Tamina di Baya e Lynda
La tamina è un dolce algerino per la donna che ha appena partorito, ma è uso offrirlo, insieme a tazze di caffè latte, mesmene e frittelle di semola lievitata, anche agli abitanti del villaggio. È l’inizio di quella lunga festa che da noi si fa sempre quando nasce un bambino. Per fare una buona tamina occorrono: 1 tazza di semola piuttosto fine, 1/3 di tazza di burro sciolto, 1/3 di tazza di miele, mandorle e cannella.
Far dorare la semola a fuoco bassissimo, facendo molta attenzione a che non bruci, altrimenti il gusto diventa amaro. Poi spegnere e aggiungere il burro e il miele. Mescolare bene e versare il composto su un piatto, stendendolo bene. Decorare con la cannella (noi usiamo disegnare con la polvere una decina di raggi) e posare al centro di ogni spicchio una o più mandorle, formando un fiore.
Fra i Rom rumeni è uso, qualche giorno dopo la nascita di un bambino, che altri bambini del campo preparino la Torta degli Ustatori – questo il nome dei tre spiriti chiamati a concedere un buon futuro – un pane speciale, rotondo, che viene diviso fra tutti gli abitanti. Ascoltando Vasilisca e Maria, che raccontano quanto sia importante che a impastarlo siano i bambini, gli unici puri, si ha la sensazione che ai piccoli sia tributata la possibilità di cogliere ciò che sta fra la vita e la morte. Erano loro, infatti, nei luoghi originari, a prendere l’acqua dai pozzi e a portarla agli abitanti dopo la morte di un membro del villaggio.
Subito dopo la nascita, in molte culture sono le donne della famiglia o le vicine di casa a prendersi cura della puerpera. In Etiopia, il terzo giorno dopo il parto, le fanno il bagno intonando un canto di festa, già cantato al momento della nascita, la lelelta. È l’inizio di un lungo periodo di ombra (madre e figlio non escono di casa per 40/60 giorni) al termine del quale avviene il battesimo ortodosso. In Marocco portano cibo, aiutano nelle faccende di casa. Quando non sono le donne, talvolta si fa avanti il neopapà. Racconta Rosario Mercedes: “Eravamo tanti, fra fratelli e sorelle, e alla nascita di ognuno, per quaranta giorni, ogni mattino mio padre preparava per mia madre brodo fresco di gallina. Quando il latte tardava ad arrivare, faceva anche delle tisane di anice e manzanilla [camomilla] da dare al bambino, che aveva sete”.
Sono le attenzioni della cosiddetta quarantena, periodo durante il quale la donna rimane a letto, viene nutrita con cibi speciali, non tocca l’acqua (cioè non lava, attività faticosissima in assenza di lavatrice), non cucina. Un tempo riconosciuta, oggi è considerata un ridicolo retaggio della civiltà contadina. Eppure, oltre agli esperti in tema di allattamento (si vedano, per esempio, i consigli della Leche League, la Lega Internazionale del Latte materno, sorta già negli anni ’50 negli Usa per contrastare la diffusione del latte artificiale) che da anni ribadiscono l’importanza di trascorrere le prime settimane in un ambiente tranquillo, sereno, in pieno riposo, non c’è donna che una volta a casa, soprattutto se sola, non vorrebbe trovarsi in un altrove ricco di scambi, di aiuti, di consigli. Possono essere parenti (le nonne, i nonni), ma anche delle amiche, una vicina di casa, una collega di lavoro: l’importante è tessere il prima possibile la rete di sostegno che consentirà di vivere appieno l’allattamento e la trasformazione delle relazioni di coppia (se si era in due) o della famiglia (se si hanno già altri figli).
In Togo la “clausura” dura solo sette giorni, durante i quali si preserva la delicatezza dei primi momenti costruendo una specie di bozzolo protettivo intorno alla coppia madre-bambino. “All’ottavo – racconta Amavi Desirèe – il bambino viene presentato alla comunità, di cui entra subito a far parte. È una cerimonia importante, perché per noi il figlio è sempre un dono alla comunità, non è solo della coppia, e vengono invitati parenti, amici, ma anche gli antenati, che sono sempre fra di noi: uno ad uno, si presenta loro il nuovo nato, ringraziandoli. Poi, per loro si versa una bevanda dolce a terra; e agli altri ospiti si offre l’acqua della pace e anche un poco di liquore, per far ubriacare coloro che guarderanno male il bambino. Infine, un’acqua rimasta alla luce della luna per l’intera notte, perché s’impregni di rugiada, viene versata sulla testa del bambino, nudo in braccio al padre o a un altro membro della famiglia, e sul tetto della casa, quasi la benedizione provenisse dal cielo”.
Anche in Cile il bambino viene sentito come appartenente alla famiglia, intesa nel senso più largo: “Lo si condivide volentieri”, dice Karina. “Quando si va in una casa dove è appena nato un bambino, facilmente ce lo si ritrova in braccio. Il contatto fisico è non solo accettato, ma ritenuto molto importante e c’è ancora una certa naturalezza nell’ascolto dei bisogni dei bambini”.