capitolo ii

Un dono d'amore:
il mestiere di genitori come carriera
temporanea

Da quando la società umana ha raggiunto quel punto del cammino verso la civiltà in cui la mera sopravvivenza non rappresenta più la principale preoccupazione quotidiana, la ricerca dell’amore reciproco è diventata la meta più ambita, oltre che la maggiore fonte di ansia per gran parte di uomini e donne.


Di tanto in tanto i sondaggi d’opinione chiedono agli americani qual è secondo loro il principale ingrediente della ricetta per la felicità personale. Più di nove persone su dieci collocano l’amore in cima alla lista, ben prima di denaro, posizione sociale, potere e fama. Ma sebbene la capacità di dare e ricevere amore risulti tanto desiderata e ricercata, oltre che così determinante per la nostra esistenza, sembrerebbe – in molti casi e per molte persone – altrettanto inafferrabile. Inutile citare l’evidenza delle statistiche sui divorzi, o le scoraggianti osservazioni degli esperti sul proliferare di relazioni disfunzionali per dare triste dimostrazione del fatto che molti di noi hanno difficoltà a instaurare rapporti di intimità e ad impegnarsi emotivamente. In breve, sembrerebbe che siano pochissimi gli individui dotati della capacità – tanto agognata da ognuno di noi – di vivere e mantenere una relazione d’amore.


Supponiamo che qualcuno vi dica di essere dotati, in quanto genitori, della capacità di fare a vostro figlio un regalo speciale: la capacità di amare. Supponiamo, inoltre, che vi venga svelato che tale regalo potrebbe offrirgli qualcosa in più della capacità di dare e ricevere amore; che, per esempio, saprebbe instillare in lui altre qualità, come la curiosità, la creatività, l’energia, la resistenza, la moralità, la motivazione, la perseveranza e l’autostima – qualità a garanzia di una vita felice e piena di soddisfazioni, non solo durante l’infanzia, ma anche nell’età adulta. Naturalmente nessun genitore rifiuterebbe l’offerta.


Però, come per tutti i doni magici, c’è un prezzo da pagare. Vi viene detto che il regalo deve essere offerto ogni giorno per diversi anni, che è compito vostro garantire al bambino la presenza positiva di una persona allegra e affettuosa che si prenda cura di lui e che sia sensibile e in sintonia con le sue esigenze. Vi viene anche raccomandato di assicurarvi della continuità dell’accudimento, riducendo al minimo eventuali traumi e separazioni fintanto che il bambino non abbia compiuto due o tre anni. È questo l’arco di tempo, detto periodo preverbale, che termina (in alcuni casi raggiunti i due anni di età, in altri casi i tre anni) nel momento in cui il bambino riesce a farsi capire con una certa facilità ed è in grado di comprendere i messaggi a lui rivolti, ed è quindi pronto ad affrontare i cambiamenti legati al distacco.


Non è facile fare un regalo come questo, neanche quando il genitore è presente. Ma se i contatti con la persona che si prende cura del bambino negli anni formativi sono ridotti al minimo, il dono d’amore è pressoché impossibile.

L’importanza della principale figura di riferimento

Immaginate un coniuge che dichiari a parole il proprio amore ma che sia a casa solo di rado, che lavori fino a tardi durante la settimana, che trascorra gran parte del fine settimana con gli amici e che sia poco disponibile quando gli si chiede affetto e consolazione. È ovvio che chiunque dubiterebbe della forza del sentimento e dell’impegno di un simile compagno e che, col tempo, la fiducia in lui riposta andrebbe pian piano sgretolandosi.


Allo stesso modo, le dichiarazioni d’amore di un genitore per il figlio non possono essere puramente verbali; un bimbo piccolo non capisce le parole “ti voglio bene”. Per dargli la sensazione di essere amato, bisogna che le parole vengano accompagnate da – o se volete tradotte in – un gran numero di interazioni affettive quotidiane. Terminologia tecnica che sta semplicemente a indicare l’insieme delle azioni svolte da un genitore (o da una diversa figura di riferimento principale) nell’accudire ogni giorno e con amore il proprio bambino: allattarlo, cantargli la ninna-nanna, tenerlo in braccio e cullarlo mentre piange, parlargli facendogli i versetti, divertirlo con un giochino o leggergli un libro illustrato.


Se le persone che lo accudiscono cambiano di frequente, il bambino non riuscirà a sviluppare la fiducia in un mondo sicuro e prevedibile. Se la persona con la quale sta realizzando un legame d’attaccamento scompare all’improvviso, sostituita da una figura sconosciuta, è come se d’un tratto gli venisse a mancare il terreno “emotivo” sotto i piedi, procurandogli ansia e tensione. Ne potrebbe risultare una maggiore difficoltà a creare stretti legami affettivi con le successive figure di riferimento, oltre che una ridotta capacità di instaurare, nel corso degli anni, relazioni basate sull’amore e sull’intimità.


Purtroppo, nell’America di oggi i bambini sempre più spesso subiscono il frequente alternarsi di diversi sostituti materni, sia nel caso di un continuo avvicendamento di baby-sitter o domestiche sia in quello dei numerosi turnover delle educatrici nei nidi, anche in quelli migliori.


Per capire cosa prova un bambino quando le persone che si prendono cura di lui continuano a cambiare, cercate di immaginare di essere pazienti ricoverati in ospedale. In genere il personale infermieristico è organizzato su due o tre turni diversi nell’arco delle 24 ore. Un’infermiera mai vista prima all’improvviso compare al vostro capezzale: per la maggior parte dei pazienti adulti, questo avvicendamento può creare fastidio e disappunto.


In molti casi sono sufficienti otto ore di degenza perché si instauri un rapporto tra paziente e infermiere, ma con il turno successivo il malato è costretto a stabilire un nuovo legame con chi si prende cura di lui in quel momento. Tuttavia può capitare che, all’ennesimo cambio di turno, il paziente rinunci definitivamente a qualsiasi interazione, chiudendosi in se stesso.


Si può presumere che i sentimenti appena descritti siano simili a quelli di un neonato che abbia acquisito familiarità con l’odore, le braccia e la voce della persona che si prende abitualmente cura di lui. Quando a questa succede un estraneo, è bene tenere a mente che il neonato risulterà assai più vulnerabile dell’adulto succitato: non è in grado di parlare, né di capire il linguaggio e non ha neppure la maturità necessaria per iniziare a comprendere i tanti avvicendamenti nella persona per lui più importante: la principale figura di riferimento.

I vantaggi di un genitore come principale figura di riferimento

Se le possibilità economiche lo consentono, contare su un genitore come principale figura di riferimento presenta vantaggi evidenti. I genitori risultano più motivati, pertanto più affidabili e meno soggetti a improvvise scomparse, abbandoni o trasferimenti in altre città. A differenza di un sostituto, è improbabile che si prendano una vacanza fuori programma, o che trovino scuse improponibili per non presentarsi al mattino. Di tutte le persone che possono occuparsi di un bambino, i genitori sono di certo quelle ad avere maggior interesse a garantirgli un accudimento continuativo e qualitativamente valido.

Nel 1994 il dottor Benjamin Spock, prendendo in esame i problemi legati alle cure genitoriali o sostitutive, spiegò quanto fosse auspicabile che almeno uno dei genitori (se non entrambi) “dedichi molto del proprio tempo ai figli nei loro primi due o tre anni di vita, non solo nutrendoli, vestendoli e tenendoli puliti, ma donando loro un senso di sicurezza e intimità”, e aggiunse: “In questo periodo, sempre che la situazione economica familiare lo permetta, è preferibile che uno dei due genitori si astenga dal lavorare fuori casa1.


Penelope Leach torna a sottolineare il valore della presenza dei genitori: “Per quanto si tenda a delegare ad altre figure di riferimento o alle istituzioni educative, il ruolo dei genitori e delle figure genitoriali resta determinante in ogni fase della lunga infanzia dell’uomo, se non altro perché sono proprio loro a desiderare con più slancio di accontentare i figli, ed è di questo slancio che c’è tanto bisogno2.


Se questo è vero, è necessario che le madri e i padri rivedano le loro priorità in un’ottica nuova e più ampia secondo cui la paternità e la maternità vengano vissute come temporanea scelta lavorativa.


Di primo acchito occuparsi a tempo pieno di un figlio per un periodo di due anni potrebbe sembrare un impegno troppo prolungato per essere definito “temporaneo”. Ma considerando che gran parte dei giovani genitori di oggi può contare su una prospettiva lavorativa di 25-40 anni o più, concedersi un breve intervallo di 24 mesi non compromette la futura crescita professionale, né il raggiungimento dei propri personali obiettivi o la realizzazione di una certa sicurezza economica, anche previdenziale.


È altresì importante sottolineare come non sempre una pausa lavorativa di due anni all’inizio del percorso professionale di un genitore ha gravi ripercussioni a lungo termine sulla sua carriera. L’ex primo ministro inglese Margaret Thatcher è l’esempio perfetto di una madre che ha messo da parte il lavoro per stare a casa con i figli fintanto che non sono andati a scuola. Solo allora è tornata alla politica, riprendendo una carriera piena di successi3.

In realtà è più probabile che certe ripercussioni si registrino nel caso in cui, come descritto al capitolo IV, si espone un bambino a frequenti sostituzioni delle figure di riferimento.


Sarebbe forse il caso che i genitori rivedessero anche il significato del termine “carriera”: la “genitorialità”, la “maternità” o la “paternità” forse meriterebbero di per sé tale titolo, se non altro nel breve arco di tempo interessato e nel momento in cui si prende coscienza dell’impatto di una simile scelta sui figli. Perché se un genitore riesce a trasformare il proprio ruolo in una carriera temporanea a tempo pieno, solo per i primi anni di vita del figlio, arriva a trarre soddisfazione dalla consapevolezza di fare il possibile per offrirgli in dono una base emotiva sicura.


Grazie a questa base, il bambino potrà:

  • Imparare ad aver fiducia e ad amare. Ne risulterà una maggiore capacità di stabilire e mantenere relazioni intime gratificanti nel corso della vita, come ad esempio un matrimonio felice, oltre che l’opportunità di trasmettere ai figli una base emotiva altrettanto sicura.

  • Muoversi con successo all’interno del sistema educativo, imparando ad aver fiducia nei docenti e a seguirne gli insegnamenti, oltre che ad affrontare con successo le difficoltà scolastiche e a esprimere al massimo le proprie innate potenzialità.

  • Apprendere e interiorizzare un codice morale costruttivo aderente alle regole e ai doveri dettati della società.

  • Evitare il consumo di alcol, droghe e sostanze analoghe, e prevenirne le inevitabili conseguenze.

  • Infine, evitare la depressione e tutti i disturbi emotivi che affondano le proprie radici nei primi anni di vita. Il comportamento depressivo si manifesta già nella prima infanzia, nel caso in cui interruzioni sopravvenute nel processo di attaccamento compromettano la realizzazione di un attaccamento emotivo sicuro. Alle perdite subite fa seguito un periodo di lutto e depressione.

Essere temporaneamente genitore a tempo pieno non significa non uscire mai di casa, non rivolgersi mai a una baby-sitter, o non concedersi una breve vacanza, bensì rappresentare, per gran parte del periodo interessato, la figura di riferimento principale per il proprio figlio – la persona su cui poter contare, e che è “sempre con lui” nei momenti di bisogno. Significa avere il compito straordinario di aiutarlo a realizzare quel legame emotivo fondamentale da cui trarrà forza per tutta la vita. Stare sempre con lui gli garantirà, nel corso degli anni, la supervisione, la responsabilità e il sostegno necessari alla trasmissione di valori e all’acquisizione di una condotta disciplinata.


Per finire, fare temporaneamente il genitore a tempo pieno non significa neppure sobbarcarsi l’intero carico delle attività domestiche. Alcune madri sono desiderose, se non addirittura liete di stare tutto il giorno a casa con il proprio bambino, ma non altrettanto pronte a sostenere l’onere delle faccende domestiche. Perché mai essere mamme a tempo pieno dovrebbe per forza equivalere a essere casalinghe a tempo pieno? Così come uomini e donne in carriera assumono segretarie e assistenti per alleviare il proprio carico lavorativo, altrettanto un padre o una madre in carriera non dovrebbe scusarsi di chiedere una mano per i lavori di casa. La collaborazione del coniuge, del partner, dei nonni, dei parenti, degli amici, dei vicini o, potendoselo permettere, quella di una persona pagata, è sempre di notevole sostegno psicologico. Poiché le madri o i padri che non lavorano si sentono spesso in colpa di non portare uno stipendio a casa, in alcuni casi ritengono di dover fare tutto da soli, con il risultato di subire un tale accumulo di stress e risentimento da compromettere, alla lunga, la tranquillità e la serenità fondamentali per l’avvio di un buon legame di attaccamento.

Riduzione del tempo dedicato ai figli nel corso della loro crescita

È bene ricordare che nel corso del processo di maturazione del bambino e con lo sviluppo delle competenze verbali, si assiste a una progressiva riduzione del tempo richiesto al genitore. Il fanciullo è ormai in grado di esprimere i propri bisogni in modo efficace, oltre che di raccontare le esperienze della giornata. Ha raggiunto un maggior livello di comprensione e sa tollerare meglio brevi separazioni dai genitori che lavorano o che si assentano per ragioni diverse.


Se un bambino di età inferiore a 2 anni che ha un genitore sempre a casa con lui piangerà di certo al momento del suo rientro al lavoro, compiuti 2 o 3 anni potrà essere preparato a tutti gli effetti alla gestione dello stesso evento: a quell’età, infatti, il bimbo è grande abbastanza per capire e comunicare.


Ad ogni modo, nessun genitore dovrebbe sentirsi obbligato a rimanere a casa 24 mesi in qualità di figura di riferimento principale. Milioni di genitori che ne avrebbero il desiderio non hanno la disponibilità economica per farlo. Ma tutti, senza eccezione alcuna, hanno un dovere inderogabile, quello di fare il possibile per garantire un accudimento continuativo e qualitativamente valido ai propri figli. Tale dovere non riguarda solo le singole figure di riferimento, ma si estende anche al personale degli asili-nido. È compito del genitore accertarsi che questi ultimi siano provvisti delle necessarie competenze, oltre che di doti di affettuosità e comprensione, ma ancor più importante è impegnarsi affinché l’avvicendamento di diverse figure di riferimento sia ridotto al minimo (per avere specifici suggerimenti in merito, si vada al capitolo VII). Qualsiasi genitore è in grado, con l’impegno, di ottemperare a tali doveri.


Naturalmente un accudimento costante nel corso dei primi anni di vita non basta di per sé a garantire il raggiungimento di tutti gli obiettivi prospettati da una base emotiva sicura. Eventi quali maltrattamenti fisici o psicologici, malattie, incidenti, divorzi o la morte dei genitori – possono compromettere molto seriamente lo sviluppo successivo di un individuo. Sono tuttavia numerosi, e in continua crescita, i dati a suffragio dell’importanza di una base emotiva sicura nei primi tre anni di vita, e in questa sede vengono citate autorevoli personalità a supporto di tale tesi, da John Bowlby a Mary Ainsworth, da Burton White a Benjamin Spock, senza dimenticare i rapporti della Carnagie Foundation e dell’Università del Colorado.


Non bisogna infine dimenticare che, durante l’infanzia, la supervisione e il coinvolgimento dei genitori nelle ore extrascolastiche dei figli rappresenta un ulteriore contributo e motivo di arricchimento, come incentivo al pieno raggiungimento delle loro potenzialità di individui creativi e coraggiosi.

Perché le madri rientrano al lavoro

La maggior parte delle madri – a metà degli anni Novanta ben oltre il 50% – rientra al lavoro, a volte nei primissimi anni di vita dei figli. Sono molte le ragioni di una tale decisione. Tra le più confessate, il bisogno reale o percepito di incrementare il reddito familiare, particolarmente sentito in una cultura consumistica come la nostra, dove i media ci indirizzano verso desideri materialistici. A princìpi quali “la donna deve lavorare” e “in famiglia c’è bisogno di due stipendi” si oppongono alcuni studi che sembrerebbero smontare questi diffusissimi slogan. Tali ricerche dimostrerebbero come milioni di donne lavorino per mantenere un certo tenore di vita, concedersi qualche lusso, “essere all’altezza degli amici”, o per ragioni diverse dalle reali necessità economiche. Secondo Harriet Heath, consulente sanitaria, “sono anni che la carta stampata e i sondaggi d’opinione sostengono che l’80% delle donne con un impiego retribuito sceglierebbe di lavorare fuori casa, anche senza averne effettiva necessità, per ragioni puramente economiche4. Allo stesso modo, lo psicologo Jay Belsky sostiene che “bisogna riconoscere l’esistenza di un buon numero di famiglie che potrebbe fare a meno di due stipendi” durante il primo anno di vita del figlio, in ragione degli “eventuali rischi presenti all’interno delle strutture per l’infanzia5.

Ecco i principali motivi che spingono le madri a rientrare a lavoro:

  • La perdita di uno stipendio come conseguenza di un divorzio, della morte del coniuge, o difficoltà economiche di tutta la famiglia;

  • La ricerca di maggiori stimoli intellettuali o emotivi, che uomini e donne tendono a ricercare in ambito lavorativo;

  • Il mantenimento e il perfezionamento di capacità e competenze professionali acquisite prima di diventare madri;

  • Il rischio di perdere l’anzianità lavorativa o di compromettere la carriera. Molte lavoratrici posticipano la maternità per ottenere una promozione, mansioni di supervisione o posizioni di maggior rilievo, e temono di perdere gli avanzamenti ottenuti se il rientro dopo la nascita di un figlio non è immediato;

  • La continua svalutazione del ruolo di casalinga e madre nella cultura contemporanea. Sia l’uomo che la donna tendono a valorizzare la crescita professionale e il raggiungimento di un livello economico sempre più alto, a discapito dell’importanza attribuita al ruolo di “genitore a tempo pieno”. A quel punto, pressioni di carattere economico e sociale spingono la neomamma a riprendere l’attività lavorativa e a considerare la propria professionalità e capacità di guadagno come termini per la definizione del “sé”. Una tendenza tipica delle donne appartenenti all’attuale ceto medio è quella di aver dedicato molti anni della loro vita agli studi universitari e alla carriera, posticipando matrimonio e maternità in favore del prestigio economico e professionale.

    Molte di loro faticano ad immaginare di trarre soddisfazione dalle gratificazioni meno tangibili della maternità, e spesso temono lo stress dell’isolamento sociale. Non trovano tanto entusiasmante dover scendere da un letto caldo per consolare un neonato in lacrime, né spingere un bimbo sull’altalena, o cantar canzoncine e leggere libricini al figlio di 14 mesi; tutte attività assai meno attraenti di un “lavoro vero”, e senza gli stessi vantaggi. Lo stipendio a fine mese finisce con l’apparire ben più appagante da un punto di vista emotivo e intellettuale che nutrire il proprio bambino cinque o sei volte al giorno. Risulta quindi comprensibile perché oggi sono tante le donne costrette ad affrontare il cruciale conflitto emotivo di chi si dovrà occupare dei loro figli.

  • Infine, l’ignoranza – forse il vero problema di molte mamme di oggi – sui danni causati da educatori incompetenti, e sui tanti vantaggi goduti dal bambino che ha un genitore – madre o padre che sia – “sempre con lui” non solo la sera o il week-end, e sempre di fretta, ma per tutta la settimana.

Genitori single: per caso o per scelta

Al giorno d’oggi è sempre più frequente constatare che donne e uomini single scelgano di diventare madre o padre senza contare su una rete di sostegno affidabile costituita dal coniuge, dal compagno o da un membro della famiglia.


Se dal punto di vista di un adulto in cerca di una realizzazione personale il desiderio di essere genitore è più che comprensibile, sarebbe altresì auspicabile che si mettessero in primo piano gli interessi del bambino.


Un accudimento continuo, come anche offrire esperienze sempre nuove e stimolanti, è però ben più difficile da realizzare nella famiglia monoparentale. Il genitore single è costretto a guadagnarsi da vivere e, nella maggior parte dei casi, questo lo tiene lontano da casa. Allo stesso tempo deve aiutare il bambino a costruire un attaccamento sicuro; eppure risulta spesso difficile contare su una rete di sostegno, tanto necessaria in casi come questi.


Per quanto appagante, l’accudimento sensibile e amorevole di un figlio è un compito gravoso. Non per nulla agli insegnanti vengono concessi lunghi periodi di vacanza per ricaricarsi delle energie e dell’entusiasmo necessari al lavoro quotidiano con gli studenti.


Spesso sono i nonni i primi ad ammettere che, nonostante il bene che vogliono loro, occuparsi dei nipoti è un compito sfibrante, tanto che, in genere, non disdegnano di riferire il proprio sollievo al momento di riconsegnarli ai genitori al termine di una visita.


Purtroppo sono molti i genitori che, dopo la morte, la separazione o l’abbandono del coniuge, diventano l’unico punto di riferimento del figlio.


Senza aver scelto apposta di essere genitori single, si vedono costretti ad affrontare le reali difficoltà che il nuovo ruolo comporta. Qualunque sia la causa alla base di una famiglia monoparentale, resta difficile garantire un accudimento costante. Ma nel momento in cui il genitore riesce a provvedere in tal senso, in prima persona o affidandosi a sostituti affettuosi, sarà certo di aver compiuto un gesto importante per il dono d’amore.

Il “mito” della qualità del tempo

Molte giovani madri lavoratrici con cui ho avuto modo di parlare durante la preparazione di questo libro hanno sollevato la questione della “qualità del tempo”, rivolgendomi questa domanda: “È possibile riuscire a creare un legame di attaccamento forte e sicuro con mio figlio se quando sono a casa con lui gli dedico attenzioni speciali?”. Una madre mi ha riferito di sentirsi un genitore decisamente migliore perché lavora fuori casa. “Se fossi a casa tutto il giorno con i miei due figli, uno molto piccolo e l’altro di due anni, senza altri adulti con cui parlare, credo che impazzirei”, ammette. “Al lavoro, invece, mi sento stimolata, così quando torno a casa il tempo che dedico ai bambini è qualitativamente migliore. Sento che più che la quantità, è la qualità che conta”.


Sono molti i genitori che condividono questo punto di vista. Mi raccontano come rimedino alle assenze dei giorni lavorativi concentrandosi sui figli la sera, nei fine settimana e durante i giorni di vacanza. Quanto affermano sembra logico e convincente, e per certi versi ragionevole: i momenti “di qualità” – trascorsi giocando col bambino, ascoltandolo, leggendogli una storia, o accompagnandolo in una breve passeggiata – sono estremamente significativi e da non sottovalutare, in quanto elementi essenziali nello sviluppo del legame con il genitore, e fattore integrante nella costruzione del senso di sé del bambino.


Tuttavia – e lo scrivo con doppia sottolineatura! – non è tanto semplice garantire la qualità del tempo, e in molti casi non sortisce neppure i risultati sperati.


In realtà i genitori si aspettano molto dal tempo libero e dalle energie di cui dispongono. Il lavoro è solo uno tra i tanti impegni; molti di loro hanno obblighi all’interno della comunità, della chiesa, della famiglia e degli amici, a volte anche nei riguardi dei figli maggiori che vanno già a scuola. Quanto tempo resta per poter parlare di “qualità”?


È altresì vero che i genitori hanno ridotto al minimo gli impegni extra lavorativi, ma ad ogni modo, quando rientrano a casa la sera, spesso sono entrambi stanchi, stufi e desiderosi di staccare la spina e parlare tra di loro. Sta di fatto che alla fine di una giornata o di una settimana di lavoro, è probabile che siano i genitori stessi ad aver bisogno di essere accuditi. Ecco allora che i rituali della pappa e della nanna vengono espletati in modo frettoloso, negando al bambino proprio la qualità al poco tempo che gli si sta dedicando. A fine giornata anche il bambino è spesso stanco, irritabile, insistente, arrabbiato con mamma e papà che sono stati via tutto il giorno. E se ha iniziato a legarsi al sostituto che (in assenza dei genitori) si prende cura di lui, potrebbe essere di cattivo umore una volta che questi lo lascia all’improvviso. Risultato: né l’uno né gli altri sono in grado di esprimere i buoni sentimenti e creare l’atmosfera rilassata tanto necessari alla “qualità del tempo” passato insieme.

Penelope Leach torna a sottolineare l’errore insito nel concetto di “qualità del tempo”: “più il bimbo è piccolo, e più risulta impossibile programmare il tempo per stare con lui”, scrive. “Non si può tener sveglio un bambino esausto per recuperare tutte le coccole di una giornata, se non nell’intento egoistico di lavarsi la coscienza e sedare i propri conflitti interni, a scapito di bambini iperstimolati. Non è facile convincere un piccolo di un anno, che voleva giocare con te la mattina, ad approfittarne adesso; se è ancora arrabbiato per l’abbandono, non te la caverai tanto liscia. E se non ci sei quando tuo figlio recita la sua prima filastrocca, non lo sentirai e non vedrai il suo viso felice per quello che è riuscito a fare. I momenti magici arrivano senza preavviso e la dura verità è che quelli perduti sono perduti per sempre6.


Di certo si arriva al fine settimana con il carico degli impegni personali e delle faccende domestiche da sbrigare, e troppo spesso, tra una commissione e l’altra, ci si porta appresso anche i figli più piccoli. Tali spedizioni, che in genere non sono affatto a misura di bambino, spesso risultano stressanti per grandi e piccini. Le visite al supermercato, dal benzinaio o in tintoria non possono certo considerarsi esempio di tempo qualitativamente ben speso con i propri figli, né i lavori domestici – cucinare, lavare e fare le pulizie – fonte di mutua realizzazione e appagamento, anche se, a volte, certe mansioni possono rivelarsi interessanti e il tempo trascorso insieme può diventare occasione per fare esperienza nel mondo degli adulti.


Eppure, alla fin fine, sono molti – se non la maggior parte – i genitori ad ammettere con riluttanza di condividere pochissimi momenti di gioia con i propri figli. La situazione estrema si verifica quando, con entrambi i genitori fuori casa per 8 ore, la qualità del tempo trascorso insieme risulta più un mito che una realtà. I bambini desiderano la “quantità” del tempo con mamma e papà – perché è nell’arco di molte ore che la “qualità” del tempo a disposizione ha più occasione di realizzarsi. Scrive Leach: “La brillante espressione ‘qualità del tempo’ coniata dagli americani suggerisce ai genitori che è possibile concentrare tutti gli scambi che si vorrebbero avere con i figli in un’ora sola al giorno, per ogni giorno lavorativo, purché sia un’ora ben spesa… Naturalmente un’ora è meglio di niente e se il tempo scarseggia è certo preferibile non sprecarlo nelle faccende domestiche. Tuttavia, il concetto di ‘qualità del tempo’ rimane assurdo7. (Si veda il capitolo VI: “momenti speciali” da dedicare a ogni figlio). La maggioranza dei bambini ha desiderio e bisogno della presenza fisica di un genitore per buona parte della giornata, compresi possibilmente i momenti tanto preziosi in cui è la “qualità del tempo” che conta.

Tuo figlio come “investimento”

Pochi di noi pensano ai figli come a un investimento per il futuro. È un’espressione utilizzata soprattuto per iniziative più commerciali: si investe nel lavoro, nella carriera, nella casa o in borsa. È solo quando un figlio raggiunge l’età dell’università che il costo della sua istruzione viene visto come investimento, prettamente in termini di reddito potenziale.


In realtà la continuità di un buon accudimento offerto a un figlio riserva “proventi” ben più importanti: il piacere di essere sempre con lui quando pronuncia la prima parolina, o fa il primo passo, e quando impara a salire sullo scivolo, o a usare il vasino, o ancora quando ci abbraccia in cerca di calore e consolazione. L’occasione di rivivere, sempre con lui, la propria infanzia, rimediando agli errori o recuperando le esperienze mai vissute. Se l’investimento verrà gestito con saggezza, sarà possibile trarne ricchi guadagni quali la gioia e la soddisfazione di vedere il proprio bambino diventare adolescente e, infine, adulto. Se non gli si daranno basi solide, l’investimento si rivelerà molto costoso da un punto di vista sia economico che emotivo.

Mi rendo conto che essere buoni genitori rappresenti un notevole “investimento” in termini di tempo ed energia, tuttavia è proprio attraverso un tale investimento nei primissimi e fondamentali anni dell’infanzia che sarà possibile realizzare un saldo legame e un attaccamento sicuro, oltre che gettare le basi del futuro successo scolastico del bambino. Come si osserva nel Carnegie Reportabbiamo imparato che i mattoni su cui poggia l’intero edificio dell’istruzione devono essere posati molto prima dei tre anni8; vi si sottolinea inoltre come: “genitori ed esperti sanno da tempo che i primi tre anni di vita del bambino sono determinanti per le capacità di apprendimento9.

L’investimento offre ulteriori profitti nel momento in cui un figlio diventa un adulto amorevole e responsabile nei confronti del coniuge e della prole. La qualità dell’accudimento si impara prima di tutto dalla condotta della principale figura di attaccamento; in altre parole, si impara a essere genitori dalle azioni dei propri genitori. È quindi possibile godere dei benefìci resi dall’iniziale investimento nella continuità di un buon accudimento genitoriale molti anni più tardi, quando un figlio diventa a sua volta genitore, e nonno! Risultano quindi evidenti i vantaggi che vanno perpetrandosi di generazione in generazione, e che non coinvolgono soltanto le famiglie, ma la società intera.


Meg, mamma di George, ricorda che i suoi genitori avevano un rituale quotidiano: raccontarle storie e leggerle poesie. Anche Meg ha saputo ricreare un momento speciale con il suo bambino in cui leggergli le pagine che lei stessa aveva imparato ad amare. Ora George si scopre felice di trascorrere del tempo a leggere e recitare personalmente ai propri bambini le poesie e i testi che hanno avuto tanto peso nella sua infanzia. In questa famiglia la crescita intellettuale è stata trasmessa attraverso quattro generazioni, ed è possibile che l’amore per la parola scritta continui a essere fonte di arricchimento ancora per molti anni.


La conclusione sembra evidente. I genitori con la necessaria disponibilità economica possono affermare: “per i prossimi due o tre anni questa sarà la mia attività principale, e se svolgerò il mio compito di genitore al meglio, è probabile che mio figlio cresca sicuro e ottimista, in grado di apprendere e muoversi nel mondo. E, fra qualche anno, quando sarà abbastanza grande da comprendere cosa significa separarsi, potrò tornare al lavoro. Ma qualunque cosa io decida di fare in futuro, la farò con la coscienza di aver adempiuto alle mie responsabilità di genitore, ossia di aver gettato le basi emotive e cognitive fondamentali per il mio bambino. Gli avrò fatto un dono d’amore: la mia costante presenza nei primi anni di vita, e la certezza di essere ‘sempre con lui’ quando, in futuro, avrà bisogno di me”.

Che cosa desidera Timmy dalla sua mamma

Se Timmy potesse esprimere che cosa desidera dai genitori, direbbe: “Vorrei una mamma10 che, con il suo tenero abbraccio, mi stringesse forte al suo cuore, che batte sulle onde familiari del suo respiro. Vorrei essere cullato e consolato con le note di una canzoncina che sciogliesse la tensione e il dolore.

Vorrei riempirmi del calore che mi pervade ad ogni succhio regolare.


Vorrei poter toccare, assaggiare, picchiare e lanciare gli oggetti nel mio mondo. Vorrei strizzare, impastare, sporcare, schizzare.


Vorrei aver fiducia nel mio mondo – sapere che la mia mamma non svanisce nel nulla, e che quando la desidero lei è sempre con me.


Vorrei una mamma che stesse sempre con me quando mi sveglio arrabbiato, triste o spaventato, che rispettasse i miei pianti violenti e che non si arrabbiasse o si spaventasse quando sono preda delle mie emozioni.


Vorrei una mamma che, stando sempre con me, percepisse quando sento male o paura ancor prima di me – e che conoscesse le mie preoccupazioni anche se non riesco a dirgliele.


Vorrei una mamma che mi proteggesse dai pericoli, che non avesse paura di dire ‘no’ ma che, in assenza di rischi, mi incoraggiasse a osare.


Vorrei una mamma che mi permettesse di starle vicino. Solo così potrei sentirmi libero di fare i primi passi, di lanciarmi in nuove imprese, esplorare, o ponderare una nuova idea.


Vorrei una mamma che non si arrabbiasse se sporco tutto quando mangio da solo, ma che mi imboccasse se sono stanco e affamato.


Vorrei una mamma che capisse quando sono pronto a dire ‘ciao!’ ai pannolini, al biberon o alla copertina, che rispettasse i miei sforzi per cambiare, ma che incoraggiasse la mia capacità di apprendere le novità.


Vorrei una mamma che mi volesse bene non solo da neonato, ma anche quando, crescendo, comincio a strillarle ‘no’ in faccia – una mamma sempre con me mentre divento grande, che mi preparasse alle difficoltà e all’ignoto, a comprendere cosa spaventa e cosa ferisce.


Vorrei una mamma che mi aiutasse a comportarmi secondo le regole, una mamma amorevole e affettuosa, da ammirare, con cui arrabbiarmi e sempre pronta a ridere e giocare con me.


Vorrei una mamma che traesse gioia delle mie parole, espressioni e idee – che ascoltasse con pazienza anche quando non è facile capirmi.


Vorrei una mamma che non mi spaventasse o mi sopraffacesse con la sua rabbia, che mi trattasse con fermezza e riguardo, ma senza ferirmi nel corpo e nell’anima.


Vorrei una mamma che mi aiutasse a fare da solo – senza usarmi per sentirsi forte –, che mi mostri ‘come’ fare, ma felice se riesco a fare a modo mio.


Vorrei una mamma che mi permettesse di essere bambino, che non si aspetti che mi comporti da genitore o che sia troppo responsabile per la mia età.


Ma più di ogni altra cosa vorrei una mamma che mi proteggesse, mi accudisse e mi stimolasse, sempre pronta ad abbracciarmi con un sorriso, ma in grado di cogliere quando è il momento di lasciarmi solo.


Una mamma che mi riempia il mondo di fiducia, affetto e stupore – e di un amore che scorre libero perché lei è sempre con me.”

Sempre con lui
Sempre con lui
Isabelle Fox
I vantaggi di essere un genitore a tempo pieno.Quanto è importante stare con il proprio figlio almeno durante i primi due anni di età? Una forte presa di coscienza da parte di una psicologa evolutiva. Sempre con lui è dedicato ai milioni di bimbi piccoli che al giorno d’oggi sono privati del necessario e sano accudimento, per colpa dell’eccessivo impegno lavorativo di entrambi i genitori e della conseguente sostituzione delle principali figure di riferimento. L’autrice Isabelle Fox approfondisce questo fenomeno sociale, offrendo spunti di riflessione e illustrando concetti di vitale importanza per il benessere psicologico dei bambini. Un libro particolarmente ricco di soluzioni e suggerimenti pratici che, compatibilmente con i vincoli familiari e gli impegni lavorativi di mamma e papà, permetteranno di offrire ai bambini la migliore possibilità di sentirsi accuditi, compresi e amati. Conosci l’autore Isabelle Fox è psicoterapeuta da più di 40 anni, con specializzazione in psicologia evolutiva e relazioni genitori-figli. Per 10 anni ha prestato servizio come consulente per la salute mentale per Operation Head Start.