvisazione. Più le educatrici sanno come fare e seguono il filo di questo saper fare, più sono libere nella relazione: sono in grado di fare attenzione al bambino, di assecondarlo, senza perdersi. E il bambino, nello stesso tempo, sa cosa aspettarsi, non è esposto all’inquietudine che nasce dal non poter prevedere.


L’adulto, nei momenti delle cure, conduce la attività (diversamente da quello che succede nei momenti di gioco), richiama il bambino all’attività in corso, è garante dello scopo non permette che l’attività si disfi. Può farlo senza limitare lo spazio dell’incontro, se sono chiari i punti di appoggio (che valgono per lui e per il bambino): la sceneggiatura è una specie di GPS per realizzare l’attività. L’adulto che lo segue può osservare, adattarsi, dare risposte, parlare; fa da specchio al bambino, accogliendo e restituendogli quello che fa. Poco alla volta accompagna il bambino a soddisfare da solo i suoi bisogni, non insegnandogli, ma facendogli fare un’esperienza di conoscenza attraverso le parole che gli parlano di sé. L’adulto può accogliere le iniziative motorie del bambino, mettendole al servizio dell’attività in corso – per es. il cambio – non per giocare. Se, durante il cambio o il pasto il bambino “parte” verso il gioco, non realizza l’incontro con sé stesso che è l’esperienza fondamentale dei momenti di cura.


Un bambino che si nutre di questa esperienza, ogni due ore, ha il bagaglio relazionale per essere attivo negli altri aspetti della sua giornata il resto: entrare in relazione con gli altri, giocare, riposare (S. Lavergne, a voce).17


Oggi Lóczy non esiste più nella forma immaginata allora: le scelte di politica sociale di quasi tutte le nazioni occidentali sono andate, dal dopoguerra in poi, nella direzione auspicata da A. Freud. In via Lóczy non esiste più una residenza, ma un asilo nido, diversi gruppi-gioco per bambini e genitori, un centro di formazione, e il patrimonio di conoscenze e saper fare accumulato nel tempo, è elaborato e declinato nella applicazione che se ne può fare all’interno dei nidi e dei servizi diurni in appoggio alle famiglie.


Ma la scelta fatta a suo tempo da Pikler ha permesso di sviluppare un pensiero e ricavare, dal pensiero, pratiche che toccano il cuore dell’esigenza di tutti i bambini che passano del tempo – poco o tanto – fuori dalla loro famiglia, accolti da adulti professionisti.


Parlando dell’esperienza di Emmi Pikler con l’attenzione rivolta a tutti i servizi che accolgono bambini in assenza della madre, per un tempo breve o lungo, David riassume i loro compiti in quattro punti:

  • prestare le cure dirette al bambino, cure del corpo, delle sue attività spontanee, del suo ritmo che implica la regolarità dell’andamento del tempo durante il quale il bambino viene accolto;
  • che le cure siano assicurate dalla stessa persona, accompagnate da una o due altre, sempre le stesse, in modo che il bambino possa sviluppare, con loro, un rapporto di fiducia;
  • che la relazione fra il bambino e sua madre sia oggetto di cura, in particolare nei momenti del separarsi e ritrovarsi;
  • infine, preoccuparsi che materialità e paternalità non siano disturbate dalla situazione di affido.18

Nel proseguire la presentazione delle idee e dell’esperienza di Emmi Pikler, mantengo, qui di seguito, il filo della vicenda per come si è svolta nel tempo. Nel paragrafo successivo ne riprenderò gli aspetti principali, discutendo il loro significato per chi – bambini e loro familiari, oggi, utilizza un servizio educativo prescolastico e per chi vi lavora.


Quando Emmi Pikler ripeteva che i bisogni di un bambino, che sia allevato in famiglia o in un servizio, sono gli stessi, sottolineava immediatamente che il modo in cui i familiari o delle professioniste possono soddisfarli, sono diversi. L’impegno iniziale di Pikler e della sua équipe è organizzare condizioni, coinvolgere le operatrici. L’incarico conferitole dal Ministero era accompagnato da ben poche risorse: una casa che era stata la residenza di una famiglia di tre persone, una portinaia ex domestica della famiglia, alcune puericultrici anziane trasferite da altri servizi. Qui Emmi Pikler dimostra di avere una dote di cui si parla raramente a proposito di grandi educatori (più volentieri a proposito di grandi artisti o scienziati): la determinazione fino alla durezza nel perseguire un’idea, a partire dalla non confusione – nelle situazioni – fra i dati di relazione e i dati di contenuto, la capacità di praticare delle scelte.


Le puericultrici che non sanno o non vogliono adattarsi alle nuove richieste se ne vanno o sono allontanate. È quindi con delle ragazze giovani e volutamente scelte fra quelle prive di preparazione scolastica specifica che Emmi Pikler e la sua collaboratrice Maria Reintz cominciano a lavorare con successo.


Nel corso di un seminano a Berlino Emmi Pikler ha descritto così i primi tempi dell’istituto:


[...] Il paese era in uno stato molto primitivo che oggi è difficile immaginare. C’erano molte ragazze intelligenti e capaci che avevano frequentato solo per due anni la scuola comunale. I genitori non avevano i soldi necessari per mandarle a scuola. A 11 o 12 anni lasciavano le famiglie per andare a lavorare come domestiche. Quando nel 1946 abbiamo pubblicato un primo annuncio sui giornali per cercare ragazze che lavorassero da noi abbiamo ricevuto più di 100 domande [...]. Le ragazze sono state formate in situazione, a Lóczy. Per un certo periodo è esistita, in Ungheria, una formazione di 2 o 3 anni per infermiere educatrici che lavorassero con bambini sani, nei nidi o negli istituti per bambini 0 3 anni. Noi insegnavamo quello che era necessario per occuparsi dei bambini[...] Avevamo costruito un testo in tre volumi che parlava soprattutto di come occuparsi di un bambino durante le cure del corpo.19


A queste giovani educatrici Emmi Pikler e le sue collaboratrici insegnano20 come prestare le cure del corpo a un bambino, come toccarlo, come accompagnarlo nei movimenti perché in ogni momento il bambino si senta a proprio agio, soggetto di un’attenzione personalizzata, conosciuto nel suo percepire, accompagnato nei tentativi di osservare e capire il mondo circostante. Insegnano che ogni educatrice deve rispettare i ritmi del bambino con cui lavora, aspettare le reazioni alla sua voce e ai suoi comportamenti e deve soddisfare i bisogni dei vari bambini in maniera diversa: i bambini non amano mangiare, addormentarsi, fare il bagno allo stesso modo e perché un bambino abbia esperienza della sua individualità e della individuale possibilità di intervenire con effetto nel mondo, è inizialmente necessario che l’adulto adatti il suo comportamento alle particolarità del bambino. Per basare il lavoro su una attenzione così individualizzata è necessario osservare i bambini e capire quello che esprimono la posizione del corpo, i gesti, la voce di ognuno di loro. Per osservare e capire ci vuole sistematicità e tempo.


Le educatrici che condividono il lavoro in un gruppo di bambini (inizialmente Lóczy accoglie 35 bambini divisi in gruppi di vita per età) sono tre e a ognuna di esse è richiesto di osservare con particolare cura e regolarità tre o quattro bambini del loro gruppo, i bambini di cui sono particolarmente responsabili.


L’educatrice di riferimento di un bambino è quella che, fra le colleghe, si sforza di conoscere il bambino il meglio possibile, e, soprattutto nei momenti delle cure del corpo, cerca di tener particolarmente conto delle sue caratteristiche, dei suoi bisogni e dei suoi ritmi. Si adopera perché l’ambiente sia invitante e permetta di capire le regole che lo organizzano. L’educatrice di riferimento fa un lavoro di mediazione fra ambiente e bambino perché, al suo interno, il bambino si senta importante e buono e possa sperimentare la continuità di vita individuale e del gruppo. Costruisce questo atteggiamento attraverso l’attenzione, le osservazioni sono scritte e poi regolarmente discusse con le pediatre e le pedagogiste che supervisionano il loro lavoro, i momenti di cura, la riflessione fra sé e sé e con le colleghe. L’interesse, l’osservazione, la comprensione dello sviluppo di ogni singolo bambino, che vengono prima del libero corso di stati d’animo e sentimenti, le permettono di costruire una ‘spontaneità di 2° grado’, di cui si può fidare durante il lavoro di tutti i giorni. Come afferma ripetutamente M. David bisogna voler molto bene a un bambino per osservarlo con attenzione.


L’organizzazione istituzionale, che permette tanta attenzione individuale nel rispetto delle diverse esigenze di adulti e bambini, è oggetto di una cura particolare.


Anche i neonati di 3, 4 mesi sono nel lettino solo quando dormono, da svegli sono nello spazio comune di gioco del gruppo, all’interno o all’esterno (...) con a disposizione oggetti semplici, di diverso tipo con cui poter giocare senza bisogno di dimostrazioni o aiuti da parte dell’adulto”. Le educatrici “non mettono i bambini in posizioni che non potevano assumere e abbandonare da soli, non li mettono a sedere, né in piedi nel lettino o nello spazio e neanche durante le cure del corpo, non li costringono a compiere movimenti più sviluppati di quelli che sono in grado di compiere da soli, si propria iniziativa, senza aiuto.


Le educatrici seguendo con attenzione – e ben presto notando con piacere – tutte le attività e le manifestazioni anche minime dello sviluppo del bambino, constatano e approfondito la comprensione del fatto che il neonato o il bambino piccolo, sano ed equilibrato non ha bisogno di ricevere degli insegnamenti circa il come camminare o giocare, che è grazie ai suoi sforzi indipendenti e assidui e grazie alle esperienze acquisite via via nel corso delle attività, capace di svilupparsi con gioia e in maniera armoniosa. Le educatrici sono messe in condizione di capire che il desiderio di essere attivo del bambino (...) dipende in maniera considerevole dalla gioia, l’intimità e il senso di sicurezza che sperimenta, nei momenti delle cure del corpo, nei confronti di un adulto che conosce bene.21


Sperimentano anche il significato organizzativo della inseparabilità dei due fattori, attività autonoma del bambino e relazione intima durante le cure del corpo fra educatrice e bambino: un’educatrice non potrebbe dedicare l’attenzione richiesta dallo stabilirsi di una relazione che diventa una “base sicura” per il bambino se dovesse, mentre è con lui, pensare di trascurare gli altri bambini, se pensasse che gli altri bambini la stanno aspettando inattivi.


L’organizzazione produce nelle educatrici due tipi di consapevolezza: che il bambino che raggiunge qualcosa con i suoi mezzi acquisisce una conoscenza e competenza di natura diversa del bambino che raggiunge una analoga competenza grazie agli insegnamenti di qualcuno; che non intervenire direttamente nell’attività del bambino non vuole dire trascurarlo: sguardo, parola, l’aiuto quando è necessario, la condivisione della gioia nel momento del raggiungimento di un obiettivo, tutto questo fa capire al bambino che è una persona conosciuta, apprezzata, importante per chi si cura di lui.

Oggi

Cosa vuol dire rispettare il soggetto che il bambino è, anche quando dipende da noi22

L’intuizione fondamentale di Emmi Pikler e la pratica educativa proposta inizialmente nel Centro di via Lóczy, possono essere semplicemente riassunte nell’affermazione che una educatrice, prima di fare qualcosa con un bambino a lei affidato, deve conoscerlo. Ogni bambino, se conosciuto realmente, sollecita, in chi si occupa di lui qualcosa dell’ordine del rispetto e della meraviglia, allontana, cioè, chi si cura di lui/se stesso dal rischio di trattarlo/essere trattato come un oggetto (quindi allontana il rischio di praticare/subire violenza).


Evidentemente nessun educatore ‘sufficientemente buono’ vuole essere violento o fare violenza nei confronti dei bambini di cui si occupa, ma ‘non volere’ non basta: ogni educatrice o educatore, ben formato e di buona volontà deve realizzare un equilibrio sempre nuovo fra quello che ha imparato, il progetto educativo che ha in mente e ognuno dei bambini che ha di fronte. L’esperienza di Emmi Pikler e di Lóczy indica in che modo si può limitare l’aspetto proiettivo (uso questo termine non per connotare un atteggiamento perverso da parte dell’educatore, ma per indicare una mancanza d’ordine: quanto appreso in situazioni di formazioni è importante nel lavoro educativo, ma non deve essere agito, da un educatore, prima dell’aver realizzato una buona conoscenza soggetto che ha dì fronte), nella relazione educativa, a favore dell’aspetto empatico,23 condizione vitale perché la relazione sia un sostegno a l’interlocutore del rapporto educativo e non una addestramento o una violenza.


L’osservazione è, nei confronti di bambini che ancora non parlano, l’equivalente dell’ascolto nei confronti di bambini più grandi o degli adulti. L’osservazione del movimento nei bambini proposta da E. Pikler, una osservazione che dura nel tempo accompagnata da un non intervento (anch’esso protratto nel tempo), permette, a chi la pratica, di entrare in un contatto di esperienza con come si costruisce un bambino. Osservare, con continuità e senza intervenire, permette a una educatrice di provare la meraviglia che accompagna il realizzarsi di un’opera creativa. Il bambino che si sente osservato in questo modo, sente la presenza benevola dell’adulto, che lo mette in sicurezza e alimenta la sua capacità creativa: si tratta di un circolo virtuoso in cui adulto e bambino sono entrambe attivi.


L’esperienza dell’opera creativa che sta realizzando un bambino aiuta le educatrici a controllare la loro azione nei confronti dei bambini: non fare più del necessario e fare in modo da non interrompere, da non sovrapporsi a quanto sta facendo il bambino non sono più un comportamento fra i tanti possibili, ma quello in sintonia con il benessere del bambino. I momenti di contatto fra educatrice e bambino, a Lóczy, i momenti delle cure del corpo, danno luogo a uno scambio che non è una fonte di eccitazione, per i bambini, ma una occasione di assicurazione di essere accompagnato da un interesse individualizzato, essere apprezzato, essere protetto.


La distribuzione della punteggiatura fra osservazione, esperienza della creatività da parte del bambino, azioni che non vi si sovrappongono, ma la alimentano, è il contenuto della formazione delle educatrici. Osservare, nel modo descritto, non è un comportamento spontaneo per chi si mette di fronte a uno o più bambini piccoli, bisogna imparare: bisogna creare un ‘vuoto’ (di proiezioni e di azioni) nel quale la creatività del bambino possa apparire agli occhi di chi guarda. Un ‘vuoto’ protetto che è l’equivalente, in ambito educativo, di quanto in ambito terapeutico si dice ‘contenimento’. Le educatrici che iniziavano a lavorare a Lóczy, nel primo mese di attività non lavoravano direttamente coi bambini, si limitavano a osservare il lavoro delle colleghe esperte. Successivamente, nei primi tempi di lavoro coi bambini avevano a disposizione una specie di ‘sceneggiatura’ (una traccia del succedersi delle azioni) delle sequenze dei momenti di pasto, di cambio, di addormentamento e risveglio. La sua funzione, temporanea, è la stessa di quella che M. Balconi attribuiva all’uso dei test nella pratica delle giovani psicologhe: una guida alla relazione, utile fino a quando potrà essere sostituita dal saper fare che sa trovare ogni volta la giusta misura fra regola (di procedura, tecnica ecc.) ed eccezioni.24

La differenza fra cura e relazione: continuità e discontinuità fra pratica professionale e familiare

Ogni bambino, a casa o in un servizio, ha bisogno di una relazione curante stabile e significativa all’interno della quale la figura di cura sia capace di prestargli attenzioni e cure anche molto onerose provandone piacere, capace di leggerne i bisogni e di fornirgli l’aiuto di cui ha bisogno senza andare oltre, per lasciarlo essere protagonista del suo sviluppo.


La madre conduce questa relazione a partire da una sorte di “innamoramento reciproco” (Stern) fra lei e il figlio; un’educatrice deve essere guidata da un’intenzione non legata alla spontaneità (questa non le permetterebbe di curare qualsiasi bambino, né di avere misura all’interno della relazione) né alla sola elaborazione intellettuale (questa, ostacolerebbe lo sviluppo dell’empatia e del piacere).


Tanto alle madri quanto alle educatrici Emmi Pikler chiede di fare attenzione a qualcosa che fa risaltare le capacità del bambino anche appena nato.


Per questo, in un’epoca prevalentemente concentrata a studiare il tema dell’attaccamento, con quanto esso comporta di studio e attenzione alla dipendenza del bambino, Emmi Pikler chiede a mamme e educatrici di fare attenzione a quello che il bambino fa di sua iniziativa: muoversi. Di concentrare la propria preoccupazione educativa nel creare le condizioni migliori perché il bambino possa esercitare la sua competenza e di osservarla.


La preoccupazione educativa è la stessa, non lo è la relazione. E differenza e intreccio fra cura e relazione che risultano dalla organizzazione di Lóczy sono un aspetto che è stato messo a fuoco poco alla volta, da visitatrici dotate di occhio attento ed elaborazione di pensiero molto approfondita come Myriam David e Geneviève Appel che incontrarono Lóczy dopo trent’anni spesi a studiare le condizioni di vita dei bambini allevati fuori dalla famiglia d’origine, in servizi collettivi o in famiglie affidatarie.25


Quello che le due ricercatrici registrano nel primo resoconto della loro visita (1973), è il disorientamento che Emmi Pikler provoca in loro quando, di fronte alle loro richieste di illustrare loro a cosa fosse dovuta la “qualità della relazione” che vedevano esistere fra educatrice e bambino, rispondeva parlando di attività libera dei bambini, di libertà di movimento, di osservazione... Solo con l’andare del tempo, negli scritti della fine degli anni ’90 M. David formula in maniera compiuta la differenza fra cura e relazione: Cura e relazione formano un binomio inscindibile nel quale ciascuna delle due parti nutre e si nutre dell’altra, l’una e l’altra possono farsi e, reciprocamente, fare del bene e del male.26

La cura non è cosa da niente

Un bambino piccolo non può curarsi da solo; a questo proposito è totalmente dipendente, impotente, sottomesso al nostro desiderio, più o meno ambivalente, di curarlo bene, alla nostra benevolenza affettuosa e alla nostra pazienza, alla nostra dolcezza e alla nostra bruschezza, alla nostra abilità più o meno grande. Il nostro potere, quello delle operatrici come quello delle madri, è assoluto...


Non del tutto, però, perché, nonostante la sua piccolezza e la sua immaturità, il bambino è immediatamente una persona a tutti gli effetti, capace di usare da subito tutte le competenze che possiede, man mano che queste appaiono, secondo il ritmo dello sviluppo. Attraverso le sue reazioni corporee alle sensazioni e percezioni che lo toccano e che metabolizza, risponde in modo del tutto personale e molto diversificato alle nostre cure. A volte ci gratifica: rilassandosi, guardandoci in un modo che ci incanta, voltandosi verso di noi, toccandoci con una manina, rivolgendoci un sorriso accompagnato da una melodia di suoni e di gesticolazioni felici che ci affascinano; altre volte, al contrario, può preoccuparci, irritarci, esasperarci facendoci venire voglia di mollarlo o anche di maltrattarlo... quando inquieto, scontento o sofferente, non ci concede niente di quanto descritto prima, si volta dall’altra parte, si irrigidisce e urla. Siamo molto sensibili a tutte le sue reazioni, e vulnerabili tanto e forse più di lui!


In questo modo, fra lui e noi, a partire e attraverso il nostro modo di curarlo, si stabilisce un sistema interattivo dentro il quale il bambino ha il potere di metterci in uno stato ’di felicità ’ che ci spinge a cercare di farlo contento, ad ammirare le sue prodezze o, al contrario, può metterci in uno stato di disperazione o di rabbia che ci può portare a trascurarlo, anche ad abbandonarlo, a maltrattarlo e anche a picchiarlo, alimentando in questo modo, senza che ne siamo consapevoli, un disagio reciproco che non cessa di aumentare.


L’evocazione di questo ampio ventaglio interattivo che va dalla più grande felicità alla peggiore infelicità può sembrare eccessiva, tanto più che, di solito, nella maggior parte dei casi, le cose vanno ‘sufficientemente bene’. Ma serve a mettere in evidenza il valore della cura come veicolo di relazione, capace di farla nascere, indirizzarla, trasformarla. All’età del funzionamento mentale preverbale, quando l’apparato sensomotorio è lo strumento ‘tuttofare’ del bambino, usato per percepire, familiarizzarsi, capire, reagire, rispondere, esprimersi..., la ‘cura’ è un modo di comunicazione preverbale privilegiato (senza dimenticare che il linguaggio verbale al quale l’operatrice espone naturalmente e contemporaneamente il bambino, lo avvia all’acquisizione di questo modo di comunicazione, man mano che lo sviluppo lo mette in grado di utilizzarlo).

Le fonti di un antagonismo pregiudizievole

La parola ‘cura’ è polisemica ed ha vissuto, negli ultimi anni, all’interno dei servizi educativi, una vicenda molto movimentata: dall’essere parola accolta con sufficienza o con fastidio all’essere parola apprezzata e anche soggetta ad andamento inflazionistico.


Il movimento è stato veloce e, come tutti i movimenti di questo tipo, ha portato con sé l’acquisizione di un modo più adeguato di leggere e rappresentare il lavoro delle educatrici, delle insegnanti, di altre operatrici che lavorano coi bambini nei primi anni di vita, ma anche qualche confusione o cortocircuito.


Le prime e gravi difficoltà sono apparse quando, grazie ai progressi della pediatria, delle condizioni socio-economiche, dell’industria alimentare e così via, la medicalizzazione delle cure ha favorito pratiche disumanizzanti: separazioni madre/bambino abusive, realizzate in maniera traumatizzante, sterilità in assenza di contatti umani...


Le scoperte riguardanti la natura e il valore delle relazioni materne e parentali precoci, quelle relative ai problemi delle separazioni e alle carenze istituzionali che ne conseguono hanno contribuito a mettere in evidenza questi problemi fin allora ignorati, facendo pendere dall’altra parte il piatto della bilancia: grazie alle scoperte in ambito psicoanalitico, la considerazione dei problemi relazionali precoci è diventata una preoccupazione predominante: evitare le separazioni, mantenere i legami, stabilire una relazione di cura di riferimento.


Spesso a detrimento di altri aspetti della cura, tanto più che non erano più da temere fenomeni quali la mortalità infantile, le carenze alimentari, le infezioni gravi, la tubercolosi... Le diverse conoscenze, che apparivano una dopo l’altra ovvie a chi non era implicato nel lavoro diretto di cura, ne hanno rivoluzionato la pratica e creato al suo interno disagi e conflitti.

Lo sguardo delle madri, la professionalità delle educatrici

Le discussioni disciplinari e i riferimenti teorici erano poco presenti nel parlare pubblico di Emmi Pikler che preferiva argomentare le sue affermazioni con l’illustrazione per immagini (foto e video) dei comportamenti dei bambini e delle educatrici. Qualcosa di analogo appare nella formazione delle educatrici che lavorano coi bambini a Lóczy.


E. Pikler e, in seguito, le sue colleghe, pensano che il filo conduttore di una buona formazione sia suscitare, nelle educatrici, un vero interesse per ognuno dei bambini con cui lavorano; si impegnano a far fare loro l’esperienza del piacere che si può ricevere dal constatare che uno o più bambini crescono bene grazie alle nostre cure.


Questo percorso immagina la formazione come un movimento che va dall’intero verso l’esterno. Si può dire che il modo in cui Lóczy si è fatta e si fa conoscere, ripete l’andamento della formazione proposta alle operatrici.


Non si tratta di trasmettere una teoria, né un metodo, ma di indirizzare lo sguardo, far nascere il desiderio di fare il bene del bambino e dare gli strumenti metodologici che permettono di passare dal desiderio all’azione. Mettere a disposizione delle educatrici, modi di guardare e gesti che permettono di farlo, indicare dove cercare soddisfazioni, facendone loro fare l’esperienza del benessere dei bambini. È una esperienza vissuta in primo luogo e solo successivamente elaborata intellettualmente.


Al posto di un percorso che porrebbe le future educatrici in una posizione di passività nei confronti di alcune nozioni alla costruzione delle quali esse non parteciperebbero, viene proposto un percorso di cui le educatrici sono protagoniste. Non imitatrici, attrici nel curare i bambini e nel costruire la conoscenza dello sviluppo, nel suo ritmo di ripetizione e novità quotidiane. Chi conduce la formazione accompagna nella scoperta, attento alla coerenza del procedere.


Tutti siamo d’accordo sull’affermazione che un educatore deve favorire l’autonomia del bambino, ma ci troviamo in difficoltà (a volte ci scontriamo) su quali comportamenti dell’adulto sostengono in quella particolare circostanza l’autonomia di quel particolare bambino: a Lóczy si parla/va del lavoro sempre a questo livello. Sentendo parlare di ‘sceneggiatura’ e a chi ascolta viene il timore che tanta concretezza sia una limitazione della libertà dell’adulto come del bambino. Parlare dei gesti del corpo a corpo, proporre modi di fare in questo scambio dove, non è difficile capire, massima è l’intensità del contatto fra adulto e bambino, solleva reticenza.


Questa reazione ha a che fare con la difficoltà dell’assunzione, nel pensiero pedagogico e nella pratica educativa del passaggio – senza soluzione di continuità – dal corporeo allo psichico, con la difficoltà di articolare regola e spontaneità. Tocca il punto nevralgico in cui una stessa intenzione deve dar luogo a diversi comportamenti per permettere di dare la stessa esperienza a diversi bambini; il momento di rischio in cui l’adulto deve abbandonare la certezza della regola per incontrare il bambino: senza regola non si creano le condizioni dell’incontro, ma senza abbandono della regola non si arriva a incarnare l’intenzione in un effetto. Di questo momento si può parlare sempre solo a posteriori e bisogna parlare “settanta volte sette”, è il veicolo di contatto anche mentale con la potenza dell’intervento educativo:

  • la misura della formazione non è una buona intenzione espressa, ma un bambino che cresce bene;
  • il bambino che cresce diventa, quindi, il formatore delle educatrici che fanno un’esperienza globale dello sviluppo e delle condizioni che lo sostengono.

L’azione educativa delle responsabili della formazione è, in definitiva, sgomberare il campo da pregiudizi e nozioni che distoglierebbero l’attenzione delle future educatrici dal conoscere ogni singolo bambino.

Tre sguardi sul bambino
Tre sguardi sul bambino
Grazia Honegger Fresco, Emanuela Cocever, Barbara Ongari
Viaggio alla scoperta di Maria Montessori, Emmi Pikler ed Elinor Goldschmied.Le prospettive educative di tre grandi pioniere dell’educazione che hanno posto in evidenza il ruolo centrale di ogni bambino nella realizzazione del proprio percorso di crescita. Tre sguardi sul bambino, scritto a sei mani dalle autrici Grazia Honegger Fresco, Emanuela Cocever e Barbara Ongari, intende tracciare sinteticamente la vita e le opere di Maria Montessori, Emmi Pikler ed Elinor Goldschmied, tre grandi pioniere dell’educazione, che hanno posto in evidenza il ruolo centrale di ogni bambino nella realizzazione del proprio percorso di crescita. Le prospettive personali con cui ciascuna propone i fondamenti dell’azione educativa (quali l’osservazione, la qualità dei materiali, le modalità dell’intervento adulto) ne mettono in luce l’importanza e l’attualità anche nella pratica professionale degli educatori e degli insegnanti di oggi. Il nostro compito è quello di dare aiuto quando viene richiesto. Se stiamo attenti a non interferire con le attività del bambino e con i suoi interessi, a meno che non diventino pericolosi, sarà la natura a occuparsi del suo sviluppo.Maria Montessori L’essenziale è che il bambino scopra le cose il più possibile da solo. Se lo aiutiamo a trovare la soluzione a tutti i problemi, lo priviamo di qualcosa di essenziale al suo sviluppo. Un bambino che raggiunge qualcosa attraverso la propria esperienza, acquisisce un sapere di qualità superiore a quella che raggiungerebbe se qualcuno gli offrisse la soluzione.Emmi Pikler Gli adulti spesso pensano che, se non intervengono direttamente nel gioco, sono privati di un ruolo; non si rendono conto che è solo la loro presenza a dare fiducia ai bambini mentre giocano e imparano. Elinor Goldschmied Conosci l’autore Grazia Honegger Fresco (Roma, 6 Gennaio 1929 - Castellanza, 30 Settembre 2020), allieva di Maria Montessori, ha sperimentato a lungo la forza innovativa delle sue proposte nelle maternità, nei nidi, nelle Case dei Bambini e nelle Scuole elementari. Sulla base delle esperienze realizzate con i bambini e i loro genitori, ha dedicato molte delle sue energie alla formazione degli educatori in Italia e all'estero.È stata presidente del Centro Nascita Montessori di Roma dal 1981 al 2003 e ne è stata Presidente onorario. È stata consulente pedagogica di AMITE (Associazioni Montessori Italia Europa) e nel 2008 ha ricevuto il premio UNICEF-dalla parte dei bambini.Ha pubblicato numerosi testi di carattere divulgativo. Emanuela Cocever, già ricercatrice del Dipartimento di Scienze dell’educazione di Bologna, svolge attività di ricerca e formazione nell’ambito dell’Educazione Attiva e della Pedagogia Istituzionale. Con il gruppo interdisciplinare Centotrecentoscritture, si occupa di scrittura ed elaborazione dell’esperienza lavorativa nelle professioni di cura. Barbara Ongari, psicoterapeuta infantile, specialista dell’età evolutiva, svolge attività clinica a favore di bambini e famiglie e di formazione per gli operatori socio-sanitari ed educativi.