Contrariamente a quanto suggeriva la pubblicità, mangiare a sei, otto mesi, è infatti un’esperienza che coinvolge l’intero corpo: i bambini infilano le mani nel piatto, afferrano, portano alla bocca (e occorre tempo perché la centrino), gettano, scagliano, leccano, imbrattano. Per dirla in breve: scoprono il mondo. Se per noi è certo difficile sapere quali siano le sensazioni che un cucchiaio o un cubo di legno provocano a contatto delle gengive di una piccina di cinque, sei mesi, non possiamo avere dubbi sul fatto che, dopo il seno, la conoscenza della realtà passi soprattutto attraverso la bocca, un vero e proprio organo esplorativo. Saperlo aiuta a ridurre i “no, è sporco, toglilo dalla bocca” che costeggiano la primissima infanzia inondandola di inutili conflitti e inutili ansie.
Da qualche decennio si tende a credere che anche lo svezzamento debba avvenire secondo tabelle prestabilite e tenendo l’occhio aperto sostanzialmente sul corpo – le solite regole, il solito sguardo dietetico. Eppure, come tutto ciò che riguarda la vita, anche questa fase di passaggio della vita del bambino e dei suoi genitori mette in gioco culture e individualità differenti: il bambino innanzitutto, ma anche la madre e il padre o, a seconda delle situazioni, i nonni o gli operatori del nido. Pensiamo al significato che può avere per un genitore offrire al bambino una pappa in sintonia con la propria storia, ma anche ai sentimenti coinvolti: le emozioni contrastanti che provano madre e bambino nel momento del reciproco distacco; il maggiore coinvolgimento di altre figure nella vita del bambino, figure non sempre bene accette, magari anche alla madre. O, ancora, il piacere/dispiacere che si prova a seconda dell’accoglienza che il bambino riserva alle nostre proposte alimentari, e che metteranno a dura prova la percezione di noi stessi quali genitori.
In Senegal, ci racconta Yacine Sall, a stabilire l’inizio dello svezzamento sono tutte le donne del clan familiare, talvolta anche il padre: “Per noi il contatto corporale è molto importante e con lo svezzamento questo tende a diminuire, soprattutto se coincide con una nuova gravidanza. Quando la donna smette definitivamente di allattare, il bambino non dorme più con lei ma sulla sua stuoia, e durante il giorno viene spinto verso il resto della comunità. Ecco perché si discute con le altre donne della casa: saranno loro, infatti, a doverlo consolare e a coccolare nei momenti di inevitabile tristezza”. La delicatezza del passaggio viene sottolineata da un amuleto che il marabutto (figura di prestigio religioso) prepara per l’occasione: “Si tratta di un semplice pezzo di carta su cui sono scritti versetti del Corano, richiuso più volte su se stesso. A volte viene avvolto in una piccola pelle di animale, altre semplicemente legato con un nastro, come fosse un minuscolo pacchetto che il bambino porta con sé (al polso, all’avambraccio, alla cintura)”.
Lo svezzamento è quindi un lungo periodo di transizione, di passaggio, durante il quale seno e pappa convivono. Questa è infatti la seconda importante cosa che si apprende parlando con donne provenienti da differenti aree geografiche e culturali. A fronte di una precoce introduzione di cibi solidi (a volte anche a tre, quattro mesi), le donne continuano ad allattare molto a lungo, anche oltre i 24 mesi: è il caso dello Sri lanka, dove secondo Citra e Sumetra si allatta fino a tre, quattro anni, ma anche del Senegal, del Togo, della Thailandia e del Bangladesh, il paese di origine di Anima, che ha allattato i suoi figli fino a cinque anni.
In questo periodo di convivenza fra seno e pappa, si mette in moto un duplice processo: da una parte la separazione fra madre e bambino, che si svolge senza intoppi quanto più madre e figlio hanno potuto vivere appieno il reciproco innamoramento; dall’altra il maggiore inserimento del bambino nella comunità familiare e sociale e il conseguente inizio della scoperta del mondo, una scoperta che ha bisogno di tempo, di pappe e di cucchiaini, ma anche di sguardi, parole e gesti affettuosi che lentamente vadano a sostituire lo stretto contatto che lega la mamma al suo bambino attraverso il seno. Lo svezzamento, quindi, è un’importante trasformazione relazionale che coinvolge il bambino, la madre e il resto della famiglia, come sottolinea l’etnopediatra Elena Balsamo, da anni attenta agli aspetti culturali della nascita, dell’accudimento e della cura: “La parola italiana, letteralmente: togliere il vizio del seno, non rende ragione di questa che è un’esperienza di separazione. Dopo la fase dell’attaccamento, in un modo o nell’altro avviene il momento del distacco, la fase in cui, dopo aver a lungo vissuto in simbiosi con la madre, il bambino deve separarsi da lei. Non è un’operazione facile: a volte non è pronto il bambino, a volte non è pronta la mamma, e credo abbia ragione Claudia Rainville quando dice che lo svezzamento non possa avvenire finché non c’è stato soddisfacimento del bisogno”.