CAPITOLO II

Intorno alla nascita

Un ventre tondo tondo

In Kabylia, e in generale in tutta l’Algeria – racconta Baya – non tutte le coppie vivono sole, anzi, la maggior parte vive ancora in famiglie allargate, dove la donna incinta viene accudita, soprattutto durante i primi mesi, detti mesi delle voglie. Si teme molto che possano macchiare il bambino e quindi si cerca di soddisfarle anche a costo di sacrifici importanti. Se, poi, quello in arrivo è il primo bambino della famiglia allargata, quindi il primo nipote, le attenzioni e le coccole aumentano: la mamma desidera la banana, da noi costosissima? Ebbene, avrà la banana. Vuole yogurt fresco ogni giorno, per noi una vera ricercatezza? Avrà yogurt fresco ogni giorno”.


Le culture tradizionali, spesso spietate con le donne (“In Albania è molto meglio nascere maschio”, dice Liza, “il maschio è come un dio, la femmina dicono che non vale nulla”) riconoscono il bisogno di tutela durante la gravidanza e il parto: si soddisfano le voglie, si garantisce il riposo, a volte anche attraverso divieti. Era così anche in Italia fino agli anni cinquanta. Anima racconta che nel suo paese, il Bangladesh, la donna gravida non può ammazzare neanche una gallina, perché il suo stato non le permette un contatto con la violenza e con la morte, mentre dopo la nascita, per molti giorni (“finché perde il sangue del parto”) non può andare al tempio, vuoi perché impura, vuoi perché così non si affatica camminando.

Oggi, nei paesi a forte industrializzazione, predomina invece il cosiddetto approccio scientifico. Michel Odent1 sostiene che il XX secolo sarà ricordato come quello che ha industrializzato la nascita, trasformandola in una catena di montaggio comandata da una sofisticata ingegneria elettronica. Temiamo sarà ricordato soprattutto per l’industrializzazione della morte, ma di certo gravidanza e nascita, non più considerati eventi naturali, fisiologici, sono stati assorbiti dalla patologia: malattie da risolvere in ospedale, dove il cesareo è pratica eletta (37% nel 2003, con punte che superano il 50% nella regione Campania).2


Di questa tendenza non si colgono inversioni nonostante l’impegno che l’ Organizzazione della Sanità aveva assunto nei primi cinque anni di questo secolo: mantenere naturale la nascita. Anzi, si riscontra un chiaro peggioramento. Scrive la gineolocoga Anita Regalia: “Oggi il principale movente che guida l’attenzione degli ostetrici è rappresentato dall’attenzione medicolegale, dal tutelarsi da cosa potrà venire detto nelle aule del tribunale, dal difendersi dall’accusa paventata della fantasia di negligenza, imprudenza, imperizia”3.


Questa perversa spirale ha portato all’uso sempre più massiccio di strumentazioni, controlli, invasive visite vaginali, esami. Questi solo sembrano in grado di certificare lo stato di benessere della mamma e del feto: si è in salute quando gli esami del sangue sono a posto, quando l’ecografia o l’amniocentesi dicono che non ci sono malformazioni o patologie genetiche, quando il monitoraggio conferma che sì, il bambino è vivo.


Purtroppo, affidarsi alle macchine e agli esami di laboratorio diminuisce l’ansia dei medici, ma non diminuisce affatto quella di noi madri. Anzi, paradossalmente tende ad accrescerla, ponendoci in un costante stato di dipendenza. Trasformate in pazienti, perdiamo via via la capacità di comprendere quel che accade dentro di noi, di sentirci. Racconta l’ostetrica Amavi Desirée: “In Togo una donna incinta sa bene cosa siano la gravidanza, il parto, l’allattamento. C’è un sapere femminile condiviso, non si arriva impreparate: di parto si parla, le donne allattano ovunque. Qui, invece, le donne non sanno. Arrivano impaurite da ipotetiche complicazioni durante la gravidanza, sulle quali spesso sono state informate da pessimi telefilm televisivi, e sono terrorizzate dal dolore del parto. Questa paura blocca tutto, impedisce loro di lasciarsi andare”.


Il movimento delle ostetriche4, che in Italia ha avuto anche il merito di smuovere le acque “materne” nelle quali il femminismo raramente ha voluto specchiarsi, da molti anni ha portato alla luce i problemi connessi alla medicalizzazione della gravidanza e del parto, offrendo come possibile via di soluzione a questa impasse di dipendenza e ansia, il rapporto con l’ostetrica, figura femminile di riferimento importante, che è sì esperta, ma anche donna in grado di accompagnare ogni singola madre nel suo speciale percorso di gravidanza, di parto e di puerperio. “Una sola persona”, spiega l’ostetrica Marta Campiotti “dovrebbe accompagnare la donna durante tutta la gravidanza e l’esogestazione, cioè fino alla prima pappa, che rappresenta l’altro importante momento di separazione fra madre e bambino. La conoscenza che si approfondisce durante molti mesi allontana decisamente il rischio di delega: la relazione che viene a crearsi concorre a far sì che accanto all’ostetrica anche la donna si assuma la responsabilità delle proprie scelte”.


Non è questo il libro dove affrontare un questione tanto complessa, ma questi pochi accenni introducono l’idea che il nostro approccio alla salute fa sempre più fatica a tenere conto dell’individualità della persona, di cui è parte essenziale l’assunzione di responsabilità. Più aumentano le conoscenze, più sembra si perda la fondamentale sensibilità che ci mette in ascolto dell’altro e di noi stessi.

L’orto in casa

Non c’è periodo migliore della gravidanza per sperimentare i benefici di un piccolo orto. Coltivare germogli in casa o erbe aromatiche in terrazzo è esperienza che avvicina alla nascita attraverso la cura del seme, del terriccio, della luce. Mette anche di buon umore. I germogli sono una vera e propria fonte di salute, così come le erbe aromatiche, ingrediente importantissimo della cucina naturale. I libri citati a conclusione del nostro lavoro vi daranno i necessari consigli e gli attrezzi per cominciare sono qualche barattolo, un pugno di semi, acqua pulita. Contate poi il piacere di farlo: l’apprendimento viene dall’esperienza.


Lo si comprende anche dall’uso di proporre a tutte le donne incinte i medesimi consigli dietetici, le stesse ricette: un tot di calorie, un tot di verdure, un tot di bistecche di cavallo e così via. Rispetto a questa standardizzazione, che oggi, individuata l’obesità come grande nemico, mira soprattutto a contenere il peso, le vecchie usanze hanno un sapore più completo, suggestivo: parlano infatti del bisogno che ha la donna di essere nutrita ma anche accudita, coccolata, protetta. Ecco allora i datteri che Rachida ricorda di aver mangiato durante la sua prima gravidanza, vissuta in Marocco, frutti che “addolciscono il sangue e facilitano l’uscita del bambino durante il parto”; oppure la polenta ricca di burro offerta alle partorienti etiopi; o, ancora, il tè con l’erba della vita che si beve Senegal, e le noci, ricco frutto fiabesco, portate alle donne egiziane.

Datteri e noci dei momenti tristi e dei momenti allegri

Vi occorrono datteri naturali, noci o mandorle bio. Il procedimento è quanto mai semplice: tagliate in due il dattero, in senso orizzontale, come fosse un panino, e infilatevi all’interno mezzo gheriglio o una mandorla intera. Si gustano chiacchierando ma anche da sole, quando si ha voglia di sedersi su una poltrona, di mettere le mani sul ventre. Ascoltare.


Questi usi che ci dicono quanto sia importante in una fase delicata come quella della gravidanza, dove a mutamenti fisici si accompagnano importanti cambiamenti emotivi, non irrigidirsi in schemi, tabelle, divieti, ma seguire i propri desideri, incluse le voglie.

Insalata di mandorle e spinaci novelli

Noti come verdura da cuocere, gli spinaci novelli sono ottimi in insalata. La prima volta in cui li ho mangiati crudi è stato a casa di un architetto fiorentino che aveva tappezzato le pareti del salotto con i disegni del parto della moglie, avvenuto proprio in quella stanza. C’era odore di borotalco, di panni umidi e lavati. Odore di bambino. L’insalata, preparata da un vivace gruppo di amiche della neo-mamma, era a base di foglioline di spinaci (di cinque, sei centimetri di lunghezza), lattughino, carote grattugiate, scaglie di mandorle, uovo sodo sbriciolato, olio, poca acqua, sale e pepe, un pizzico di peperoncino.


A questa insalata oggi aggiungerei due cucchiai di semi misti, fra cui, insostituibili per l’elevato contenuto di omega-3, i semi di lino e di germogli.

Vaso dei semi di Giulia

Si tratta semplicemente di un bel vaso di vetro dove la ventenne Giulia, quasi vegetariana per natura, tiene mescolati fra loro semi si girasole, sesamo chiaro e nigro, semi di zucca, semi di lino (si trovano nelle erboristerie ma anche in qualche supermercato). Al momento di condire l’insalata, che c’è di meglio di poco sale, olio e aceto balsamico e due cucchiai di semi misti? Provare per credere…

Insalata di feta e germogli

I germogli sono veri e propri concentrati di vitamine. I più proteici sono gli alfa-alfa; i più gustosi quelli di crescione. Ma sono ottimi anche quelli di aglio e di sesamo. Provateli con cubetti di feta, un trito di noci e una bella cucchiaiata di aceto balsamico.


Non dimentichiamo poi le alghe – le wakame e le kombu, in particolare: seccate si possono sbriciolare sopra la zuppa, altrimenti si lasciano cuocere insieme alle verdure – e le macedonie di frutta, da farsi con ciò che offre la stagione e da arricchire con frutti oleosi come mandorle, noci, pinoli: un ottimo piatto per togliersi la voglia di dolce.


Più importanti di questi consigli alimentari sono la vita all’aria aperta, grazie alla quale assumiamo la giusta dose di vitamina D, camminare e nuotare, ascoltare musiche piacevoli, lavorare a maglia o all’uncinetto e a telaio, cantare come consiglia Frederick Leboyer, il padre del parto dolce, modellare la creta, piegare qualche origami… Usare le mani aiuta a liberare la mente, a regolarizzare il respiro, a concentrarsi in modo indiretto sul bambino, a vivere positivamente i momenti di solitudine. Ma è molto importante anche cercare la compagnia di altre donne, magari incinte come noi, con cui chiacchierare, condividere sensazioni, paure, opinioni su ginecologi e ostetriche, libri letti, gruppi di preparazione al parto.

Il parto e le altre donne

Zuppa del parto di Lynda

Per fare questa zuppa, molto comune in Kabylia (Algeria) bisogna rosolare un pollo a pezzi in poco olio e spezie, senza peperoncino. Lo si copre poi con acqua, si aggiungono due pugni di ceci, due di fagioli con l’occhio, già cotti di modo che abbiano perso l’acqua scura, due pugni di lenticchie. Si lascia cuocere. A metà cottura si aggiungono le carote. Alla donna che ha partorito, questa zuppa si offre molto brodosa, con poco cous cous, perché il brodo aiuta il latte. È ricchissima di ferro, molto utile, perché dà forza. Quando quella avanzata si raffredda, si prende un poco del grasso che si forma in superficie e lo si usa per ungere i capezzoli, affinché non si formino le ragadi.


La zuppa di Lynda, che potete provare a cucinare anche in versione vegetariana, viene offerta alla donna subito dopo il parto. A volte la si prepara in grande quantità – con sette polli – per poterla condividere con gli abitanti del villaggio. Nei giorni seguenti, la novella mamma protegge l’addome con l’agus, una cintura rossa piuttosto larga, che aiuta la muscolatura a riprendere tono, mentre a rimetterla in forza ci pensano le donne di casa portandole ogni mattina una frittata cosparsa di miele e un bicchiere di latte fresco. Questa usanza è ancora così diffusa che al momento del parto i genitori della sposa portano in dono un montone (verrà, ahimé, sacrificato di lì a poco), 300 uova e una cassetta di mesmene, uno speciale mille foglie di cui abbiamo avuto la ricetta.

Mesmene di Baya

Si prepara una pasta con semola, acqua, poco sale. La si lavora molto, fino a quando sarà molto elastica, e se ne fanno tante palline che si lasciano riposare qualche minuto. Ognuna va stesa sottilissima, fino a raggiungere anche il mezzo metro di diametro. La si unge di olio, la si ripiega in quattro parti e la si cuoce su una piastra bollente [ottimo il “testo” romagnolo]. Mentre questa cuoce, si stende la seconda pallina, ma prima di ripiegarla vi si pone nel mezzo quella già cotta. Così per tre palline. Poi si ricomincia da capo. Il mesmene si mangia soprattutto a colazione ed è sottile e friabile come la vostra sfoglia.


Dopo il parto, dice Baya, “le donne hanno un piede nella vita e un piede nella morte”, ma più che malate sono sentite come fragili, bisognose di protezione. Non diversamente dal bambino che tengono fra le braccia, vengono da un lungo viaggio, da un’esperienza profondamente trasformativa, che in modi differenti la comunità, e la famiglia allargata, tutelano5. Certo, capita che il bisogno di protezione assuma la forma di un farmaco, come in Cile, dove, secondo quanto racconta la mediatrice culturale Karina, si esce dall’ospedale con i pannolini e una confezione di pillole per la depressione post partum. Ma in generale le culture dove ancora predomina una certa povertà sembrano più attrezzate a cogliere i sottili bisogni delle madri.


In Nigeria, racconta Patricia, quando la figlia partorisce la madre sta con lei per tre mesi, mentre in Bulgaria, appena la neomamma torna a casa con il bambino, amiche, vicine e parenti arrivano per una festa che è solo femminile: “La mamma invita le donne che conosce – racconta Veneta – e fanno festa per tutto il giorno. Si portano doni, dolcetti da mangiare, ci si scambiano informazioni e saperi sul bambino nuovo. È un uso antico ancora molto diffuso. Ci piace”.


Come darle torto? Siamo intorno al terzo/quinto giorno (questa più o meno la data in cui si lascia l’ospedale), momento in cui, secondo l’ostetrica di Bali Robin Lim, per le donne è facile lasciarsi andare alle lacrime: “Io lo chiamo il giorno della gratitudine. La puerpera diventa intensamente consapevole di quale profonda esperienza di transizione rappresenti il parto”6. Ecco che stare insieme, condividere paure, conoscenze, aspettative, timori e sogni, aiuta a reinserirsi nel cerchio quotidiano del vivere, dando senso a lacrime e a sensazioni di smarrimento che altrimenti non sempre trovano un significato.

Pitka del parto di Violeta

La pitka è una focaccia speciale che in Bulgaria usiamo portare in ospedale, appena la donna ha partorito, per dividerla con tutti, anche con i medici e gli infermieri. La si mangia intinta nel sale e nel miele, perché dolce e salata è la vita. Si prepara con farina, uovo, acqua, lievito e un pizzico di sale. La si cuoce in forno e deve venire alta 4-6 cm. Poi la si spezza con le mani e prima di portarla alla bocca la si passa ora nel piattino del sale, ora in quello del miele.


È forte, infatti, e non solo dopo il parto, il bisogno di raccontare. Chi non ha figli difficilmente sta dove ci sono bambini piccoli e descrive come insopportabilmente noioso il continuo sostare dei discorsi delle mamme (e spesso anche dei papà e dei nonni) nei pressi del parto e della gravidanza trascorse, dei pannolini e delle pappe, dei pianti notturni e dei sorrisi, delle lallazioni e delle prime sillabe. Ma chi è immerso nel lungo percorso della nascita (del proprio bambino ma anche di se stesso come genitore) non si annoia affatto. Anzi. La ripetizione sembra quasi svolgere la funzione tranquillizzante delle fiabe e l’ascolto di un’altra mamma restituisce, vivissima, la sensazione di essere nodo di una rete più ampia.

Tamina di Baya e Lynda

La tamina è un dolce algerino per la donna che ha appena partorito, ma è uso offrirlo, insieme a tazze di caffè latte, mesmene e frittelle di semola lievitata, anche agli abitanti del villaggio. È l’inizio di quella lunga festa che da noi si fa sempre quando nasce un bambino. Per fare una buona tamina occorrono: 1 tazza di semola piuttosto fine, 1/3 di tazza di burro sciolto, 1/3 di tazza di miele, mandorle e cannella.


Far dorare la semola a fuoco bassissimo, facendo molta attenzione a che non bruci, altrimenti il gusto diventa amaro. Poi spegnere e aggiungere il burro e il miele. Mescolare bene e versare il composto su un piatto, stendendolo bene. Decorare con la cannella (noi usiamo disegnare con la polvere una decina di raggi) e posare al centro di ogni spicchio una o più mandorle, formando un fiore.


Fra i Rom rumeni è uso, qualche giorno dopo la nascita di un bambino, che altri bambini del campo preparino la Torta degli Ustatori – questo il nome dei tre spiriti chiamati a concedere un buon futuro – un pane speciale, rotondo, che viene diviso fra tutti gli abitanti. Ascoltando Vasilisca e Maria, che raccontano quanto sia importante che a impastarlo siano i bambini, gli unici puri, si ha la sensazione che ai piccoli sia tributata la possibilità di cogliere ciò che sta fra la vita e la morte. Erano loro, infatti, nei luoghi originari, a prendere l’acqua dai pozzi e a portarla agli abitanti dopo la morte di un membro del villaggio.


Subito dopo la nascita, in molte culture sono le donne della famiglia o le vicine di casa a prendersi cura della puerpera. In Etiopia, il terzo giorno dopo il parto, le fanno il bagno intonando un canto di festa, già cantato al momento della nascita, la lelelta. È l’inizio di un lungo periodo di ombra (madre e figlio non escono di casa per 40/60 giorni) al termine del quale avviene il battesimo ortodosso. In Marocco portano cibo, aiutano nelle faccende di casa. Quando non sono le donne, talvolta si fa avanti il neopapà. Racconta Rosario Mercedes: “Eravamo tanti, fra fratelli e sorelle, e alla nascita di ognuno, per quaranta giorni, ogni mattino mio padre preparava per mia madre brodo fresco di gallina. Quando il latte tardava ad arrivare, faceva anche delle tisane di anice e manzanilla [camomilla] da dare al bambino, che aveva sete”.


Sono le attenzioni della cosiddetta quarantena, periodo durante il quale la donna rimane a letto, viene nutrita con cibi speciali, non tocca l’acqua (cioè non lava, attività faticosissima in assenza di lavatrice), non cucina. Un tempo riconosciuta, oggi è considerata un ridicolo retaggio della civiltà contadina. Eppure, oltre agli esperti in tema di allattamento (si vedano, per esempio, i consigli della Leche League, la Lega Internazionale del Latte materno, sorta già negli anni ’50 negli Usa per contrastare la diffusione del latte artificiale) che da anni ribadiscono l’importanza di trascorrere le prime settimane in un ambiente tranquillo, sereno, in pieno riposo, non c’è donna che una volta a casa, soprattutto se sola, non vorrebbe trovarsi in un altrove ricco di scambi, di aiuti, di consigli. Possono essere parenti (le nonne, i nonni), ma anche delle amiche, una vicina di casa, una collega di lavoro: l’importante è tessere il prima possibile la rete di sostegno che consentirà di vivere appieno l’allattamento e la trasformazione delle relazioni di coppia (se si era in due) o della famiglia (se si hanno già altri figli).


In Togo la “clausura” dura solo sette giorni, durante i quali si preserva la delicatezza dei primi momenti costruendo una specie di bozzolo protettivo intorno alla coppia madre-bambino. “All’ottavo – racconta Amavi Desirèe – il bambino viene presentato alla comunità, di cui entra subito a far parte. È una cerimonia importante, perché per noi il figlio è sempre un dono alla comunità, non è solo della coppia, e vengono invitati parenti, amici, ma anche gli antenati, che sono sempre fra di noi: uno ad uno, si presenta loro il nuovo nato, ringraziandoli. Poi, per loro si versa una bevanda dolce a terra; e agli altri ospiti si offre l’acqua della pace e anche un poco di liquore, per far ubriacare coloro che guarderanno male il bambino. Infine, un’acqua rimasta alla luce della luna per l’intera notte, perché s’impregni di rugiada, viene versata sulla testa del bambino, nudo in braccio al padre o a un altro membro della famiglia, e sul tetto della casa, quasi la benedizione provenisse dal cielo”.


Anche in Cile il bambino viene sentito come appartenente alla famiglia, intesa nel senso più largo: “Lo si condivide volentieri”, dice Karina. “Quando si va in una casa dove è appena nato un bambino, facilmente ce lo si ritrova in braccio. Il contatto fisico è non solo accettato, ma ritenuto molto importante e c’è ancora una certa naturalezza nell’ascolto dei bisogni dei bambini”.

Budino di riso e latte di Wesam

I miei figli sono tutti nati in Egitto dove, il settimo giorno, si fa una grande festa. Si mangiano molte noci e un dolce che somiglia al vostro creme-caramel, preparato facendo cuocere a lungo il riso nel latte. Poi si aggiunge lo zucchero e si lascia andare ancora un poco. Infine si mette negli stampini. Si serve freddo, se piace con le noci sbriciolate sopra.


Che sia dopo una settimana come in Togo, trascorsi cento giorni come in Cina o al momento del battesimo o della circoncisione, prima o poi il bambino viene presentato alla comunità. E allora è festa grande, e quando si fa festa, si sa, è il momento dei fritti.

Frittelle del nuovo nato di Lulyeta

In Albania, quando nasce un bambino e andiamo a trovare la famiglia per la prima volta, portiamo delle frittelle. Sono semplici e piacciano molto anche ai piccoli, una volta cresciuti e in grado di masticare. Fare una pasta morbida con acqua, farina, sale, yogurt e un poco di lievito, e lasciatela riposare una trentina di minuti. Dividetela poi in palline e schiacciate ognuno formando dei dischetti. Si friggono nell’olio e si cospargono di zucchero semolato.

Frittelle di Rachida

In Marocco usiamo mangiarle durante la festa delle circoncisione, che di solito si fa intorno al quarantesimo giorno, quando finisce anche la quarantena e la donna può tornare finalmente all’hammam, dove incontra le altre donne. Per prepararle occorrono 250 g di farina, 20 g di lievito di birra, 150 g di miele, un cucchiaio di burro sciolto, 70 g di sesamo, 1 bicchiere di latte tiepido, un cucchiaio di semi di finocchio. Aromatizzare il latte scaldandolo insieme ai semi di finocchio, che vanno poi tolti. Mettere la farina a fontana, sbriciolarvi il lievito, aggiungere il burro e i semi di sesamo. Impastare lentamente versando via via il latte tiepido – la quantità varia a seconda della stagione. Lasciar lievitare la pasta. Poi stenderla e tagliarla a quadrati. In ognuno praticare 4 tagli. Friggerli e servirli cosparsi di miele.


La quarantena non è però solo un periodo di riposo. È anche il tempo in cui mamma e figlio imparano a conoscersi e in cui si pongono le basi di un buon allattamento. Chiuso fuori dalla porta di casa il rumoroso mondo, in compagnia esclusiva di persone che ci fanno stare bene e che aiutino nelle cose pratiche, ci si può dedicare a questo piccolo straniero appena arrivato, a questa neonata che è tutta un mistero, ma che quando sente la nostra voce o quando si avvicina al calore del nostro corpo, inizia a muovere la testa verso il nostro seno e guidata da un istinto lontano trova il capezzolo e vi si attacca con vigore.

Ti mangi il latte alla fonte,
ti prendi tutto il calcio in una volta,
come fosse un gelato:
serbi solo le ghiandole da panna,
dure come confetti.1

Un mondo di pappe
Un mondo di pappe
Sara Honegger
I saperi delle mamme nell’alimentazione del bambino da 0 a 6 anni.Una carrellata sulle conoscenze trasmesse da madre in figlia riguardo lo svezzamento e l’alimentazione dei bambini. Con moltissime ricette etniche. Il passaggio da un’alimentazione lattea a una che comprende cibi solidi è una tappa fondamentale nello sviluppo naturale del bambino. Sempre più spesso, però, lo svezzamento viene vissuto da molti genitori con ansia e frustrazione, mentre, in realtà, dovrebbe essere un piacere che nasce dall’esplorazione e dalla scoperta del bambino delle sue nuove competenze e capacità che gli permettono di entrare in relazione con il mondo esterno. Un mondo di pappe non ha la presunzione di dire ai genitori “come si fa”, ma promuove, sostiene e rafforza le loro competenze e quelle dei loro bambini in un processo di facilitazione e non di imposizione, facendoci conoscere e apprezzare cibi, sapori e momenti di condivisione.Mai come nei primi mesi di vita di nostro figlio saremo altrettanto attenti alla qualità degli alimenti che compriamo. Questa attenzione può diventare il primo gradino di un modo ecologico di porsi nei confronti del mondo, nonché il primo passo verso un percorso educativo attento all’altro e alla ricchezza offertaci dalle tante diversità. Questa è la convinzione che ha sostenuto Sara Honegger nel suo viaggio a tutto tondo nell’alimentazione infantile. Dal latte della mamma alla tavola di famiglia, dai primi approcci alle pappe alla cucina vissuta come entusiasmante laboratorio, questo libro ci accompagna in un fantastico viaggio fra ricette, consigli e ricordi di mamme provenienti da diverse parti del mondo. Un viaggio interculturale, compiuto senza mai dimenticare i princìpi di un’alimentazione attenta alla salute, nostra, ma anche degli altri e della Terra che abitiamo. Un testo di grande aiuto non soltanto ai genitori, ma anche agli educatori degli asili nido e a tutti i pediatri attenti a promuovere la salute dei loro piccoli pazienti.