CAPITOLO III

Non di solo latte...1

La cosa che ricordo di più del periodo del latte”, racconta Lina, “a parte la camicetta sempre bagnata perché non ho mai sopportato i reggiseni, sono gli urletti che mia figlia faceva quando, sentendo la mia voce, capiva che di lì a qualche secondo avrebbe mangiato. Non li faceva a nessun altro, erano speciali, una specie di linguaggio solo per noi due”. Giovanna rammenta il tatto: “Ho allattato il mio primo figlio per quattordici mesi. Ancora adesso ricordo le sue manine che schiacciavano il seno, come per fare uscire più latte. Mia figlia, invece, solo per otto, perché il medico mi ha detto che altrimenti era troppo”. Veneta ricorda anche la stanchezza: “È stato un periodo bello ma anche faticoso. Ho allattato la mia seconda figlia per 14 mesi e alla fine mi sembrava di non avere più forze”. Mentre Vasilisca, che ha allattato la sua terza figlia per tre anni e mezzo, dice solamente: “Ha mangiato bene”.


È un fiume nutriente

Questo tempo incantato

Dove il latte è il presente

E la cacca il passato2


Negli ultimi anni l’importanza dell’allattamento non viene più messa in discussione, per lo meno apertamente. Sul tema si possono trovare molte pubblicazioni in grado di dimostrare quanto il latte materno sia superiore ad ogni altro alimento. Conosciamo il suo valore protettivo rispetto a numerose patrologie, fra cui un posto di rilievo occupano le allergie, e sappiamo anche che è specifico, vale a dire che ogni madre produce il miglior latte per il suo bambino. Fin dagli anni settanta, grazie soprattutto a Lorenzo Braibanti, sappiamo che il legame che si instaura fra madre e bambino durante l’allattamento (bonding), e le cui radici si pongono nei primi istanti di vita, è unico ed irripetibile anche nella sua semplicità. Si potrebbe quasi dire che allattare è il primo antidoto alla società del distacco3. “In Togo l’allattamento materno è ancora molto diffuso – racconta Desirèe Amavi – e costituisce l’unico alimento del bambino almeno fino ai sei mesi. Poi la donna prosegue finché ne ha voglia, senza regole, anche cinque anni, ovviamente integrando l’alimentazione con altri alimenti, fra cui una specie di latte”.

Latte di Desirée Amavi

Nei rari casi in cui la mamma non ha latte, o quando deve tornare al lavoro presto, la prima pappa del Togo, di elaborata preparazione viene data liquida, ancora nel biberon. È una sorta di latte artificiale fatto in casa, senza l’ausilio del latte di mucca, che da noi non si trova. Per prepararlo occorre creare una vera e propria farina lattea mescolando miglio, mais, tapioca, arachidi tostate, pesce secco, noce di cocco, zucchero di canna. Macinati finissimi, questi ingredienti vengono poi sciolti in acqua e sono a tutt’oggi preferiti al latte artificiale.


“Finché è piccolo”, continua Desirée Amavi, “il bambino sta sulla schiena e quando ha fame non fa che scivolare un poco sul davanti, prendere il seno e iniziare a succhiare. Per noi questo contatto è così importante che quando una donna non può portare il bambino, perché deve tornare al lavoro, paga una ragazza perché lo tenga sulla schiena al posto suo”.


La sensazione di calore, di vicinanza, data da questo breve racconto, trova conferma nelle parole di Emanuela Monguzzi, coordinatrice dell’asilo nido Giramondo di Milano, che ha avuto modo di osservare il differente comportamento di madri provenienti da varie aree geografiche e culturali: “Le donne dell’Africa sub-sahariana hanno solitamente un rapporto felice, allegro e molto più stretto e fisico con i loro figli. La cosa che mi colpisce di più è che non è mediato dagli oggetti: non ci sono biberon, passeggini; ci sono il seno, la schiena. A differenza delle altre donne, quando arrivano a prenderli, prima salutano il figlio, poi noi. E quando dico salutano, intendo dire che li prendono in braccio, li stringono, li buttano in aria e li riafferrano ridendo. Fanno loro festa, è un incontro gioioso, e io credo che dipenda anche dall’intimità fisica che c’è fra loro. Lo vediamo perché allattano più a lungo. Spesso diamo loro la possibilità di chiudersi in segreteria per poter allattare con calma il bambino prima di lasciarlo o appena arrivano”.


Periodi lunghi per allattamenti relativamente facili, vissuti con abbandono: questa la nota comune alle tante donne con cui abbiamo parlato. Laddove l’allattamento viene vissuto come tappa ovvia e naturale del percorso di nascita e crescita di un bambino, di difficoltà ne sorgono poche. Al contrario, dove è diventato frutto di una scelta ha finito per appesantirsi di significati, vissuti ed egoismi non sempre decifrabili. Non tutte le donne riescono a mettere a disposizione il proprio corpo, a lasciare che il figlio lo “usi” il tempo necessario, con quella naturalezza che ancora sopravvive fra le donne Rom: “Mia figlia ha mangiato bene per tre anni e mezzo”, racconta Vasilisca, madre di tre figli. “Tanto l’ho allattata e come per gli altri senza orari, senza regole. Quando piangeva, sia di notte che di giorno, le davo il seno, e quando ha iniziato a camminare veniva a prenderselo da sola. Certo, allattare ti toglie tutta la forza, ma è anche tanto semplice…”.


Lo ha trovato così anche Valentina, madre da quattro mesi di un bambino volitivo, pronto a farsi strada nel mondo: “Sull’allattamento c’è poco da dire. Viene da sé, è naturale. Basta lasciarsi andare e il latte non si ferma più. Quando ero incinta ho letto molto su cosa fare qualora non avessi avuto latte. Non mi è mai venuto in mente di cercare informazioni su cosa fare del latte in eccesso. Per ora lo congelo. Non si sa mai…”

Racconti come questi fanno sorgere il dubbio che sia venuto il momento di rinunciare alla libertà di scelta fra allattare e non allattare, e di considerare il seno, almeno temporaneamente, una proprietà del bambino. Dubbio che trova un importante fondamento nella impellente necessità, prima che sia troppo tardi, di riappropriarsi della gravidanza, del parto e della nascita, ma anche delle prime fasi della vita del bambino, così legate al corpo della madre (esogestazione).


Vi è un altro aspetto che contribuisce forse a rendere l’allattamento difficile. Alla domanda “Perché allattate?”, le donne segnalano che è pratico, che il latte materno è l’alimento migliore in assoluto, che allattare permette di riacquistare in tempi brevi il peso forma. Più raramente dicono che lo fanno perché piace e perché il legame che si crea attraverso il corpo è diverso, unico, speciale. La nostra cultura, profondamente sessuofoba nonostante il sesso sia ormai dappertutto, raramente mette l’accento sul piacere intenso che l’allattamento provoca. In caso di difficoltà ci viene mai chiesto cosa proviamo mentre il bambino succhia o quale effetto ci faccia vedere il suo corpo partecipare al nostro in modo così appassionato, talvolta anche violento?4 Tanto meno ci viene domandato come vivono questo legame le persone che ci stanno intorno, quanto collaborano a proteggere la magia di un incontro o ad ostacolarla, sentendosene esclusi, provandone fastidio. Insomma, il piacere, sempre sospetto, non entra nell’orizzonte della maternità, oppressa dal suo retaggio sacrificale. E se invece concorresse a un buon allattamento?

Dalle parole ai fatti…

Lui guardava me. Io guardavo lui. Era bello, mi piaceva.
Janraen, 4 figli, tutti allattati al seno.


Come ogni parto risponde alla personale storia di quel bambino e di quella madre, anche l’allattamento sfugge al nostro ossessivo bisogno di controllo. Le ragioni per cui alcune donne, come Valentina o Vasilisca, hanno latte sufficiente per più di un bambino e altre vivano la frustrazione di un “seno asciutto”, come ha definito il suo Laura, rimangono misteriose.

Per avere più latte

Il primo e più importante “motore” della lattazione è la suzione. Più il bambino si attacca, più latte si forma. Aiuta poi bere molto: tisane a base di borragine e il finocchio (quest’ultimo passando nel latte, aiuta anche il bambino in caso di coliche). Vasilisca e Maria, come tutte le donne rom particolarmente abili nella pratica dell’allattamento, suggeriscono di bere birra. È buona norma mangiare regolarmente germogli di alfa-alfa (o erba medica) e avena. Infine, può essere d’aiuto l’estratto di galega, pianta officinale altamente galattogena (si trova in erboristeria e in farmacia)


Tuttavia, sappiamo che per la riuscita di un buon allattamento è importante che il bambino possa attaccarsi al seno subito dopo la nascita, ancora prima del taglio del cordone ombelicale. A suggerirlo sono evidenti considerazioni di carattere psicologico, e il riflesso rooting, cioè l’istinto determinato da una particolare sensibilità olfattiva che nelle prime ore dopo la nascita spinge il neonato, al pari degli altri mammiferi, verso le mammelle. Racconta Sara: “Appena nato si arrampicò su di me. Ricordo che ci guardammo negli occhi e anche se gli studi dicono che all’inizio i neonati non vedono, io non ci credo. Li aveva aperti ed erano incredibili. Di mare e di luce. Mosse la testa e si attaccò al mio seno come sapesse che quello era l’unico modo per non sentire il freddo vuoto. È un momento che porto sempre con me, una specie di luogo sicuro”.


Bocca che beve, becco che batte
Bava di luna, bevi il mio latte
Burro di stelle, quanto mi piaci
Bocca di bimbo di babbo di baci5


A meno che si decida di partorire a casa, le basi di un buon allattamento vengono quindi poste in ospedale, anzi, addirittura in sala parto. Un dettaglio, questo, che ci dice quanto sia importante che la struttura che abbiamo scelto, come pure le ostetriche, il ginecologo e il neonatologo di riferimento, considerino il latte materno fondamentale quando noi. Altrimenti, pudori, timori e interferenze potranno più facilmente trasformare un’esperienza che si può vivere seguendo il sentire proprio e del neonato (allattamento a richiesta) in una serie di regole da seguire (o da non seguire).


Una volta uscite dalla sala parto, e poi dall’ospedale, riposo e serenità sono fondamentali. Come abbiamo visto già parlando di quarantena, questo è il momento di dire sì ad ogni offerta di aiuto e di chiedere oltre l’osabile, soprattutto ad altre donne più esperte di noi. Saremo pronte a ricambiare quando sarà il momento.


Chi ha avuto figli e ha già allattato sa che il latte non sgorga subito: occorrono dalle 24 ore ai quattro, cinque giorni perché il seno si riempia (montata lattea). Durante questo periodo, il neonato subisce un fisiologico calo di peso che recupera entro due, tre settimane. Fin dai primi momenti, il seno emette però il colostro, un concentrato di proteine e anticorpi utili a tenere lontane possibili infezioni al momento della nascita.

Perpeq speciale di Valentina

Il perpeq è una frittata dolce, ma questa è una ricetta speciale, che mia madre faceva ogni tanto. Ne ricordo benissimo il sapore, anche se sono anni che non lo mangio. Si preparava come il solito perpeq (vedi pag. 83), ma al posto dello zucchero si mescolavano le uova con un pizzico di sale e con il colostro della mucca che aveva appena avuto il vitellino. Era buonissimo.


È il momento di circondarci di persone che ci piacciono, che ci fanno stare bene, perché la prolattina, l’ormone secreto dall’ipofisi che regola la produzione del latte, è sensibilissimo agli umori e dietro alla fatica di allattare ci potrebbero essere problemi familiari irrisolti, un rapporto complesso con la propria corporeità, difficoltà coniugali… Tutte cose che non si possono risolvere in due giorni, ma che forse si possono aggirare, lasciando così al centro delle nostre giornate e dei nostri pensieri, noi e il neonato.

Avena al pesto

L’avena, cereale dal sapore gustosissimo, è particolarmente adatta durante il periodo dell’allattamento, oltre a essere considerata un vero e proprio antidoto all’invecchiamento. Questa ricetta entrerà a far parte dell’alimentazione di tutta la famiglia: piace e si presta anche a serate con amici. Lessate 400 g di avena per circa 40 minuti dopo averla sciacquata e lasciata a bagno per 12 ore. Lasciatela freddare nello scolapasta, mescolandola di tanto in tanto. Per condirla, preparate un pesto con una trentina di foglie di basilico, un pugno di pinoli, 100 g di pecorino (facoltativo), 150 cc di olio extravergine di oliva. Aggiungete poca acqua calda per scioglierlo bene. Condite l’avena e arricchitela poi di pomodorini freschi tagliati a metà e di rondelle di cipolle di Tropea lasciate a bagno in acqua fredda per almeno 30 minuti. A piacere, ovviamente, potete aggiungere anche olive nere, tocchetti di formaggio, carote a rondelle, fettine di rapanello…


Robin Lim sostiene che l’allattamento è una vera e propria arte che madre e figlio apprendono insieme, soprattutto se intorno a loro c’è un clima di appoggio, di sostegno – la quarantena di cui abbiamo parlato. Un’arte che invece di misurini e di ricette mediche deve avvalersi soprattutto di attenzione, e che al posto del controllo sviluppa lo spirito di osservazione. Allattare, infatti, allena ad avere fiducia in noi stesse e nei segnali che il bambino ci manda: i diversi tipi di pianto, i mugolii di piacere, il sonno, l’attenzione… Un lattante appagato piange poco e dorme bene, anche se di rado tutta la notte come accade ai neonati storditi dalla digestione del latte artificiale. Fa anche parecchia pipì (si cambiano almeno 6 pannolini ogni 24 ore). Quando si sveglia, può piangere ma potrebbe anche soffermarsi a guardare l’ombra di un ramo che si muove sul muro, o ad ascoltare la musica che viene da un’altra stanza. Esprime piacere e dissenso con smorfie o girando la testa, così come gioia e desiderio di noi muovendo il corpo, le mani. Se di solito allattate in silenzio, da sole, si staccherà dal seno e guarderà verso di voi se improvvisamente vi mettette a parlare. Potrebbe reclamare l’attenzione di sempre, e quindi piangere, ma potrebbe anche stare per qualche minuto in ascolto rapito della vostra voce. Sono solo alcuni esempi del complesso linguaggio non verbale che il latte artificiale e il ciuccio tendono a spegnere prima che se ne siano apprese le lettere e la sintassi. Al contrario, l’allattamento materno aiuta a cercare altre vie per calmare un bambino irritabile, diversi modi per consentire ad altri membri della famiglia, e soprattutto al padre, di avere con lui un contatto importante.

Nessuno escluso…

Alcune donne dicono di aver scelto l’allattamento artificiale per permettere al compagno di provare il piacere di dare il biberon e non sentirsi così escluso. Ammesso e non concesso che non esistano differenze di genere, e che ciascuno debba provare le medesime sensazioni e vivere analoghi ruoli, esistono altri modi, altre vie per non sentirsi esclusi dalla vita del proprio bambino. Possono apparire meno soddisfacenti, ma alla lunga gratificano molto.


Il primo, indiretto, consiste nel fornire alla mamma tutto l’aiuto di cui ha bisogno. La protezione della coppia madre-bambino, di fatto faticosa, è fondamentale ai fini di un buon allattamento e, scomparsa la famiglia allargata, spetta spesso al papà farsi carico della casa, della spesa, di una cucina ricca di cereali, insalate, frutti oleosi, germogli, dolcetti. Ecco per esempio una facilissima ricetta di gallette ottime per il latte ma anche per chi, stanchissimo, la sera voglia mangiarsi una bella ciotola di gelato sgranocchiando qualcosa di secco.

Gallette di avena

Chiuse in una bella scatola di latta durano a lungo e sono anche un apprezzato regalo ad altre neo-mamme (come pure ai papà, ai fratelli e alle sorelle…). Per prepararle mescolate in una terrina 250 g di fiocchi di avena, 200 g di zucchero, 5 g di farina integrale, 75 g di olio, 2 uova, 1 bicchiere di latte, 1 bustina di lievito da dolci. Otterrete una pasta morbida, da prendersi con il cucchiaino. Mettete della carta da forno sulla piastra e ponete cucchiaini di impasto a circa 7 cm l’uno dall’altro, perché cuocendo la pasta si distende. In forno caldo sono pronti in circa 15 minuti. Vi occorreranno almeno 3 informate. Lasciate asciugare le gallette su un setaccio (per staccarli dalla carta quando ancora caldi e morbidi usate una paletta sottile) e infine chiudeteli in una scatola perché rimangano croccanti quando raffreddano.


È ovviamente una protezione anche simbolica, fatta di piccoli gesti: mettere alla porta una nonna invadente o aprirla a chi sa creare un bel clima in casa; cercare aiuti o rifiutarne se non adatti; creare silenzio ma anche occasioni di scambio, di divertimento.


Ci sono poi modi diretti di partecipare alla vita del neonato fin dai primi mesi. Per esempio le passeggiate, magari riscoprendo l’uso, tipico di molte culture tradizionali, di portare i bambini nel marsupio o sulle spalle. Racconta Giovanna: “In Perù lo abbiamo fatto per secoli. Oggi purtroppo questo uso sopravvive solo nei villaggi di montagna. Bisogna anche dire che i medici dicono spesso che un contatto troppo stretto non va bene per motivi igienici. Per questo sconsigliano di prenderlo a letto di notte, per dargli il seno”. Uscire per quattro passi con il bambino sotto il cappotto in inverno o a contatto di maglietta durante la bella stagione, fa bene al padre, che ha così modo di innamorarsi del suo bambino, fa bene ai piccini, che di solito grazie al ritmo, al calore e all’aria si addormentano senza fatica, acquisendo più facilmente un regolare ritmo sonno-veglia; e fa bene anche alla mamma, che ha così modo di stare un poco da sola. Accade anche con la carrozzina, ma mentre la carrozzina separa, il marsupio avvicina, e la vicinanza crea legame6. Racconta Patricia: “In Nigeria, per i primi sei mesi il bambino non esce di casa. A sei mesi lo si mette sulle spalle. I papà non fanno niente in casa, perché lavorano fuori. Ma se ne occupano quando tornano dal lavoro. Insieme ai figli giocano, parlano e soprattutto corrono”.


Una importante forma di contatto è data dal massaggio (in appendice si trovano alcuni libri da cui partire), arte che i papà possono apprendere, anche se la tradizione assegna questo ruolo alla donna – soprattutto alle nonne: “In Algeria, prima del bagnetto la nonna fa fare al bambino una specie di ginnastica: gli allunga con delicatezza le gambe, gliele piega, gli incrocia le braccia. È un modo che abbiamo per controllate la salute del neonato, soprattutto nei villaggi dove i medici arrivano una volta ogni tanto e le donne debbono affinare la capacità di verificare il benessere del bambino. Una volta lavato, viene avvolto con i tezeltè, piccoli lenzuoli di lino o cotone un po’ spesso, e infine stretto con una fascia, come una piccola mummia. Mia madre lo fa ancora adesso mettendolo sulle gambe tese, la testa fra le caviglie, e quando ha finito schiocca le dita due volte, incrociando le mani. Infine, appunta una spilla sulle fasce, all’altezza del petto, con una conchiglia e l’Hamsa, le mani di Fatima, per proteggerlo dal malocchio”.

Fasciato come una piccola mummia

L’abitudine di fasciare il neonato era (e in parte ancora è) comune a molte, se non a tutte le culture tradizionali. Un bel libro di fotografie, Bebè del Mondo7, ne riporta svariate tipologie: le pelli di foca della Groenlandia, i panni imbottiti in Mongolia, lana e corde in Yemen, fasce colorate e diademi in Afghanistan… Valentina sostiene che in Albania le fasce servivano soprattutto per proteggere i neonati dal farsi male: non sempre, infatti, i genitori potevano sorvegliarli costantemente. Giovanna ricorda che in Perù, prima delle fasce, sull’ombelico del bambino si posava uno moneta: “Era un compito della nonna o, in sua assenza, di una zia. Ora questo uso è decaduto, ma io penso che sia un male, perché fasciati i bambini stanno meglio, soprattutto quando fanno brutti sogni e muovono molto le manine, correndo il rischio di farsi male”. Secondo Lynda, invece, che ha sperimentato l’effetto positivo dei tezelté sul suo bambino di poche settimane, stretti stretti i neonati stanno meglio: “Credo dipenda dal fatto che vengono da un posto, cioè il nostro corpo, dove erano al sicuro, in un posto chiuso, piccolo piccolo. Hanno bisogno di tempo per abituarsi al grande mondo”.


In attesa delle pappe, momento in cui i papà hanno modo di diventare sempre più attivi aiutando anche il lento separarsi del bambino dalla mamma, come non sentirsi indispensabili e partecipi quando si cambia il bambino o gli fa il bagnetto? È un rito che per molti inizia al momento della nascita, quando, in casa o in ospedale, si ha modo di lavare il neonato per la prima volta, di tenerlo fra le mani scoprendone l’incredibile delicatezza. “In Sri Lanka”, racconta Sumetra, “il bambino fa il suo primo bagnetto in un’acqua tiepida in cui viene messa una pianta speciale, la venivalgeta, con cui curiamo anche la febbre. Quando invece è un po’ più grande, usiamo fargli una specie di doccia raccogliendo l’acqua con una noce di cocco pulita, secca, nella quale è stato praticato un piccolo forellino. Durante questa doccia il bambino sta in braccio, così non ha paura dell’acqua che gli scivola lentamente sulla faccia”.


Il bagno si accorda anche con gli orari di chi lavora. Il momento migliore per farlo è infatti verso sera: l’acqua tiepida e una ninna dopo l’ultima poppata sono quanto di meglio per predisporre al sonno della notte:


Fa’ la nanna, ciucciottoro mio,è tornato il tuo papà;t’ha portato la grazia di Dio;fa la nanna ciucciottoro mio8.

C’era una volta una fanciulla povera e molto pia, che viveva con sua madre; e non avevano più nulla da mangiare. Allora la fanciulla andò nel bosco e incontrò una vecchia, che già conosceva la sua miseria, e le regalò un pentolino. Doveva dirgli: – Fa’ la pappa, pentolino! – e il pentolino cuoceva una pappa dolce di miglio, molto buona; e se diceva: – fermati, pentolino! – il pentolino smetteva di fare la pappa. La fanciulla lo portò a sua madre: la fame e la miseria eran finite, ed esse mangiavano pappa dolce ogni volta che volevano. Un giorno che la fanciulla era uscita, la madre disse: – Fa’ la pappa, pentolino! – Il pentolino fa la pappa ed ella mangia a sazietà; ora vuole che il pentolino la smetta, ma non sa la parola magica. E così quello continua a fare le pappa, e la pappa trabocca e cresce, e riempie la cucina e tutta la casa, e l’altra casa ancora, e poi la strada, come volesse saziare tutto il mondo, ed è un grosso guaio, e nessuno sa come cavarsela. Finalmente, quando soltanto una casa era ancora intatta, torna la fanciulla e dice: – Fermati, pentolino! – e il pentolino si ferma e smette di fare la pappa; e chi volle tornare in città, dovette farsi strada mangiando1.

Un mondo di pappe
Un mondo di pappe
Sara Honegger
I saperi delle mamme nell’alimentazione del bambino da 0 a 6 anni.Una carrellata sulle conoscenze trasmesse da madre in figlia riguardo lo svezzamento e l’alimentazione dei bambini. Con moltissime ricette etniche. Il passaggio da un’alimentazione lattea a una che comprende cibi solidi è una tappa fondamentale nello sviluppo naturale del bambino. Sempre più spesso, però, lo svezzamento viene vissuto da molti genitori con ansia e frustrazione, mentre, in realtà, dovrebbe essere un piacere che nasce dall’esplorazione e dalla scoperta del bambino delle sue nuove competenze e capacità che gli permettono di entrare in relazione con il mondo esterno. Un mondo di pappe non ha la presunzione di dire ai genitori “come si fa”, ma promuove, sostiene e rafforza le loro competenze e quelle dei loro bambini in un processo di facilitazione e non di imposizione, facendoci conoscere e apprezzare cibi, sapori e momenti di condivisione.Mai come nei primi mesi di vita di nostro figlio saremo altrettanto attenti alla qualità degli alimenti che compriamo. Questa attenzione può diventare il primo gradino di un modo ecologico di porsi nei confronti del mondo, nonché il primo passo verso un percorso educativo attento all’altro e alla ricchezza offertaci dalle tante diversità. Questa è la convinzione che ha sostenuto Sara Honegger nel suo viaggio a tutto tondo nell’alimentazione infantile. Dal latte della mamma alla tavola di famiglia, dai primi approcci alle pappe alla cucina vissuta come entusiasmante laboratorio, questo libro ci accompagna in un fantastico viaggio fra ricette, consigli e ricordi di mamme provenienti da diverse parti del mondo. Un viaggio interculturale, compiuto senza mai dimenticare i princìpi di un’alimentazione attenta alla salute, nostra, ma anche degli altri e della Terra che abitiamo. Un testo di grande aiuto non soltanto ai genitori, ma anche agli educatori degli asili nido e a tutti i pediatri attenti a promuovere la salute dei loro piccoli pazienti.