CAPITOLO V

Le malattie inventate

Inventare una malattia infettiva

Per “inventare” una malattia prevenibile con la vaccinazione ci sono molti modi. Si parte da un dato di fatto, la malattia (chi ne nega l’esistenza?), per trasformare questa condizione in qualcosa di diverso. Le strategie del marketing sono molte, ma quella più efficace rimane il catastrofismo, che abbiamo esaminato in precedenza. Si incute paura: l’influenza diventa il killer invernale con licenza di uccidere, il papillomavirus l’unica causa dei tumori dell’utero, i rotavirus una seria minaccia alla vita dei bambini e i germi responsabili di meningiti diventano batteri con cui fare i conti tutti i giorni. Vediamoli.

Cosa si dovrebbe sapere (e non si dice) sul papillomavirus

“Dottore Eugenio, cosa ho? È un cancro all’utero, vero? Ho fatto una ricerca su Internet, e ho capito tutto”. Elena è una ragazza di 24 anni. Ho assistito alla sua nascita, l’ho seguita sino all’adolescenza e anche ora, che non è più esattamente in età pediatrica, viene da me per qualche consiglio riguardante la salute. Suo fratello, Luca, dopo la visita per il servizio militare irruppe nel mio ambulatorio dicendo: “Visitami un po’ tu, dottore, perché dei medici militari non mi fido una…”, e precisò con gergo militare l’unità di misura della sua sfiducia. Da allora ho continuato ad essere un po’ lo zio-dottore di questi ragazzi, ormai cresciutelli in verità. Mi limito semplicemente a cercare di comprendere le loro preoccupazioni, a dialogare e comunicare quando l’ansia per la salute li spinge a venire a trovarmi. Meglio che consultare il dottor Internet, che è sempre fonte di angoscia. Lo capisco benissimo: anche io da studente ho avuto tutte le malattie che studiavo, dall’unghia incarnita al tumore più raro. Non si riesce a non provare gli stessi sintomi – ma proprio identici – a quelli che accompagnano la patologia più grave se letti su un trattato di medicina o nella vasta realtà virtuale della rete. Elena ha appena fatto un Pap-test, e il risultato è ambiguo. Per prima cosa le consiglio un ginecologo di fiducia, poi iniziamo a parlare di papillomavirus, di cancro della cervice uterina e, naturalmente, del vaccino.


Elena: “Insomma, cos’è questo papillomavirus?”


Rispondo: “Il papillomavirus (HPV) è un virus umano molto comune. In genere provoca un’infezione asintomatica, che non causa alcuna alterazione e si risolve da sola. Esistono circa 120 tipi di HPV, che possono provocare lesioni della cute o delle mucose dell’apparato genitale e di altre parti del corpo (ad esempio, le verruche delle mani e dei piedi). I virus responsabili delle infezioni genitali si distinguono in virus a basso rischio e virus ad alto rischio. I virus a basso rischio sono responsabili dei condilomi floridi, che possono localizzarsi a livello della cute del perineo e delle mucose della vagina o dell’utero. Un piccolo gruppo (13) di questi virus, definiti ad alto rischio, sono potenzialmente cancerogeni, ma la loro cancerogenicità si manifesta solo in certe condizioni e in particolare se il sistema immunitario della persona è particolarmente depresso e incapace di svolgere le sue normale funzioni difensive.”


E: “Io so già che chissà quanti papillomavirus ho addosso, sarò portatrice per sempre di questi graziosi virus e dovrò stare in ansia per tutta la vita ad aspettare il tumore?”


Io: “Hai fatto solo il Pap-test, che non ti dice se hai davvero contratto questa infezione. Devi fare un test specifico per appurare la presenza del papillomavirus umano. Il test HPV si fa prelevando un campione di cellule dalla cervice uterina, per cercare il Dna del virus.”


E: “È come lo striscio allora?”


Io: “Sì, viene fatto nello stesso modo del Pap-test, che in tanti chiamano come te, striscio.”


E: “Con questo test si capisce se ho beccato l’infezione…”


Io: “Non solo. Con un metodo chiamato HC2 Hybrid Capture 2 ci dicono se l’HPV è presente o no. Si può capire se il tipo di virus presente è di quelli a basso o ad alto rischio. Con un metodo chiamato PCR (Polymerase Chain Reaction) possiamo invece ottenere la precisa individuazione del tipo di HPV presente. Si chiama tipizzazione. Ma, ammesso che il test risulti positivo, il tuo sistema immunitario si libererà presto dell’ospite indesiderato. La grande maggioranza delle infezioni scompare spontaneamente: in un anno nel 50% dei casi, in due anni nell’80% e fino al 90% in tre anni. L’infezione da HPV è molto frequente, soprattutto nelle persone giovani (circa l’80% della popolazione sessualmente attiva la contrae almeno una volta nel corso della vita).”


E: “Come, quando, e da chi posso averlo preso?”


Io: “Non si può sapere quando hai contratto l’infezione, dal momento che la maggior parte delle persone non si accorge nemmeno di essere stata infettata. La trasmissione del virus può avvenire anche per contatto pelle-pelle o pelle-mucosa, anche indipendentemente dai rapporti sessuali (può anche essere trasmesso dalla madre al neonato durante il parto). È impossibile sapere quale partner può averti contagiato perché l’infezione può essere trasmessa anche in seguito a un rapporto sessuale non completo o addirittura protetto col preservativo. Il fatto di avere oggi l’infezione può non avere nulla a che fare con il tuo attuale compagno”.


E: “Devo dirlo al mio compagno, che ho questa infezione?”


Io: “Intanto farai il test, poi deciderai. La stragrande maggioranza delle persone sessualmente attive entrerà in contatto con l’HPV, e non saprà nemmeno di essere, o di esserne stata, esposta proprio perché l’infezione è, nella maggior parte dei casi, temporanea e transitoria. Questo virus è sessista.”


E: “Ma allora cosa fa questo papillomavirus? Se è come dici non mi sembra poi così pericoloso.”


Io: “Al di là di quello che ti dice il dottor Internet, ti ripeto che anche un’infezione con un tipo virale potenzialmente cancerogeno regredisce spontaneamente nel 90% dei casi entro 3 anni dalla diagnosi. In un 9% dei casi, invece, il virus convive per tutta la vita senza causare disturbi o problemi. Solo nell’1% dei casi l’infezione può progredire verso una lesione precancerosa e solo l’1% di queste ultime può evolvere verso lesioni cancerose vere e proprie; in ogni caso lo fa solo dopo un periodo di latenza di circa 20-30 anni (cioè, il carcinoma si manifesta con una frequenza complessiva di 1 caso ogni 10.000 persone con HPV e con una mortalità di 3 casi ogni 100.000 persone; il tutto avviene solo in presenza di una grave alterazione del sistema immunitario). Insomma, l’immensa maggioranza delle donne che presenta un’infezione da HPV, anche con ceppi ad alto rischio, non svilupperà mai il tumore della cervice uterina; tant’è che il carcinoma della cervice è stato definito la ‘conseguenza rara di un’infezione comune’. Tanti altri fattori, ancora oggetto di studio, concorrono allo sviluppo del tumore.”


E: “Mi sento un po’ più tranquilla. Mi viene da chiederti allora: l’infezione è davvero responsabile del tumore?”


Io: “Vedi, non tutte le donne sono uguali, per fortuna, nemmeno di fronte al papillomavirus. Siete così diverse, differenti l’una dall’altra che anche il virus non sa come prendervi. Nella peggiore delle ipotesi, in alcune donne l’HPV provocherà delle lesioni displasiche che, con controlli regolari e trattamenti appropriati, non evolveranno in un tumore. Non tutte le donne presentano un rischio identico. L’uso prolungato degli anticontraccettivi orali, il fumo di sigaretta, la scarsa igiene sono fattori di rischio, ma quello che conta di più è l’efficacia o la debolezza immunitaria nei confronti di questi virus.”


E: “Se davvero non ho né il tumore, né l’infezione, allora posso fare il vaccino e sto tranquilla” dice ridendo.


Io: “Magari fosse così semplice! Per stare tranquilla devi continuare a fare gli screening regolarmente, ogni 3 anni, come suggerisce la tua ASL in base alle raccomandazioni della Commissione Oncologica Nazionale. I papillomavirus sono co-responsabili del tumore del collo dell’utero, ma soprattutto in assenza di diagnosi e trattamenti precoci. Ciò vale soprattutto per i Paesi poveri, dove le donne contraggono l’HPV senza saperlo e corrono un rischio maggiore di sviluppare questo tipo di tumore. Ma questo non vale per Paesi come il nostro, dove le donne possono essere ben seguite: in caso di Pap-test anormale, un test HPV consentirà sempre e comunque di rivelare una situazione a rischio e di agire molto precocemente.”


E: “Ho visto in Tv, ad Elisir, Veronesi che diceva di fare il Pap-test ogni anno.”


Io: “È davvero strano che un ex-ministro della salute invii messaggi che delegittimano il lavoro delle strutture pubbliche. Nella sanità italiana gli intrecci tra pubblico e privato sono davvero inestricabili e difficili da comprendere, a volte. Segui le indicazioni della ASL, che mi sembrano le più corrette.”


E: “Ma allora ci sono tanti dubbi?”


Io: “Più dubbi che certezze, per tanti motivi, che ora ti dico. Lo hanno propagandato e lo vendono come il vaccino che previene il tumore del collo dell’utero, ma questa è solo un’affermazione di propaganda, puro marketing. Chi dice così mente, sapendo di mentire. In realtà il vaccino anti-HPV (sia quello bivalente sia quello tetravalente) stimola il sistema immunitario a formare anticorpi contro 2 dei 13 tipi potenzialmente cancerogeni di HPV: sono i due tipi più frequenti, responsabili di poco più del 70% dei tumori del collo dell’utero ma sono solo 2 e quindi l’effetto protettivo del vaccino, anche se fosse del 100% verso questi due tipi, in ogni caso è dello 0% verso gli altri 11 tipi. Comunque, dato che l’HPV impiega più di 20 anni per passare dallo stato di tumore benigno (displasia) a quello di tumore maligno e dato che la sperimentazione di questo vaccino è iniziata poco più di 10 anni fa, bisognerà attendere almeno altri 6/7 anni per sapere se il vaccino protegge effettivamente verso quei 2 tipi. Sai cosa dicono le autorità sanitarie della Finlandia, dove stanno conducendo un esperimento su 22 mila ragazze per valutare l’efficacia del vaccino? Che per ora è un tirare ad indovinare.”


E: “Ma… dài, fanno un vaccino a tutte le ragazze senza sapere se funziona davvero… mi pare assurdo.”


Io: “Assurdo o no, è così. In base ai dati concreti a nostra disposizione oggi e non alle estrapolazioni statistiche, possiamo affermare che il vaccino anti-HPV sembra essere efficace solo nella displasia intraepiteliale cervicale di grado 2 (CIN 2), che è una lesione che nel 40% dei casi regredisce spontaneamente e non necessita di alcun trattamento, e per il rimanente 60% può essere facilmente eliminata in ambulatorio. I dati di efficacia del vaccino riguardo alla displasia intraepiteliale cervicale di grado 3 (CIN 3) o l’adenocarcinoma in situ sono totalmente insufficienti per trarre una qualsiasi conclusione. Per quanto riguarda invece i dati di efficacia del vaccino nei confronti del carcinoma cervicale conclamato, si può dire non che i dati sono insufficienti, bensì che sono totalmente inesistenti.”


E: “Sarà stato studiato su tante ragazze, no?”


Io: “No, al momento della sua introduzione in Italia è stato studiato su un numero relativamente piccolo di ragazze (circa 1.200) tra 9 e 15 anni, che è la fascia di età a cui il vaccino è destinato. Di queste, appena 100 avevano 9 anni e la più giovane è stata seguita soltanto per 2 anni. È palese che non si può partire da questi dati per pianificare una vaccinazione di massa nei confronti di un virus che causa una patologia cancerosa dopo almeno 20-30 anni di convivenza nell’organismo.”


E: “Ma su di me, che ho già avuto rapporti sessuali, può funzionare?”


Io: “Per essere efficace il vaccino va fatto prima di iniziare ad avere rapporti sessuali, in base a quello che dichiarano i produttori stessi. L’efficacia è minore nelle donne che hanno già avuto rapporti sessuali perché è maggiore la probabilità che abbiano già contratto un’infezione con il virus HPV.”


E: “Per questo viene proposto alle ragazze di 12 anni, ma io a quella età giocavo con le Barbie, e non pensavo certo al sesso.”


Io: “Già. Ma il vaccino funziona, dicono, solo prima di avere acquisito l’infezione da HPV, e quindi prima di avere il primo rapporto sessuale. L’unico modo per ottenere questo in una vaccinazione di massa è vaccinare ragazze all’inizio dell’adolescenza. È vero però che tante ragazzine a 12 anni vengono in ambulatorio con i calzettoni bianchi e la bambola in mano; come fai a spiegargli a cosa serve questo vaccino? E anche a quelle più sbirbite, non ti pare pericoloso far coincidere il concetto di sessualità con quello di malattia o di cancro futuro? Da noi i servizi per gli adolescenti sono pressoché inesistenti, e gli adolescenti non si sa chi deve curarli… quanta confusione per un’età così delicata.”


E: “È un vaccino che dura tutta la vita, spero, con quel che ho sentito dire che costa.”


Io: “Macché! Non conosciamo ancora la durata della protezione, stimata per ora di 7-8 anni, né il livello anticorpale necessario a garantirla. Sui costi hai ragione, sono davvero alti. Converrebbe molto di più rafforzare l’offerta del Pap-test: fare solo il vaccino e non fare lo screening comporterebbe un aumento del rischio residuo di cancro invasivo, una vera sconfitta per la sanità pubblica. L’uso del vaccino è un enorme costo in più per lo Stato che lo distribuisce gratuitamente senza alcun beneficio attuale, perché le donne vaccinate dovranno continuare ad eseguire le visite ginecologiche e i Pap-test; e questo sia perché potrebbero infettarsi con altri tipi di HPV, non coperti dal vaccino, sia perché si ignora del tutto quanto sia efficace la sua protezione e anche quanto tempo duri. Inoltre, l’imponente spesa che lo Stato deve sostenere per le vaccinazioni anti-HPV implica l’eliminazione dei finanziamenti ad altri settori della sanità pubblica. Ora, dato che il semplice ed economico Pap-test è perfettamente in grado di diagnosticare per tempo un tumore cervicale allo stato iniziale di semplice displasia, sarebbe più logico, più economico e totalmente privo di rischi presenti e futuri promuovere una campagna di sensibilizzazione delle donne affinché si sottopongano periodicamente al Pap-test, anziché finanziare un vaccino la cui efficacia, durata nel tempo e innocuità sono ancora tutte da dimostrare. C’è il serio rischio che si riduca l’adesione allo screening, da parte di chi si vaccina, anche a causa del livello di impudenza con cui viene reclamizzata la vaccinazione come panacea. L’imponente sforzo economico per l’acquisto dei vaccini e l’impegno aggiuntivo dei servizi, costantemente sottoposti a una riduzione continua delle risorse, soprattutto umane, sottrarrà mezzi essenziali per la generalità dei servizi primari dedicati alla promozione della salute, in primis i consultori familiari, secondo il modello operativo delineato nel Progetto Obiettivo Materno Infantile (POMI). Da notare che nel POMI, uno dei programmi strategici è proprio lo screening per il tumore del collo dell’utero, con un ruolo decisivo dei consultori familiari nell’offerta attiva del Pap-test.”


E: “Ma almeno è sicuro questo vaccino?”


Io: “Entrambi i vaccini, tetra e bivalenti, sono preparati con particelle dell’involucro del virus (capsidi virali), che esternamente sono del tutto simili al virus. Però non contengono DNA e quindi non possono infettare le cellule, riprodursi o causare malattia. Il sistema VAERS (Vaccine Adverse Event Report System), che raccoglie le segnalazioni di effetti indesiderati durante e dopo una vaccinazione, ha raccolto fino alla fine di febbraio 2008 più di 5.300 reazioni avverse dopo la somministrazione del vaccino tetravalente Gardasil®, su un totale di circa 8 milioni di dosi vendute. Secondo il produttore, il 2-4% di tutti gli effetti indesiderati del vaccino era grave, mentre secondo i Centers for Disease Control and Prevention (CDC) gli effetti gravi ammontavano a circa il 5%. Finora sono stati riportati 10 casi ad esito fatale tra le ragazze/donne vaccinate, ma la ditta produttrice rassicura dicendo che “gli eventi riportati erano in linea con gli eventi attesi nella popolazione sana”. La FDA (Food and Drug Administration) ha ricevuto anche 28 segnalazioni di aborto dopo somministrazione del vaccino Gardasil® a 77 donne in stato di gravidanza (28/77= 36%); altre 5 donne hanno registrato danni gravi a carico dei loro feti. Altre reazioni avverse meno gravi sono state: cefalea, febbre, nausea, vertigini, vomito, diarrea, dolori muscolari, broncospasmo, asma, orticaria, gastroenteriti, mialgie, trombosi, patologie pelviche infiammatorie, artrite giovanile, artrite reumatoide e artriti aspecifiche, svenimento, intorpidimento prolungato agli arti, paralisi periferica, paralisi facciale, sindrome di Guillain-Barré, convulsioni, encefalopatia, ecc. Molte di queste reazioni, ovviamente, non sono comparse durante le sperimentazioni controllate eseguite dalla ditta produttrice, perché quest’ultima ha registrato solo gli effetti che comparivano nei 14 giorni successivi ad ogni somministrazione: un periodo gravemente insufficiente per un trattamento che dovrebbe mantenere i suoi effetti per anni, specie per un vaccino virale antineoplastico. Infatti, un grande pericolo di questa vaccinazione, come di tutte quelle verso virus oncogeni, è che se anche fosse vero che riduce la frequenza di infezione da parte di due tipi oncogeni di HPV, è molto probabile che ciò induca un incremento percentuale della frequenza degli altri tipi virali, ora meno frequenti e meno oncogeni rispetto a quelli vaccinali. Cioè, come già documentato con altri vaccini, una vaccinazione massiva contro due tipi di virus HPV potrebbe indurre delle mutazioni virali che possono alterare la virulenza patogena dei tipi che oggi conosciamo, inducendo la selezione di altri tipi virali di HPV molto più oncogeni e aggressivi degli attuali.”


E: “Mi sembra impossibile...”


Io: “Hanno esagerato, in questo caso hanno esagerato davvero. La campagna pubblicitaria secondo cui il vaccino contro l’HPV è in grado di impedire lo sviluppo di tutti i carcinomi della cervice uterina, non è corretta, ma è stata aggressiva e capillare. La pressante attività di marketing esercitata dalle ditte produttrici, iniziata già prima dell’autorizzazione alla commercializzazione del vaccino e fattasi ancora più incalzante ora, ha reso difficile una valutazione serena del problema, sia dal punto di vista scientifico che politico-sociale. L’efficacia dei vaccini è stata verificata considerando la riduzione di incidenza di displasie gravi e non del tumore, per cui è necessario attendere 30-40 anni. È informazione ingannevole dichiarare che i vaccini prevengono il tumore e le autorità hanno la responsabilità e l’obbligo di intervenire. La scelta di vaccinare non è giustificata né sul piano del merito né secondo un criterio di priorità. Se l’ingente impegno economico previsto per la vaccinazione venisse impiegato per l’applicazione integrale del POMI, con l’adeguato potenziamento della rete e delle attività dei consultori familiari secondo le indicazioni del POMI stesso, si otterrebbero risultati di gran lunga più consistenti, non solo riguardo al tumore ma anche per tutte le altre aree di promozione della salute della donna e dell’età evolutiva e, di conseguenza, della famiglia e della società. Alcuni ricercatori, con un tono un po’ ironico, hanno dichiarato che le dodicenni che verranno vaccinate nei prossimi anni saranno le “cavie” che permetteranno ai produttori di questo vaccino di guadagnare i soldi necessari per finanziare ulteriori studi miranti al perfezionamento della vaccinazione. Pertanto, è come se queste ragazzine si sacrificassero involontariamente e gratuitamente per il progresso della Scienza! Le decisioni in sanità pubblica vengono prese sulla base del parere di esperti coinvolti nei contesti istituzionali (CSS, ISS, AIFA). Tali esperti non devono avere connessioni, per finanziamenti ricevuti per qualsivoglia motivo, con le aziende produttrici dei prodotti sul cui uso ci si deve esprimere. Altrimenti non si fa sanità pubblica; si fa mercato, il più ignobile, speculativo sulla salute con le risorse che i cittadini mettono a disposizione con le tasse, il che rende la speculazione ancora più odiosa.”


Elena ha poi fatto tutti i controlli opportuni: la visita ginecologia, il test per l’Hpv. Non sono state riscontrate anomalie. Ha ripetuto il Pap-test che è risultato nella norma. Un anno dopo è venuta di nuovo a trovarmi e, raggiante, mi ha comunicato che avrò un nuovo bimbo da seguire: è incinta.

Potenza della pubblicità: papillomavirus e pizza

Ricordo che tra gli anni Ottanta e i primi anni Novanta esplose su stampa e televisione una discussione su come dovesse essere effettuata la campagna contro l’Aids a cura dell’allora Ministero della Sanità. Intervennero tutti, anche la Conferenza Episcopale Italiana, e infuriarono i dibattiti sulle parole da utilizzare negli spot, sui messaggi che indirettamente sarebbero stati trasmessi al pubblico giovanile, sull’opportunità di servirsi di immagini più o meno esplicite. Pressioni politiche e scrupoli religiosi portarono a formulare testi e immagini che furono capolavori di equilibrismo, e che si possono tuttora leggere in un sito che di quelle campagne pubblicitarie ricostruisce la storia, traendoli da una tesi di laurea in Comunicazione e Informazione Sociale presentata all’Università di Bologna1.


Mi ha colpito doppiamente, pertanto, vedere all’improvviso per le strade della città i cartelloni pubblicitari della Regione Toscana sul vaccino contro il papillomavirus: nessun terremoto mediatico, nessuna discussione, nessuna obiezione da parte di chicchessia. Certo, testo, messaggio ufficiale, e messaggi impliciti dei cartelloni pubblicitari ottenevano lo straordinario effetto di accontentare tutti: il mondo dell’industria farmaceutica (camuffato da scienza), la politica alla ricerca di consenso e finanziamenti (travestita da progresso), e, all’estremo opposto, coloro che non aderiscono a una cultura laica, ma che non dovrebbero avere troppo da obiettare su uno spot che associa l’idea dei primi rapporti sessuali in una persona molto giovane o adolescente con l’idea di un potenziale, insidioso pericolo.


Unica vittima il buon gusto, sia per lo stile degno del peggiore rotocalco, sia per il fatto di rendere oggetto moltissime donne, adolescenti o madri di adolescenti, di spot pubblicitari, anziché di una campagna di informazione medica condotta in modo corretto e proposta a soggetti capaci di recepire, in materia di salute, informazioni e non pubblicità.


Gli adolescenti, che non sono più bambini e non ancora adulti, nel nostro sistema sanitario non hanno a disposizione strutture che sappiano farsi carico dei loro bisogni. Hanno giusti motivi di disagio nel frequentare ancora l’ambulatorio del pediatra e diffidenza nei confronti del medico di famiglia. Centri multi-specialistici a loro dedicati, che vedano lavorare insieme i professionisti di cui hanno bisogno sono rare eccezioni. Sessuologi, ginecologi, andrologi, psicologi, endocrinologi, pediatri, auxologi che collaborino mettendo al centro delle loro prestazioni i bisogni degli adolescenti sono una rarità, e la campagna così attuata contro l’Hpv è l’ennesima occasione persa.


“Contro il papillomavirus meglio pensarci prima” afferma la campagna della Regione Toscana per la promozione della vaccinazione.


L’immagine è quella di una ragazzina, seduta alla sua scrivania, che non sta studiando, ma con aspetto sognante pensa: “Tanto, prima o poi lo incontrerò”. Verrebbe da dire che se la ragazzina invece di sognare si concentrasse un po’ di più nello studio, forse avrebbe più probabilità un giorno di difendersi da testi pubblicitari come questo, se non altro attraverso l’informazione personale. Ma, sia o no consapevole la scelta dei pubblicitari, la ragazzina del cartellone riflette l’immagine di consumatore, e ormai anche di cittadino, cui l’industria della salute agogna: sognante e poco consapevole. L’incontro cui è destinata l’adolescente, dunque, è naturalmente il ragazzo della sua vita, e il primo rapporto sessuale, che saranno però il cavallo di Troia per il papillomavirus. Ce lo conferma la giovane mamma che, con un sorrisetto astuto, dice: “Sì, sì, ma prima di incontrarlo vaccìnati contro il papillomavirus”.


L’analogia con le recenti campagne contro l’Aids, e l’assoluta mancanza di una campagna di informazione medica, e non commerciale, sul papillomavirus condotta attraverso i consultori e le scuole, creano così nella mente degli individui un cortocircuito immediato che rende perfettamente equivalenti papillomavirus e cancro al collo dell’utero. Si capisce allora perché disinformazione e paura diventino strumenti necessari per indurre un sufficiente numero di persone a sottoporsi alla vaccinazione. Del resto, se chi propone il vaccino avesse la matematica certezza di sconfiggere il cancro all’utero, quale bisogno vi sarebbe di un cartellone pubblicitario? Si potrebbe immaginare di pubblicizzare la chemioterapia per le donne affette da un cancro per timore che qualcuna non vi si sottoponesse? Per questo basta l’informazione alle pazienti sulla funzione della chemioterapia, non la pubblicità.


Giorni fa mi è capitato di osservare al supermercato una confezione di farina, lievito e polpa di pomodoro per fare la pizza in casa. La scatola recava l’immagine di una succulenta pizza con a lato dei pomodori interi e qualche foglia di basilico. Poiché il consumatore dentro la confezione non trova ovviamente la pizza intera ma solo alcuni dei suoi ingredienti, per non incorrere nell’accusa di pubblicità ingannevole i produttori hanno aggiunto la scritta: “Immagine rappresentativa della pizza ottenibile seguendo la ricetta base con l’aggiunta di mozzarella”.


È incredibile che, relativamente all’informazione, il rigore che si esige da un produttore di pizze non venga minimamente richiesto né a un produttore di vaccini, né alle aziende ASL che li somministrano; ancor più sconcertante pensando al fatto che chiunque è in grado di comprendere che una scatola con un’immagine stampata sopra non può materialmente contenere una pizza già bella e pronta, mentre nessuno, tranne gli esperti in materia, può definire il contenuto di un vaccino, sia in termini letterali, sia in termini di efficacia, utilità, benefici ed effetti collaterali.


Ecco, suggerirei ai vari Assessori regionali alla Salute e alle Aziende Sanitarie locali di cominciare proprio da lì, dall’attenersi alle stesse regole che dovrebbero rispettare se distribuissero pizze.

Potenza dell’industria: papillomavirus e conflitti d’interessi

La Regione Basilicata, insignita del Public Affairs Award 2012 per la campagna sul papillomavirus, ha fatto di più, ossia di peggio: a fresche immagini di ragazzine adolescenti ha associato le scritte: “Hpv responsabile del cancro del collo dell’utero, e di altre patologie sessualmente trasmesse, tumorali e non tumorali, come i tumori vulvari, vaginali e le verruche genitali”. Come se venisse saldata nella testa delle persone la connessione tra i brufoli sul viso e la setticemia per il fatto che entrambi si sviluppano da batteri, e come se per prevenire la seconda venisse prescritta a tutti una terapia contro l’acne. La Basilicata è stata la prima regione italiana ad aver iniziato, nel 2007, un programma di vaccinazione gratuita contro l’Hpv, e anche la prima ad aver offerto questa “importante opportunità di salute” non soltanto alla classe delle dodicenni, ma anche ad altre tre fasce d’età: 15, 18 e 25 anni.


L’iniziativa, nata sotto l’alto patrocinio della Regione Basilicata, è stata fortemente sostenuta dalle associazioni di volontariato Iris Basilicata, Fidas Basilicata e Fidapa distretto sud-est, per diffondere sempre più tra le giovani generazioni la cultura della prevenzione dei tumori e, nel contempo, la donazione del sangue, come efficace forma di medicina preventiva.


L’iniziativa salverà dal tumore al collo dell’utero, dai condilomi e dalle altre malattie correlate a questo virus tutte le donne lucane tra i 12 e i 25 anni d’età.2


Ma che cos’è il Public Affairs Award di cui è stata insignita la Regione Basilicata, e chi lo assegna? Lascio al lettore dedurlo dalla semplice visione di un documento scritto dalla stessa Public Affairs Association (PAA) in occasione del quarto convegno nazionale, tenuto, si badi bene, nella Sala Capitolare del Senato della Repubblica, nel luglio 2012:


Maggiore sensibilità e disponibilità al confronto da parte delle Istituzioni nazionali e locali e formazione di una nuova generazione di specialisti del market access, con un ventaglio di capacità e competenze più focalizzato alla negoziazione in chiave farmaco-economica. Queste, in sintesi, le richieste dei top manager dell’industria farmaceutica emerse da “Public Affairs Monitor 2012”, l’indagine annuale realizzata da Medi-Pragma per conto di Public Affairs Association (PAA), associazione dei professionisti delle relazioni istituzionali e della lobbying che operano nel settore della sanità. PAA rappresenta l’Italia, insieme a Ferpi (Federazione Relazioni Pubbliche Italiana), in seno alla Global Alliance for Public Relations and Communication Management ed è membro fondatore della federazione International Alliance of Lobbyists con American League of Lobbyists, Association of Accredited Lobbyists to the European Union, l’australiana Government Relations Professionals Association e Croatian Society of Lobbyists.3


Insomma, non se ne fa neppure un mistero: sono i lobbisti dell’industria farmaceutica che hanno premiato la Regione Basilicata per avere favorito alla grande le loro vendite. Essi però chiedono un più stretto collegamento con le istituzioni nazionali e locali, e la creazione di una categoria specifica di professionisti che curino e facciano crescere e profittevolmente prosperare queste connessioni…


Il vaccino antipapillomavirus è stato proposto in Italia dal progetto ONDA (Osservatorio Nazionale sulla Salute della Donna). Partner del progetto: le Istituzioni, quali il Parlamento italiano ed europeo, il Ministero della Salute, l’Assessorato alla Salute del Comune di Milano. I sostenitori sono le maggiori multinazionali di Big Pharma: Glaxo SmithKline, Sanofi Pasteur MSD, Roche, Pfizer, ScheringPlough, Istituto Ganassini, BASF, AstraZeneca, Rathiopharm, Wyeth, e altre.


Una sponsorizzazione disinteressata, naturalmente.


Un ultimo esempio di quanto siano pervasivi i conflitti d’interessi nelle scelte delle politiche sanitarie è rappresentato dalla bufera che sta rischiando di travolgere la Cochrane Collaboration, associazione nata 25 anni fa allo scopo di promuovere l’uso delle prove di efficacia nelle decisioni mediche, con la produzione di revisioni e la loro diffusione attraverso le attività di 11.000 membri e oltre 35.000 sostenitori. Sorta come organizzazione indipendente che non accetta sponsorizzazioni, la sua produzione scientifica è stata ampiamente utilizzata per stilare le linee guida e orientare le decisioni governative. L’importanza del lavoro della Cochrane è tale che, nel tempo, le sue revisioni sistematiche sono diventate una sorta di gold standard, il primo luogo in cui cercare, nonostante i limiti e le incertezze, una risposta scientifica a una domanda sulla salute. Ciò che oggi fa tremare la Cochrane è la minaccia alla sua reputazione e alla sua autorevolezza dovuta anche al solo dubbio che il risultato del suo lavoro possa essere distorto. La politica interna della Cochrane è cambiata dal 2014; oggi consente che gli autori di una revisione possano avere conflitti di intesse economici rispetto all’oggetto degli studi di revisione, se questi costituiscono una minoranza del team di revisione e se il conflitto non riguarda il primo autore4; una politica criticata internamente e ampiamente sconosciuta al pubblico. Se non risolve immediatamente questo problema lasciato per troppo tempo in sospeso, la Cochrane rischia di perdere agli occhi di medici, farmacisti, scienziati e pazienti la fiducia, la credibilità e l’autorevolezza guadagnata sul campo. La bufera origina dall’espulsione, avvenuta il 26 settembre 2018, di Peter Gøtzsche, direttore del Nordic Cochrane Centre e co-fondatore della Cochrane Collaboration negli anni ’90. Il prof. Gøtzsche insegna Clinical Reasearch Design and Analysis presso l’Università di Copenaghen ed è noto per le revisioni sull’efficacia degli screening di massa, in particolare con riferimento alla critica dell’efficacia della mammografia nella diagnosi precoce del carcinoma del seno. Si è anche occupato del conflitto d’interesse rispetto all’uso di farmaci, e ha attaccato specialmente gli psicofarmaci per inefficacia a fronte di documentati effetti indesiderati, e la psichiatria accademica per il silenzio rispetto allo svantaggioso rapporto rischio/beneficio dei farmaci in uso. Insieme a Lars Jørgensen e Tom Jefferson ha firmato una serrata critica metodologica alla revisione Cochrane sull’efficacia della vaccinazione anti-HPV. L’espulsione di Gøtzsche dalla Cochrane è stata motivata dal consiglio direttivo con l’impossibilità di gestire lamentele esterne sul suo operato, ripetutamente giunte alla Cochrane, e con le sue accuse all’interno degli organi direttivi che, quindi, non potevano avere serenità di giudizio. Nella sua replica, Gøtzsche attribuisce un significato fortemente politico alla vicenda, svincolandola da un contesto strettamente personale e attribuendola alla deriva commerciale dell’organizzazione che non intende inimicarsi il mondo dell’industria farmaceutica. Le sue critiche rispetto alla reale indipendenza della Cochrane vanno nella direzione sia della qualità metodologica, come per la revisione sulla vaccinazione anti-HPV, sia del tradimento della mission originaria, sia della perdita di democraticità all’interno dell’organizzazione che, a sua volta, gli contesta interventi personali in cui non ha chiarito che non parlava in veste di membro della Cochrane. All’espulsione di Gøtzsche sono seguite le dimissioni di altri quattro membri del consiglio direttivo. In queste pagine non intendiamo intervenire sulla vicenda, che vedrà sviluppi futuri; i lettori interessati potranno seguirne gli eventi sul sito del movimento Nograzie, un gruppo spontaneo di operatori che lavorano in diversi ambiti della Salute per proporre nuove modalità di rapporto tra il mondo della sanità e l’industria del farmaco.

Qui riportiamo una considerazione apparsa sulla Lettera d’informazione periodica n. 63 di ottobre 2018, interamente dedicata alla vicenda sull’uso dei media per informare il pubblico:


“Quando finanziano una ricerca, e in particolare se si tratta di ricerche su prodotti che possono diventare dei successi commerciali, le multinazionali del farmaco, e di qualsiasi altro dispositivo sanitario, pianificano in anticipo la campagna promozionale, per la quale possono usare i propri uffici di pubbliche relazioni e/o ditte esterne specializzate. E le moderne pubbliche relazioni usano sempre più spesso strumenti e metodi che, idealmente, lasciano poche tracce o addirittura nessuna. Ciò che il pubblico vede o legge su media di ogni tipo (perché le campagne promozionali sono sempre multi-mediatiche), spesso non è altro che un copia incolla, letterale o con piccole modifiche, delle veline preparate dagli esperti di pubbliche relazioni al soldo dell’industria. Purtroppo molti ricercatori di studi finanziati dall’industria si prestano a essere attori di attività promozionali; molti, probabilmente, senza rendersene nemmeno conto, proprio per gli stessi meccanismi per i quali anche il pubblico pensa di ricevere informazioni indipendenti”.


Il Professor Gøtzsche ha, di fatto, subito un provvedimento di espulsione per avere sostenuto una tesi contraria alla sicurezza ed efficacia del vaccino anti HPV. Sono tempi davvero bui.

Cosa è bene sapere sul rotavirus per non essere contagiati… dalla paura

“Samuele ha passato tutta la notte a vomitare, ha un po’ di febbre. Da un paio di ore ha smesso, ma ha iniziato con la diarrea”. Ricevo molte telefonate di questo tenore. La gastroenterite acuta è un’affezione molto frequente in età pediatrica: è la causa principale di vomito nei bambini sotto i 3 anni e uno dei più frequenti motivi di accesso al Pronto Soccorso e ricovero ospedaliero. In genere è sufficiente un colloquio telefonico per fornire qualche indicazione che aiuti il bimbo a superare questa banale malattia. La cosa fondamentale è mantenere un buon livello di idratazione. Il nostro corpo è composto per grandissima parte da acqua e quello di un bambino lo è per il 75-80%. È proprio vero che senza acqua non c’è vita. Non importa quante volte il bambino vomiti, o quante scariche di feci presenti, purché venga idratato, cioè beva abbastanza. Di solito ci si preoccupa, e anche molto, se il piccolo non mangia. “Il bambino non mi mangia” mi viene detto sempre, dimenticando che nessuno di noi ha voglia di riempire uno stomaco o un intestino ancora in subbuglio. Bere, invece, è importantissimo per evitare la complicazione più importante della gastroenterite, che è la disidratazione. Quindi il primo rimedio è l’acqua, che va somministrata a piccoli sorsi. Se il rischio di disidratazione è alto, come per i bambini più piccoli (i minori di 2 anni e soprattutto i lattanti di età inferiore a 6 mesi), per i bambini con diarrea e vomito profusi, che non riescono ad assumere liquidi, o che sono già malnutriti, si può offrire da subito una soluzione reidratante, che non è altro che acqua, sale e zucchero, con le opportune concentrazioni di sodio e glucosio. La prescrivo subito quando mi viene detto che il bambino sta male, che sembra peggiorare, o che è molto sonnolento, o particolarmente irritabile, che non fa pipì da alcune ore. Visitandolo, i sintomi di una disidratazione significativa sono gli occhi infossati, le mani e i piedi freddi, le mucose asciutte, la lacrimazione ridotta, la cute marezzata, il battito cardiaco accelerato, e il respiro più frequente. Inoltre, pizzicando la cute della pancia, la plica che si solleva non si retrae immediatamente. La disidratazione è facile da prevenire con la soluzione reidratante orale, una terapia semplice, economica, ma ancora poco impiegata. I bambini che presentano segni di disidratazione devono assumerla per 4-6 ore in continuazione: per la disidratazione lieve in questo periodo ne vanno somministrati 30-60 ml/kg, per la disidratazione moderata 60-90 ml/kg. La soluzione va offerta a piccoli sorsi per evitare l’insorgenza del vomito. In particolare, nel corso della prima ora, andrebbe offerto ai bambini più piccoli (fino a 2 anni) mezzo cucchiaino da caffè di soluzione ogni 2 minuti, per un totale di circa 50 ml; ai bambini sopra i 3 anni un cucchiaino da caffè di soluzione ogni 2 minuti, per un totale di 100 ml. La quantità di liquidi va aumentata progressivamente nel corso delle ore successive, in modo da raggiungere la quantità prevista nel corso di 4-6 ore. Dopo un episodio di vomito è bene attendere 30 minuti prima di ricominciare a somministrare la soluzione reidratante. Per reintegrare le perdite vanno somministrati 10 ml/kg per ogni scarica di diarrea e 2 ml/kg per ogni episodio di vomito. Occorre praticare la reidratazione endovenosa ai bambini con disidratazione più importante o quando, nonostante l’adeguata assunzione di liquidi per via orale, non si riesce a ripristinare le perdite di liquidi con conseguente mancanza di miglioramento, o peggioramento delle condizioni cliniche. Mettere una flebo, ospedalizzare il bambino, non sono certo una sciocchezza, ma in poche ore il problema si risolve senza conseguenze. La gastroenterite acuta in età pediatrica è causata per il 70% dei casi da un’infezione virale: sono stati identificati più di venti tipi di virus come agenti eziologici, ma i più comuni sono il rotavirus e il norovirus. L’infezione da rotavirus ha un andamento stagionale, con picco alle nostre latitudini in inverno inoltrato. È più comune tra i 6 mesi e i 2 anni di età ed è talmente diffusa che, raggiunti i 5 anni, praticamente la totalità dei bambini ha avuto un’infezione da rotavirus. Il vomito dura di solito 1-2 giorni e si risolve entro 3 giorni nella maggior parte dei casi; la diarrea ha una durata media di 5-7 giorni e comunque si risolve entro 2 settimane. In base a modelli matematici si calcola che in Italia ogni anno si verifichino oltre 300.000 casi di infezioni da rotavirus, di gravità lieve, che vengono curate a domicilio, e 3-10 ricoveri/anno per 1.000 bambini di età inferiore ai 5 anni. Non esistono dati concreti e reali, perché è un’infezione molto diffusa e di bassa mortalità: nei Paesi industrializzati il rischio di morte per gastroenterite da rotavirus è valutato essere inferiore a 0,1 caso su 100.000. In Paesi con condizioni igienico-sanitarie come il nostro le infezioni da rotavirus non costituiscono una priorità per la salute dei bambini in quanto non destano preoccupazioni per la loro gravità.


Tuttavia, l’industria ha provveduto a realizzare un vaccino, il quale, una volta messo al mondo, aveva bisogno di consumatori che lo adottassero. Si è dovuto perciò trovare una motivazione adatta, poiché quella della gravità dell’infezione non era chiaramente utilizzabile. Ci si è avvalsi soprattutto della motivazione economica evidenziando il risparmio dei costi economici diretti della malattia (ricoveri, visite, cure) e dei costi sociali (giorni di lavoro persi). Come passo successivo, sono stati attivate le usuali strategie utilizzate per altre vaccinazioni. Si inizia facendo comparire nelle riviste scientifiche più articoli sulle infezioni da rotavirus, magari dedicandovi il supplemento di una rivista più o meno prestigiosa. Segue una campagna sulle pagine dei giornali a più ampia diffusione, volta a catture l’attenzione e a suscitare preoccupazione tra la popolazione. Nel medesimo tempo si finanzia una qualche associazione di pazienti (c’è solo l’imbarazzo della scelta) che reclami a gran voce un intervento pubblico sul ‘grave’ problema. Infine, si effettuano stime con modelli matematici dell’incidenza della patologia (previsioni e calcoli statistici, spesso basati su dati parziali, incompleti, approssimativi, o addirittura lontani dalla realtà). Sarebbe normale conoscere davvero il numero e la gravità delle infezioni da rotavirus in Italia, identificando anche i ceppi virali circolanti, ma una fretta sospetta (dal momento che non esiste il criterio dell’urgenza indotto dalla gravità) ha indotto alcune ASL a offrirlo gratuitamente ai bambini di due mesi, nonostante questa vaccinazione non sia stata inserita nel Piano Nazionale Vaccini 2012-2014. Potenza dell’industria. La bassa gravità della malattia imporrebbe ancor più che la sua sicurezza fosse assoluta, un aspetto prioritario nella valutazione della scelta di sottoporre o meno i bambini a questa pratica. Il rischio di complicanze (le più frequenti sono le invaginazioni intestinali) diventa inaccettabile per una patologia di bassissima, o quasi nulla letalità. Il rischio di invaginazione entro 3-14 giorni dalla somministrazione era 20 volte maggiore rispetto all’atteso dopo la prima dose, e 5 volte maggiore dopo la seconda dose con i vaccini di prima generazione, ritirati per questi motivi dal commercio. L’efficacia reale è da dimostrare, per l’esistenza di altre infezioni gastroenteriche ricorrenti, per la circolazione di altri ceppi (la gamma dei sierotipi di rotavirus è più ampia di quella contro i quali l’efficacia dei vaccini è stata sperimentata), per il riassortimento con rotavirus animali, per l’azione degli anticorpi materni, nonché per l’uso del vaccino antipolio orale di Sabin (per il quale mancano dati sull’interferenza con l’anti-rotavirus).

Tra i bambini di altri Paesi

Diversa è la situazione nei Paesi in via di sviluppo: l’Organizzazione Mondiale della Sanità valuta che le infezioni da rotavirus provochino circa 500.000 morti ogni anno tra i bambini di età inferiore ai 5 anni nei Paesi più poveri. Qui la vaccinazione potrebbe avere un ruolo importante nella riduzione della mortalità acuta e probabilmente anche della malnutrizione per diarrea ricorrente e cronica.


Questa vaccinazione si è giovata in maniera sostanziale, alla fine degli anni ’90, degli investimenti dedicati ai Paesi poveri, ma per costo, numero di dosi necessarie e difficoltà nella distribuzione ha trovato applicazione solo nei Paesi industrializzati, dove certamente non rappresenta una priorità. Una vera storia di “Zorro alla rovescia”: rubo ai poveri per dare ai ricchi. Eppure la vaccinazione anti-rotavirus non è bastata a rassicurare gli Americani e a saziare la sete di guadagno dei produttori di vaccini. Le gastroenteriti ci sono ancora. E c’è un nuovo nemico: il Norovirus. È contro questo virus che adesso bisogna impegnarsi a produrre un nuovo vaccino! Mi sconcerta quanto possa essere fuorviante l’investimento, eccessivo e ostentato, nelle vaccinazioni quando poco o nulla si investe su determinanti ben più importanti della salute: come la scolarizzazione, i diritti civili e più in generale la cultura. Stesso discorso potrebbe essere fatto per il possesso di armi e la sicurezza dei cittadini, davanti all’evidenza che il popolo ‘più armato del mondo’ è quello che ha pianto, in soli sei mesi, centinaia di morti per strage da arma da fuoco, in una delle quali, quella di Newtown, le vittime sono stati proprio i bambini. Vaccini e pistole fanno la ricchezza di chi li produce ma non è detto che siano, sempre e comunque, lo strumento più efficace per darci più salute e più sicurezza5.


I bambini che nascono nel Sud del mondo potrebbero godere di altre misure di protezione più economiche e facilmente applicabili, come la somministrazione di zinco o di vitamina A, che hanno già mostrato di poter dimezzare la mortalità dovuta alla diarrea, e che sono ancora largamente inapplicate. Inoltre, con un quarto di dollaro al giorno si potrebbe fornire una dieta normocalorica, normoproteica, e arricchita di oligoelementi e vitamine a ogni bimbo africano. Si continua a perseguire una logica per cui si propongono ai bambini vaccini in sostituzione dell’acqua potabile e del giusto nutrimento e, alle madri e ai padri, ancora vaccini in sostituzione di una vita degna, con pane, cultura, lavoro e diritti che li affranchino dalla miseria e dalla malnutrizione. Quando i bambini dei Paesi poveri avranno acqua e cibo a sufficienza, supereranno queste malattie senza morirne, così come avviene ai nostri figli.

Un modo più sicuro dei vaccini per combattere la malattia

Un mondo più giusto sarebbe quindi un mondo più sano6.


Nelle regioni più sviluppate prevalgono le ‘malattie del benessere’, derivanti dall’eccessiva alimentazione, dall’inattività fisica, dall’uso di tabacco, alcool e droghe, dall’inquinamento dovuto al traffico e agli scarichi delle industrie. Molte morti premature sono provocate dalle malattie cardiovascolari, dal diabete e da alcuni tipi di tumore, correlate al sovrappeso e all’obesità.


Nelle regioni meno sviluppate prevalgono le ‘malattie della povertà’, derivanti dalla sottoalimentazione e malnutrizione, dai rapporti sessuali non protetti, dalla mancanza di acqua potabile e servizi igienici, dal fumo dei combustibili solidi (legna, carbone, letame) usati in ambienti chiusi per cucinare e riscaldarsi.


Ciò che importa sottolineare è che in entrambi i casi, ossia quello di una società economicamente sviluppata e di una poco sviluppata, l’individuo ha la possibilità di ridurre le cause che producono le malattie da cui è colpito, e quindi di allungare le proprie speranze di vita, in base alla consapevolezza, alle conoscenze, e in generale alla cultura di cui è in possesso. Il che significa che per migliorare il grado di salute degli individui un fattore significativo è la capacità di acquisire conoscenze e informazioni. Ciò vale nei Paesi poveri come in quelli ricchi, anche se nei primi le pure conoscenze non bastano, in quanto manca il contesto adeguato per applicarle. È inutile, infatti, che io conosca l’importanza di lavarsi le mani prima di toccare il cibo, se non dispongo di una sorgente di acqua, o se la poca acqua di cui dispongo è appena sufficiente per dissetarmi.


Si stima che in tutto il mondo muoiano in media ogni giorno oltre 26.000 bambini sotto i 5 anni: più di un terzo muore di solito a casa senza avere accesso a servizi sanitari di base e a beni di prima necessità che potrebbero salvare loro la vita. Oltre l’80% di tutte le morti di bambini nel 2006 (9,7 milioni) si sono verificate nell’Africa Subsahariana e nell’Asia meridionale; due regioni che, insieme al Nord Africa e al Medio Oriente non sembrano avviate a raggiungere il quarto Obiettivo di Sviluppo del Millennio (OSM 4) che prevede la riduzione di 2/3 della mortalità infantile entro il 2015. Un bambino nato nell’Africa Subsahariana nel 2006 ha 1 probabilità su 6 di morire prima di compiere 5 anni7.


Le cifre sulle cause della mortalità infantile dimostrano inequivocabilmente che l’assenza di acqua potabile e di servizi igienici sono tra i principali responsabili dei decessi di bambini tra 0 e 5 anni: alle malattie diarroiche che ne sono la conseguenza si stima vadano attribuiti il 17% dei decessi (circa 2 milioni di bambini all’anno), ben più di quanti non ne faccia morire l’AIDS (3%).


Ciò dà un’idea dell’incidenza che può avere sulle probabilità di vita della popolazione infantile la semplice costruzione di un pozzo per l’acqua potabile, e di servizi igienicosanitari adeguati.


Come stupirsi poi che su bambini denutriti e dall’organismo debilitato per la mancanza di fonti di acqua potabile il morbillo provochi il 4% dei decessi? In un simile contesto, pensare di risolvere il problema solo con il vaccino equivale e fornire pillole che attenuino i morsi della fame a chi di fame sta morendo, anziché fornirgli cibo.


Solo gli interventi per migliorare le condizioni di vita costituiscono l’antitodo, il vaccino più efficace per ridurre l’insorgenza delle malattie e per contrastare la riduzione della speranza di vita.

Occorre ridurre le disparità sociali, permettere l’accesso alle cure a tutti, indipendentemente dalla loro capacità economica. Non basta vaccinare tutti i bambini del mondo per vincere le battaglie contro i virus e i batteri. Occorre rilanciare una politica della salute sui determinanti sociali, sul contesto ambientale e le iniquità presenti tra la popolazione.


Nessuno è responsabile del luogo in cui nasce, eppure una ragazza venuta al mondo nel Paese africano del Lesotho vivrà in media 42 anni meno di una ragazza che nasce in Giappone. Il tasso di mortalità infantile è pari al 2/1000 in Islanda, mentre è del 120/1000 in Mozambico. Se in Svezia il rischio di una donna di morire per complicazioni della gravidanza o del parto è di un caso ogni 17.400, in Afghanistan è di uno su 8.


E tuttavia le linee divisorie che corrono tra le diverse aree del pianeta, tra Paesi ricchi e Paesi poveri, si intrecciano anche all’interno di una stessa area e di uno stesso Paese. All’interno dell’Europa, l’Italia si colloca a metà strada: le aspettative di vita sono pari a quelle riscontrate in Canada o in Svezia; al di sotto, però, della Francia e della Germania. La posizione nella classifica nasconde naturalmente l’enorme disparità nella qualità dei servizi sociali e sanitari tra aree diverse del Paese. Nell’indagine condotta dall’Istat sui consumi delle famiglie, relativa all’anno 2006, emerge che la difficoltà nell’accesso al pronto soccorso e ai servizi sanitari della ASL è significativamente superiore per le famiglie povere: viene dichiarata nel 13,5% dei casi per il pronto soccorso (contro l’8,4% delle famiglie non povere) e nel 10% dei casi (contro il 6,1% delle famiglie non povere).


La divaricazione tra prospettive di vita legate al reddito si verifica alle volte all’interno della stessa città: nel Regno Unito la mortalità di un adulto è 2,5 volte superiore nei quartieri più disagiati rispetto a quella dei quartieri più ricchi. Un ragazzo che vive nella povera periferia di Calton, a Glasgow, vivrà in media 28 anni in meno di un ragazzo nato nel vicino (13 chilometri di distanza) ma ricco quartiere di Lenzie. Allo stesso modo, l’aspettativa di vita media nella ricca Hampstead a Londra è di 11 anni maggiore del vicino ma degradato St. Pancras. Le differenze sono così marcate da non potersi spiegare con fattori genetici o biologici, ma conta “come si lavora, che mansioni si svolgono, le condizioni socio-economiche”. Una volta di più si ha la conferma che la salute è legata alle appartenenze sociali (negli anni 70 si sarebbe detto che la salute è di classe).


Anche all’interno dei Paesi occidentali si verifica un meccanismo analogo a quello già osservato a proposito della politica vaccinatoria in Africa: anziché migliorare il sistema sanitario nazionale, renderlo realmente accessibile a tutte le fasce della popolazione, incrementare la qualità dei servizi, vengono spese ingenti risorse nell’acquisto e nell’abuso di farmaci e vaccini. Un aumento senza limite del numero di vaccinazioni non raggiungerà mai lo scopo, assolutamente irrealizzabile, di eradicare ogni genere di malattia tra la popolazione, mentre alzerà sicuramente i costi del servizio sanitario, con lauti profitti delle case farmaceutiche provenienti dalle tasche del cittadino stesso sotto forma di tasse.


Come ha osservato Jane J. Kim, in un articolo sul “New England Medical Journal”, i considerevoli tagli al sistema sanitario nazionale indotti in vari Paesi dalla recente crisi impongono di concentrare l’attenzione sul problema del rapporto costo/beneficio di ogni intervento. L’autrice, in particolare, invita a riflettere sulle modalità e sulla validità, da un punto di vista sanitario ed economico, della vaccinazione di massa contro il papillomavirus e il meningococco, i due vaccini in assoluto più costosi, a fronte di un vantaggio ancora poco dimostrabile8.


La salute di una persona, e quindi di un popolo, dipende dal modo in cui la cultura, la politica e la società condizionano l’ambiente e creano quelle circostanze che favoriscono in tutti, e specialmente nei più deboli, la consapevolezza di sé, la possibilità di accedere alle conoscenze e di utilizzarle come strumento per migliorare il contesto di vita. Di conseguenza, la salute tocca i suoi livelli ottimali là dove l’ambiente genera nelle persone la capacità di far fronte alla vita in modo autonomo e responsabile. La salute in questo senso equivale al grado di cultura e di libertà vissuta9.

La grande paura: fatti, dicerie e invenzioni sulle meningiti

La ‘Grande Paura’ fu un fenomeno di panico collettivo che si propagò simultaneamente da punti diversi delle campagne francese tra il luglio e l’agosto 1789, l’anno della Rivoluzione10. Gli storici la studiano in quanto costituisce uno dei primi esempi abbastanza ben documentati dei meccanismi di autosuggestione e autoinganno che possono innescarsi in una comunità, non ristretta, ma addirittura estesa su scala nazionale. In genere si tende a credere che fenomeni simili possano generarsi tanto più facilmente quanto più si inquadrano in contesti sociali e culturali tipici di epoche diverse da quella attuale, caratterizzati cioè da scarsità di informazioni, difficoltà di verificare le notizie e inaffidabilità di queste ultime a causa di un sistema di comunicazioni consistente in buona parte nel passaparola.


Nonostante la diversità delle due discipline – storia e medicina – quest’ultima potrebbe fornire alcuni utili casi di studio agli storici che indagano le modalità con cui si forma un’opinione all’interno di un gruppo sociale in modo del tutto indipendente dai fatti oggettivi. Il caso più appropriato sarebbe proprio quello della percezione sociale del pericolo delle meningiti negli ultimi decenni, percezione che ha assunto più volte il carattere del panico collettivo, fenomeno quanto mai singolare in un’epoca che ha assistito alla rivoluzione informatica, grazie alla quale conoscenze, dati, e possibilità di verifica delle informazioni sono a disposizione della maggior parte, anche se non di tutta, la popolazione. Va anche detto, però, che questo fenomeno, a differenza di quello studiato dagli storici francesi, non ha affatto il carattere della spontaneità; al contrario, come vedremo, è stato favorito e artificialmente alimentato ancora una volta dall’anomalo intreccio di interessi tra industria farmaceutica, mondo della politica, e autorità sanitarie. Appare evidente che la strategia scelta per favorire la pratica della vaccinazione di massa non sia il consenso, ma la paura. Più ai genitori si incute paura, più vaccinano i figli. Compresa questa equivalenza, via tutti gli scrupoli. Ci sono altri esempi significativi: l’allarme polio di ritorno dai Paesi sottosviluppati (finito nel nulla), l’allarme Ebola (test sui vaccini sospesi per eccesso di danni e immunità garantita a Big Pharma), la campagna di terrore sul morbillo (partita dopo la sentenza del tribunale che riconosceva la correlazione tra il vaccino e l’autismo, opportunamente ribaltata in Appello) e l’allarme meningite.


Al fine di mettere il lettore in grado di rilevare la differenza tra i dati oggettivi e la loro manipolazione, procederò con l’esposizione dettagliata dei diversi tipi di meningite e delle loro possibili conseguenze, chiarendo perché ci si possa attendere dal vaccino effetti limitati, o addirittura indesiderati, ed evidenziando l’entità del rischio di contrarre la malattia attraverso un confronto con altri rischi ritenuti, nella vita quotidiana, accettabili o addirittura non rilevanti.


Nell’esposizione della patologia non ne trascurerò alcun effetto o conseguenza grave, così da rendere chiaro che il mio intento non è certo quello di minimizzare la natura della malattia, almeno nella sua forma grave, bensì di ricondurre entro termini realistici il rischio effettivo di contrarla.

Cos’è la meningite?

La meningite è un’infiammazione delle membrane che avvolgono il cervello e il midollo spinale (le meningi). La malattia di solito è di origine infettiva, può essere causata da virus, da batteri o da funghi11. La forma virale, detta anche meningite asettica, è la più comune, di regola non ha conseguenze gravi e si risolve nell’arco di una decina di giorni.


La forma batterica è più rara ma più importante dal punto di vista clinico. Tra i casi a eziologia nota, il patogeno identificato più di frequente è stato lo Streptococcus pneumoniae (indicato come pneumococco), seguito da Neisseria meningitidis (indicato come meningococco), e da Haemophilus influenzae (indicato come emofilo)12. Dove la tubercolosi è ancora diffusa, il suo agente patogeno, il Mycobacterium tubercolosis, è ancora una temutissima causa di meningiti. Ma qualsiasi batterio può provocarla, da quelli che in genere procurano una banale cistite, come l’Escherichia Coli, a quelli che provocano diarrea, come le Salmonelle. Anche la Listeria monocytogenes, un batterio ubiquitario che può contaminare gli esseri umani attraverso il cibo provocando la listeriosi, può provocare meningite.


Esistono poi altre forme, più rare. La meningite cronica, ad esempio, è data da microorganismi che si riproducono molto più lentamente nell’organismo umano. I sintomi sono gli stessi di quella acuta, ma si sviluppano nell’arco di tre-quattro settimane. Quella di origine fungina si manifesta invece su persone che presentano deficit immunitario, come per esempio i malati di Aids. Infine, la meningite può derivare anche da forme allergiche, da qualche tipo di cancro e da malattie infiammatorie come ad esempio il lupus eritematoso sistemico.

Sintomi e diagnosi

I primi sintomi della meningite possono facilmente essere confusi con quelli di una qualsiasi malattia acuta. Possono peggiorare nell’arco di un paio di giorni, ma in qualche caso il decorso della malattia è molto rapido, con il rischio di un grave danno cerebrale o di morte.


La malattia classicamente si manifesta con:


- irrigidimento del collo


- febbre alta


- mal di testa acuto


- vomito o nausea


- senso di confusione


- sonnolenza


- convulsioni


- fotosensibilità


Nei neonati alcuni di questi sintomi non sono molto evidenti. Può esserci una spiccata irritabilità, con pianto, ipersensibilità agli stimoli esterni e sonnolenza sopra la norma. A volte si nota l’estroflessione della fontanella cranica, che assume un aspetto bombato.


L’infiammazione provoca un accumulo di cellule infiammatorie nel liquor cerebrospinale, con un aumento della pressione all’interno del canale spinale e della scatola cranica. La diagnosi si esegue con un’analisi del contenuto del liquor cefalorachidiano (il liquido in cui è immerso il cervello e il midollo) tramite la puntura lombare e con una coltura batterica. Un intervento tempestivo può costituire l’unica possibilità per salvare la persona malata.

Aspetti epidemiologici della meningite

Nei Paesi ad alto reddito e a clima temperato il numero di casi di meningite è piuttosto basso e non causa spesso importanti focolai epidemici. Secondo i Centers for Disease Control and Prevention americani l’incidenza della meningite nel mondo è di 0,5-5 casi per 100 mila persone13. In Italia dal 1996 è attivo un sistema di sorveglianza dedicato alle meningiti batteriche che negli anni successivi si è ampliato a includere tutte le malattie invasive da meningococco, pneumococco ed emofilo. Per i casi in cui si conferma la presenza di meningococco, il Dipartimento di malattie infettive dell’Istituto Superiore di sanità effettua l’individuazione specifica del microorganismo, indispensabile per la comparazione delle caratteristiche dei ceppi responsabili dell’insorgere della malattia nel nostro e negli altri Paesi europei14.


I dati forniti dal SIMI (Sistema informatizzato malattie infettive) sono aggiornati, mentre scrivo, al 2017.


“Nel 2017 sono stati registrati 2411 casi; nel 2016, 2362; nel 2015, 1983. Tra questi, nel 2017 sono stati 200 i casi di malattia invasiva da Neisseria meningitidis (meningococco), 1703 casi da Streptococcus pneumoniae (pneumococco), e 159 da Haemophilus influenzae (emofilo).


Nel 2015 erano stati segnalati 189 casi di malattia invasiva da meningococco, 1259 casi da pneumococco e 130 da emofilo. Nello stesso periodo del 2016 erano stati segnalati 227 casi di malattia invasiva da meningococco, 1531 da pneumococco e 141 da emofilo.


La mancata identificazione dell’agente eziologico per i casi di sospetta malattia batterica invasiva o di sospetta meningite batterica notificati si è ridotto (7,1% nel 2015; 4,4% nel 2016; 3,9% nel 2017), dimostrando un miglioramento della sorveglianza. Tuttavia è necessario continuare a promuovere la diagnosi eziologica differenziale sia a fini clinico-epidemiologici che per l’eventuale indicazione alla profilassi dei contatti stretti.


Rispetto ai trend storici sui dati consolidati 2010-2017, è stato riscontrato un generale aumento nel numero di casi di malattia invasiva da meningococco, pneumococco ed emofilo”15. Nonostante, possiamo aggiungere, l’aumento significativo delle copertura vaccinali.


MALATTIE INVASIVE DA N. MENINGITIDIS, S. PNEUMONIAE, H. INFLUENZAE E MENINGITI DA ALTRI BATTERI: AGENTI EZIOLOGICI 1994/201716


CASI TOTALI DI MENINGITE17

Casi totali di malattie invasive da N. meningitidis, S. pneumoniae, H. influenzae e meningiti da altri batteri 1994/2017.


Il germe più frequente continua a essere lo pneumococco, nonostante la vaccinazione di massa.

Pneumococco

Lo Streptococcus Pneumoniae, o Pneumococco, è un batterio molto diffuso: si calcola che il 5-10% della popolazione adulta e il 20-40% di quella infantile facciano da ‘riserva naturale’ ospitandolo nel naso-faringe. Esistono molti tipi di pneumococchi: ne sono stati isolati almeno 90. La maggior parte di essi è in grado di indurre infezioni, e 23 sono i tipi correlati a infezioni più gravi. È la differenza nella struttura chimica della capsula che ci permette di classificare gli pneumococchi in ceppi o sierotipi diversi. La trasmissione avviene per lo più all’interno del nucleo familiare o a scuola, specialmente fra i bambini molto piccoli. Va comunque rilevato come lo pneumococco sia scarsamente contagioso e, pur essendo possibile la trasmissione diretta, nella maggior parte dei casi la malattia è dovuta all’azione di pneumococchi endogeni che acquistano virulenza. La malattia avviene spesso in concomitanza con un’infezione virale delle alte vie respiratorie, come raffreddore e influenza, o dopo faringite, otite, sinusite, bronchite, o polmonite. Quando gli pneumococchi entrano nel circolo sanguigno, possono provocare una setticemia o infezioni in altre sedi, quali meningi, articolazioni e valvole cardiache. Il batterio è responsabile di elevata mortalità infantile, nell’ordine di un milione di decessi all’anno in tutto il mondo; questi sono riferibili per lo più a polmonite e avvengono nella stragrande maggioranza dei casi nei Paesi in via di sviluppo, essendo attribuibili essenzialmente al cattivo stato nutrizionale associato alla difficoltà di accesso a cure mediche adeguate18,19.


Nei Paesi industrializzati, S. pneumoniae è responsabile di patologie soprattutto in soggetti in età avanzata, o in persone di tutte le età affette da patologie croniche come anemia falciforme, immunodeficienze congenite o acquisite, insufficienza renale cronica, asplenia (assenza della milza) anatomica o funzionale e, non ultima, la stessa infezione da virus influenzali. L’incidenza dell’infezione da pneumococcica in Italia è discordante, anche perché in passato è stato dato troppo credito a studi italiani che affermavano incidenze molto elevate20,21 o perché, in mancanza di dati nostrani, si è cercato di equiparare le incidenze italiane a quelle americane notoriamente più alte22.


L’Istituto Superiore di Sanità monitorizza le meningiti in Italia; dal 2007 la sorveglianza è rivolta anche alle altre malattie invasive da pneumococco (M.I.P.): da queste cifre ufficiali possiamo valutarne l’effettivo peso sociale.


MENINGITI DA PNEUMOCOCCO: NUMERO DI CASI NEI GRUPPI DI ETÀ PER ANNO (1994-2017)23


CASI DI MALATTIA INVASIVA DA PNEUMOCOCCO24

Casi di malattia invasiva da pneumococco: la linea tratteggiata comprende i casi insorti nella fascia di età 0-14, la linea continua indica i casi totali (1994-2017)


L’introduzione in Italia del vaccino eptavalente è iniziata nel 2003, e si è diffusa dal 2004: non ha prodotto i risultati sperati, come è evidente dai grafici a pagina 143 e 146.

Vaccini antipneumococcici

Sono disponibili al momento attuale:

  • un vaccino polisaccaridico 23-valente, contenente 23 antigeni capsulari purificati di S. pneumoniae, corrispondenti ai sierotipi responsabili dell’86-98% di casi delle Malattia Invasiva Pneumococcica (MIP) nei Paesi occidentali, stimato essere capace di provocare una risposta specifica (aumento di almeno 2 volte della concentrazione anticorpale sierospecifica) in almeno l’80% dei soggetti sani adulti. L’immunogenicità è di poco inferiore nei soggetti anziani e nei soggetti affetti da patologie croniche non marcatamente immunodepressive ed è decisamente inferiore nei soggetti immunodepressi, proprio i soggetti esposti al massimo rischio di MIP.
    La discussione inerente l’efficacia protettiva della vaccinazione nei soggetti anziani e ad alto rischio è stata ed è ancora oggetto di pareri controversi25. Non è indicato nei bambini al di sotto dei due anni per la sua incapacità di stimolare la memoria immunitaria e perché il suo effetto si esaurisce in pochi anni.
  • un vaccino coniugato 13-valente (PVC13) che contiene 13 ceppi responsabili della maggior parte delle infezioni più gravi nei bambini, commercializzato in Italia dal 2010. Il PVC13 sostituisce il precedente vaccino coniugato (PVC7), che proteggeva contro 7 tipi di pneumococco e che è stato usato a partire dal 2002.

È raccomandato per bambini di età inferiore a 5 anni che presentino le seguenti condizioni:


- asplenia funzionale e anatomica


- anemia falciforme e talassemia


- broncopneumopatie croniche, esclusa l’asma


- condizioni associate a immunodepressione (come trapianto d’organo


o terapia antineoplastica, compresa la terapia sistemica corticosteroidea ad alte dosi), con esclusione della malattia granulomatosa cronica


- diabete mellito


- insufficienza renale e sindrome nefrosica


- infezione da HIV


- alcune immunodeficienze congenite


- malattie cardiovascolari croniche


- malattie epatiche croniche


- perdite di liquido cerebrospinale


- altre malattie che espongano ad elevato rischio di patologia invasiva da pneumococco.


È generalmente proposto ai bambini inseriti in comunità (nidi e scuole materne). Questa indicazione può avere un senso nell’obiettivo di limitare patologie minori (otiti e polmoniti), con risultati insoddisfacenti, ma non sulla meningite che ha massima incidenza e gravità sotto l’anno di età. Di recente si è aggiunta una nuova definizione: MPI (Malattia Invasiva da Pneumococco)26. La vaccinazione è stata introdotta senza dati certi della frequenza delle infezioni, dei sierotipi circolanti, sovrastimando la capacità protettiva del vaccino; non dando il rilievo dovuto al rischio (poi realizzatosi) di veder vanificarsi gli effetti a causa del rimpiazzo dei ceppi patogeni.

Primo effetto delle vaccinazioni di massa contro lo pneumococco: rendere più “creativi” i batteri

Abbiamo già detto che quando si parla di pneumococco non si fa riferimento a un unico germe, ma a una famiglia composta da una novantina di tipi differenti, che possono provocare una malattia invasiva a seconda del luogo geografico e del tempo. La somministrazione di massa ai bambini del vaccino attivo per 7 sierotipi ha provocato l’aumento di incidenza di infezioni provocate dagli altri sierotipi (cioè di quelli non contenuti nel vaccino). Questo fenomeno è stato segnalato dapprima in USA27, in Texas28, Alaska29, Intermountain West30, Massachusset31,32, e poi anche in Europa, in Portogallo33, Spagna34,35 Olanda36,37 e Francia38. E desta allarme: significa che il vaccino induce una pressione selettiva che fa sì che altri tipi di pneumococco occupino il posto di quei sierotipi contro i quali si vaccina. Inoltre i tipi selezionati in seguito alla pratica della vaccinazione sono spesso resistenti agli antibiotici39 o addirittura multi-resistenti, ossia resistenti a tutti gli antibiotici di cui disponiamo, come è stato segnalato da più Autori40,41,42.


In Francia, dopo un solo anno dall’inizio della vaccinazione di massa, i tipi presenti nel vaccino erano responsabili soltanto del 16% delle malattie da pneumococco, in Gran Bretagna, quasi la metà dei 4.000 casi d’infezione nei bambini di età superiore a 5 anni sono state causate da ceppi non vaccinali del PCV13 (a fronte di solo 500 MPI causate da ceppi vaccinali PCV7)43.


In Italia dal 1997 al 2003, cioè prima del Prevenar, sono state notificate 1.805 meningiti. Di 923 (il 51%) sono stati analizzati i ceppi virali; solo 452, cioè il 49%, erano causate da ceppi vaccinali. Dopo l’introduzione del Prevenar 7 (2004-2009) le meningiti notificate sono state 2349; ne sono state analizzate 818 (35%); solo 246 (il 30%) erano dovute a ceppi vaccinali. Se consideriamo la sola fascia di età fino a 4 anni, i ceppi vaccinali vengono rilevati nel 64% dei casi di meningite (88 meningiti su 137) nel periodo pre-vaccinale, ma solo nel 42% dei casi (92 su 220) nel periodo post-vaccinale. Nel periodo pre-vaccinale il 74% delle meningiti tipizzate (ossia di cui è stato identificato il ceppo) sarebbe stato coperto dal Prevenar 13 (686 delle 923 meningiti); dopo l’uso dell’eptavalente tale percentuale si è ridotta al 68% (553 su 818) per cui va tenuto conto del fatto che il 32% delle meningiti (1\3 dei casi) è oggi in Italia fuori del suo spettro di protezione essendo causata da ceppi non compresi nel vaccino (come i ceppi 6C, 20, 24F, 33F, 38). Il problema principale di questi vaccini è proprio l’essere mirati per specifici sierotipi e quindi con efficacia variabile secondo la circolazione regionale dei vari sierotipi stessi e soggetta a rapide mutazioni per colpa dei fenomeni di rimpiazzo spesso indotti dai vaccini stessi44.


CEPPI RESPONSABILI DI MALATTIA PNEUMOCOCCICA NELLA FASCIA DI ETÀ 0-4 ANNI IN ITALIA

  Periodo pre-vaccinale 1997-2003 Periodo post-vaccinale 2004-2009
Eventi tipizzati 137 220
Ceppi vaccinali PCV7 88 (64%) 92 (42%)
Ceppi non vaccinali 49 (36%) 128 (58%)

La vaccinazione ha favorito la circolazione di altri ceppi non contenuti nel vaccino stesso:


Il rimpiazzo dei sierotipi provocherà alla fine un’erosione dell’efficacia del vaccino PCV-7 in tutte le popolazioni vaccinate […]. Il continuo rimpiazzo dei sierotipi potrebbe rendere necessaria la revisione o l’espansione dei vaccini coniugati ogni 5 o 10 anni, sino a che non venga sviluppato con successo un vaccino in grado di produrre immunità nei confronti di tutti i sierotipi di pneumococco […].Le ragioni del rimpiazzo sono molteplici (le caratteristiche proprie dei ceppi del batterio, l’uso improprio di antibiotici, la pressione evolutiva causata dal vaccino stesso).Potrebbero emergere sierotipi di pneumococco virulenti non coperti dal vaccino 23-valente polisaccaridico, ampiamente utilizzato nei pazienti adulti, e questo ci ricorda che la politica vaccinale nei confronti dell’età pediatrica ha straordinarie implicazioni sanitarie per l’intera popolazione.45


Una tale possibilità, rilevante in tutto il mondo,


pone una minaccia che pende come una spada di Damocle sull’efficacia anche del PCV13, com’è già successo per il PCV7. Non è facile allargare lo spettro vaccinale e non è sicuro che ci sarà un successivo ampliamento; giacché l’effetto del vaccino è sierotipospecifico, non è improbabile l’ipotesi di una protezione clinica “a scadenza”.46


Anche il Report dell’Istituto Superiore della Sanità riconosce che


L’informazione sui sierotipi è disponibile solo per circa il 50% dei casi segnalati. E quindi non è possibile stabilire con precisione la proporzione di casi prevenibili con la vaccinazione.47

La conferma del rimpiazzo: quali sono i vantaggi?

Uno dei vantaggi del revisionare quanto scritto diversi anni prima è la possibilità di verificare se nuovi dati abbiano smentito o rafforzato le affermazioni contenute nella precedente versione del libro.


Le pubblicazioni più recenti confermano le preoccupazioni già segnalate. Si è ormai creata la malattia pneumococcica “da rimpiazzo”, un problema allarmante perché il vaccino non solo induce una pressione selettiva che fa sì che altri tipi di pneumococco occupino il posto di quelli contro i quali si vaccina, ma i tipi così selezionati sono spesso resistenti agli antibiotici o addirittura multiresistenti, ossia resistenti a tutti gli antibiotici di cui disponiamo.


Le ragioni del rimpiazzo sono diverse; dipendono dalle caratteristiche stesse di questa famiglia di batteri, dall’uso improprio di antibiotici, e dalla pressione evolutiva causata dal vaccino stesso. Anche il vaccino attualmente in uso in Italia attivo contro 13 sierotipi (PCV13) presenta gli stessi problemi sollevati dall’eptavalente (PCV7) precedentemente usato. Nonostante l’indiscussa efficacia immunologica nei confronti dei ceppi vaccinali, si continua ad assistere al risultato paradossale di minori patologie dovute ai ceppi presenti nel vaccino, ma più malattie dovuto ai numerosi altri ceppi contro i quali il vaccino non può agire.


I sierotipi presenti nei differenti vaccini attualmente in uso a livello internazionale rivolti all’età pediatrica sono: 4, 6B, 9V, 14, 18C, 19F, 23F nel PCV7. Il PCV10 contiene i PCV7 + 1, 5, 7F. Il PCV13 contiene i sierotipi del PCV10 + 3, 6A, 19A. Una recente metanalisi ha esaminato la distribuzione dei sierotipi di pneumococco che causano una malattia invasiva nei bambini, rilevando che, dopo l’introduzione del PCV7 e nei primi anni dopo l’introduzione di PCV di valenza superiore, il 19A era il sierotipo più comunemente identificato in diverse regioni del mondo. I sierotipi non PCV13 hanno causato una percentuale considerevole di malattie invasive in età pediatrica, e ciò sottolinea la necessità di nuovi vaccini con sierotipi aggiuntivi per ridurre il carico della malattia da pneumococco pediatrica.

È molto interessante quanto riferisce uno studio osservazionale di coorte prospettico sui dati di Inghilterra e Galles dal 2000 al 201748 che dimostra chiaramente l’aumento dei sierotipi non vaccinali che hanno causato la malattia invasiva da pneumococco.


“Nel settembre del 2006, il Regno Unito ha introdotto il PCV eptavalente (PCV7) nel programma standard di immunizzazione pediatrica per i bambini di 2, 4 e 12-13 mesi. Dall’aprile del 2010 il PCV7 è stato sostituito dal PCV13-valente (PCV13). Nel 2016/17 l’incidenza della malattia pneumococcica invasiva (9·87 casi per 100.000; 5.450 casi) in tutti i gruppi di età è stata inferiore del 37% (IRR 0·63, 95% CI 0·60-0·65) rispetto all’incidenza pre-PCV7 (14·79 per 100.000; 8.67 casi) e del 7% (0·93; 0·89–0·97) rispetto all’incidenza pre-PCV13 (10·13 per 100.000; 5.595 casi). Nel 2016/17, l’incidenza della malattia pneumococcica invasiva di tipo PCV7 in tutti i gruppi di età è diminuita del 97% (0·24 per 100.000; 0·03, 0·02-0·04) in confronto al periodo pre-PCV7, mentre la malattia pneumococcica invasiva di tipo PCV13 è diminuita del 64% (1·66 per 100.000; 0·36, 0·32-0·40) dopo l’introduzione del PCV13. L’incidenza della malattia pneumococcica invasiva dovuta a sierotipi non-PCV13 è raddoppiata (7·97 per 100.000; 1·97, 1·86-2·09) dopo l’introduzione del PCV7, ed è aumentata dal 2013/14 (soprattutto per i sierotipi 8, 12F e 9N, che erano responsabili di più del 40% dei casi di malattia pneumococcica invasiva per il 2016/17).


L’incidenza della malattia pneumococcica invasiva nei bambini al di sotto dei 5 anni è rimasta stabile dal 2013/14, e la maggior parte dei casi di malattia da rimpiazzo si è verificata negli adulti. Stimiamo che sono stati prevenuti 38.366 casi di malattia pneumococcica negli 11 anni successivi all’introduzione del PCV7. Il Regno Unito è stato uno dei primi Paesi a sostituire il PCV7 con il PCV13. In Inghilterra e Galles, il massimo beneficio dal programma PCV infantile è stato raggiunto 4 anni dopo l’introduzione del PCV13. Dal 2013/14 l’incidenza della malattia pneumococcica invasiva è aumentata nella maggior parte dei gruppi di età, al punto che l’incidenza generale della malattia pneumococcica invasiva nel 2016/17 è stata solo del 7% più bassa rispetto alla baseline pre-PCV13. Tuttavia, in confronto al periodo pre-PCV7, si è verificata una riduzione del 37% nell’incidenza generale della malattia pneumococcica invasiva. I bambini sotto ai 15 anni continuano a beneficiare del programma, con un’incidenza della malattia inferiore del 72-81% e 36-59% se confrontata con i periodi pre-PCV7 e pre-PCV13. Mentre la malattia pneumococcica invasiva di tipo PCV7 è continuata a diminuire, i casi dovuti a due dei sei ulteriori sierotipi PCV13 (principalmente, sierotipi 3 e 19A) hanno inaspettatamente raggiunto il plateau nel 2013/14 prima di aumentare (soprattutto negli adulti). Il declino generale della malattia tipo PCV13 è stato compensato da un aumento della malattia pneumococcica invasiva non-PCV13, soprattutto i sierotipi 8, 12F e 9N, dal 2013/14.


Anche altri Paesi hanno registrato ampie diminuzioni della malattia pneumococcica invasiva di tipo PCV13, sebbene l’entità della malattia da rimpiazzo con sierotipi non-PCV13 sia stata variabile. Negli Stati Uniti, fino al 2015, non è stato osservato alcun aumento della malattia pneumococcica invasiva non-PCV13. Al contrario, in Israele, dove il PCV13 ha gradualmente sostituito il PCV7 da novembre 2010, l’incidenza generale della malattia pneumococcica invasiva negli adulti di 65 anni o più è rimasta stabile dal 2012/13 al 2014/15 dopo un iniziale declino poiché la riduzione della malattia pneumococcica invasiva di tipo PCV13 è stata com-pensata da un progressivo aumento della malattia non-PCV13. In Irlanda, dove il PCV13 ha sostituito il PCV7 nel dicembre 2010, tra gli adulti con più di 65 anni si sono verificati significativi aumenti dell’incidenza della malattia pneumococcica invasiva dovuta ai sierotipi coperti solo da PPV23 e sierotipi non-PPV23 da giugno 2016, senza alcuna riduzione generale della malattia dalla baseline pre-PCV13.


Il declino della malattia pneumococcica invasiva durante i primi 4 anni dopo la sostituzione del PCV7 con il PCV13 è stato paragonabile a quello osservato dopo l’introduzione del PCV7, ma il successivo aumento dal 2013/14 era inaspettato. I benefici sia del PCV7 che del PCV13 nella prevenzione dei casi di malattia pneumococcica invasiva in Inghilterra e nel Galles sono innegabili, con circa 40.000 casi prevenuti durante i primi 11 anni del programma. Sono stati osservati piccoli aumenti della malattia pneumococcica invasiva dovuta a sierotipi non-PCV dopo l’introduzione di entrambi i vaccini ma, dopo 4 anni di utilizzo del PCV13, la malattia pneumococcica invasiva dovuta a diversi sierotipi non-PCV13 è cresciuta rapidamente, per motivi che restano ancora sconosciuti. Gran parte dell’aumento si è verificato negli adulti dai 45 anni, in particolare negli adulti di 65 anni e più (che hanno presentato la più alta incidenza di malattia pneumococcica invasiva). I bambini continuano a trarre ampi benefici dal programma PCV13, e la malattia pneumococcica invasiva è significativamente più bassa rispetto all’era pre-PCV. Gli aumenti della malattia pneumococcica invasiva non-PCV13 stanno compromettendo i benefici del programma PCV e dovranno essere attentamente monitorati nei prossimi anni. I PCV ad alta valenza devono includere questi sierotipi emergenti nell’attesa di un vaccino pneumococcico universale.”


In conclusione: la vaccinazione anti-pneumococcica (PCV7 dal 2006, sostituita poi dal PCV13 a partire dal 2010) avrebbe evitato circa quarantamila casi di malattia invasiva da pneumococco, con una riduzione di incidenza globale della malattia del 32% nel 2016 rispetto all’epoca pre-vaccinale. Ma il trend si è invertito dal 2013 e sono significativamente aumentate le infezioni invasive dovute a ceppi di rimpiazzo non contenuti nel PCV13 (principalmente i sierotipi 8, 12F e 9N). Sono sierotipi particolarmente aggressivi e invasivi. I vantaggi derivanti dalla sostituzione del PCV7 con il PCV13 sono praticamente esauriti.


Lo pneumococco dimostra con chiarezza, quando lo si studia davvero, di che pasta è fatto: non è un bersaglio statico, facile da colpire, ma muta con rapidità e diventa più aggressivo. Le osservazioni riportate coprono un intervallo di appena 17 anni; chi può azzardare previsioni dopo 27, 37 o 107 anni? Intervenire con queste strategie vaccinali senza prendere in considerazione i meccanismi adattivi biologici ed ecologici dei microrganismi (abitanti di questo pianeta molto prima di noi) potrebbe portare allo stesso risultato di quando si gioca con il fuoco: c’è il rischio di bruciarsi.

Bibliografia


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Il rimpiazzo in Italia

In Italia non sono ancora stati realizzati studi così vasti per analizzare concretamente l’efficacia del vaccino in uso sulla malattia pneumococcica, ma i numeri che ho illustrato in precedenza sono sufficientemente chiari. Riporto, senza alcun commento, parte dell’ultimo Report dell’ISS nella sezione dedicata allo pneumococco49.


“Nel 2017, sono stati segnalati 1703 casi di malattia invasiva da pneumococco. Nello stesso periodo del 2016 ne erano stati segnalati 1531 e nel 2015, 1259. Nel complesso, le malattie invasive da pneumococco in Italia nel periodo di riferimento hanno avuto una incidenza compresa tra 2,07/100.000 abitanti nel 2015 e 2,81/100.000 abitanti nel 2017, inferiore alla media Europea di 5,6/100.000 abitanti riportata nel 2015 (dato più recente disponibile). A partire dal 2015, il numero di casi notificati di malattia invasiva da pneumococco è andato progressivamente aumentando mantenendo un tipico andamento stagionale. In base ai dati disponibili, si ritiene che questo aumento possa essere dovuto principalmente ad un aumento della sensibilità diagnostica e a una maggiore attenzione al problema… Informazioni sul sierotipo sono disponibili per il 57% dei casi notificati nel 2015 e per il 64% dei casi notificati nel 2016 e per il 60% dei casi notificati nel 2017. Malgrado ci siano stati dei progressi rispetto agli anni precedenti al 2015, tale proporzione ancora non è ottimale, a causa della diversa partecipazione delle Regioni alla sorveglianza e alla quota di sierotipizzazioni riportate incomplete e quindi inutilizzabili ai fini della sorveglianza stessa. A tal riguardo è molto importante promuovere il ricorso alla tipizzazione e la condivisione dei dati, al fine di stabilire l’esatta quota di casi prevenibili con la vaccinazione e rilevare l’eventuale aumento di sierotipi non presenti nel vaccino attualmente utilizzato (cosiddetto fenomeno del “rimpiazzo dei sierotipi” o “replacement”)… Si osserva un aumento nel numero di casi notificati causati da sierotipi non prevenibili con le vaccinazioni attualmente disponibili tra i bambini di età compresa tra 0-4 anni… Nel 2017, così come negli anni precedenti, i sierotipi 8, 3, 12F e il 22F sono i più rappresentati tra i ceppi tipizzati. Di questi tre sierotipi, solo il 3 è presente nella composizione dei vaccini glicoconiugati 13 valente (PCV13) mentre tutti sono presenti in quello polisaccaridico 23 valente (PPSV23)50. Analizzando i sierotipi identificati in bambini con età compresa tra 0 e 4 anni si evidenzia, come effetto delle alte coperture vaccinali raggiunte in molte Regioni, la predominanza di sierotipi non vaccinali (non contenuti in PCV13 e PCV10). Tra i sierotipi vaccinali ancora causa di malattia invasiva nel 2017 sono da segnalare il sierotipo 3, il 14 ed il 19F. Tra i sierotipi non-vaccinali in aumento in questa fascia d’età si segnalano in particolare l’8, il 10A, il 12F, il 15B ed il 23B.

Il vaccino contro lo pneumococco è utile per chi frequenta l’asilo?

La capacità della vaccinazione di ridurre l’incidenza delle patologie minori (polmoniti e le otiti) non appare tale da giustificarne l’uso. Nessuna riduzione di frequenza di polmoniti in bambini di età superiore a 1 anno, e in adulti, ma solo una lieve riduzione nella fascia di età fino a un anno51. È stato segnalato un aumento dei casi di polmonite complicate con empiema52. Anche la protezione dei pazienti anziani o adulti affetti da malattia cronica è stata scarsa53. La protezione contro l’otite media acuta54 e l’otite media acuta ricorrente55 è modesta, secondo diversi studi56.

Non sono ancora del tutto chiari i possibili effetti collaterali dei preparati vaccinali, la loro compatibilità con le altre somministrazioni, l’impatto sui gruppi o ceppi non suscettibili di vaccinazione. “Che conseguenze può avere, sulla collettività, la vaccinazione al di sotto del valore-soglia vaccinale?”57

Reazioni avverse del vaccino contro lo pneumococco

In USA durante i primi due anni (2000-2002) di utilizzo di massa del vaccino antipneumococcico eptavalente58 sono state 4.154 le segnalazioni di reazioni avverse in bambini e adolescenti, con un’incidenza di 13,2 segnalazioni ogni 100.000 dosi distribuite. Le segnalazioni più frequenti riguardano: febbre, reazione nel punto di inoculo, pianto anomalo e prolungato, rash cutaneo, orticaria, dispnea, disturbi gastrointestinali, artrite pseudosettica. Reazioni gravi sono state segnalate nel 14,6%, con 117 morti e 34 casi di infezione invasiva da pneumococchi. Eventi immuno-mediati sono stati registrati nel 31,3% delle segnalazioni. 14 pazienti hanno presentato reazione anafilattica. Altri 14 pazienti hanno sviluppato trombocitopenia e altri 6 malattia da siero. Nel 38% delle segnalazioni si sono avuti sintomi neurologici. Convulsioni sono state descritte in 393 segnalazioni.

Meningococco

Anche il meningococco (Neisseria meningitidis) non è un germe raro, ma un ospite frequente delle prime vie respiratorie: dal 2 al 30% dei bambini e il 5-10% degli adulti sono portatori di ceppi di meningococco, la maggior parte dei quali non sono patogeni59. In un piccolo numero di persone, il meningococco penetra attraverso la mucosa e raggiunge il torrente circolatorio, causando una malattia sistemica. Nella maggior parte delle persone si sviluppa una immunità naturale nei confronti del germe, che porta alla formazione di anticorpi protettivi60. Questi sono trasferiti ai neonati dalla madre, attraverso la gravidanza e l’allattamento; con il passare degli anni poi i bambini sviluppano un’immunità personale, proprio attraverso il contatto con i batteri61.

Il contagio avviene solo per via aerea interumana, attraverso le goccioline di saliva o muco.

Meningococco: capiamo le sue caratteristiche

Il meningococco può essere capsulato o non capsulato; sono quelli provvisti di capsula che generalmente causano la malattia invasiva, perché è proprio questa che impedisce l’attivazione di importanti meccanismi di difesa del nostro sistema immunitario, come la fagocitosi, la lisi complemento-mediata e perché maschera le proteine della membrana esterna, uno dei bersagli della risposta anticorpale del soggetto infettato. Le Neisserie patogene hanno sviluppato alcuni meccanismi per rendere inefficace la risposta immunitaria della persona, sia naturale che indotta dal vaccino. Mettono in atto meccanismi per scambiare il materiale genetico responsabile della biosintesi della capsula (variazione di fase e variazione antigenica, trasferimento orizzontale di sequenze di DNA, trasposizione di elementi mobili) con conseguente modifica (“switching”) del fenotipo capsulare.


I determinanti antigenici del meningococco sono 3:

  • antigeni polisaccaridici della capsula; esistono 13 SIEROGRUPPI (A, B, C, D, 29E, H, I, K, L, W-135, X, Y, Z); sei di questi (A, B, C, X, Y, W-135) sono riconosciuti come responsabili della quasi totalità di casi di malattia invasiva;
  • proteine della membrana esterna (OMP, Outern Membrane Proteins). Identificano il SIEROTIPO le OMP di classe 2 o 3 (PorB), identificano il SIERO SOTTOTIPO le OMP di classe 1 (PorA);
  • lipopolisaccaridi che determinano l’immunotipo.

FENOTIPO (ceppo batterico)

Fonte: Centro Nazionale di Epidemiologia, Sorveglianza e Promozione della Salute (CNESPS). Dati ed evidenze disponibili per l’introduzione della vaccinazione anti-meningococco B nei nuovi nati e negli adolescenti, giugno 2014

Nessun vaccino può essere efficace contro tutti i sierogruppi di meningococco. Ogni vaccinazione può essere efficace solo verso un gruppo specifico, tipo B, C, A, Y. Le suddivisioni dei sierotipi e dei sierosottotipi possono spiegare il motivo per cui i vaccini non possono essere sempre efficaci.

Epidemiologia

La meningite da meningococco si presenta con significativi episodi epidemici solo in alcune aree del mondo, tra cui l’Africa subsahariana (la cosiddetta meningitis belt, la cintura della meningite), Kenya, Uganda, Ruanda, Zambia, Tanzania, Burundi, alcuni Paesi dell’America del Sud, del Medio Oriente e dell’Asia (Cina e India incluse). Nelle altre zone del mondo la malattia si presenta con casi sporadici, con limitati piccoli focolai epidemici. Il sierogruppo A causa epidemie soprattutto nell’Africa subsahariana, in America meridionale e in India. L’Y è responsabile del 33% delle meningiti in USA, mentre il W è parte marginale in USA e in Europa. Il sierogruppo B è il più diffuso in USA e insieme al C causa il 95% dei casi in Europa.


In Europa i dati disponibili sono aggiornati, al momento in cui scriviamo, al 201562, anno in cui sono stati segnalati 3121 casi di malattia meningococcica invasiva nei 30 Paesi dell’EU/EEA. Il tasso di notifica è di 0,6 casi per 100.000 abitanti, inferiore ai 0,7 casi per 100.000 abitanti del 2012 e 2013 e superiore ai 0,5 per 100.000 abitanti del 2014. I tassi di notifica più elevati sono stati osservati in Lituania (1,9), Irlanda (1,5) e Regno Unito (1,4). La maggior parte dei casi è causata dal sierogruppo B (61%). Il tasso di notifica del sierogruppo C era basso in tutti i Paesi, indipendentemente dal fatto che il vaccino contro il meningococco C coniugato (MCC) fosse incluso nei programmi di immunizzazione di routine nazionali.


L’incidenza dei casi da meningococco riportata in Italia è inferiore rispetto al resto dell’Europa63 (3-6 casi ogni 1.000.000 di abitanti rispetto alla media europea di 14,5 casi ogni 1.000.000 di abitanti).


INCIDENZA DELLE INFEZIONI MENINGOCOCCICHE IN PAESI EUROPEI64

≥ 3,0 casi /100.000 1,0-2,9 casi/100.000
Irlanda Svizzera Francia
Malta Norvegia Germania
Scozia Danimarca Slovenia
Inghilterra Repubblica Slava Croazia
Islanda Spagna Portogallo
Olanda Finlandia Italia
Grecia Austria Svezia
Belgio Repubblica Ceca Polonia

Meningococco in Italia

I dati più recenti confermano che l’Italia si pone tra i Paesi con incidenza più bassa, con un tasso medio degli ultimi sette anni pari a circa 0,3 casi per 100.00 abitanti (si veda la tabella alla pagina seguente). Esaminando il numero di casi della malattia meningococcica dall’inizio della sua sorveglianza speciale da parte dell’ISS, non risulta quindi una riduzione dei numeri di casi nella popolazione generale dall’introduzione della vaccinazione. Nella tabella sono riportati i casi di malattia invasiva da meningococco per età e anno (1994-2017). Certamente, l’aumento registrato dipende anche dalla maggiore attenzione ed efficienza dei sistemi di sorveglianza, come afferma l’ISS: “l’incremento del numero delle infezioni invasive da meningococco è da attribuire principalmente all’aumento nel numero di casi di malattia invasiva da meningococco C registrati nella Regione Toscana, con un picco nella stagione invernale 2015/2016. Nella stagione 2016/2017 si è osservato un picco di entità minore rispetto alla stagione precedente e negli ultimi mesi del 2017 sono stati notificati un numero di casi inferiore rispetto allo stesso periodo dell’anno prima”65. Ma è altrettanto evidente che la vaccinazione antimeningococco può contribuire a sviluppare una difesa individuale, ma non ha inciso in maniera soddisfacente sui numeri complessivi di questa grave patologia.


IN ITALIA: CASI DI MALATTIA INVASIVA DA MENINGOCOCCO PER ETÀ E ANNO (1994-2017)66


L’andamento della malattia, sia nei casi totali che in quelli pediatrici, è illustrato nel grafico nella pagina accanto; la linea tratteggiata indica i casi insorti nella fascia di età 0-14, la linea continua indica i casi totali (1994-2017):


CASI DI MALATTIA INVASIVA DA MENINGOCOCCO


L’incidenza della malattia nella popolazione generale è in lieve e costante aumento, come si evince dalla tabella qui sotto.


CASI CONFERMATI DI MALATTIA MENINGOCOCCICA INVASIVA: NUMERO E TASSO PER 100.000 ABITANTI, ITALIA 2011-201767

  TOTALE INCIDENZA x 100.000
2011 152 0,25
2012 137 0,23
2013 172 0,29
2014 164 0,27
2015 189 0,31
2016 227 0,37
2017 200 0,33


CASI CONFERMATI DI MALATTIA MENINGOCOCCICA INVASIVA

Non tutti i meningococchi sono uguali

Una corretta diagnosi eziologica differenziale tra i vari sierotipi è indispensabile sia a fini clinico-epidemiologici sia per la valutazione dell’efficacia e utilità dei programmi vaccinali. Esaminando il numero assoluto di casi per sierogruppo, il meningococco B è stato quello identificato con maggiore frequenza, tranne che negli anni 2004-2005 e 2015-2016, quando è stato predominante il sierogruppo C.


CASI DI MALATTIA INVASIVA DA MENINGOCOCCO PER SIEROGRUPPO (1994-2017) (dati parziali al 3 aprile 2017)


MALATTIE INVASIVE DA MENINGOCOCCO B

Casi di malattia invasiva da meningococco B: la linea tratteggiata indica i casi insorti nella fascia di età 0-14, la linea continua indica i casi totali (1994-2017)


MALATTIE INVASIVE DA MENINGOCOCCO C

Casi di malattia invasiva da meningococco C: la linea tratteggiata indica i casi insorti nella fascia di età 0-14, la linea continua indica i casi totali (1994-2017)

L’ho già scritto, posso solo ripetermi: i dati parlano da soli.

Vaccini antimeningococco C

In Italia sono disponibili tre tipi di vaccino:

  1. il vaccino tetravalente antimeningococco A, C, W 135, Y non coniugato
  2. il vaccino tetravalente antimeningococco A, C, W 135, Y coniugato
  3. il vaccino monovalente antimeningococco C coniugato

Il vaccino tetravalente polisaccaridico non coniugato conferisce protezione nei confronti della meningite causata dai sierogruppi A, C, W135 e Y; essendo composto da soli polisaccaridi (antigeni “deboli”) non è in grado di stimolare le difese immunitarie nei bambini di età inferiore ai due anni. Questo vaccino è indicato soprattutto per le persone che si recano in Paesi diversi dal nostro dove i ceppi A, W135 e Y sono causa di estese epidemie. La vaccinazione consiste in una singola dose somministrata per via sottocutanea che protegge dopo 7-14 giorni ed è efficace per circa tre anni.


I vaccini coniugati sono composti da un polisaccaride legato a una proteina “carrier” e sono efficaci anche nei soggetti con meno di 2 anni di età a generare una memoria immune per un periodo di tempo maggiore. Non è certa la durata dell’immunità: “Quando la vaccinazione è stata consigliata per gli adolescenti nel 2005, l’aspettativa era di una protezione della durata di 10 anni; attualmente i dati disponibili suggeriscono che essa diminuisce nella maggior parte degli adolescenti entro 5 anni.” Dati recenti confermano che la protezione dopo 5 anni è insoddisfacente68. Sono disponibili in formulazioni monovalenti (C) o quadrivalenti (A, C, W135 e Y). Il vaccino monovalente coniugato conferisce protezione soltanto nei confronti della meningite causata dal meningococco del gruppo C. Il Piano Nazionale di Prevenzione Vaccinale (PNPV) 2012-2014 ha incluso il vaccino contro il meningococco C nel calendario vaccinale con l’obiettivo del raggiungimento e mantenimento nei nuovi nati e negli adolescenti (11-18 anni) di coperture vaccinali = 95%. Il PNPV prevede la vaccinazione con una dose di vaccino contro il MenC nei bambini a 13-15 mesi e negli adolescenti non precedentemente vaccinati, a 11-18 anni. Inoltre, il Piano raccomanda l’identificazione e l’immunizzazione con vaccino antimeningococco coniugato C dei soggetti a rischio di infezione invasiva meningococcica perché affetti da specifiche patologie o per la presenza di particolari condizioni di vita.


Ogni vaccino – come ogni altro prodotto farmaceutico – comporta un rischio di effetti collaterali e reazioni avverse anche gravi, che può essere maggiore per alcuni individui a causa di fattori genetici, biologici non esplorabili preventivamente. Tra le reazioni avverse al vaccino antimeningococco C sono stati riportati, oltre a febbre, mal di testa, orticaria, parestesia, tumefazione nella sede della puntura69, importanti reazioni di carattere generale, come sincope70, sindrome nefrosica71, sindrome di Guillane-Barré72, anemia emolitica73, paralisi del nervo faciale, mielite trasversa, encefalomielite acuta disseminata74, porpora di Schonlein-Henoch75 e casi di meningite comparsi immediatamente dopo la somministrazione del vaccino.


La bassa incidenza della meningite da meningococco C e il tipo di contagio, che avviene in cluster (focolai in aree ristrette e per gruppi di età simili), rendono efficace un’azione di prevenzione da intraprendere nelle 24-48 ore dall’ultimo contatto, rispetto a un vaccino esteso a tutta la popolazione. L’OMS consiglia la vaccinazione per i contatti dei malati; questa deve in ogni caso essere accompagnata dalla chemioprofilassi con antibiotici (rifampicina, minociclina, spiramicina, ciprofloxacina o ceftriaxone), poiché il vaccino non induce immunità prima di 10-14 giorni. Le attuali raccomandazioni internazionali indicano l’opportunità di tale vaccinazione su larga scala quando l’incidenza è superiore a 10 casi per 100.000 abitanti nell’arco di tre mesi, come vedremo in seguito


Sia la malattia meningococcica, di cui abbiamo visto la frequenza estremamente bassa nel nostro Paese (al di là delle epidemie mediatiche), sia la vaccinazione possono comportare conseguenze gravi per la salute. Il rischio di un individuo di contrarre una malattia infettiva e di subirne conseguenze a lungo termine dipende da molti fattori, non tutti noti: lo stato di salute generale, la suscettibilità genetica a sviluppare complicazioni delle malattie, la capacità del sistema immunitario di affrontare efficacemente i processi infettivi. Nel 2017 i casi totali identificati di meningococco C sono stati 35; nella tabella di seguito riporto l’incidenza della malattia nelle fasce di età pediatriche.

INCIDENZA DI MALATTIA INVASIVA DA MENINGOCOCCO C IN ETÀ PEDIATRICA (2015-2017) (dati parziali al 3 aprile 2017)


Credo sia legittimo essere perplessi e sia giusto chiedersi, di fronte a questi numeri, a un’eventualità remota (ma non impossibile) di contrarre una malattia invasiva da meningococco C, se la vaccinazione (che non sempre è efficace, non è priva di reazioni avverse, e ha una durata limitata nel tempo) sia davvero il rischio minore.

Il vaccino antimeningococco B

Dal 14 gennaio 2013 l’EMA ha autorizzato l’immissione in commercio di un nuovo vaccino contro il meningococco di sierogruppo B (Bexsero®). Si tratta di un vaccino multicomponente (4CMenB), composto da tre proteine antigeniche ricombinanti purificate di Neisseria meningitidis sierogruppo B e da vescicole della membrana esterna (OMV) del batterio, indicato per l’immunizzazione attiva di soggetti di età pari o superiore ai 2 mesi contro la malattia meningococcica invasiva causata da Neisseria meningitidis di gruppo B.


In dettaglio, il vaccino contiene 4 antigeni:

  1. proteina legante il fattore H del complemento umano (fHbp o proteina 936-741) di Neisseria meningitidis sierogruppo B ottenuta mediante tecnologia di DNA ricombinante, fusa con la proteina accessoria GNA2091;
  2. proteina di adesione A (NadA o proteina 961c) di Neisseria meningitidis sierogruppo B ottenuta mediante tecnologia di DNA ricombinante;
  3. antigene di fusione legante l’eparina (NHBA o proteina 936-741) di Neisseria meningitidis sierogruppo B ottenuta mediante tecnologia di DNA ricombinante, fusa con la proteina GNA1030;
  4. vescicole della membrana esterna di Neisseria meningitidis sierogruppo B, ceppo NZ98/254 misurate come quantità di proteina totale contenente PorA P1.4.

La maggior parte dei ceppi di meningococco B circolante presenta diversi livelli di espressione di almeno uno dei quattro antigeni contenuti nel vaccino. Un tale complesso procedimento si è reso necessario in quanto il polisaccaride capsulare di MenB è poco immunogeno, anche quando è coniugato con un carrier proteico, e inoltre è identico a un polimero dell’acido polisialico presente nel tessuto nervoso, con conseguente rischio di autoimmunità qualora sia utilizzato come vaccino. Data la rarità della malattia, non sono stati condotti studi di efficacia in base all’incidenza osservata nei vaccinati e nei non vaccinati, ma è stata eseguita una stima attraverso una nuova metodica di laboratorio, denominata Meningococcal Antigen Typing System (MATS). L’analisi ha evidenziato che il 78% di un totale di 1052 ceppi isolati nel 2007 e 2008 in vari Paesi europei è in grado di essere neutralizzato dai sieri dei soggetti vaccinati. Tale stima mostra un intervallo di confidenza 95% pari a 63-90 e presenta variazioni da un Paese all’altro. Per quanto riguarda l’Italia, è pari all’87% (IC 95%:70-93). Occorre ricordare che i ceppi testati sono soltanto una frazione di tutti quelli che possono causare una malattia invasiva e che sono stati selezionati per la loro adeguatezza al test SBA. Infatti differenti ceppi di meningococco possono comportarsi diversamente al test. È questo il motivo per cui all’inizio della trattazione ho riportato la distinzione in sierogruppi, sierotipi e sierosottotipi: è, per fare un esempio, come sussurrare delle parole all’orecchio di un numero ristretto di persone presenti in una sala (non a tutte ma solo a quelle prescelte) affermando che ne hanno udite 87 su 100 ma senza conoscere nulla del comportamento di quelle non sottoposte al test; non conosciamo, all’interno del sierogruppo B, il comportamento dei vari sierotipi e sierosottotipi. In più, l’efficacia, come riportato nella scheda tecnica, non è stata direttamente valutata mediante sperimentazioni cliniche ma è stata dedotta attraverso l’analisi delle risposte anticorpali verso i quattro antigeni del vaccino: NadA, fHbp, NHBA, PorA P1.4. Cioè, per continuare la metafora, so che le parole sono state percepite nell’87% dei casi selezionati, ma non so se il discorso è stato compreso.


Il vaccino è sottoposto a monitoraggio addizionale per un periodo di cinque anni. In generale questo permette di stimolare la partecipazione di pazienti e operatori sanitari nella segnalazione di sospette reazioni avverse al fine di garantire che i benefici di tali medicinali siano sempre superiori ai loro rischi e per intraprendere adeguate azioni regolatorie, quando necessario. Nel caso del vaccino 4CMenB quest’attività ha lo scopo di approfondire le conoscenze concernenti il profilo beneficio-rischio del vaccino in una popolazione più ampia rispetto ai circa 7.500 bambini, adolescenti e adulti trattati nelle fasi pre-registrative. I limiti del sistema di segnalazione delle sospette reazioni avverse, il fenomeno della sottosegnalazione e la necessità di programmi di sorveglianza attiva sono noti. Abbiamo una conferma dall’analisi del Rapporto Vaccini 2017. La sorveglianza post-marketing in Italia a cura dell’AIFA: le segnalazioni di ADR a vaccini antimeningococcici (Men B, Men C, Men A-C-W135-Y) inserite nella Rete Nazionale di Farmacovigilanza nel 2017 sono state 2.770. Il 78,0% delle segnalazioni ha riguardato l’antimeningococcico di tipo B, il 16,5% il tipo ACWY e il 5,5% il tipo C. In 36 segnalazioni non era riportato il nome commerciale del prodotto. In totale le segnalazioni di sospetta ADR al vaccino antimeningococco B nel 2017 sono state 2.161, il 12,5% gravi. L’82,6% delle segnalazioni di sospette reazioni avverse dopo vaccinazione contro il meningococco ha riguardato i bambini fino a 11 anni di età e solo il 10,4% gli adulti. Le segnalazioni di Adverse Events Following Immunization (AEFI) gravi a vaccini antimeningococcici inserite e insorte nel 2017, provenienti dalle regioni che hanno fornito i dati dell’anagrafe vaccinale, sono 277, di cui 212 sono risultate correlabili alle vaccinazioni. Tali eventi riguardano: iperpiressia, febbre, reazione al sito di somministrazione, convulsioni febbrili, vomito, cefalea e reazioni cutanee generalizzate.


Il Rapporto IstiSan 15/1276 riporta i risultati di RCT valutati per la registrazione del Bexsero, il vaccino antimeningococco B. Il gold-standard della ricerca clinica per dimostrare l’efficacia degli interventi sanitari è costituito proprio dai trial controllati e randomizzati (Randomized Controlled Trials, RCTs). I risultati di tali studi pre-marketing dovrebbero costituire il riferimento dei sistemi di sorveglianza successivi alla commercializzazione di un farmaco o vaccino. In questi studi sono riportati gli eventi avversi giudicati dai ricercatori “imputabili al vaccino”. Tra le reazioni avverse gravi riportate si segnalano:

  • 3 sindromi di Kawasaki, più 1 giudicata “non correlata”;
  • 8 crisi convulsive;
  • 1 meningite asettica;
  • 1 caso di cecità persistente;
  • 2 episodi ipotonici/iporesponsivi;
  • 2 artriti giovanili;
  • reazioni locali “gravi” nel 12-29% dei vaccinati.

La ricerca degli eventi avversi sindrome di Kawasaki, meningite asettica, cecità persistente, episodi di ipotonia/iporesponsività, artriti giovanili rilevati dai RCT all’interno del Rapporto Vaccini 2017. La sorveglianza post-marketing in Italia a cura dell’AIFA non ha prodotto risultati. Dobbiamo chiederci: sono eventi che non si sono verificati (e quindi gli studi pre-commercializzazione sono di scarsa qualità) o non sono stati registrati (e allora è la vaccinovigilanza a essere inefficace)?

In Europa e negli USA

In Europa continua a esserci una tendenza decrescente nelle patologie invasive causate dal sierogruppo B, che può essere dovuta all’andamento oscillatorio caratteristico di questo germe e non ai programmi di immunizzazione intrapresi da alcuni Paesi. Tuttavia, il sierogruppo B continua a causare la maggior parte dei casi di IMD, interessando prevalentemente i gruppi di età più giovani. Si stima che il vaccino fornisca protezione contro il 73% e l’87% dei ceppi circolanti del sierogruppo B, a seconda del Paese. Il Regno Unito ha introdotto il vaccino 4CMenB nel suo programma nazionale di vaccinazione infantile di routine nel 2015, l’Irlanda dal 2016. Il vaccino è raccomandato, ma non distribuito gratuitamente, in Austria, nella Repubblica Ceca e in Ungheria. A seguito di opportune valutazioni, alcuni Paesi, come Francia, Grecia e Norvegia, hanno raccomandato di non introdurre il vaccino 4CMenB nei loro programmi di immunizzazione di routine. Tuttavia, in Francia il vaccino è raccomandato per le persone a maggior rischio di IMD e durante i focolai epidemici77.


Le motivazioni che hanno suggerito alcuni Paesi di non procedere con la vaccinazione di massa sono le seguenti:

  • assenza di dati di efficacia clinica del vaccino;
  • limitata evidenza di persistenza degli anticorpi battericidi contro i quattro antigeni vaccinali;
  • mancanza di dati sulla durata della protezione;
  • difficoltà di integrare il nuovo vaccino nel calendario vaccinale;
  • mancanza di dati conclusivi sull’effetto del vaccino sull’acquisizione dello stato di portatore;
  • numero elevato di reazioni locali e febbre> ai 38,5° nei lattanti vaccinati e proporzione maggiore di reazioni avverse negli altri gruppi di età.

In Spagna, dove l’incidenza di meningite da meningococco B è superiore a quella italiana, il Comitato per i programmi di vaccinazione sull’introduzione del nuovo vaccino antimeningococco B ha così scritto:


“In sintesi, da una prospettiva di sanità pubblica, il vaccino 4CMenB presenta numerose incertezze sulla sicurezza, l’efficacia clinica, la sorveglianza e il monitoraggio di laboratorio, che, insieme al trend in diminuzione dell’incidenza della malattia batterica invasiva da meningococco B in Spagna, richiamano a una decisione cauta sull’introduzione di questo vaccino nel calendario vaccinale. Il vaccino potrebbe essere riservato per specifiche situazioni di rischio elevato (focolai epidemici) e per pazienti immunocompromessi. L’analisi economica non è stata eseguita poiché le principali variabili (prezzo del vaccino, efficacia, schedula vaccinale ottimale, effetto degli eventi avversi al vaccino sull’accettabilità da parte dei genitori, durata della protezione) non sono ancora note”.


Il 21 luglio 2016 sul New England Journal of Medicine, è stato pubblicato uno studio78 che dimostra che, dopo un ciclo di due dosi di vaccino Bexsero solo due terzi dei soggetti vaccinati ha prodotto una risposta anticorpale adeguata e quindi un’immunità nei confronti del Meningococco di tipo B. Lo studio è stato condotto nell’università americana di Princeton. Sono state praticate due dosi del vaccino Bexsero, la prima nel dicembre 2013 e la seconda nel febbraio 2014, a 500 studenti, come profilassi per la meningite B a seguito di 9 casi di infezione e di un decesso registrati in quella stessa università, dal marzo 2013 al marzo 2014. I casi di meningite erano tutti riconducibili al meningococco B e, per la prima volta negli Stati Uniti, è stato impiegato il vaccino Bexsero. Dopo due dosi di vaccino Bexsero, solo due terzi dei soggetti vaccinati ha sviluppato immunità, cioè ha prodotto un titolo anticorpale sufficiente, mentre addirittura un terzo dei vaccinati non ha manifestato alcun segno di protezione. I ricercatori si aspettavano una maggiore efficacia del vaccino, il dottor Granoff, direttore del Center for Immunology and Vaccine Development, ha dichiarato che si poteva ammettere “una mancata risposta al vaccino e una conseguente assenza di anticorpi, nel 10 o 15% dei soggetti vaccinati, ma certamente non in una percentuale pari al doppio, cioè del 34%”.


A proposito della persistenza della risposta immunitaria, i dati disponibili non sono sufficientemente solidi per trarre conclusioni definitive. Dagli studi considerati sembra che i titoli anticorpali diminuiscano circa 3 anni dopo il completamento del ciclo primario. Inoltre, la riduzione dei titoli anticorpali nel tempo è risultata molto variabile secondo i diversi ceppi di meningococco B utilizzati per valutare la risposta immunitaria; non è chiaro se questo rifletta una reale differenza della persistenza dell’immunogenicità per i ceppi testati o soltanto una diversa suscettibilità dei ceppi all’attività battericida del test.

Anche i meningococchi diventano più “creativi” con la vaccinazione di massa

Un problema significativo è determinato dalla possibilità dei meningococchi di scambiarsi il materiale genetico responsabile della produzione delle capsule, per cui essi possono passare dal gruppo B al C e viceversa79. È pertanto possibile, come dimostra un’epidemia avvenuta nei Paesi Baschi dopo l’introduzione della vaccinazione di massa80, che in una popolazione vaccinata contro il sierogruppo C possa verificarsi un rimpiazzamento da parte del sierogruppo B e il teorico rischio dello sviluppo di nuove varianti verso cui non si dispone di alcuna strategia vaccinale. In Scozia, dopo l’introduzione estesa del vaccino contro il tipo C, si è registrato un aumento di morti causati dal meningococco di tipo B81. Nel Regno Unito è stato segnalato un aumento significativo della diversità genetica del meningococco C82. Un’evoluzione inattesa della vaccinazione di massa contro il meningococco di tipo C si è avuta anche in Spagna, dove, dopo estesa campagna vaccinale, è stata riscontrata la presenza di un tipo B molto virulento e i ricercatori ipotizzano che possa essere derivato da una mutazione genetica del tipo C “vaccinabile”83. Anche in Canada è emerso un clone geneticamente modificato dopo un ampio impiego del vaccino non coniugato. Questo fenomeno pone in crisi, di fatto, qualsiasi campagna vaccinale che non copra entrambi i ceppi84.

Emofilo

Haemophilus influenzae: si tratta di un gruppo di batteri che, nonostante il nome, non hanno rapporto con il virus influenzale. Nel genere Haemophilus, la specie Haemophilus influenzae è la più importante per le patologie che può provocare. Essa comprende 6 sierotipi, classificati con le lettere A-F, e un gruppo di ceppi non tipizzabili. L’Haemophilus influenzae di tipo B (HIB) è il ceppo patogeno più importante. Colpisce in prevalenza neonati e bambini sotto i 2 anni. Gli emofili fanno parte della normale flora batterica della gola o del naso, dove non danno alcun problema e si trasmettono da una persona all’altra per via aerea, con le goccioline della saliva emessa con la tosse o lo sternuto.


Quasi tutti i bambini durante i primi 5-6 anni di vita vengono a contatto prima o poi con l’emofilo. In genere, a seguito di questo contatto, essi non subiscono alcun danno e sviluppano gli anticorpi che li proteggeranno nelle età successive. Tuttavia in alcuni casi, l’emofilo riesce a raggiungere il sangue e, tramite questo, a localizzarsi in altri organi dove causa malattie molto gravi. Tra queste la più frequente è la meningite. Con frequenza minore il germe può causare epiglottidite (infiammazione grave e improvvisa delle prime vie aeree con sintomi di soffocamento) e sepsi (infezione diffusa nel sangue). Queste malattie, dette ‘forme invasive’, colpiscono quasi esclusivamente i bambini al di sotto dei 5 anni di età. Possono determinare inoltre otiti, polmoniti, congiuntiviti.


Il motivo per cui le infezioni da emofilo sono particolarmente gravi nei primi anni di vita risiede nella struttura del germe e nelle caratteristiche immunitarie del bambino. L’emofilo, infatti, possiede una capsula protettiva che lo protegge dalla distruzione da parte dei globuli bianchi. Contro questi germi l’organismo adulto produce determinati anticorpi che invece il bambino piccolo, per una fisiologica immaturità del sistema immunitario, produce in quantità molto bassa. Per questo motivo il bambino piccolo non è in grado di difendersi dalle malattie causate dall’emofilo.

CASI DI MALATTIA INVASIVA DA HAEMOPHILUS INFLUENZAE PER ANNO E FASCE DI ETÀ85

L’andamento della patologia è rappresentato nel seguente grafico, che indica sia i casi totali che i casi pediatrici.


CASI DI MALATTIA INVASIVA DA HAEMOPHILUS INFLUENZAE

Casi di malattia invasiva da haemophilus influenzae: la linea tratteggiata rappresenta i casi insorti nella fascia di età 0-14, la linea continua indica i casi totali (1994-2017)

L’incidenza di malattia invasiva da haemophilus influenzae dell’ultimo triennio è compresa tra 0,21 casi/100.000 abitanti nel 2015 e 0,26 casi/100.000 abitanti nel 2017, inferiore alla media Europea di 0,7 casi/100.000 abitanti riportata nel 2015 (dato più recente disponibile). Sebbene questa patologia mantenga una incidenza molto bassa nella popolazione, il numero dei casi di malattia invasiva da emofilo è progressivamente aumentato nel corso degli ultimi anni a partire dal 2013. Si ritiene che questo aumento possa essere messo in relazione con la crescente circolazione di ceppi di emofilo non capsulati, non prevenibili con la vaccinazione, oltre che a una maggiore sensibilità diagnostica. Seppur con valori assoluti diversi, l’incremento di incidenza nel tempo si osserva su casi rilevati su tutto il territorio nazionale e riguarda soprattutto i bambini nel primo anno di vita e, a seguire, gli anziani. L’incidenza della malattia invasiva da emofilo nel primo anno di vita è diminuita nel periodo di riferimento passando da 3,54 casi/100.000 abitanti nel 2016 a 1,71 casi /100.000 abitanti nel 2017, principalmente dovuti a infezione da ceppi di emofilo non capsulati (1,41 casi/100.000 abitanti nel 2015, 1,67 casi/100.000 abitanti nel 2016 e 0,86 casi/100.000 abitanti nel 2017). Si nota un trend di incidenza in aumento negli adulti di età superiore ai 64 anni (0,46 casi/100.000 abitanti nel 2015, 0,55 casi/100.000 abitanti nel 2016 e 0,67 casi/100.000 abitanti nel 2017). L’informazione sulla tipizzazione è disponibile per il 62% dei casi notificati nel 2015, 60% nel 2016 e 71% nel 2017. I dati suggeriscono la necessità di implementare l’attività di sierotipizzazione a livello regionale e/o migliorare la percentuale d’invio dei ceppi all’Istituto Superiore di Sanità. Come in tutti gli anni precedenti, anche nel periodo 2015, 2016 e 2017 è evidente la netta predominanza dei ceppi non capsulati sul totale dei ceppi tipizzati (89% nel 2015; 71% nel 2016 e 76% nel 2017)86.


Occorre esser chiari, e lo ripeterò più volte in questo capitolo: le infezioni da haemophilus influenzae b (Hib) sono le uniche prevenibili con le vaccinazioni, e vanno distinte dalle infezioni da Hi haemophilus influenzae.


Si veda nella seguente tabella la distribuzione per anno dei vari sierotipi di haemophilus influenzae.


DISTRIBUZIONE PER SIEROTIPO E PER ANNO DEI CEPP I DI HAEMOPHILUS INFLUENZAE ISOLATI DA INFEZIONI INVASIVE (MENINGITI E SEPSI) INVIATI PER TIPIZZAZIONE ALL’ISTITUTO SUPERIORE DI SANITÀ O TIPIZZATI DA ALTRO LABORATORIO NEL PERIODO 2007-2010


I casi di malattia invasiva da emofilo negli anni 2007-2017 sono stati complessivamente 935.I casi identificati attribuibili al sierotipo b sono stati 73, gli unici teoricamente prevenibili con la vaccinazione87.


CASI TOTALI DI MALATTIE INVASIVE DA HAEMOPHILUS INFLUENZAE E DA HAEMOPHILUS INFLUENZAE B



CONFRONTO TRA CASI TOTALI DI HAEMOPHILUS INFLUENZAE E DI HAEMOPHILUS INFLUENZAE B

I casi di malattia invasiva da Haemophilus influenzae b per età negli anni 2011-2017 mostrano un aumento nella fascia di età 0-4 anni, proprio quella che dovrebbe maggiormente beneficiare della protezione conferita dal vaccino. Non sono disponibili dati antecedenti.


CASI DI MALATTIE INVASIVE DA HAEMOPHILUS INFLUENZAE B NELLE FASCE DI ETÀ > 1 ANNO E 1-4 ANNI

Il report dell’ISS88 relativo agli anni 2011-2017 afferma: “I casi dovuti al sierotipo b, gli unici prevenibili mediante vaccinazione, si mantengono relativamente rari (nessun caso nel 2011, 6 casi nel 2012, 5 casi nel 2013, 7 casi nel 2014, 4 casi nel 2015, 12 nel 2016). Tra questi, complessivamente 10 casi insorti in bambini vaccinati contro H. influenzaemesi vaccinato con 2 dosi. Infine, dei 12 casi da Hib del 2016, 5 si sono verificati in adulti non vaccinati (4 con sepsi e uno con meningite), 3 in bambini di 5 mesi, 1 anno e 4 anni, rispettivamente, tutti non vaccinati (tutti con meningite), mentre 4 casi sono effettivamente fallimento vaccinale e si sono 28 verificati in bambini di 4 mesi, 10 mesi, 4 anni e 13 anni regolarmente vaccinati. La presentazione clinica per tutti i casi di fallimento era meningite, a eccezione di un caso con polmonite settica (bambino di 4 anni).”

Il vaccino: era davvero il caso di renderlo obbligatorio?

Il vaccino è costituito da una parte della parete del batterio (il rivestimento polisaccaridico) che è legata (coniugata) con una proteina trasportatrice per permettere la risposta immunitaria nei bambini al di sotto dei due anni. La vaccinazione è stata introdotta e raccomandata in Italia nel 1995, inclusa nel 1999 nel Calendario Nazionale Vaccinazioni, e la copertura ha sfiorato nel 2009 il 96% dei bambini al 24° mese. È oggi praticata al 3°, 5° e 11° mese nel contesto del vaccino esavalente. Nei primi anni successivi all’introduzione le malattie invasive da Hi si sono ridotte. Il vaccino (anti-Hib) non è rivolto contro tutti gli emofili patogeni, ma è “ceppo-specifico”, cioè agisce solo contro gli Hib. Ciò in partenza appariva razionale, dato che si trattava del ceppo responsabile della maggior parte delle patologie da Emofili. Ma, se si considera l’evoluzione dei patogeni, la strategia mostra seri inconvenienti, soprattutto quando affidata a vaccini ceppo-specifici. Infatti, in una prospettiva ecologico-evoluzionistica, gli organismi che causano malattie possono mettere in atto strategie adattative in risposta alla pressione ambientale. Gli interventi di sanità pubblica, rivolti a soggetti sani/o a tutta la popolazione, vanno pianificati in una prospettiva strategica, con valutazioni preventive di impatto a lungo termine, considerando in un bilancio tra benefici e rischi non solo gli effetti avversi noti (spesso chiariti solo nel breve periodo), ma anche le conseguenze ecologiche (nel caso specifico sull’ecologia microbica) di interventi su larga scala in sistemi complessi, in equilibrio dinamico. Anche nel caso dei vaccini si sono tradizionalmente sviluppati due filoni di ricerca sulle strategie adattative dei microrganismi bersaglio. Uno è relativo alla selezione di mutanti che si sottraggono alla risposta immunitaria che il vaccino ha generato nell’ospite: è intuitivo che tale evenienza sia facilitata nel caso il vaccino sia rivolto solo contro alcuni ceppi e non contro l’intero microrganismo. L’altro è quello di cambiamenti evolutivi nella virulenza, cioè nella misura in cui i microrganismi possono danneggiare l’ospite. Dal punto di vista evolutivo, i microrganismi hanno interesse a infettare al massimo i propri ospiti senza ucciderli. Si è pertanto osservato (anche in sperimentazioni animali) che in tendenza essi evolvono per ridurre la virulenza nelle popolazioni non immuni (suscettibili/non vaccinate), ma tendono ad aumentare la virulenza quando la popolazione ospite acquisisce resistenza, per riuscire a superarla. Un vaccino ideale dovrebbe offrire una protezione completa che duri tutta la vita. Purtroppo, però i vaccini conferiscono protezioni spesso incomplete (in particolare quelli tipo-specifici), che tendono ad attenuarsi o svaniscono nel tempo. Vaccini con tali caratteristiche possono avere conseguenze non desiderate, inducendo il patogeno bersaglio a evolvere, ad esempio aumentando la virulenza per superare le resistenze di ospiti parzialmente immuni, o mutando, per sopravvivere; o semplicemente, sotto la nuova pressione selettiva, rimpiazzando i sierotipi bersaglio del vaccino con altri. L’Hi fornisce un esempio di quanto descritto. I programmi di vaccinazione di massa contro l’Hib hanno diminuito i sierotipi b, ma aumentato casi di infezione, anche mortali, causati da altri tipi capsulati e ancor più da Hi non capsulati (rimpiazzo), che in Italia oramai riguardano i ¾ delle malattie invasive da Hi. Inoltre, si è assistito a livello internazionale allo spostamento di infezioni invasive verso adulti e anziani89. In numerosi Paesi, che da più tempo eseguono l’immunizzazione di massa, abbiamo assistito dapprima a una riduzione delle segnalazioni di malattia, cui sta facendo seguito, nonostante le alte coperture vaccinale, a un incremento del numero dei casi, sia tra bambini correttamente vaccinati che in adulti ed in anziani90.

Il cocktail per la paura: malattia reale e dati irreali

La meningite spaventa i genitori più di tante altre malattie. Non c’è da stupirsene: i mezzi di comunicazione amplificano a dismisura l’allarme per questa malattia, basandosi su dati di fantasia o posti in modo distorto. Una corretta informazione è un problema di primaria importanza, e fornirla è compito dei medici e delle autorità sanitarie. Come ho già osservato per l’influenza, le parole hanno importanza. La prima inesattezza che si commette consiste nel parlare di “vaccino contro la meningite”, dal momento che qualsiasi virus o batterio possono provocare una meningite.


La seconda regola per una corretta informazione è di rendere le persone consapevoli dell’ordine di grandezza dei fenomeni di cui si sta parlando.


Per esempio: i casi totali di meningite nel 2013 sono stati 1369. Nello stesso anno si sono registrati in Italia 181.227 incidenti stradali con lesioni a persone. Il numero dei morti (entro il 30° giorno) ammonta a 3.385, quello dei feriti a 257.42191. Secondo uno studio dell’Istituto Superiore di Sanità nel 2007 si sono registrati 387 morti e circa 440 ricoveri per annegamento, con un tasso di mortalità pari a 11,1 morti per milione/anno nei maschi e 2,2 morti per milione/anno nelle femmine, con un tasso medio di 6,5 morti per milione di abitanti/anno. Impressionante il dato storico: dal 1969 al 2007 sono decedute per annegamento 27.154 persone, per l’82 per cento maschi92.


Il consenso sul fatto che le meningiti non rappresentano un pericolo di sanità pubblica è unanime93, afferma Alessandro Lizioli della Direzione generale sanità della Regione Lombardia; regione, si noti, favorevole all’introduzione della vaccinazione di massa. Sul portale dell’epidemiologia per la sanità pubblica si legge il seguente intervento di Vittorio Demicheli, del Servizio Sovrazonale di Epidemiologia, ASL 20 Alessandria:


Le decisioni di politica vaccinale, nei Paesi ricchi, richiedono attenta valutazione perché il costo dei vaccini è sempre più elevato (per la ricerca e lo sviluppo dei prodotti e per l’organizzazione vaccinale) mentre le ricadute sono limitate (perché i vaccini combattono malattie sempre meno importanti dal punto di vista epidemiologico). Molti nuovi vaccini sono stati sviluppati per risolvere problemi importanti in un luogo (come le meningiti negli USA) e vengono poi “spinti” su mercati dove il problema non esiste (o è molto limitato) ma esiste la ricchezza sufficiente per vendere il vaccino (le meningiti in Europa)94.


Ma nello stesso sito di epidemiologia si legge anche:


L’incidenza della meningite nel nostro Paese non costituisce infatti un problema ingente di sanità pubblica, tuttavia la percezione del rischio legata a questa malattia è tale da sollevare il dubbio sulla utilità di vaccinare tutti i bambini95.


Ho evidenziato in neretto l’espressione “percezione del rischio”, in quanto essa è cosa molto diversa dal rischio stesso. Il punto è verificare chi determini la percezione del rischio tra i genitori e l’opinione pubblica in genere: le autorità sanitarie nella loro funzione di garanti della salute pubblica, o una macchina politica sempre più invasiva dell’autonomia professionale della classe medica e paramedica, che estende la logica dell’affarismo, dello scambio clientelare, dell’appalto truccato anche a un settore delicatissimo come la sanità. Un esempio illuminante è il modo in cui i mezzi di informazione in modo compatto e allineato hanno provveduto a trasmettere all’opinione pubblica un messaggio assolutamente distorto nel 2007, in occasione di alcuni casi di meningite nel Veneto.


In provincia di Treviso tra il 13 e il 15 dicembre 2007 si sono verificati sette casi di meningite in persone di età compresa tra i 15 e i 33 anni. In 6 casi il responsabile è stato il meningococco C. I decessi sono stati 3: un ragazzo di 15 anni di origine greca, un senegalese e un’italiana, entrambi trentenni. L’indagine epidemiologica ha permesso di evidenziare come tutti i soggetti coinvolti avessero frequentato, tra l’8 e il 9 dicembre 2007, alcuni locali da ballo della Provincia96. Dopo il focolaio trevigiano si sono verificati altri casi letali: il 5 gennaio 2008 muore un diciannovenne milanese; il 7 gennaio, a Rieti, un bimbo di 18 mesi; il 20 gennaio, a Lucca, una bimba romena di 6 mesi. Altri due casi non letali sono stati identificati a Padova e a Mestre nel gennaio 2008. Dalle pagine di tutti i giornali scatta l’allarme meningite. Si afferma che il vaccino è l’unico e indispensabile strumento di prevenzione. Che deve essere offerto gratuitamente a tutti i bambini. I giornali e le televisioni non rilevano il dato reale, cioè che nel 2007 i casi totali di meningite da meningococco sono all’incirca la metà di quelli del 2005, così come nel 2006. “L’epidemia” da prima pagina è modesta nei numeri: otto casi accertati nel dicembre 2007 su 21 casi di meningite notificati in Veneto. L’incidenza annuale regionale è stata di 0,3 casi ogni 100.000 abitanti. Si è trattato di un limitato focolaio epidemico che non ha modificato la situazione epidemiologica italiana, caratterizzata da un’incidenza nella popolazione generale tra le più basse di Europa97. Al di là del dolore per le morti dei malati, il rischio per la popolazione, anche in questa epidemia, è stato molto modesto: l’incidenza è stata davvero bassa, dato che sono definite rare le malattie con una frequenza di 2 casi ogni 100.000.


Ai medici, naturalmente, la sproporzione tra i dati dei media e la realtà oggettiva non sfuggì. Il problema era di farlo sapere alla gente. Affermava l’epidemiologo Flavio Zucchini: “Possiamo ritenere che nel caso del Veneto l’epidemia sia stata fortemente amplificata dai media e, forse, dalle case farmaceutiche che volevano cogliere l’occasione per incrementare le vendite del vaccino. È impossibile valutare se e quanti casi siano stati evitati dalla chemioprofilassi con gli antibiotici o dalla vaccinazione antimeningococco C, la quale presenta un periodo finestra di 10-14 giorni in cui comunque non si è protetti. Pertanto non possiamo dire con certezza quale sia stata l’effettiva efficacia della campagna vaccinale. Al momento, l’analisi costi-benefici del Ministero della Salute è a sfavore della vaccinazione di massa anche nelle categorie più a rischio98.


E ancora: “L’amplificazione mediatica ha portato a fenomeni d’isteria collettiva in mancanza di una chiara, corretta e diffusa informazione scientifica: si pensi che svariati media locali hanno riportato che la malattia era di origine virale. Da un punto di vista medico esiste una differenza notevole, anche perché la forma virale è assai meno grave, ma da un punto di vista comunicazione la parola “virus” è più evocativa di letalità rispetto a “batterio”, comparendo anche nei titoli di diversi film di buon successo della serie catastrofica.”


Caso singolare, proprio in quell’anno il Veneto si apprestava, prima e unica regione italiana, a sospendere l’obbligo vaccinale, sostituendo le vaccinazioni obbligatorie per legge con le vaccinazioni libere. Altrettanto significativa fu, alcuni anni fa, la campagna pubblicitaria televisiva e radiofonica, patrocinata da uno dei maggiori sindacati di pediatri, la Federazione Italiana Medici Pediatri (FIMP), che lanciava un messaggio inequivocabile: tutti i genitori avrebbero dovuto proteggere i propri figli dalla meningite. La soluzione proposta: vaccinare tutti i bambini sotto i due anni contro lo pneumococco. Come ho ricordato più sopra, questo batterio è solo uno dei germi che causano la malattia, ma le strategie commerciali, si sa, non possono porre attenzione ai dettagli, tanto è vero che si verificò un’altra trascurabile dimenticanza: non compariva il nome dell’azienda sponsor della campagna vaccinale, per dare agli spot un tono neutro, da “Pubblicità Progresso”. Infine, pur trattandosi a tutti gli effetti di una vera e propria campagna promozionale di un farmaco, e cioè il vaccino antipneumococco prodotto dalla Wyeth, a differenza di tutte le altre pubblicità di questo tipo non venne fatto cenno agli effetti collaterali. La campagna pubblicitaria fu bloccata dall’Agenzia italiana del farmaco e la Federazione Italiana Medici Pediatri fu sanzionata dall’Antitrust per aver patrocinato questa iniziativa. Quest’ultima informazione, però, non pervenne all’opinione pubblica né con la stessa diffusione, né con lo stesso impatto del messaggio che era stato diffuso dal messaggio pubblicitario.


2015, torna in Toscana la grande paura

A inizio 2015 è tornata la grande paura, soprattutto in Toscana, a seguito dei decessi di alcune persone colpite da meningite da meningococco di tipo C. Proprio in questa regione, insieme a Marche e Puglia, nel triennio 2011-2013 fu registrato un aumento dei casi, imputabile o a un reale incremento delle infezioni o a un miglioramento dei criteri diagnostici e delle procedure di notifica, nonostante l’elevata copertura vaccinale che nel 2013 fu dell’89,4%. Ma nei primi tre mesi del 2015 in Toscana si verificarono quindici casi, cinque dei quali letali. Le fasce di età: 1 caso tra gli 0-4 anni, 2 nella fascia 5-14, 3 tra i 15-20, 4 tra i 21-30, 4 tra i 31-49 anni e 1 nella fascia >65. Particolarmente interessata fu la zona dell’Empolese, dove, a Cerreto Guidi, nel mese di febbraio morì un ragazzo di 13 anni in precedenza vaccinato, a marzo un 17enne di Montelupo Fiorentino e una donna di 34 anni di Vinci. Questo portò all’adozione di misure straordinarie da parte delle ASL, che attivò tutte le previste procedure di profilassi per chi era stato a contatto con le vittime o con i ricoverati. La politica, cioè la giunta regionale della Toscana, deliberò l’acquisto e il richiamo gratuito del vaccino antimeningococco C per i ragazzi della fascia di età 11-18 anni, e l’ Asl di Empoli dispose la gratuità del vaccino anche per gli adulti fino a 45 anni di età. Queste misure aumentarono la preoccupazione delle persone, con lunghe code davanti alla sede dell’Asl fin dalle prime ore del mattino e telefoni in tilt per prenotare la vaccinazione. L’Azienda sanitaria ha ripetuto che non si tratta di un’epidemia, che non esisteva alcun allarme meningite C ma i titoli sui giornali, alcune dichiarazioni, e gli inviti costanti, ripetuti, ossessivi, alla vaccinazione non aiutarono a ”mantenere la calma”.


Furono mesi difficili, con enorme disorientamento dei genitori che arrivavano nel mio ambulatorio: qualche anno prima erano disposti a essere rassicurati sul rischio meningite, negli ultimi tempi si mostravano terrorizzati e determinati a vaccinare, mettendo da parte perplessità e desiderio di indicazioni oggettive.


La parola epidemia fu urlata su tutti i mezzi d’informazione. Questi, che pur amano usare spesso termini inglesi, non scrissero che si trattò di un outbreak, cioè che eravamo in presenza di un numero di casi di malattia superiore a quello che normalmente ci si aspetterebbe in quella comunità, in quell’area geografica in un determinato periodo di tempo. La definizione di epidemia dell’Organizzazione Mondiale della Sanità di malattia meningococcica si applica quando si verificano un numero > di 100 casi/100.000 abitanti/anno99. Questo avviene unicamente nei Paesi dell’Africa Sub-Sa-hariana che fanno parte della “African Meningitis Belt” che va dal Senegal all’Etiopia. Negli altri Paesi raramente si verifica un numero di casi tale da poter usare il termine di epidemia.

Per un pugno di copie

Nel 2015 in Toscana sono stati notificati 38 casi di meningococco di cui 31 appartenenti al sierogruppo C (è questa l’unica vera anomalia), 5 al sierogruppo B, 1 al sierogruppo W, 1 caso non risulta tipizzato, con 7 decessi di cui 6 riconducibili al sierogruppo C e 1 al sierogruppo B. I casi hanno riguardato in particolare le aree metropolitane di Firenze ed Empoli tra l’inverno e la primavera del 2015, per poi spostarsi verso le aree costiere (Pisa, Viareggio, Massa) nei mesi estivi e tornare nelle aree metropolitane in autunno. La zona geografica della valle dell’Arno è stata oggetto di speculazioni fantasiose sull’origine della “epidemia”, dimenticando che questa è la zona con maggiore densità abitativa della regione. L’assenza di casi nel senese non ha risparmiato l’epidemia (quella vera) mediatica; anche in quel territorio è stato proclamato un “Vaccino day-Meningite” il 27 febbraio 2016. I 31 casi di meningite da meningococco C su 3.750.511 abitanti indicano che l’incidenza è di 0,83 casi su 100.000 toscani, il che ha collocato la regione nel range più basso di diffusione della malattia, dopo Paesi come Belgio, Danimarca, Grecia, Irlanda, Islanda, Lituania, Lussemburgo, Malta, Olanda, Norvegia, Portogallo, Regno Unito, Spagna, Turchia, ma anche Austria Bulgaria, Croazia, Cipro, Repubblica Ceca, Estonia, Finlandia, Francia, Lettonia, Serbia, Slovacchia e Slovenia, dove abitualmente non si verificano fenomeni di panico da meningite. Non fummo esattamente davanti a “un gran numero” di casi: si parla in fondo dello 0,0008% circa dei residenti in Toscana. Questo non significa naturalmente che ogni malato, ogni deceduto non meriti tutta l’attenzione e il rispetto possibile. Dobbiamo sempre fare di tutto per difendere la salute e per curare e assistere al meglio chi ne ha bisogno. Ma statisticamente i casi non furono tali da giustificare i toni apocalittici di certa stampa, soprattutto locale: “Sembra indistruttibile, un’onda che avanza, travolge, si ritira ma senza mai smettere di rimanere in agguato: Il nemico alle porte. È tornata ancora una volta a colpire con il suo gorgo di spettri e paura la meningite100”. Paradossale fu il comunicato stampa dell’ASL 5 di Pisa che il 24 ottobre annunciò che un infermiere in servizio all’Ospedale di Cisanello (Pisa) ma residente a La Spezia era stato colpito da meningite da meningococco C. L’ANSA rilanciò la notizia: “il fatto che l’uomo sia un pendolare tra La Spezia e Pisa ha indotto la Usl pisana ad invitare a sottoporsi a profilassi i passeggeri che hanno usato, come lui, nei giorni scorsi il treno tra le due città. La profilassi è indicata solo per i contatti stretti, come posti contigui nello stesso mezzo pubblico. Ma vista l’impossibilità di risalire alla reale posizione del paziente all’interno del treno, si consiglia a tutti coloro che ne hanno fatto uso, indicandone giorni, orari e tratta, di sottoporsi a sorveglianza sanitaria. I treni indicati sono quelli della tratta Pisa-La Spezia del 15, 16 e 20 ottobre (regionale da La Spezia in partenza alle 12.15 ed il regionale da Pisa delle 21.36. Per i giorni 17 e 22 ottobre Intercity da La Spezia delle 19.23 e regionale da Pisa delle 7.36. Per il 21 ottobre il regionale da La Spezia delle 5.12 ed il Freccia Bianca da Pisa delle 14.47101”. Il giorno successivo la stessa Ansa smentì la notizia, ammettendo, che “non si tratta di un ulteriore caso di meningite bensì di una faringo-tonsillite dovuta ad un’infezione da meningococco di tipo C”.


Il 12 gennaio Radio Toscana, sul notiziario on-line titolò su un fantomatico caso di meningite a Cenaia, che fu smentito dallo stesso articolo che ne segue. Titolo: “Gli diagnosticano otite, diciassettenne muore per meningite.” Attacco del pezzo: “Un diciassettenne di origine marocchina è morto per leucemia fulminante”.


“È triste assistere a una stampa che, in tempi di crisi dell’editoria, piuttosto che puntare su un’informazione leale si aggrappa alle paure della gente, per un pugno di copie” fu il commento dell’editoriale di Secondacronaca del dicembre 2015.

L’epidemia mediatica

In quelli anni scrissi102: “Sulla meningite mi sentirei di dire che si è creato il caos informativo: si tratta di una vera e propria epidemia? No, siamo in presenza di una ‘epidemia mediatica’, in cui il patogeno, che si sta moltiplicando a dismisura, contagiando giornali e lettori, è semplicemente la notizia giornalistica affermano i ricercatori dell’Istituto Superiore di Sanità103. No, non è epidemia ribadisce il Ministero della Salute104, lo confermano gli appelli di alcune Associazioni di medici, che comunque aggiungono: ‘vaccinatevi, vaccinatevi, vaccinatevi’. La gente corre a farlo e le televisioni trasmettono immagini di cittadini in coda per ottenere l’agognata vaccinazione, tanto da costringere molte Regioni a ribadire che la corsa al vaccino è inutile, che la situazione è sotto controllo. Ma la paura vince sulla ragione. Rassicurare dopo aver lasciato montare l’allarme, con importanti dirigenti istituzionali che hanno alimentato la psicosi, è un atto tardivo e poco adeguato. Chiudere la stalla quando i buoi sono scappati è sempre una pratica infruttuosa. A fronte di tutto ciò vi sono i malati, i morti, ed il dolore delle famiglie. Cosa dobbiamo pensare? Quale linea tenere? Personalmente non mi discosto da quella che è sempre stata la mia linea-guida: per aiutare i genitori a scegliere è necessario fornire dati corretti e sicuri, tratti dalle fonti delle autorità sanitarie e pertanto attendibili, e che riguardino incidenza, prevalenza, caratteristiche epidemiologiche della malattia, sierotipi più comuni, efficacia dei vaccini, controindicazioni. È l’unico modo per riuscire a definire un rapporto rischi-benefici che può benissimo includere, oltre al rischio reale, anche quella cosa impalpabile e non quantificabile che è la percezione del rischio di ammalarsi conducendo così alla decisione di vaccinarsi, ma che è fondamentale poggi comunque sulla consapevolezza della distinzione tra rischio percepito e rischio oggettivo”.


L’obiettivo della Campagna straordinaria di vaccinazione lanciata dalla Regione, cioè ridurre il numero dei portatori e dei malati, non è stato raggiunto dal momento che il numero dei casi del 2016 è stato simile a quello del 2015. Invece è aumentato il numero di bambini e adulti che si sono ammalati nonostante fossero precedentemente vaccinati. Non ci sono ad oggi risposte certe sulle cause che hanno portato al fallimento di questa offerta straordinaria di vaccini, è difficile stabilire se dipenda dai livelli di copertura vaccinali non ideali in alcune fasce di età e gruppi di popolazione, o dalla scarsa efficacia della vaccinazione che ha un numero significativo di soggetti che non sviluppano immunità o che la perdono in tempi più rapidi del previsto. Così come risulta difficile capire perché l’incremento del numero di casi sia avvenuto proprio in una zona di una regione come la Toscana in cui il numero delle vaccinazioni era più alto di tante altre regioni. La Regione Toscana ha proposto questa vaccinazione già dal 2003 nei soggetti a rischio, dal 2005 venivano praticate 3 inoculazioni a 3-5-13 mesi e una dose ai bambini non vaccinati con meno di 6 anni. Dal 2008 si pratica 1 dose a 13-15 mesi con un richiamo a 12-14 anni, che sono diventate 3 con la recente offerta a 5-6 anni. Tutto ciò aveva fatto sperare che si fosse finalmente creata l’herd immunity, e anche la letteratura specializzata segnalava il raggiungimento di questo obiettivo. Il meningococco è un batterio che ha un indice di contagiosità basso rispetto ad altri agenti infettivi. Il tasso di riproduzione (R 0), che definisce il numero di soggetti che si ammala dopo il contatto con il caso primario è 1,36. Non è stato indicato con chiarezza l’obiettivo della campagna vaccinale straordinaria, ad esempio il valore della copertura vaccinale necessario per ottenere l’immunità di gregge, o se la vaccinazione offra solamente una protezione individuale, con i limiti dati dall’esistenza dei soggetti non-responder, e della durata della protezione.


Quanto scritto non ha lo scopo di istruire processi contro l’autorità sanitaria, che pure abdicò al proprio ruolo abbandonando l’informazione ai sensazionalismi della stampa, e neppure intende negare che la vaccinazione non possa o non debba essere usata per ridurre la trasmissione della meningite attraverso la diminuzione dei portatori sani, a condizione che si rivolga, per l’appunto, ai soggetti che hanno la più alta probabilità di essere portatori sani, e non indiscriminatamente a chiunque abbia facoltà, desiderio o propensione a subire una vaccinazione. Lasciare l’opinione pubblica in balia dei venditori di paura produce inevitabilmente due conseguenze, e sono queste per l’appunto che combattiamo. La prima conseguenza è che, avendo rafforzato la falsa convinzione dell’esistenza di un’epidemia, si indussero le persone ad agire come se l’epidemia esistesse davvero. Di conseguenza, anche senza alcun obbligo, si verificò la corsa in massa alle vaccinazioni. Nessuna meraviglia che la farmaco-vigilanza sulle possibili reazioni avverse del vaccino sia stata ampiamente trascurata dai medici in questi mesi di vaccinazione a tappe forzate. La cosa paradossale è che un comportamento simile ha creato più ostacoli a dei seri interventi di contrasto della patologia di quanto non abbia prodotto vantaggi misurabili. Infatti, l’indiscriminato ricorso ai vaccini, sull’onda della paura scatenata dalla stampa, ha determinato una rapida contrazione delle scorte proprio di quei vaccini che invece s’intendeva rendere sempre disponibili per le fasce di età (15-25 anni) che contengono il maggior numero di portatori sani e che sono il tramite più efficace della diffusione della meningite.


La seconda conseguenza fu che panico e mancanza di corretta informazione costituirono il terreno più favorevole per insediare stabilmente nell’opinione pubblica, e di rincalzo nella classe politica, l’idea che fosse indispensabile rendere obbligatoria una nuova inoculazione vaccinale. E naturalmente in un clima d’isteria collettiva, nessuno si assunse il compito di avvisare i genitori che questa ennesima vaccinazione servirebbe a riparare dal rischio di una malattia rara, in Italia ancora più rara che in altri Paesi, ma soprattutto di informarli in quale fascia di età l’immunizzazione potrebbe essere realmente utile. Non smetteremo di ripetere che è profondamente irrazionale, oltre che irrealistica, l’idea di vaccinare un bambino contro qualunque batterio o virus patogeno esistente al mondo indipendentemente dall’esame della probabilità di contrarre effettivamente la malattia. Sarebbe come far camminare un bambino tutta la vita in sedia a rotelle per evitargli il rischio di cadere mentre corre o cammina e prodursi una frattura. Un rischio, in quanto tale, va valutato per entità e frequenza. Senza tale valutazione il rischio, questo sì altissimo, è di passare da una politica sanitaria, dotata di una visione strategica e su dati epidemiologici reali, a una politica di marketing sanitario fondato sulle percezioni soggettive della gente, sulla volontà degli individui, ma non già su quella consapevole e informata, bensì sulla volontà artificialmente indotta da una stampa votata al sensazionalismo, o irresponsabile, o forse in altri casi collusa con chi disegna le grandi campagne di vendita dei prodotti farmaceutici. Solo la consapevolezza del divario tra un rischio improbabile e uno probabile è ciò che costituisce la razionalità del nostro agire e l’unico vero strumento di tutela della salute pubblica e individuale.

Con il mondo dell’invisibile

Il mondo dei batteri, dei virus e dei funghi è altrettanto ricco di varietà quanto l’universo umano: alcuni gruppi risultano utili alla vita, altri dannosissimi. Una volta garantito un contesto di vita che consenta al corpo umano di essere in buona salute, la lotta contro le varietà più dannose dei microrganismi avviene soprattutto per mezzo delle misure igieniche che limitino al massimo l’effetto negativo delle varietà nocive: lavarsi le mani, assicurare l’igiene del corpo, seguire una dieta sana e uno stile di vita che favorisca la salute dell’organismo. Quest’ultimo, d’altro canto, è esso stesso terreno di coltura di una varietà sterminata di microrganismi con i quali per la maggior parte della nostra vita conviviamo in perfetta simbiosi, anche se alcuni di essi potrebbero sempre approfittare di una debolezza momentanea o persistente del nostro corpo e passare da uno stato di larvata minaccia a uno di pericolo effettivo. Pneumococchi e meningococchi non sono affatto germi rari, lo abbiamo visto. Il motivo per cui da ospiti inoffensivi possano improvvisamente diventare responsabili di una infezione grave è sconosciuto. Anche se esistesse un vaccino per ognuno di tutti i microrganismi potenzialmente nocivi, sarebbe impensabile di vincere la corsa tra noi e loro: i meccanismi evolutivi che hanno permesso alla specie umana di sopravvivere funzionano anche per tutte le altre forme di vita.


Così, se tramite una vaccinazione di massa rinforziamo nella popolazione la capacità del sistema immunitario di eliminare un certo tipo di batteri appartenenti alla famiglia dello pneumococco, automaticamente altri membri della famiglia batterica svilupperanno nuove capacità di sopravvivenza e di aggressione dell’organismo umano. Se dovessimo riuscire a sterminare anche quelli, prima o poi da un lontano punto del pianeta un piccolo organismo percorrerà quanta strada occorre per giungere fino a noi e attaccare il nostro sistema immunitario che, tra l’altro, poco addestrato, o addestrato artificialmente per mezzo dei vaccini, a combattere i nemici di quel genere, sarebbe più facilmente preda dell’aggressore.


Mettersi su questa strada (l’estinzione di ogni singola patologia, per quanto caratterizzata da un’incidenza poco significativa) significherebbe inseguire un miraggio irrealizzabile per le caratteristiche stesse che la vita presenta su questo pianeta.

Non esiste la bacchetta magica

Ormai siamo abituati a credere che esista un ombrello che ci ripari da tutte le piogge. O, meglio, in molti vogliono farcelo credere. Dobbiamo pensare che in medicina ci sia un rimedio a tutto, a quasi tutto. Non siamo più disposti ad accettare l’esistenza delle malattie, e non vogliamo nemmeno essere sfiorati dall’idea che queste possano portarci a morire. Cerchiamo una coperta che ci ripari dal male, da ogni male, siano esse patologie rare, come le meningiti, contro cui ad oggi siamo arrivati a cinque tipi di vaccinazioni, o come la “pandemia influenzale”, o come le gastroenteriti da rotavirus, una malattia di ridottissima letalità nel nostro Paese. Non si può, non si deve rinunciare mai a proteggere la salute dei nostri figli attraverso le vaccinazioni, che – ci dicono – non sono mai responsabili di eventi avversi. Bisogna vaccinare per dimostrare per primi a noi stessi che ci prendiamo cura dei nostri bambini, siamo assaliti dal senso di colpa se non si segue la pratica raccomandata, se non si fa quello che fanno tutti, se non si obbedisce agli ordini del dottore. Il ricatto, l’auto-ricatto, è più forte della voglia di riflettere, delle perplessità. È troppo persuasivo il potere discreto degli interessi economici, delle montagne di soldi che circolano dietro alcune scelte vaccinali; o la benevola condiscendenza di amministratori locali che, non sapendo nulla di medicina, cavalcano i sentimenti irrazionali della paura e del catastrofismo per ottenere un consenso che in pochi sono disposti a concedere. Ci hanno abituati a credere che sia essenziale vaccinare, vaccinare, vaccinare senza preoccuparsi di altri aspetti certamente più importanti per la vita dei nostri ragazzi, come l’educazione a una convivenza civile, l’altruismo, il senso del dovere, l’autonomia, l’indipendenza, o anche un’alimentazione corretta, stili di vita adeguati, poca televisione e videogiochi, abitudini sane, consumo adeguato di frutta e verdura, evitare il sovrappeso e l’obesità. Si muore molto di più per incidenti stradali o per annegamento (l’ho ricordato prima) che per meningiti, ma questo non impedisce ai nostri amministratori di investire milioni di euro per acquistare vaccini piuttosto che per promuovere campagne realmente efficaci nel salvaguardare la salute e la vita.


Capisco quanto sia scomodo, quanto sia faticoso avere una cultura diversa, riflettere e adottare scelte non conformiste, paragonate alla semplicità di un’iniezione che mitigherà il senso di colpa se mai dovesse “succedere qualcosa”. Ma per tutelare davvero la salute dei nostri figli non ci sono scorciatoie, né bacchette magiche.

Vaccinazioni: alla ricerca del rischio minore - Seconda edizione
Vaccinazioni: alla ricerca del rischio minore - Seconda edizione
Eugenio Serravalle
Immunizzarsi dalla paura, scegliere in libertà.A seguito dell’introduzione dell’obbligatorietà vaccinale, l’autore cerca di fare chiarezza su tale questione, analizzando i dati con chiarezza e linearità. I vaccini sono tutti uguali?Qual è la durata?Quale l’efficienza?Cosa si intende per immunità di gregge?È la stessa per tutte le malattie?A seguito dell’introduzione dell’obbligatorietà vaccinale, il dottor Eugenio Serravalle cerca di fare chiarezza, accompagnando il lettore nel labirinto di dati e termini tecnici con linearità.Vaccinazioni: alla ricerca del rischio minore è una lettura indispensabile per imparare ad applicare il senso critico ad argomenti sui quali ci troviamo spesso indifesi, come l’informazione medico-sanitaria diffusa da stampa e televisione. Conosci l’autore Eugenio Serravalle è medico specialista in Pediatria Preventiva, Puericultura e Patologia Neonatale.Da anni è consulente e responsabile di progetti di educazione alimentare di scuole d’infanzia di Pisa e comuni limitrofi.Già membro della Commissione Provinciale Vaccini della Provincia Autonoma di Trento e relatore in convegni e conferenze sul tema delle vaccinazioni, della salute dei bambini e dell’alimentazione pediatrica in tutta Italia.