capitolo 2

Il linguaggio all’inizio della vita:
competenza universale e
particolare della persona

Il linguaggio può essere definito come l’insieme dei processi che utilizzano un codice arbitrario e convenzionale per tradurre concetti, emozioni e sentimenti in parole. Esso non si sviluppa in modo astratto, ovvero non si basa su una dimensione esclusivamente verbale, ma anche sulla comprensione della situazione in cui esso avviene: la comunicazione linguistica non si limita a un puro utilizzo di parole, ma è invece strettamente collegata alla situazione in cui si svolge.

Il soggetto parlante, che è un individuo situato storicamente, socialmente e culturalmente, non può impegnarsi in un processo comunicativo senza partire dal proprio punto di vista e dalla propria collocazione.

Questo significa che il linguaggio non è avulso dal contesto in cui viene esercitato: quando desidero comunicare qualcosa a un altro individuo, lo faccio a partire dalla situazione in cui mi trovo, dalla comprensione che ho del mio interlocutore, dalla relazione tra me e l’interlocutore, dalla mia cultura e dalle mie abitudini. La comunicazione linguistica è quindi un processo vario e complesso, che non può prescindere dal contesto storico, sociale e culturale degli interlocutori in essa coinvolti.

Unitamente a questo aspetto, occorre considerare come la comunicazione verbale, poiché accade sempre all’interno di una situazione precisa, è sempre al contempo comunicazione gestuale, visiva, ovvero corporea. Essa coinvolge l’individuo parlante nella sua totalità e non unicamente su un piano cognitivo.
Il linguaggio è quindi situazionale e occorre esserne consapevoli quando comunichiamo con un altro individuo, sia esso adulto o bambino.

La comunicazione si svolge sempre all’interno di un contesto preciso e coinvolge l’individuo parlante nella sua totalità. Nel parlare ci si mette completamente in gioco. Il bambino che parla è profondamente e personalmente impegnato nella comunicazione, unendo alla propria abilità linguistica la sua capacità di mettersi in relazione con l’altro, di confrontarsi con lui, esponendo se stesso, i propri sentimenti, le proprie aspettative. Il linguaggio non è per lui un mero esercizio tecnico, ma un modo di “essere” nel mondo attraverso la parola. Il linguaggio richiama puntualmente il tempo e il luogo in cui ci troviamo e da questo angolo di mondo e di tempo porta a interpellarci e a interpellare l’altro.

Oltre a questo aspetto concreto del linguaggio, che richiama il suo essere un’abilità particolare, che ognuno di noi declina a partire dalla propria posizione nel mondo, è importante anche considerarne un secondo. Il linguaggio non solo intercetta, in quanto situazionale, la nostra dimensione più concreta di “persone nel mondo”, ma possiede anche una propria universalità; esso ci appartiene in quanto individui pensanti, poiché informa il nostro stesso pensiero.

Questo profondo legame tra pensiero e parola non emerge chiaramente quando utilizziamo la nostra lingua materna. La trasposizione del mondo interiore nella parola appare quasi impercettibile quando utilizziamo il linguaggio parlato quotidianamente, poiché il rimando al piano simbolico avviene in modo spontaneo e immediato. Quando invece dobbiamo utilizzare una lingua straniera, percepiamo chiaramente il passaggio dal pensiero, già linguisticamente strutturato nella lingua materna, a un nuovo sistema di simboli linguistici, poiché tale passaggio comporta fatica e impegno.

Questo rivela come esista tra pensiero e linguaggio una sostanziale interdipendenza. Il pensiero si struttura attraverso il linguaggio: l’individuo nasce capace di pensiero e al contempo di parola e, mediante l’esercizio di entrambi, sviluppa queste capacità tra loro strettamente connesse.

L’attività pensante dell’essere umano è al contempo attività linguistica. L’essere umano possiede infatti a livello neuronale meccanismi innati per l’acquisizione del linguaggio che sono comuni a tutti gli individui, al di là delle differenze culturali e interindividuali. Sappiamo dalla scienza che i bambini, nei loro primi sei mesi di vita, pronunciano gli stessi suoni, indipendentemente dalla cultura di appartenenza. Solo dopo i sei mesi il bambino inizia a specializzarsi nella propria lingua materna e perde gradualmente l’iniziale universale apertura linguistica. Il bambino possiede quindi in modo pressoché innato la capacità linguistica; essa non è frutto di insegnamento, ma competenza propria del suo essere uomo. Il linguaggio è in tal senso una competenza “universale” dell’individuo.
Attraverso tecniche di rilevazione dell’attività cerebrale, si è riscontrato che l’essere umano sin dalla nascita è in grado di distinguere tra linguaggio e altri suoni o rumori arbitrari e non significativi1. Egli è quindi chiaramente capace di distinguere tra materiale linguistico e materiale non linguistico.

Il bambino è legato in modo meravigliosamente profondo al mondo della parola; essa gli appartiene in quanto essere umano e lo contraddistingue, insieme alla capacità di pensiero, da tutti gli altri esseri viventi.

Questa profonda forza del linguaggio emerge ancor prima della nascita e proprio perché il bambino possiede una mente concreta e ancora immatura esso si sviluppa e si struttura attraverso le esperienze che egli compie durante la vita prenatale e poi successivamente nel mondo esterno. Esso è quindi fortemente collegato con la vita sensoriale del bambino.

Già nel grembo materno, il feto possiede una forte sensibilità per i suoni e in particolare per la musica, sensibilità che continua a manifestare anche dopo la nascita. Alcuni studi hanno inoltre rilevato come un neonato sia capace di riconoscere la lingua materna; si è infatti osservato che, nell’udirla, egli poppa con maggiore intensità2, dimostrandosi capace di esprimere una sua preferenza attraverso la propria corporeità.
Questa naturale sensibilità per il suono e per il linguaggio è strettamente legata allo sviluppo dei sensi, per mezzo dei quali il bambino riceve le prime informazioni sul mondo circostante. In particolare, il senso dell’udito è uno dei canali attraverso cui l’essere umano, ancora nel ventre materno, si crea una prima rappresentazione del mondo che lo circonda.

Questo senso è già in parte sviluppato ancor prima della nascita.
L’area della corteccia cerebrale legata al senso dell’udito, che permette di decifrare e interpretare gli stimoli acustici provenienti dall’ambiente esterno, completa la sua maturazione nei primi mesi di vita del bambino e proprio in questo periodo, come immediata conseguenza, l’udito si perfeziona.

Se il bambino nel grembo materno percepisce suoni fortemente attutiti dal liquido amniotico, dopo la nascita riesce a cogliere i suoni con sempre maggiore precisione, a dar loro un significato e a individuarne la provenienza. L’udito permette al bambino di esplorare acusticamente l’ambiente circostante, di coglierne le sfumature e le ricchezze e gli fornisce quel materiale fondamentale che gli consentirà di costruire la propria capacità linguistica.

Insieme all’udito, anche gli altri sensi contribuiscono a offrire al bambino una conoscenza, inizialmente approssimativa e poi via via sempre più ricca e precisa, del mondo circostante. Attraverso l’attività sensoriale il bambino esplora il mondo, lo osserva, ne percepisce i diversi sapori e odori, lo tocca e infine lo ascolta, imparando sempre meglio, mentre i sensi perfezionano il loro sviluppo, a coglierne le differenze, a comprenderle e a metterle in relazione fra loro.

È come se il bambino, a mano a mano che i suoi organi sensoriali si sviluppano e funzionano con crescente precisione, costruisse progressivamente la mappa del suo ambiente, individuando quelle coordinate che gli permettono di dare un significato alle esperienze che vive e a elaborarle nella comprensione del mondo e di se stesso.

Questa capacità di percepire e comprendere il reale è strettamente collegata allo sviluppo cerebrale del bambino. La sua attività neuronale diventa gradualmente sempre più intensa ed efficiente, raggiungendo proprio nei primi due anni di vita la fase di massima attività. Durante tale periodo il bambino ha la speciale capacità di entrare in contatto particolarmente intenso con la realtà circostante, strutturando al contempo i suoi processi cognitivi e dando forma alla propria visione del mondo.

Ogni esperienza da lui vissuta genera uno scambio di informazioni tra le cellule del cervello, i neuroni, che raggiunge il suo picco all’inizio della sua esistenza. Terminato questo iniziale periodo, l’intensità dell’attività cerebrale diminuisce in modo graduale, riducendo quest’ampia apertura sulla realtà che il bambino possiede naturalmente per avviarsi invece verso un vero e proprio processo di specializzazione.

Questo processo, chiamato di “potatura sinaptica”, porta le connessioni tra le cellule cerebrali che corrispondono alle esperienze più frequenti a consolidarsi, mentre le altre connessioni, che corrispondono a esperienze più rade, si indeboliscono progressivamente. Questo significa che l’attività del cervello si specializza sulla base delle esperienze compiute.

Viene in tal modo costruita l’architettura primaria della nostra intelligenza, che andrà affinandosi e arricchendosi attraverso successive e sempre più complesse esperienze, ma che si delinea nelle sue caratteristiche generali proprio in questo iniziale periodo della nostra esistenza.

Durante questo intenso e variegato processo, che ha luogo nei suoi primi mesi di vita, il bambino costruisce e sviluppa le proprie competenze, tra cui quella linguistica.

L’individuo umano raccoglie con vivacità ed energia gli stimoli linguistici che riceve dall’ambiente e li fa propri, sviluppando la sua capacità di parola. Questo processo, proprio perché frutto della maturazione genetica, avviene attraverso tappe universali, uguali per tutti i bambini, indipendentemente dall’appartenenza a una particolare cultura.

Tuttavia, l’ambiente incide in modo significativo su tale meccanismo; esso rende possibile quella variabilità e unicità che caratterizza l’esistenza di ogni singola persona. Questo significa che ogni bambino costruisce la propria capacità di linguaggio seguendo un percorso delineato nelle sue tappe fondamentali dall’evoluzione della specie, ma al contempo non è da essa vincolato in modo esclusivo, proprio perché il suo contesto di vita e quindi le esperienze che in esso compie vi influiscono fortemente e in modo sostanziale.

Tutta la nostra esistenza è caratterizzata in parte da ciò che ci contraddistingue come esseri viventi dotati di intelletto e in quanto tale conferisce al nostro essere individui una dimensione universale. Tuttavia, proprio perché l’ambiente incide sulla nostra eredità genetica, si apre uno spazio particolare dove ha origine il nostro essere unici e irripetibili, inevitabilmente diversi l’uno dall’altro.

In tal senso, si può affermare che il linguaggio è sia competenza universale, poiché frutto dell’eredità genetica, sia competenza particolare, poiché su questa eredità genetica incidono in parte l’ambiente e l’esperienza che l’individuo compie al suo interno.

Ogni persona, e quindi ogni bambino, è protagonista di una propria storia che può costruire attraverso le esperienze che compie. Egli è soggetto di una narrazione personale e si manifesta in modo proprio anche nella costruzione e nell’espressione della propria capacità linguistica.

L’individuo nasce dotato di competenza linguistica. Essa è quindi una capacità che viene esercitata in modo spontaneo, senza dover essere travasata formalmente e meccanicamente dall’esterno, ma al contempo può essere influenzata nel suo sviluppo dall’ambiente, ovvero dalle circostanze di vita fisiche, sociali e affettive.

L’abilità linguistica viene esercitata sulla base dell’interazione tra maturazione genetica e ambiente e, di conseguenza, può essere favorita oppure ostacolata dalle esperienze fatte. L’ambiente e l’interazione con esso incidono quindi sulla modalità con cui questa competenza innata viene attuata ed esercitata.

In altre parole, il nostro vivere all’interno del paesaggio storico, culturale e sociale che incontriamo alla nascita influisce profondamente e in modo necessario sul processo di costruzione e di sviluppo della nostra persona e del linguaggio. Le diverse esperienze che ci è stato possibile vivere, le relazioni affettive attraverso le quali abbiamo costruito e sviluppato la nostra emotività e il nostro mondo interiore, e certamente la libertà che ci è stata concessa nel vivere in modo pieno, naturale e spontaneo, senza forzature, questi momenti, incidono sul nostro diventare persona e sulla nostra capacità di narrare questo cammino.

La parola è un dono concesso a tutti, ma diverso per ognuno, proprio perché solo attraverso il suo esercizio personale possiamo costruirla e renderla sempre più capace di raccontarci in modo fedele e significativo.

In tal senso, l’universalità propria della capacità linguistica viene attualizzata in modo peculiare da ciascun individuo, in riferimento alla propria storia personale, e diventa capacità particolare in ogni singola persona.

Questo significa che non esiste un’unica e univoca modalità di comunicare attraverso le parole, ma che il processo di espressione linguistica avviene in ciascun individuo in modo diverso, sempre unico e originale; ogni individuo nell’esprimersi con il linguaggio offre sempre la novità di se stesso. Il linguaggio fa parte, in modo essenziale e costitutivo, dell’essere di ogni singolo individuo, del suo realizzarsi e del suo manifestarsi a se stesso e agli altri e viene appreso ed esercitato in modo irripetibile da ciascuno, riflesso della propria storia personale.

Esso è un sistema complesso, costituito da decine di migliaia di unità che possono tra loro essere composte in un numero potenzialmente infinito di combinazioni. Le parole sono le unità del sistema, mentre le frasi sono le strutture in cui le unità sono componibili.

Ogni individuo utilizza questo sistema di simboli in modo unico e può potenzialmente comporre frasi che non sono mai state utilizzate prima. Il linguaggio possiede in tal senso una ricca e inesauribile variabilità individuale, di cui i poeti danno magistrale esempio.

Esso è lo strumento che noi abbiamo a disposizione per comprendere il mondo, per esprimere agli altri individui questa nostra comprensione e al contempo per comprendere ed esprimere noi stessi. Attraverso il linguaggio l’individuo traduce e struttura il proprio pensiero razionale, ma anche tutto ciò che rappresenta la sua dimensione personale ed emotiva: con la parola esprimiamo pensieri, stati d’animo e sensazioni, li comunichiamo agli altri e li raccontiamo a noi stessi.

Il linguaggio, in quanto strumento con cui possiamo dichiarare le nostre idee ed esprimere i nostri sentimenti, possiede una ricca capacità espressiva. Esso dà voce alla persona, è canale attraverso cui essa si esprime e non si riduce, in tal senso, a freddo sistema simbolico; è strumento per comunicare la sua vita interiore ed esprimere la sua più profonda umanità.

Nel contempo, una volta acquisito, proprio per questo profondo legame che possiede col pensiero, lo affina, rendendolo più ricco e complesso. Più parole conosciamo, meglio riusciamo a dar voce ai nostri pensieri, ai nostri sentimenti, ai nostri desideri; questa ricchezza linguistica, capace di cogliere un istante in tutte le sue più profonde e impercettibili sfumature, si traduce in ricchezza concettuale.

Un pensiero che ha a disposizione un variegato sistema linguistico per tradurre le idee, si affina a sua volta e diventa sempre più pronto e capace di leggere e parafrasare il mondo in tutta la sua ricchezza. Tra pensiero e linguaggio sussiste quindi una circolarità virtuosa, che permette all’uno di beneficiare della complessità e della finezza dell’altro.

Un linguaggio povero può essere paragonato al dipingere coi soli tre colori primari, senza sapere come ottenerne altri unendoli in misure e proporzioni diverse fra loro: il risultato sarà un lavoro poco eloquente, incapace di rappresentare il soggetto in tutta la sua ricchezza. Se invece i tre colori vengono uniti fra loro in diversa misura, sarà possibile creare un’ampia e variegata tavolozza, con la quale riprodurre la realtà nelle sue varie tonalità.

Un linguaggio ricco, preciso, attento è capace di descrivere e significare il mondo che racconta in modo accurato e nitido, favorendo al contempo chiarezza di pensiero oltre che di espressione. Nell’osservare una mela, anziché definirla semplicemente come tale, potremo descriverla nelle sue sfumature di colore, nella sua forma, nelle sue caratteristiche, nei suoi possibili utilizzi o nelle sue proprietà nutritive. Un linguaggio chiaro e unitamente vario favorisce questa ricchezza di percezione e descrizione del reale, affinando la nostra capacità di coglierlo e comprenderlo.

Le valenze del linguaggio

Il linguaggio è quindi al contempo competenza universale, in quanto propria dell’essere umano pensante, e particolare, poiché esercitata da individui “situati” all’interno di un luogo con precise caratteristiche storiche, sociali, relazionali e culturali.
Esso si colloca sempre all’interno di un tempo e di uno spazio personali e in quanto tale possiede una triplice valenza:
  1. sociale
  2. cognitiva
  3. interiore

Il linguaggio sociale è quello che utilizziamo all’interno di una comunità di individui per comunicare con loro. Per entrare in relazione con gli altri attraverso un linguaggio verbale condiviso, enunciamo i nostri pensieri utilizzando le parole, affinché possano venire ascoltate e possano eventualmente ricevere una risposta.

La parola comunitaria presuppone uno scambio e quindi la partecipazione a essa da parte dell’altro: per questo deve essere in primis da lui udibile, oltre che comprensibile. Quando desideriamo comunicare verbalmente un nostro pensiero, narrare un fatto o un’esperienza o condividere un sentimento, al di fuori della forma scritta, dobbiamo utilizzare parole che possano raggiungere l’altro e possano venire da lui ascoltate e comprese.

Il linguaggio sociale richiede quindi la forma orale, ovvero la verbalizzazione della parola. Esso possiede questa dimensione fisica, senza la quale non sarebbe possibile partecipare a una relazione linguistica con l’altro. Attraverso la parola enunciata, avviene quello scambio verbale di pensieri che rende possibile la comunità linguistica: io ascolto quello che l’altro mi dice e gli rispondo, in un avvicendamento continuo che apre a uno spazio comune di interscambio.

Il linguaggio cognitivo e quello interiore, poiché appartengono invece a una dimensione privata dell’individuo, possono avvenire al di fuori dell’oralità. Il linguaggio cognitivo, proprio del pensiero astratto, e il linguaggio interiore, che traduce la nostra vita più intima e spirituale, sono linguaggi silenziosi, di parole non pronunciate, che non hanno bisogno di essere ascoltate dall’altro per essere compiute e significative, diversamente dalla parola comunitaria che necessita del rimando all’altro per definirsi come tale. Il linguaggio con il quale formuliamo un nostro pensiero, riflettiamo su un’idea o un’esperienza vissuta o diamo voce a un’emozione, non necessita della verbalizzazione; esso avviene ancor prima, nell’intimo di ognuno di noi, e il fatto che non venga percepito dall’altro non lo nega e non lo priva di significato.

Il linguaggio non è quindi unicamente orale, ma anche interiore e silenzioso. Non necessariamente si limita all’espressione orale: esso esiste comunque, ingaggiando la persona nella sua formulazione con un’intensità pari a quella del linguaggio parlato. Anche quando non comunica attraverso parole udibili da altri, l’individuo è impegnato nell’espressione simbolico-linguistica di se stesso e nella comprensione del reale.

Di questa importante dimensione si deve tener conto in qualsiasi relazione umana, soprattutto in una società fortemente improntata alla comunicazione verbale. La parola forte, udibile dall’altro, sembra essere la sola possibile e l’unica attraverso cui l’individuo possa manifestarsi in modo autentico. Esiste invece un’altra parola, più umile e meno invadente, ma ugualmente significativa.

Il non udire l’altro parlare non ne nega il pensiero e più estesamente l’interiorità e la dignità. Occorre riconoscere questo linguaggio silenzioso, non parlato, come originario della persona, ovvero come una dimensione che le appartiene intimamente e attraverso la quale essa diviene e si rivela. Questo riconoscimento apre la possibilità di uno spazio, ormai inascoltato, che appartiene in modo profondamente autentico all’individuo: quello del silenzio.

Nel silenzio ha luogo il linguaggio; nel silenzio avviene la narrazione di ognuno di noi, la narrazione del bambino che un poco alla volta si avvicina sempre di più al mondo che lo circonda e a se stesso e impara a raccontarlo e a raccontarsi. Il silenzio non nega quindi il linguaggio e non si riduce a una sua sospensione, ma ne fa parte: esso lo esprime in modo diverso rispetto alla parola pronunciata e possiede pari eloquenza per chi sia in grado di coglierlo.

Il linguaggio silenzioso è una dimensione che appartiene all’essere umano e, come tale, deve essere riconosciuto e valorizzato. Varrebbe la pena prenderlo nuovamente in considerazione, anche nella relazione con i nostri bambini. Di questo si dirà a breve, a proposito del silenzio.

Il linguaggio del bambino piccolo e il pensiero Montessori
Il linguaggio del bambino piccolo e il pensiero Montessori
Isabella Micheletti
Come favorire l’uso della parola nei primi anni di vita.Un piccolo libro che suggerisce idee pratiche per sviluppare il linguaggio, partendo dal pensiero di Maria Montessori e di altri rinomati studiosi dell’infanzia. L’apprendimento del linguaggio avviene nei primissimi anni di vita del bambino, grazie all’utilizzo di competenze innate che necessitano di essere esercitate quotidianamente. Per favorire questo ricco processo di sviluppo, è importante predisporre un ambiente che consenta esperienze di qualità, ma è altresì essenziale che l’adulto instauri una relazione di comprensione e rispetto con il bambino: imparare a parlare, infatti, non equivale solo ad apprendere parole nuove o a costruire frasi, ma significa porsi in relazione con l’altro, donando una parte di sé. È consigliabile, dunque, offrire al bambino non solo un linguaggio chiaro e corretto, ma anche la propria attenta presenza, sapendo regalargli momenti di ascolto, senza scordarsi che anche il silenzio rappresenta un prezioso tempo di raccoglimento e di costruzione personale. Isabella Micheletti nel suo libro Il linguaggio del bambino piccolo e il pensiero Montessori (ma non solo!) affronta questi temi con chiarezza e semplicità, suggerendo idee pratiche da sperimentare in famiglia. Seguire nel bambino lo sviluppo del linguaggio è studio di un immenso interesse e tutti coloro che vi si sono dedicati concordano nel riconoscere che l’uso di parole e nomi, dei primi elementi del linguaggio, cade in un determinato periodo della vita come se una precisa regola di tempo sovrintendesse a questa manifestazione dell’attività infantile. Il bambino sembra seguire fedelmente un severo programma imposto dalla natura, e con tale puntuale esattezza che nessuna scuola, per quanto sapientemente diretta, reggerebbe al confronto.Maria Montessori Conosci l’autore Isabella Micheletti è educatrice Montessori e formatrice nei corsi dell’Opera Nazionale Montessori. Specializzata nel metodo Montessori, lavora da anni in questo ambito educativo con esperienza sia in Italia che all’estero.È co-fondatrice del progetto educativo e sociale “Spazio Montessori, uno spazio per la famiglia”, rivolto ai bambini della prima infanzia e alle loro famiglie.Scrive articoli di settore ed è appassionata ricercatrice nell’ambito del pensiero pedagogico.