CAPITOLO VII

A servizio della scuola per una scuola di servizio:
il maestro Mario Lodi

E al maestro di oggi cosa suggerirebbe? “Possedere un cuore, che è un motore potente. E poi attaccarsi al bambino, seguirlo con dedizione, riuscire a scrutarne i talenti nascosti. Senza mai dimenticare che il compito della scuola è trasformare un gregge passivo in un popolo di cittadini pensanti.
Mario Lodi, intervistato da Simonetta Fiori

Quando lo scorso mese di marzo è circolata la notizia della morte di Mario Lodi due pensieri mi hanno subito attraversato la mente: il primo è stato quello di trovarmi incredula davanti alla scomparsa di una figura che da sempre stava sullo sfondo del mio orizzonte, in modo discreto ma costante: era consueto venire in contatto con i suoi articoli sulle riviste di settore, le iniziative per una scuola attenta ad alcuni aspetti educativi (l’uso consapevole della televisione, la conoscenza dei diritti e della costituzione, l’educazione alla pace, per citare tre tematiche a lui molto care), gli interventi in qualche convegno, le pubblicazioni… insomma uno di quei pezzi del tuo panorama che pensi siano lì da sempre e per sempre.


L’altro pensiero, in ovvia sequenza, è stata la consapevolezza di un incontro mancato: da anni rimandavo a momenti migliori la visita alla sua “Casa delle Arti e del Gioco” e in questo scorrere spesso eccessivamente rapido del tempo, quello scambio che avevo messo in cantiere tra i buoni propositi non è mai arrivato.


Ritorno allora oggi con queste pagine ai suoi scritti, ai documenti video delle teche Rai, alle testimonianze di chi ha avuto l’occasione di fare con lui qualche esperienza, perché nel panorama di chi ha vissuto una vita intera spendendosi per una scuola “altra” il nome di Mario Lodi non può mancare. E difatti le esperienze attuali di scuole alternative al sistema scolastico tradizionale (le scuole libertarie, le pratiche di istruzione familiare) usano spesso le sue parole e le sue indicazioni come faro.


Mario Lodi è stato tuttavia prima di tutto un maestro della scuola pubblica, capace di dedicare a questa istituzione tutte le sue competenze e risorse per decenni, riflettendo molto criticamente su ciò che in essa, ora come allora, non corrisponde a una qualità di azione educativa autentica, ma senza mai abbandonare il campo. Fino all’ultimo momento ha avuto a cuore, con una fiducia non comune e un ottimismo illimitato, il ripensamento della scuola su se stessa e le sue possibilità di procedere verso scelte operative di maggior senso pedagogico.


Le sue prime esperienze, in classe con i suoi bambini per trent’anni, dall’immediato dopoguerra fino al 1978, anno del suo pensionamento, risalgono a più di 60 anni fa; eppure ci colpisce quanto le sue parole di allora sembrino raccontare la scuola di oggi:

11 ottobre 1951

Gli alunni sono sovente distratti, non si interessano alle lezioni che preparo scrupolosamente, “dimenticano” di fare firmare ai genitori le osservazioni sul comportamento, “dimenticano” persino di acquistare i quaderni. In compenso tengono in classe una disciplina passiva che mi sgomenta: fermi come statue, coi cervelli inerti, spesso non restituiscono nemmeno il sorriso. Forse hanno paura di me, perché quando voglio conversare con loro nei momenti di ricreazione, esaurite le notiziole superficiali, si chiudono in un gelido silenzio che non riesco a rompere. Indubbiamente per questi ragazzi la scuola è sacrificio; il loro comportamento passivo lo dimostra. Ma qual è la causa? È facile attribuirla alla scarsa volontà e al carattere dei ragazzi; e se fosse altrove, ad esempio nell’organizzazione della scuola stessa? Tanto nella società come nella scuola credo non ci possano essere che due modi di vivere: o la sottomissione a un capo non eletto, oppure un sistema in cui la libertà di ognuno sia rispettata, condizionata solo dalle necessità di tutti. Il paternalismo, nella società degli adulti come nella scuola, non è che una forma insidiosa dell’autoritarismo che concede una finta libertà. Se la scuola non deve soltanto istruire, ma anche e soprattutto educare, formando cioè il cittadino capace di inserirsi nella società col diritto di esporre le proprie idee e col dovere di ascoltare le opinioni degli altri, questa scuola fondata sull’autorità del maestro e la sottomissione dello scolaro non assolve al suo compito perché è staccata dalla vita”.1

C’è un documento video molto interessante che credo possa portarci a comprendere quale “scuola possibile”, per superare le criticità messe in luce in questa prima analisi, Lodi abbia provato a vivere e far vivere ai suoi ragazzi: si tratta del lavoro realizzato nel 1979 da Vittorio De Seta raccolto da Rai Scuola2. Le immagini scorrono su una giornata di febbraio in una classe quarta elementare della scuola di Vho di Piadena, paese della pianura cremonese che a Lodi ha dato i natali e nelle cui aule entrerà per ventidue anni consecutivi. Il video e le parole del maestro ci permettono subito di cogliere un insieme di elementi significativi: la disposizione dei banchi a ferro di cavallo o a piccoli gruppi, il maestro che siede tra i bambini e non in cattedra e il racconto di un’esperienza che anche oggi sarebbe del tutto all’avanguardia: i bambini della classe si costituiscono per funzionare come una cooperativa, con una gestione condivisa di una cassa comune che obbliga ad utilizzare le abilità matematiche insieme a quelle di cooperazione e di democrazia. Quella della cooperazione è un’idea cara a Lodi che finisce per invitare in classe il padre di uno degli alunni per raccontare l’esperienza di una piccola impresa cooperativa del posto come spunto per educare i bambini ai valori della relazione.


A Lodi sta a cuore non solo la presentazione di un’esperienza sociale o economica ma il valore del superamento dell’individualismo e della competizione. L’obiettivo educativo è alto e ambizioso, quello di superare la motivazione individuale per cogliere quella collettiva e ancora di più di operare una trasformazione della mentalità attraverso il contributo fondamentale della scuola.


Ma non solo: il mondo esterno, le famiglie entrano in classe nel ruolo di “docenti”, così chiamati dallo stesso Lodi, che non teme confusione dei ruoli, accesso agli spazi scolastici né la condivisione del lavoro con i bambini.


Lodi racconta poi delle letture ad inizio mattina che consentono un momento di dialogo autentico, permettendo all’educatore di conoscere i bambini, una conoscenza della loro vita reale senza la quale, dice il maestro, non è possibile educare. Per Lodi è infatti fondamentale partire dall’esperienza dei suoi ragazzi perché i contenuti trasmessi in modo astratto sono, dice, “appiccicati” e per questo labili.


In questi spazi di dialogo può essere messo in comune tutto e il maestro non teme l’imbarazzo di alcuno spunto, così vediamo alcuni passaggi delicatissimi in cui uno dei bambini parla della morte del padre e la classe intera con lui mette insieme i tasselli che permettono di contenere un dolore tanto grande, senza avere paura a nominarlo.


Si assiste poi a uno scorcio di lavoro di gruppo in cui i bambini scelgono insieme, in un brainstorming appena guidato dal maestro, musica, immagini e drammatizzazione di un testo sacro: osservando una tale coralità non si può che pensare al meccanismo della scrittura collettiva che, pratica ordinaria a Barbiana, fu oggetto di uno scambio di cui abbiamo già riportato i contenuti nel capitolo dedicato a don Milani. In linea con questo approccio il maestro ci racconta orgoglioso del giornalino di classe rivolto ai genitori e aperto ai loro contributi (!), come a quello anche di altri ragazzi della scuola, diario della “nostra” esperienza scolastica, sottolinea; per farlo ci vuole coraggio, dice Lodi, e ha ragione. Il premio che ne viene è però una forte coesione del gruppo, una conoscenza reciproca sempre più profonda.


Nell’introdurre a scuola la stampa del giornalino di classe Lodi ripropone uno degli strumenti caro a Freinet, uno dei padri della pedagogia e della scuola attiva e ispiratore del Movimento di Cooperazione Educativa, gruppo di riferimento per i docenti che soprattutto negli anni Settanta ma ancora oggi “non vogliono smettere di pensarsi, oltre che trasmettitori, anche elaboratori di cultura, attenti alla valorizzazione delle culture di cui sono portatori i bambini/e; a creare in classe climi favorevoli all’ascolto e alla comunicazione autentica (…) Insegnanti che operano per realizzare una scuola in cui sia promossa la libertà espressiva, sia dato spazio alla creatività; siano realizzati processi circolari di apprendimento-insegnamento capaci di produrre nei bambini/e crescita globale, affettiva e cognitiva e sociale.”3

Del Movimento di Cooperazione Educativa Lodi è stato uno dei primi aderenti, finendo per esserne nominato presidente onorario; era la sua casa dal punto di vista dell’appartenenza di categoria, ed è a mio parere una delle realtà più preziose che la scuola pubblica ancora oggi può annoverare al suo interno.


L’ultima parte del documentario di De Seta è una sintesi di visione pedagogica che rende al mio cuore ancora più amaro quell’incontro mancato: Lodi ci parla dell’uso del voto come elemento motivatore nella scuola tradizionale, sostenendo come invece nella pedagogia moderna si guardi a una motivazione interna alla mente del bambino e a come, di conseguenza, compito dell’insegnante sia metterlo in condizione di vivere la scuola come impegno interessato e interessante, che soddisfi il suo bisogno di apprendere, di muoversi, di essere in società.


Peccato che la pedagogia moderna a cui Lodi faceva riferimento decenni fa sia sconosciuta anche ai nostri attuali legislatori, mi trovo a pensare.


Dopo la recente reintroduzione, voluta dal ministro Moratti, dei voti numerici nella scuola elementare Franco Lorenzoni ci racconta4 che Lodi affermava: “Nessun bambino può essere giudicato con un voto o con un giudizio della maestra. È un esame di coscienza collettivo che valuta la nostra crescita umana e sociale”, arrivando a postulare, come principale riferimento per valutare il merito nella scuola, questa semplice domanda: “La maestra è stata una buona amica che ha aiutato i più deboli?”.


Lodi denuncia con De Seta anche che l’esperienza del bambino non viene accolta; la scuola si limita a fornire un contenuto preordinato attraverso una pura operazione di trasmissione di esso. Il che avviene anche perché l’obiettivo reale, anche se non dichiarato, è quello di non formare uomini e donne capaci di fantasia, capacità operativa e critica perché sarebbero in qualche modo “pericolosi”. Una società è civile, dice Lodi, quando cerca di adattare se stessa alla crescita umana e sociale dell’uomo attraverso le sue istituzioni, tra cui la scuola. Non si tratta quindi di inserire l’uomo o il bambino nel sistema sociale qualunque esso sia, ma di sviluppare al massimo le sue capacità così che possa contribuire alla società stessa. Questo però fa paura perché un uomo libero non può che contestare ciò che non va, cercando le cause e proponendo soluzioni.


In molte altre occasioni Lodi ha espresso il suo pensiero su questioni molto concrete della vita scolastica; penso a una riflessione sull’uso dei libri di testo, parole senza rischio di fraintendimento e di limpida sintesi pedagogica:

L’alternativa culturale e pedagogica a questi testi scolastici reazionari e stupidi non è un libro di testo migliore, con contenuti oggettivi, ma una scuola diversa dove non si studi per il voto e dove l’apprendimento non sia fondato sulla memoria in funzione dell’interrogazione e dell’esame, ma sul ragionamento critico. Tale atteggiamento sarà strettamente legato con l’esperienza del giovane e prenderà in esame i problemi del ragazzo e del suo ambiente sociale. Così si abituerà a leggere le pagine del libro vivo e vero degli uomini e della natura, a mettere in relazione fra loro gli eventi e a scoprirne cause ed effetti, a rendersi conto del suo ruolo di protagonista del mondo in cui vive.5

Proprio sui libri di testo, Lovattini, suo amico e collega, gli scriveva in occasione del suo ultimo compleanno: “In tanti hanno letto i tuoi bellissimi libri in classe, i tuoi testi si sono trovati nei libri scolastici. Però ci si dimenticava e ci si dimentica dei tuoi scontri con i rappresentanti degli editori, arrabbiati perché tu non eri d’accordo a far adottare il testo unico a tutti i bambini. Il problema non era e non è (perlomeno soltanto) leggere i tuoi libri in classe ai bambini, ma fare in modo che i bambini di tutte le classi potessero e possano scrivere i propri libri.”

Mario Lodi deve la sua notorietà all’opera Cipì, storia di un uccellino e delle sue avventure in un mondo non sempre facile, ma in cui i valori della laboriosità, della bontà e del coraggio prevalgono su egoismi e violenze.


Il testo è molto noto ma trovo che sia ancor più interessante ricordare l’occasione in cui è stato ideato da Lodi e dai suoi allievi. Se Cipì esiste è infatti grazie alla capacità di ascolto, di osservazione e di accoglienza di questo maestro: un gruppo di bambini distratti dal volo di uccellini fuori dalla finestra e che ad essa accorrono abbandonando i banchi dove dovrebbero (nella visione convenzionale) stare diligentemente seduti, un maestro che anziché richiamarli all’ordine coglie lo spunto per ascoltare le fantasie suscitate da quello scorcio di vita fuori dalle mura scolastiche e che facilita la costruzione condivisa di una narrazione che va fuori dai confini di ciò che si vede con gli occhi arrivando a mettere in quella storia ognuno un pezzo della propria esperienza… direi che ogni insegnante potrebbe trarre da questo antefatto parecchi motivi di ripensamento della quotidianità scolastica molto più che con la sola, pur poetica e suggestiva, lettura di Cipì.


Un altro testo poco ricordato (e il dubbio è sempre quello che la rimozione non sia così casuale ma sempre riferibile alla scomodità dei contenuti di alcune riflessioni) è Guida al mestiere di maestro – saper insegnare dalla parte dei bambini. Come conoscerli e aiutarli a crescere nella scuola di tutti, pubblicato nel 1982. Nella parte dedicata alla scuola elementare leggiamo considerazioni e stimoli straordinariamente attuali, che vorrei trovassero posto sulla cattedra di ciascun insegnante e anche nelle librerie di ogni famiglia intenzionata a riflettere su quale scuola desidera per i suoi figli. In questa sezione del libro Lodi parla, senza alcun giro di parole, di una scuola trasmissiva e della scuola “nuova” come alternativa alla prima: due mondi che non hanno nulla in comune.

Nel primo il potere è esercitato da chi detiene, o suppone di detenere, il sapere e non mette in discussione nessuna delle prassi didattiche, organizzative ed educative consolidate, cercando in esse sicurezza e conferma di sé. Nel secondo ad ogni scelta si cerca di attribuire un significato pedagogico che veda il bambino come protagonista del processo in corso, un bambino che già sa molto e che va aiutato a riorganizzare e riordinare le conoscenze acquisite in diversi modi. A fianco di questi bambini siede un maestro al loro servizio, un maestro che non teme di perdere alcun potere, che non necessita di garanzie e che per questo riesce a distogliere lo sguardo da sé.


Sappiamo che Lodi ha riflettuto e agito in ambito scolastico e pedagogico per più di sessanta anni, un arco di tempo molto lungo che anche per lui è stato occasione di confronto tra le diverse fasi storiche in cui la sua opera è stata messa in campo.


In occasione della pubblicazione della nuova edizione della sua opera forse più nota dal punto di vista pedagogico e teorico, Paese sbagliato (1971 e 2007), scrive sul sito della Casa delle Arti e del Gioco:

La riproposta di questo libro mi offre lo spunto per una riflessione sulla scuola di ieri e quella di oggi. Questo momento storico ha bisogno di maestri nuovi, professionalmente e civilmente preparati, che assumano un ruolo propulsivo nel corpo della nostra società. Dal tempo del Paese sbagliato ad oggi molto è cambiato. C’è stata la diffusione capillare della Tv, proliferata in modo selvaggio senza un codice etico. E c’è stata la crisi di un sistema politico degenerato. A livello internazionale sono caduti muri e miti, con le relative ripercussioni politiche. Eppure io noto analogie fra il momento del dopoguerra e quello di oggi. Come allora, anche oggi c’è bisogno di ricostruire moralmente una società, recuperando i valori abbandonati. La scuola non può estraniarsi da questo processo: se l’interpretazione modulare di programmi ha reintrodotto la trasmissione dei contenuti e inaridito la scuola, i docenti più sensibili possono introdurre nella scuola il senso della partecipazione e della socialità. A scuola i bambini possono imparare a vivere ogni giorno da cittadini liberi e responsabili. Alla filosofia del consumismo e dell’arrivismo noi possiamo contrapporre la collaborazione, la cooperazione, la solidarietà, la non-violenza.

Se riusciamo a collaborare con i colleghi docenti, riusciremo a creare anche per i bambini il clima ottimale nel quale sentiranno se stessi protagonisti, gli altri come amici, e la diversità come arricchimento. Io mi auguro che Il Paese sbagliato possa contribuire a questa riflessione sull’educazione.6

Un altro scorcio sulla visione del mondo che Lodi trasmette attraverso la sua opera e la sua azione educativa ci arriva attraverso l’impegno sui temi del vivere civile che ne hanno caratterizzato il profilo di uomo e di maestro: le sue campagne dal 1994 in poi per un uso consapevole della televisione (chissà se ha avuto modo di riflettere su tablet e social network…), quelle per un’educazione alla cittadinanza e alla convivenza che avessero al centro la conoscenza della Costituzione italiana e dei valori che la permeano, sono materiali didattici di cui avere gran cura. Vorrei però ricordare qui un brano noto ma sempre prezioso per testimoniare quanto Mario Lodi avesse a cuore un futuro disarmato… tra narrazione rodariana e sguardo profetico milaniano:

La strabomba

Nella sua fabbrica padron Palanca faceva le bibite con gli scarti del petrolio. Ma nessuno comprava quelle bibite perché erano nere e facevano venire il mal di pancia. Allora inventò un bel carosello per convincere la gente. Tutti bevevano e lui diventò ricco, ricchissimo, quasi come il re. I ricchi sono sempre amici dei re e anche padron Palanca lo diventò. Una sera andò a cena nel suo castello e gli disse: “Facciamo una grande guerra! Io ti costruirò la strabomba e tu mi darai cento stramilioni. Io diventerò il più ricco del mondo e tu il re di tutta la terra.”


“Bene” disse il re. “Ma come si fa convincere la gente a fare la guerra per noi.”


“Ci penso io” disse padron Palanca. Diventò capo della TV e fece un telegiornale bello come carosello e tutte le sere diceva: “È bello combattere e morire per me e per il re”.


E la gente credeva alle sue parole bugiarde come beveva le sue bibite nere. Intanto padron Palanca nella sua strafabbrica nuova costruiva la strabomba, gli aeroplani, i carri armati, i fucili, e tutto quello che occorreva per fare la grande guerra. E vendette tutto al re per cento stramilioni. Il giorno della guerra la gente in piazza guardava sul teleschermo il re e il generale Palanca. Il generale diceva: “La guerra è incominciata. Fra poco vedrete l’aereo che sgancia la strabomba sul nemico che non sa niente. Noi siamo più forti e vinceremo. Viva me e viva il re”. L’aereo era arrivato sulla città più grande del mondo. Il generale ordinò: “Butta la strabomba”. Il pilota guardò giù e vide i bambini che giocavano. E pensò: “se sgancio li ammazzo!” E volava, volava, sulla città che brillava al sole. E non ubbidiva. “Butta la strabomba sul nemico!” Urlò il re arrabbiato. Il pilota volava e diceva: “Vedo solo bambini e gente che lavora… il nemico non lo vedo… il nemico non c’è”. Il re e il generale gridarono: “Sono loro il nemico! Sgancia e distruggili”. Ma il popolo e i soldati urlarono tutti insieme: “NO!”. Urlarono tanto forte che il pilota li sentì. Allora tornò indietro, volò sul castello e disse al re: “La bomba la butto addosso a te!”. Insieme al generale il re scappò e da quel giorno un’altra storia incominciò. In tutta la terra una storia senza guerra.7


Bellissima, per concludere, è la lettera che Lodi scrisse nel 2010 per l’avvio dell’anno scolastico. Per chi sceglie di rimanere dentro la scuola pubblica, come insegnante e come genitore, credo che siano parole da custodire e incarnare, insieme a quelle con cui il maestro ha salutato gli amici negli ultimi giorni di vita: “Ciao e andate avanti!”


21 settembre 2010

Care maestre e cari maestri,


mi è capitato spesso, in questo periodo, di ricevere lettere o telefonate da qualcuno di voi. La domanda che mi viene rivolta con maggiore insistenza è: “Come facciamo a insegnare, in tempi come questi?”. I sottintesi alla domanda sono molti: il ritorno del “maestro unico”; classi sempre più affollate; bambini e bambine che provengono da altre culture e lingue e non sanno l’italiano etc.


Anch’io, come voi, soprattutto nei primi anni della mia attività di maestro, mi ponevo interrogativi analoghi. Ho cominciato ad insegnare subito dopo la guerra. Le classi erano molto numerose. Capitava anche di avere bambini e bambine di età diverse.


Forse qualcuno di voi ha la brutta sensazione di lavorare come dopo un conflitto: in mezzo a macerie morali e culturali, a volte causate dal potente di turno - ce n’erano anche quando insegnavo io - che pensa di sistemare tutto con qualche provvedimento d’imperio. I vecchi contadini delle mie parti dicevano sempre che i potenti sono come la pioggia: se puoi, da essa, cerchi riparo; se no, te la prendi e cerchi di non ammalarti e, magari, di fare in modo che si trasformi in refrigerio e nutrimento per i tuoi fiori.


Il mio augurio per il nuovo anno scolastico è questo: non sentitevi mai da sole e da soli! Prima di tutto ci sono i bambini e le bambine, che devono essere nonostante tutto al centro del vostro lavoro e che, vedrete, non finiranno mai di sorprendervi. Poi ci sono altre e altri che, come voi, si stanno chiedendo in giro per l’Italia quale sia ancora il senso di questo bellissimo mestiere. Capitò così anche a me, anche a noi. Cercammo colleghe e colleghi che si ponessero le nostre stesse domande e fu così che incontrammo Giuseppe Tamagnini, Giovanna Legatti, Bruno Ciari e altre e altri con i quali costruimmo il Movimento di Cooperazione Educativa. Poi ci sono anche i genitori e le zie e i nonni dei vostri alunni e delle vostre alunne, che possono darvi una mano, se saprete, anche insieme a loro, rendere la scuola un luogo accogliente e bello, in cui ciascuno abbia il piacere e la felicità di entrare e restare assieme ad altri.


Non dimenticate che davanti al maestro e alla maestra passa sempre il futuro. Non solo quello della scuola, ma quello di un intero Paese: che ha alla sua base un testo fondamentale e ricchissimo, la Costituzione, che può essere il vostro primo strumento di lavoro.


Siate orgogliosi dell’importanza del vostro mestiere e pretendete che esso venga riconosciuto per quel moltissimo che vale.


Un abbraccio grande”.8


Navigando in rete

http://www.casadelleartiedelgioco.it/


http://www.mce-fimem.it/storia.html

Qualche buona lettura

La bibliografia completa delle opera di Mario Lodi, autore molto prolifico, è curata dalla sua Casa delle Arti e del Gioco: http://www.casadelleartiedelgioco.it/mario-lodi/opere.php


D. Novara, Mario Lodi: “La scuola senza cattedra”, Rivista Rocca del 1/4/2013 Perché leggere Cipì, anche come genitori: http://cultura.panorama.it/libri/mario-lodi-cipi-cinque-idee

http://www.repubblica.it/scuola/2014/03/03/news/tullio_de_mauro_ricorda_mario_lodi-80103197/

Nomi, volti, esperienze

Una visita partecipando alle attività della Casa delle Arti e del Gioco; sono certa che la voce di Mario Lodi sia ancora nell’aria… http://www.casadelleartiedelgioco.it/attivita.php

Un'altra scuola è possibile?
Un'altra scuola è possibile?
Sonia Coluccelli
Autori, esperienze e prospettive educative verso percorsi scolastici in ascolto dei bambini.Un panorama delle alternative alla scuola tradizionale e dei diversi modi di approciarsi all’istruzione, tra visione pedagogica e traduzione pratica. Il sistema educativo odierno non sembra incoraggiare il pensiero olistico, intuitivo e immaginativo, ma predilige di gran lunga quello fondato sulla verbalizzazione. Il clima che si respira nella scuola provoca forte stress agli alunni, a causa di pressioni e attese didattiche che non si conformano alla loro natura. Nelle scuole si formano perlopiù conoscitori, non pensatori.Un’altra scuola è possibile mette in evidenza la necessità di promuovere all’interno della scuola una riflessione per “vedere” sempre meglio i bambini, attraverso la possibilità di vivere esperienze didattiche fuori dall’edificio scolastico; il tutto visto non come una fuga da un’esperienza avvilente, ma come la messa in atto di progetti educativi con una loro specificità e diritto di espressione.Sulla base di una critica alla scuola convenzionale, l’autrice Sonia Coluccelli intende offrire un ventaglio di proposte alternative, prospettando per ciascuna sia gli assunti teorici sia le effettive realizzazioni. Da Rudolf Steiner a Don Lorenzo Milani, da Maria Montessori a Mario Lodi, fino all’educazione parentale, ogni capitolo prende in esame una visione pedagogica e ne presenta la relativa traduzione pratica.È così offerto un panorama di scelte possibili a chi stenta a riconoscere nei sistemi scolastici convenzionali una risposta adeguata ai reali bisogni di apprendimento, crescita e sviluppo di ciascun bambino. Conosci l’autore Sonia Coluccelli è insegnante, formatrice e mamma di quattro figli. Da vent’anni coltiva una riflessione pedagogica in ambito scolastico, approfondendo la conoscenza dei diversi approcci educativi, ricercando sguardi attenti nei bambini e attenzione alle loro domande.Dal 2012 si occupa di promuovere esperienze montessoriane nella scuola pubblica collaborando con Fondazione Montessori Italia.Vive a Omegna, sulle rive del lago d’Orta.