CAPITOLO IV

L'invenzione delle malattie

Cosa ostacola la libera espressione delle idee in campo medico

Inventare nuove malattie è l’altro espediente, accanto alla strategia del catastrofismo, per modificare il concetto di salute e promuovere la vendita di farmaci e vaccini. Prima di illustrare queste nuove strategie di marketing, vorrei chiarire in questi primi paragrafi una questione preliminare a cui mi sembra importante cercare di dare una risposta, che consiste per l’appunto nella domanda che dà il titolo a questo paragrafo.


Diceva uno scrittore famoso dell’800, Anatole France: “Ho trovato in alcuni sapienti il candore dei fanciulli, e si vedono ogni giorno degli ignoranti che si credono l’asse del mondo. […] L’umiltà, rara nei dotti, è ancor più rara negli ignoranti1.


L’umiltà è scarsa, o manca del tutto, quando chi ti contrasta non prova almeno una volta a riflettere seriamente sui tuoi dati e i tuoi argomenti, senza farne una questione di tifoseria, senza schieramenti di fede. L’umiltà è assente quando non si affronta una riflessione critica come si dovrebbe fare in qualsiasi dibattito scientifico, cioè senza recriminazioni e accuse, elementi che, al contrario, abbondano nelle discussioni su questi temi in una misura assolutamente sconosciuta ad altri ambiti riguardanti la salute e la sanità.


Per una regola di correttezza vorrei perciò cercare di comprendere quali fattori obiettivi possano indurre un qualunque medico a rifuggire da posizioni di analisi critica nei confronti di una qualunque terapia farmacologica sostenuta dal sistema sanitario pubblico, indipendentemente dall’uso personale (ossia dall’applicazione innanzi tutto a se stesso e ai propri familiari degli interventi medici consigliati ad altri), indipendentemente dalle sue osservazioni sul campo, indipendentemente dalle conclusioni cui egli possa essere pervenuto nel corso della pratica medica, specie se lunga. Sto parlando, naturalmente, di quella parte della categoria medica, ed è cospicua, che non riduce il proprio ruolo a quello di copiatori di ricette, ma tiene sempre accesa la consapevolezza critica quando si pone di fronte ai pazienti.


Indico, qui di seguito, una serie di ragioni che mi sembra possano spiegare perché sia così difficile discutere in modo criticamente aperto su alcuni aspetti delle politiche vaccinali, così come su quella, per tanti versi analoga, dell’uso dei farmaci.


In primo luogo vi è il peso della consuetudine storica. In tutti gli ambiti scientifici, il ruolo della consuetudine è indubbiamente benefico, in quanto impedisce di ripetere errori già commessi, o di scoprire l’acqua calda, cose entrambe che vanno evitate con cura, soprattutto in campo medico. Dall’altro lato, però, la consuetudine diviene un fattore negativo quando impedisce di ripensare il passato al fine di migliorare il presente.


I vaccini hanno occupato un ruolo importante nella medicina, ma hanno sempre goduto di uno status un po’ particolare. Da una parte erano considerati quasi dei non-farmaci, perché ritenuti totalmente innocui e privi di qualsiasi reazione avversa o effetto indesiderato. L’unico evento possibile era lo shock anafilattico, che però si presenta eccezionalmente (circa un caso ogni milione di dosi). Dall’altra parte, erano ritenuti l’unico strumento capace di ridurre le malattie infettive. Per anni ai medici è stato insegnato, sia durante gli studi universitari sia in seguito, che i vaccini non fanno mai male, solo bene. Anche oggi nei programmi degli esami di pediatria o della specializzazione si dà ampia enfasi alla loro efficacia e troppo poco spazio allo studio delle reazioni avverse.


La formazione universitaria tende per sua stessa natura a trasmettere nozioni già acquisite e consolidate nel tempo, e non all’esercizio dell’analisi critica di queste stesse nozioni, anche perché si rivolge a un pubblico di studenti ancora del tutto inesperti.


Sembrerebbe, invece, che la pratica della professione possa aprire un vasto spazio per l’esercizio del giudizio critico: l’osservazione diretta dei casi, il confronto tra teoria acquisita e attività sul campo, la raccolta di dati, osservazioni, la stesura di relazioni cliniche, attraverso le quali ripensare alle nozioni apprese valutandole alla luce dell’esperienza acquisita. Un ripensamento che non dovrebbe avvenire in solitudine, ma attraverso un comune scambio di idee con colleghi, centri ospedalieri, operatori e informatori sanitari.


Invece, anche durante la vita professionale, un medico si trova ad essere più cinghia di trasmissione di idee precedentemente acquisite (e sempre più obsolete a mano a mano che si allontanano gli anni della formazione specialistica) o di precetti diramati dai centri direttivi del sistema sanitario e che ben difficilmente possono essere messi in discussione.


Il pediatra di famiglia e il medico di base, infatti, hanno un carico di lavoro importante, sono oberati da richieste di prestazioni di ogni genere da parte degli assistiti, che sono sempre più utenti e meno pazienti, e da parte della burocrazia medica, sicché hanno poco tempo per aggiornarsi o informarsi su tutti gli argomenti. Ho incontrato genitori con conoscenze sui vaccini superiori a quelle di molti miei colleghi. L’aggiornamento di molti medici avviene essenzialmente solo attraverso i dati forniti dagli informatori farmaceutici (cioè i rappresentanti dell’Industria Farmaceutica) e dal materiale scientifico che essi rilasciano o regalano attraverso incontri, seminari o convegni sponsorizzati e organizzati, direttamente o indirettamente, dalle ditte farmaceutiche che giocoforza possono solo presentare gli effetti positivi dei vaccini e dei farmaci in genere.


Per tutto questo insieme di motivi il medico è, di solito, abbastanza arroccato sulle sue idee e ha enormi difficoltà a cambiarle, non ultimo perché queste sue vecchie certezze gli danno sicurezza e modificarle richiede un significativo investimento del proprio tempo. Un investimento scarsamente ripagato in termini monetari, e neppure in termini di prestigio personale, in quanto implica avventurarsi nei difficili e incerti sentieri che si aprono fuori dai domini della Chiesa medica ufficiale, e alle volte comporta anche una capacità di resistenza alle aspettative del malato, alla sua delusione di non vedersi prescrivere alcuna medicina, pur sentendosi male (“Ma come, il dottore non ti ha dato niente da prendere?”), e di resistenza soprattutto al rischio sottile e strisciante di trovarti di fronte proprio al caso il cui decorso peggiora improvvisamente e la famiglia ti accusa di non aver prescritto a tempo debito l’antibiotico. I recenti dati sull’uso e sull’abuso di antibiotici sono indicativi di come i condizionamenti ambientali possano influire sulle scelte professionali dei medici, inducendoli ad allontanarsi da quanto la loro esperienza e la loro competenza suggerirebbero.

Chi scrive non ha mai aderito a quelle dottrine naturaliste estreme che pretenderebbero di curare le persone senza l’uso di farmaci. Ho sempre considerato questi ultimi dei preziosi alleati nello svolgimento della mia professione. Non saprei curare senza antibiotici una broncopolmonite, un’infezione urinaria in un neonato, un doloroso ascesso dentario. Usando gli antibiotici la prognosi delle meningiti, delle endocarditi, delle sepsi generalizzate migliora decisamente. Permette una guarigione senza esiti. Sono farmaci salvavita di cui non ha senso pensare che se ne possa fare a meno. Costituiscono un presidio efficace e prezioso nelle infezioni batteriche, ma sono inutili nelle patologie causate da virus, le più frequenti tra i bimbi. Non servono in caso di raffreddore, febbri di tipo influenzale, bronchioliti, e nella maggior parte delle otiti e delle tonsilliti, comprese quelle associate a febbre molto alta, con dolore alla deglutizione e ingrossamento delle linfoghiandole del collo. Non bisogna assumerli solo perché la febbre dura più di tre giorni. Non ha senso assumerli sempre in caso di febbre e dolore all’orecchio: gli antibiotici non curano l’infezione, non riducono i sintomi, non abbreviano il decorso, non servono a far star meglio il bambino, e non sono utili a prevenire le complicanze. Sono inutili anche per calmare la tosse e non possono prevenire le complicanze broncopolmonari. Quando si assume un farmaco inutile, si corre il rischio degli effetti collaterali e delle reazioni avverse (la somministrazione precoce di antibiotici è associata a un aumentato rischio di asma e allergie nell’infanzia), e di alimentare il fenomeno della cosiddetta “resistenza” batterica. Proprio per l’impiego massivo e sconsiderato degli antibiotici, i batteri “imparano” a difendersi da questi utilizzando la strategia evolutiva propria delle specie viventi che li mette in grado di trovare vie di fuga dalla loro azione.


Tale fenomeno ha di recente allertato le istituzioni internazionali e nazionali (OMS, ECDC, Agenzia Italiana del Farmaco, con la collaborazione dell’Istituto Superiore di Sanità) e il Ministero della Salute ha realizzato la terza edizione di una campagna di informazione al fine di raccomandare l’uso degli antibiotici solo quando strettamente necessario, solo dietro prescrizione medica, e infine senza abbreviare i giorni di trattamento rispetto a quanto indicato dal medico.


La campagna ministeriale è importante, ma ad essere franchi non mi convince l’utilizzatore cui si rivolge. È vero che l’automedicazione spinge molte persone ad acquistare e ad assumere in autonomia questi farmaci, ma non nascondiamoci dietro a un dito: per ottenerli occorre la ricetta. Perciò sono i medici che li prescrivono, nella consapevolezza che non saranno utili, che non serviranno nella patologia virale… ma che servono a difendersi. Da cosa? Dalle critiche, dalle complicanze, e dal carico di lavoro.


E veniamo ad un altro punto essenziale per comprendere la tendenza di certe pratiche mediche a fossilizzarsi, o a modificarsi non grazie ai contributi e all’esperienza dei medici stessi, ma solo attraverso direttive emanate dall’alto: se un medico resta all’interno dell’opinione dominante non commette mai errore, anche se il paziente dovesse ricavarne un danno o addirittura morire, perché è salvaguardato dalle linee guida del Ministero della Salute; mentre il medico che cerca di scegliere un trattamento personalizzato per il suo paziente e che quindi può discostarsi dalla condotta generale non condividendola in qualche punto, lo fa a suo rischio e pericolo assumendosi tutte le responsabilità del caso. È logico che questo induca i medici a chiedersi: “Chi me lo fa fare di andare controcorrente?” “Cosa ci guadagno?”.


La necessità di proteggersi, pertanto, suggerisce una linea di condotta acritica nei confronti delle linee guida ministeriali.


Ed ecco il centro del problema: chi stabilisce le linee guida del Ministero, o chi ha il potere di influenzarle? L’opinione medica prevalente e accreditata dalle riviste scientifiche e dagli organismi internazionali come l’OMS, si dirà. E la risposta è di per sé corretta, a patto di precisare alcuni dati che le diano il giusto significato.


L’Industria Farmaceutica gestisce circa l’85% della ricerca medica mondiale e, ovviamente, la gestisce per il suo esclusivo profitto economico, per esempio finanziando studi sperimentali e clinici che possano in qualche modo dimostrare che i vaccini sono utili e innocui.


L’Industria Farmaceutica paga molte riviste mediche specializzate per pubblicare questi studi che vengono poi diffusi ai medici e ai mass media. Come conseguenza, le ditte produttrici di farmaci hanno in mano la quasi totalità dell’informazione sanitaria mondiale.


Per tutte queste ragioni ho appoggiato sul piano della scrivania la mia penna, e ricordando la domanda che si ponevano i cinesi nelle loro autocritiche: “A chi serve il mio lavoro, il mio operato? A chi deve servire?” mi sono chiesto: “Chi sei, perché fai questo lavoro?”. Ho evitato le risposte autoreferenziali che si rifanno al ruolo professionale (perché è proprio questo che va spiegato), quelle che si rifanno a una dichiarazione di volontarismo umanitario e assistenziale, e il forbito discorsetto psicologico o psicoanalitico sulle proprie motivazioni inconsce, di cui nessuno sa cosa farsene2.


Vi sono poi altri tre motivi, ma questi hanno a che fare con ragioni di ordine generale, ossia di carattere economico e politico-organizzativo dei nostri sistemi sanitari. Essi sono: la tendenza, molto forte negli ultimi decenni, al desease mongering, i conflitti di interesse nella ricerca scientifica e nelle pubblicazioni scientifiche, e infine gli interessi puri e semplici. Di essi discuterò nei prossimi paragrafi.

Desease mongering

Disease mongering significa letteralmente “mercificazione, commercializzazione della malattia”.


Il termine indica la “messa in vendita di disturbi che allargano la linea di confine tra malattia e salute, allo scopo di ampliare il mercato per coloro che vendono o comunque distribuiscono il relativo trattamento”. È l’espressione estrema e più odiosa del marketing perché non è più sola promozione del farmaco, ma della malattia stessa. Nel 1992 Lynn Payer in Disease mongers: how doctors, drug companies, and insurers are making you feel sick3 denunciò come venisse aumentata la richiesta di servizi, prestazioni, prodotti, attraverso la dilatazione dei criteri diagnostici di alcune malattie. In particolare, mediante tre meccanismi: trasformare banali e comuni disturbi in problemi medici significativi, farli apparire come pericolosi, proporre terapie delle quali si esaltano i benefici e si sottostimano i rischi.

Come rendere malati degli individui sani

Vendere malattie e vendere salute4 è diventata un’esigenza di mercato. Nel 1976 Henry Gadsen, direttore del produttore farmaceutico Merck, dichiarò alla rivista “Fortune”: “Il nostro sogno è produrre farmaci per le persone sane. Ci permetterebbe di vendere a chiunque”. Oggi c’è una pillola per ogni malattia e una malattia per ogni pillola. E quando la malattia non c’è, s’inventa: gli esempi sono numerosi. Le piccole difficoltà della vita di tutti i giorni sono diventate patologie gravi, e così la timidezza diventa un “disturbo di ansietà sociale” e la tensione premestruale una malattia mentale definita “disturbo disforico premestruale”. Si può trasformare uno stato di salute poco conosciuto in una patologia frequente, si può imporre un nuovo nome a una malattia già nota (ma un po’ “fuori moda”), si può creare dal nulla una nuova disfunzione e un nuovo mercato.


“La disfunzione erettile, la disfunzione sessuale femminile, il disturbo del deficit di attenzione nei bambini e negli adulti, la menopausa maschile, l’insonnia da turno di notte, la fobia nei confronti degli altri, il jet lag, la dipendenza da internet, la dipendenza da videogiochi, la sindrome dello shopping conpulsivo, la malattia delle gambe irrequiete, la sindrome della vescica iperattiva, la fibromialgia, il disturbo da difetto motivazionale…5. La fantasia degli inventori di malattie è irrefrenabile.


“La medicina ha fatto così tanti progressi che ormai più nessuno è sano” (Aldous Huxley).

Bambini sani, anzi malati

In pediatria, per creare una malattia a volte si è fatto a meno di pubblicazioni scientifiche e della stessa dimostrazione dell’utilità di un certo intervento, o della nocività del non intervento: milioni di bambini hanno portato (e portano?) scarpette ortopediche per il problema del piede lasso, che potrebbe diventare piatto (ma non lo diventerà mai). Ogni episodio di rigurgito, di dolore, o di asma del lattante sono diventati segni clinici di reflusso gastroesofageo: negli ultimi quindici anni, diagnosi (ecografie, phmetrie) e trattamenti farmacologici sono diventati una routine6.


Spesso gli psichiatri hanno usato, e usano ancora, termini diagnostici per stigmatizzare e classificare i comportamenti delle persone, includendo così (consapevolmente o no) un numero crescente di individui tra coloro che sono bisognosi di cure psicoterapiche. Francamente, osservo con perplessità, e con crescente disagio, l’aumento di sindromi comportamentali e dell’apprendimento definite negli ultimi decenni relativamente a bambini e adolescenti, dai DSA (Disturbi Specifici dell’Apprendimento) ai DNSA (Disturbi Non Specifici dell’Apprendimento), agli ADHD (Attention Deficit and Hyperactivity Disorder). Questi ultimi, particolarmente, sono molto spesso riconducibili a scostamenti e variabilità che la natura umana largamente prevede in campi quali la capacità di applicarsi allo studio di nozioni astratte, la capacità di empatia o meno con i coetanei, la tendenza all’irrequietezza o all’iperattivismo, i tipi diversi di intelligenza che caratterizzano l’essere umano. Tali sintomi non vanno sottovalutati quando siano riflesso di un disagio del bambino o dell’adolescente derivante dall’ambiente familiare, di vita, o di studio; risulta rischioso invece, in assenza di tali problemi, ricondurre all’interno di classificazioni mediche quanto invece rientra nella naturale diversità e varietà della persona. Il rischio è duplice. Da un lato vi è quello di introdurre nuove teorie lombrosiane, anche se un po’ più sofisticate: se Lombroso ricavava la personalità di un individuo dalla conformazione delle ossa craniche e facciali, la letteratura sui disturbi dell’apprendimento ne attribuisce la causa alla grandezza o allo spessore delle parti cerebrali (il volume del cervelletto, del globo pallido del cervello, lo spessore della corteccia prefrontale destra, ecc.). Dall’altro, si individua come patologia ciò che non lo è. Leggo che “i sintomi dell’ADHD sono riscontrabili […] quando [il bambino] deve seguire lunghe lezioni degli insegnanti, deve svolgere attività ripetitive e poco divertenti, deve leggere lunghi racconti” e che “i sintomi sono invece meno evidenti quando il bambino sta affrontando una situazione interessante e gratificante”; leggo che ai genitori viene consigliato, oltre che il ricorso loro stessi a sedute psicoterapeutiche, anche di “organizzare il più possibile le diverse attività che il bambino deve svolgere durante la giornata specificando sempre gli orari di inizio e di fine delle stesse”, di aiutare il figlio piccolo “a pianificare lo studio scritto e orale dei giorni successivi”, di “controllare periodicamente che il bambino non abbia perso il materiale scolastico”, e a “controllare il diario per capire se gli insegnanti hanno delle comunicazioni da dare di cui il bambino, a causa della sua distrazione, si dimentica di riferire”, aiutandolo “a tenere in ordine la propria scrivania”7. Cito solo alcuni della lista inesauribile di comportamenti che fungerebbero da spia di un ADHD, e alzi la mano chi ne è stato immune nella sua infanzia (e nell’età adulta), o chi non ha avuto figli distratti e disordinati.


Negli Stati Uniti 14 milioni di bambini sono stati sottoposti a terapia con psicofarmaci per il controllo delle più svariate sindromi del comportamento, dal miglioramento del rendimento scolastico, al controllo dell’iperattività sui banchi di scuola, alle lievi depressioni adolescenziali. In Germania, nel 2013, i bambini diagnosticati iperattivi e destinati a terapie farmacologiche sono 750.000. In Francia il dodici per cento dei bimbi inizia la scuola elementare avendo già assunto una pastiglia di psicofarmaco. In Italia, le stime del progetto “Prisma” prevedevano quasi 1 milione di bambini probabili “malati di mente” e potenziali destinatari di terapie a base di psicofarmaci nel tentativo di sedare i loro disagi. È evidente che esistono bambini iperattivi, ingestibili, difficili, a volte pericolosi per se stessi e per altri, cronicamente distratti e incapaci di apprendere che necessitano di cure, ma gli inventori delle malattie sono capaci di trasformare i farmaci utili per pochi e selezionati casi in medicinali che milioni di bambini dovrebbero assumere, magari per tutta la vita.

Dire che un bambino è mentalmente malato è una stigmatizzazione, più che una diagnosi. Se un bambino è malato ci sono dei segni oggettivi, rivelabili con test diagnostici, esami clinici. Per questo esistono le radiografie, le TAC, le risonanze magnetiche, gli esami del sangue. Niente di tutto questo si riscontra per la diagnosi di ADHD: non è ben chiaro come scoprirla, visto che non ci sono esami che la possono misurare. L’unica via da percorrere è andare per ipotesi e per accertarne la presenza si ricorre ai manuali di psicodiagnosi che riportano un elenco di sintomi la cui presenza rivelerebbe l’ADHD. Non a caso Emilia Costa, Professore Emerito di Psichiatria della Sapienza di Roma ha dichiarato: “Parlando di disturbi del comportamento, ed in particolare di sindromi quali ad esempio il deficit di attenzione e iperattività (ADHD), siamo più che altro di fronte ad una “moda” ed a diagnosi inconsistenti e vaghe. Queste diagnosi, così come vengono oggi semplicisticamente perfezionate, non si possono e non si devono fare”. William Carey, Professore di Pediatria Clinica dell’Università della Pennsylvania e primario del reparto di Pediatria Comportamentale dell’Ospedale di Philadelphia: “…i questionari che vengono utilizzati per diagnosticare questi disagi dell’infanzia sono altamente soggettivi ed impressionistici. Le differenze d’esperienza, tolleranza e di stato emotivo dell’intervistatore e del bambino intervistato non vengono tenute in alcun conto, e nonostante questa vaghezza, e nonostante il fatto che le scale di valutazione utilizzate non soddisfino i criteri psicometrici di base, i sostenitori di questo approccio pretendono che questi questionari forniscano una diagnosi accurata, ma così non è, e non sarà la sola istituzione di un Registro per il monitoraggio delle somministrazioni che risolverà la questione”. Massimo Di Giannantonio, Ordinario di Psichiatria all’Università di Chieti, dice “…si fa presto a dire ADHD. E ancora, è proprio vero che tutti i bambini sono interessati dalla sindrome ADHD? E, aggiungo: esiste la sindrome da ADHD così come viene descritta? E come vengono eseguite queste diagnosi, con quali criteri, con quali percorsi? Fino a quando non si troverà un punto di incontro nella risposta a questi interrogativi ai bambini verranno somministrati sempre più psicofarmaci nascondendosi dietro l’alibi di una diagnosi. Un bambino trattato con psicofarmaci sarà probabilmente un adulto medicalizzato, disturbato, stravolto”.


Dare a un bambino uno psicofarmaco a sproposito è avvelenarlo, non curarlo. È una “camicia di forza” chimica. Le molecole in uso per l’iperattività – come quelle per la depressione infantile, peraltro – non curano nulla, non sono terapia, sono esclusivamente sintomatici. I loro rischi sono sproporzionati rispetto ai benefici: anche la rivista dell’Accademia Americana di Psichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza8, dopo una ricerca durata ben 6 anni, sostiene che i benefici dei farmaci utilizzati per contrastare la sindrome di deficit dell’attenzione e iperattività non abbiano alcun effetto di lungo periodo.


Le operazioni di disease mongering, di manipolazione dei protocolli, di mancata pubblicazione di ricerche scientifiche con esito negativo, sono alcune delle tecniche di marketing delle multinazionali del farmaco. Sono le medesime utilizzate per indurre il consumo di telefonini, tablet, lettori musicali, gadget vari; anzi il bambino diventa sempre più facilmente “soggetto diretto di marketing”, il tutto in nome di un malinteso senso della necessità di “prevenzione anticipata del disagio”. Classificare questi bambini come patologicamente malati è una forzatura utile solo a noi adulti. Una vera e propria spinta verso l’appiattimento, verso la normalizzazione del comportamento: ciò che fino a ieri era normale, magari un po’ fastidioso o difficile da gestire, oggi è patologico e comunque socialmente inaccettabile9.

I fattori di rischio e il concetto di normalità in medicina

Per ampliare il numero delle malattie, si sono trasformati i fattori di rischio, relativi allo sviluppo di una determinata malattia, in patologie vere e proprie. Nel 2006 è stato condotto uno studio controllato randomizzato su soggetti “pre-ipertesi”, cioè paradossalmente a rischio di diventare a rischio. Infatti l’ipertensione non è una malattia, come si vuol far credere, ma un fattore di rischio della malattia cardio-vascolare, che può causare infarto e ictus. Anche se non ufficialmente ipertesi, questi soggetti vennero trattati con un antipertensivo (candesartan), dimostrando che, in uno su dieci, il farmaco ritardava l’evoluzione a valori pressori più elevati10. Esiste anche l’osteopenia, o pre-osteoporosi: le donne già in menopausa che hanno una densità minerale ossea ridotta e sono a rischio di diventare a rischio. Anche l’osteoporosi è solo un fattore di rischio: chi ne è affetto può andare più facilmente incontro a fratture ossee. È questa la patologia vera, ed è inutile una terapia prima che si oltrepassi la soglia del rischio effettivo. Analogo ragionamento può valere anche per la colesterolemia, la glicemia, per i quali basta abbassare la soglia di normalità e ci si può all’improvviso ritrovare nella schiera dei malati, bisognosi di farmaci. Oggi è di gran moda il diabete gravidico, cioè l’aumento della glicemia nelle donne gravide. Una revisione della definizione effettuata nel 2010 da una commissione internazionale ha abbassato i valori per la diagnosi provocando più che un raddoppio delle donne classificate in questa condizione: quasi il 20% di tutte le gravide. Il rapporto della commissione sostiene che la definizione allargata ridurrà i problemi di salute, compresa la nascita di bambini “grandi per l’età gestazionale”, ma ammette che alcune raccomandazioni sono basate su opinioni perché non sono ancora disponibili buone evidenze e che la loro nuova definizione allargata “aumenterà in modo sostanziale la frequenza di disordini iperglicemici in gravidanza”. Insomma, si sta costruendo un altro caso di ipermedicalizzazione con il rischio che milioni di donne vengano etichettate inutilmente e si sprechino grandi risorse11.


Non esiste un valore normale di molti parametri biologici. Per convenzione si considerano nella norma i valori entro due deviazioni standard dalla media, che comprendono cioè circa il 95% della popolazione. Oltre questo limite si è non normali, non sani, in poche parole, se non malati, comunque ad alto rischio di diventarlo. Ogni misurazione di un parametro biologico rende automaticamente malato il 5% della popolazione. Sottoponendoci a tanti esami diagnostici sarà quindi probabile imbatterci in un valore che si discosta dalla media: è un dato matematico. Bastano una trentina di esami ematochimici e magari una TAC total body che, con un paio di asterischi e una anomalia descrittiva, ci ritroviamo malati12. Le definizioni di malattia sono oggi così ampie che quasi tutta la popolazione più anziana è affetta da almeno una malattia cronica. Allargare così i limiti per definire una persona malata e abbassare di pari passo le soglie per i valori di normalità finisce per esporre persone con problemi lievi o rischi modesti ai danni e ai costi di trattamenti di poco o nessun beneficio. Molti membri delle commissioni che deliberano sulla normalità dei valori biologici hanno legami finanziari diretti con le ditte che traggono benefici dalle nuove formulazioni di detti criteri. Dei dodici membri della commissione che ha creato la “pre-ipertensione” nel 2003, undici ricevevano denaro dalle società farmaceutiche, e sei hanno dichiarato ampi legami con più di dieci ditte a testa. La pre-ipertensione farebbe classificare come malati quasi il 60% della popolazione adulta degli USA. Anche undici dei dodici autori del documento del 2009 sul diabete di tipo due avevano pesanti conflitti d’interesse. Erano impiegati come consulenti, relatori o ricercatori, ciascuno per una media di nove società farmaceutiche. Questa commissione ha deliberato l’abbassamento dei limiti di normalità della glicemia. Su altre patologie, come la disfunzione sessuale, i conflitti d’interesse hanno raggiunto livelli grotteschi: i dipendenti di un’azienda farmaceutica hanno progettato, insieme a consulenti pagati, gli strumenti diagnostici per identificare, e poi medicalizzare, milioni di donne con un disturbo di “basso desiderio sessuale”; disturbo che neppure esiste. Il 56% dei membri della commissione che ha prodotto la quarta edizione del Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (DSM, Manuale di diagnostica e statistica delle malattie mentali) aveva legami economici con le industrie farmaceutiche, e per alcune sottocommissioni – come quelle sui disturbi dell’umore – la percentuale saliva al 100%13.


La scienza si fonda sull’obiettività della conoscenza. Le strategie di marketing delle ditte farmaceutiche hanno un altro presupposto: “Una persona sana è un malato che non sa di esserlo”14.

Conflitti di interesse

“I dati parlano da soli”, recita un luogo comune. In realtà i dati non parlano mai da soli. Li facciamo sempre parlare noi, non fosse altro che per il loro bisogno di essere interpretati, spiegati e contestualizzati. Ancora prima di queste tre operazioni bisogna scegliere i dati da analizzare, ossia stabilire quali siano da prendere in considerazione, e quali no.


Date queste premesse, risulta allora significativo ricordare quanto di recente emerso da un’analisi del Centro Cochrane15: da una revisione sistematica di 48 studi che confrontavano, con placebo, farmaci e dispositivi medici o altri trattamenti di una vasta gamma di malattie, da quelle cardiovascolari a quelle psichiatriche, è stato osservato come gli studi sponsorizzati dall’industria farmaceutica riportino maggiori benefici e minori effetti collaterali rispetto agli studi non sponsorizzati. “I nostri risultati suggeriscono che gli studi su farmaci e dispositivi medici finanziati dall’industria sono più spesso favorevoli ai prodotti dello sponsor”, ha dichiarato Andreas Lundh, ricercatore del Nordic Cochrane Centre, Righospitalet, a Copenhagen. “Questi risultati supportano gli appelli della comunità scientifica verso una maggiore trasparenza su come vengono condotti gli studi clinici, un migliore accesso alle informazioni e ai dati grezzi”. Lisa Bero, docente presso il Dipartimento di Farmacia Clinica e dell’Istituto for Health Policy Studies dell’Università della California, è tra gli autori della revisione e ha sottolineato la necessità che lo sponsor sia riportato sia negli studi originali pubblicati, sia quando tali studi sono citati in altri studi o documenti, ma soprattutto ha auspicato lo sviluppo di “metodi migliori per riportare, valutare, e gestire il bias (parzialità) da sponsor industriale nelle revisioni sistematiche che valutano gli effetti dei farmaci e dei dispositivi medici”.


Del resto, ben prima dell’indagine della Cochrane era noto che il 34% dei principali autori di articoli in giornali scientifici sono compromessi con i loro fornitori di finanziamenti, che solo il 16% delle riviste scientifiche ha una linea di condotta sui conflitti di interessi e solo lo 0,5% degli articoli pubblicati è di autori che abbiano svelato tali conflitti; ricercatori e scienziati firmano con il loro nome articoli che non hanno scritto, ma che sono stati redatti dal personale delle aziende; l’87% degli scienziati che scrivono linee guida cliniche hanno legami finanziari con aziende farmaceutiche16.

Ogni anno vengono pubblicati più di 2 milioni di articoli sulle 25.000 riviste scientifiche mondiali. Una grande percentuale (tra il 50 e il 70%) delle ricerche non viene però resa nota: sono i dati negativi o poco favorevoli all’industria. Viene operata così una “selezione dei dati”. Nel 2003, confrontando i risultati di numerosi studi finanziati dall’industria farmaceutica con quelli di altri studi finanziati da altre fonti, si è scoperto che il primo gruppo aveva quattro volte più probabilità di riportare risultati favorevoli alla ditta rispetto agli studi indipendenti17. Si ritiene legittimo che l’industria farmaceutica possa valutare da sé i propri prodotti e occultare una gran parte dei risultati ottenuti. Gli enti regolatori che approvano la commercializzazione dei farmaci, gli organismi che ne raccomandano l’utilizzo e i governi che ne dispongono l’acquisto non pretendono, prima di assumere qualsiasi decisione, di conoscere tutti i risultati ottenuti nelle fasi di sperimentazione clinica con la conseguenza che il diritto alla salute e alla cura soccombe davanti alle logiche del profitto, nell’intreccio fra industria, politica e comunità scientifica. Scrive Cristiano Alcino:


Nel corso degli ultimi decenni non ci siamo limitati a tollerare un sistema in cui «l’industria del farmaco occulta dati, inganna i medici e danneggia i pazienti», ma abbiamo completamente delegato ad essa la ricerca in ambito farmacologico, lasciando non solo che fosse ‘proprietaria’ dei risultati e ne potesse disporre in totale libertà, ma che si appropriasse delle priorità della ricerca e dei suoi metodi. Abbiamo assistito all’indebolimento degli Enti regolatori, la cui opera di controllo è prevalentemente pagata con i soldi di coloro che dovrebbero essere controllati. Molte carriere accademiche sono state costruite su un’organizzazione della ricerca e dell’università largamente basata sui fondi dell’industria privata: il ricercatore contribuisce in maniera sempre più limitata alla definizione degli obiettivi della ricerca, dei metodi con cui sarà condotta e non ne analizza i dati ottenuti perché non ne è il proprietario e, tuttavia, ne diffonde i risultati attraverso una o più pubblicazioni scientifiche, come premio della sua totale complicità con tale sistema. I governi assistono impotentemente al consolidarsi di queste prassi o, addirittura, le favoriscono esplicitamente con politiche di riduzione dei fondi pubblici alla ricerca e leggi costruite a beneficio delle grandi multinazionali del farmaco piuttosto che a tutela della collettività.18


È evidente che le compagnie farmaceutiche stanno raggiungendo i risultati che vogliono e questo è particolarmente inquietante perché il 65-75% delle sperimentazioni pubblicate sulle riviste specialistiche sono finanziate dall’industria farmaceutica.19


Non si tratta naturalmente di negare la validità della medicina moderna. I medicinali che si utilizzano durante e dopo un intervento chirurgico, quelli che consentono di respirare nonostante una crisi asmatica e quelli che correggono i deficit ormonali, come il diabete, tanto per citare alcuni esempi, sono strumenti indispensabili per assicurarci la vita. Quello che è in discussione è la capacità degli interessi economici dell’industria di determinare le politiche sanitarie, la necessità di una trasparenza che i governi non sono in grado di esigere, il conflitto di interessi che coinvolge operatori sanitari, classi politiche e associazioni degli utenti, facile preda dei finanziamenti industriali20.


Questa medicina che investe più nel marketing che nella ricerca, e che


corre veloce e non è più in grado di valutare con onestà i propri successi e insuccessi; che sa quale sia la cura per un gruppo di soggetti, ma non per quel singolo individuo che deve essere curato; che utilizza strumenti diagnostici e terapeutici senza una completa conoscenza dei rischi e dei benefici… sta perdendo di vista il significato della peculiarità dell’incontro tra un medico e un paziente.21

Vaccinazioni: alla ricerca del rischio minore - 2ª edizione
Vaccinazioni: alla ricerca del rischio minore - 2ª edizione
Eugenio Serravalle
Immunizzarsi dalla paura, scegliere in libertà.A seguito dell’introduzione dell’obbligatorietà vaccinale, l’autore cerca di fare chiarezza su tale questione, analizzando i dati con chiarezza e linearità. I vaccini sono tutti uguali?Qual è la durata?Quale l’efficienza?Cosa si intende per immunità di gregge?È la stessa per tutte le malattie?A seguito dell’introduzione dell’obbligatorietà vaccinale, il dottor Eugenio Serravalle cerca di fare chiarezza, accompagnando il lettore nel labirinto di dati e termini tecnici con linearità.Vaccinazioni: alla ricerca del rischio minore è una lettura indispensabile per imparare ad applicare il senso critico ad argomenti sui quali ci troviamo spesso indifesi, come l’informazione medico-sanitaria diffusa da stampa e televisione. Conosci l’autore Eugenio Serravalle è medico specialista in Pediatria Preventiva, Puericultura e Patologia Neonatale.Da anni è consulente e responsabile di progetti di educazione alimentare di scuole d’infanzia di Pisa e comuni limitrofi.Già membro della Commissione Provinciale Vaccini della Provincia Autonoma di Trento e relatore in convegni e conferenze sul tema delle vaccinazioni, della salute dei bambini e dell’alimentazione pediatrica in tutta Italia.