capitolo i

Chi si occupa dei nostri figli:
il dilemma di ogni genitore

È mattina. Helen si sveglia, si stiracchia e si rigira nel letto per dare al marito il bacio del buongiorno. Con sua grande sorpresa lui non c’è. Sente dei passi nella stanza, si volta e trasale nel vedere un estraneo avanzare verso di lei, con una voce e un volto a lei sconosciuti. L’estraneo si china su di lei, le braccia protese, quindi la solleva dal letto.Il suo tocco è spaventoso. Helen scoppia a piangere e subito dopo, all’improvviso, si sveglia alla luce del sole.


Helen ha fatto un brutto sogno. A breve gli strascichi emotivi di questo inquietante episodio svaniranno. Ma per milioni di bambini l’incubo di Helen è troppo spesso una realtà, una realtà che si ripete di continuo nel corso dei loro primi anni di vita.


Pensate alla paura e all’impotenza di un bambino che non è in grado di parlare o capire quello che gli viene detto, che non sa proteggersi da un estraneo – una nuova figura di accudimento con una voce, un aspetto, un odore e un tocco sconosciuti. All’improvviso, senza spiegazioni che comunque non saprebbe comprendere, il bambino si trova davanti una persona del tutto diversa dalla madre o dalla figura di riferimento a lui più familiare, con la quale aveva iniziato a sviluppare un importante legame di attaccamento.


Questa esperienza, comune a un numero crescente di bambini sotto i due anni appartenenti al ceto medio, illustra un fenomeno che si è andato sviluppando negli ultimi vent’anni e che è il risultato di una serie di pressioni a cui la famiglia medio-borghese non era mai stata sottoposta fino ad allora. Oggi il reddito familiare è sempre più costituito da due stipendi e, a partire dagli anni Novanta, la donna del ceto medio ha iniziato a perseguire obiettivi di realizzazione professionale che risultano spesso in conflitto con il suo ruolo di madre.


Molte professioni svolte fuori casa, oltre a essere intellettualmente stimolanti e fonte di soddisfazioni personali, costituiscono un utile introito all’economia familiare. Una moglie che abbia un buon stipendio o che stia realizzando una carriera importante, spesso ne trae un appagamento e un senso di valorizzazione di sé a cui difficilmente è disposta, seppur per breve tempo, a rinunciare.


Non ci si sorprenda, quindi, del continuo esodo delle madri che lasciano la casa per il posto di lavoro. In genere una madre oggi riprende a lavorare entro i sei mesi del bambino, che viene affidato a una figura di riferimento sostitutiva o a strutture competenti. Le ragioni sono di solito economiche. I genitori spesso ripetono: “Ci vogliono due stipendi per pagare le bollette. Abbiamo trovato una meravigliosa baby-sitter che si prenderà cura del bambino”.


È convinzione diffusa che qualunque persona minimamente responsabile sia in grado di cambiare il pannolino a un bimbo di pochi mesi, di nutrirlo, di fargli il bagnetto, insomma di prendersi cura di lui.


Inoltre, le donne con un alto livello di istruzione o che abbiano conseguito una specializzazione (come avvocati, medici, insegnanti, scrittrici, giornaliste) sono spesso portate a pensare che la propria professionalità e competenza andrebbe persa nello svolgimento delle quotidiane mansioni legate all’accudimento di un bambino. È altresì opinione generale che le cure offerte da un sostituto materno vadano sempre bene, a condizione che la persona in questione sia responsabile, non maltratti il piccolo e si preoccupi di tenerlo pulito, ben nutrito e al sicuro.


Si tratta di idee generalmente condivise che tendono a tranquillizzare e a ridurre il senso di colpa e l’ansia di milioni di genitori che, ogni giorno, vanno a lavorare lasciando i figli nelle mani di figure sostitutive per buona parte della giornata.


Ora tali opinioni, tanto rassicuranti quanto ampiamente diffuse, sarebbero valide se i sostituti scelti fossero non solo persone affettuose e competenti, ma anche garanti di una continuità di accudimento nei primi anni di vita del bambino.

Un’istituzione molto prestigiosa quale la Carnegie Corporation, in una pubblicazione del 1994 divenuta pietra miliare nella letteratura del suo genere – Starting Points: Meetings the Needs of our Youngest Children1 –, analizza i primi tre anni di vita del bambino. Il rapporto descrive i vantaggi di un accudimento dei bambini da parte di un ristretto numero di pochi “adulti affidabili” in grado di garantire “una base sicura da cui il bambino possa esplorare in modo più ampio il mondo fisico e sociale2, oltre a spiegare che “per uno sviluppo sano, i bambini da 0 a 2 anni hanno bisogno di una relazione continuativa con poche figure di riferimento, primi fra tutti i genitori e, in un secondo tempo, anche persone diverse. Se il contatto primario è solido e costante, il bambino sarà in grado di creare legami di attaccamento basati sulla fiducia, essenziali per uno sviluppo sano3.

Purtroppo però, tale continuità viene sempre più negata alla maggior parte dei bambini americani. I sostituti materni a cui vengono affidati i più piccoli, sia in ambito domestico sia nelle strutture competenti, vanno e vengono con grande e malaugurata frequenza. L’avvicendarsi di tante figure diverse ha assunto, come vedremo, ritmi vertiginosi.


Come se non bastasse, sono pochi coloro che si rendono conto delle conseguenze a lungo termine di un simile carosello. Neonati e lattanti non sono preparati ad affrontare questo fenomeno perché prima dei due anni non è loro possibile comprendere il significato delle parole. Tuttavia il cambiamento continuo della figura di riferimento viene già vissuto come una profonda perdita emotiva, perdita che, nel corso degli anni, dispenserà i propri effetti negativi sullo sviluppo del bambino.

Obiettivi di questo libro

PRIMO – Descrivere e illustrare i problemi che possono insorgere dalla mancanza di continuità nell’accudimento di un bambino sotto i 2 anni, sottolineando l’importanza di un genitore “sempre con lui” nei primi anni della sua vita.


SECONDO – Studiare e valutare come i genitori siano (in genere) più motivati, rispetto ai loro sostituti, nell’offrire ai propri figli ad ogni età (sebbene questo libro si occupi soprattutto dei più piccoli), stimoli cognitivi e sostegno emotivo.


TERZO – Offrire soluzioni specifiche per garantire ai bimbi in età preverbale continuità e qualità dell’accudimento, e rendere tale continuità un dato acquisito per le successive fasce d’età, anche nel caso in cui entrambi i genitori lavorino.

Il significato di “continuità” e la sua importanza nella formazione di un “attaccamento sicuro”

Con il termine “continuità” intendo la presenza costante e prevedibile della figura di riferimento principale, ovvero la persona che si occupa del bambino per gran parte della giornata e con cui il bambino crea un “legame di attaccamento” o “bond”. Alcuni autori parlano di “continuità” come di “costanza dell’accudimento”. Il modo migliore per comprendere l’impatto emotivo di termini come “continuità”, “costanza”, “presenza prevedibile” e “attaccamento sicuro” – e la loro eventuale mancanza – è quello di immaginare la reazione del bambino al presentarsi e allontanarsi delle figure di riferimento. Prendiamo l’esempio di un bambino di due anni che chiameremo Timmy, la cui madre riprende a lavorare a tempo pieno quando lui ha quattro mesi.


L’esperienza di Timmy è tipica di molti bambini che ho curato come psicoterapeuta.


Dalla sua storia se ne possono dedurre i sentimenti, certi pensieri fortuiti e alcune reazioni, utili a capire meglio lo stress prodotto dal continuo avvicendarsi di figure di accudimento diverse.


Sappiamo che Timmy non può tradurre i suoi sentimenti in parole: se però proviamo a immaginare quel che sta pensando, forse arriveremo a comprendere quel che prova.

La storia di Timmy

Quando sono nato, ho pianto perché volevo stare vicino alla mia mamma, sentire il battito del suo cuore e il profumo del suo corpo. Mi piaceva tanto poppare perché in qualche modo rivivevo il piacere provato quand’ero dentro la sua pancia. Durante i miei primi mesi di vita ho preso confidenza con i gesti della mia mamma, che mi cullava, mi cambiava il pannolino, mi sorrideva e mi faceva tanti suoni divertenti. Oramai avevo imparato a riconoscerne l’odore e il modo di parlare. Mi piaceva tanto il suo odore, come mi teneva in braccio e mi stringeva a sé mentre mi portava a spasso. Non ho mai pianto a lungo: subito mamma, o papà, si precipitavano a consolarmi. Mi sentivo un bambino desiderato, amato e protetto.


Poi, un giorno, quando avevo circa quattro mesi e ormai sapevo come si svolgeva la mia giornata, mamma è tornata al lavoro. È arrivata una signora nuova, Betty, a darmi il biberon, a cambiarmi i pannolini e a tenermi in braccio. A me non piaceva per niente.


Perché mamma se ne era andata? Ho pianto tanto perché mamma o papà tornassero, volevo che fossero loro a occuparsi di me. Ho pianto più a lungo e più forte di quanto avessi mai fatto prima.


Molto, ma molto più tardi, la mia mamma è tornata a casa. Ero tanto contento di vederla, ma lei se n’è andata anche il giorno dopo. Ho pensato che non ero più il suo bimbo speciale.


Dopo circa una settimana mi sono abituato a Betty, sebbene fossi ancora arrabbiato per l’assenza di mamma. Betty mi dava da mangiare e mi teneva pulito ma non rideva e non mi parlava tanto come facevano mamma e papà. Però sapeva cantare. Dopo un po’ di tempo mi sono abituato al suo odore e alla sua voce. Tutto sommato era simpatica. Quando ero triste mi prendeva in braccio e mi teneva proprio come faceva la mia mamma quando si occupava di me tutto il giorno.


Quando avevo circa otto mesi, Betty all’improvviso è scomparsa. Non so perché, ma non è più tornata. Ha iniziato a prendersi cura di me una certa Agata. Ero triste e arrabbiato allo stesso tempo. Non solo non avevo più la mamma con me quando la desideravo, ma non avevo più neanche Betty. E questo proprio quando aveva cominciato a piacermi.


Perché se ne era andata? Nessuno sapeva dirmelo. Se ne era andata e basta. Ho pensato di non essere un bravo bambino: nessuno voleva stare con me. Agata non mi piaceva, aveva un odore diverso. Non mi teneva come faceva Betty e, quando mamma non era nei paraggi, stava sempre a brontolare.


Ero così triste! Non facevo che dormire. Non avevo voglia di gattonare per casa o di cercare di stare in piedi. Piangevo ma tanto mamma non tornava prima. Di notte mi svegliavo diverse volte per vedere se mamma e papà c’erano davvero. Mamma si arrabbiava con me ma io non me ne curavo: anch’io ero arrabbiato.


Quando avevo circa un anno, Agata non è più venuta. Anche lei mi aveva lasciato. Tutte le mattine, mamma mi caricava in macchina per portarmi in una casa strana dove una signora di nome Jenny e un’altra donna che la aiutava si occupavano di me, di un altro bambino, di una bimba di quattro anni e di due gemelli di due. C’erano molti giocattoli ma io ero troppo spaventato e preoccupato per giocare.


Jenny, che non smetteva mai di sorridere, ha detto a mamma che mi sarei trovato bene con gli altri bambini. Mamma mi ha dato un bacio, e con un “torno più tardi” e se n’è andata. Non smettevo più di piangere. Jenny è venuta a consolarmi ma l’altro bimbo piangeva pure lui e lei è dovuta andare a dargli da mangiare. Così mi ha passato alla sua aiutante, che con voce cattiva mi ha ordinato di smettere di piangere. Ma io non ci riuscivo. Volevo la mia culla, la mia coperta, la mia cameretta. Volevo la mia mamma o il mio papà. Quando finalmente mamma è tornata a prendermi, io non potevo raccontarle della donna dalla voce cattiva. Quando Jenny le ha riferito che era andato tutto bene, io non potevo dirle che avevo pianto e che ero rimasto digiuno per quasi tutta la giornata. Nelle settimane successive non ho saputo raccontarle del bambino di quattro anni che mi aveva fatto cadere dalla sedia e battere la testa. Avevo sul serio bisogno della mia mamma in quel momento. Non ho saputo dirle che i gemelli mi portavano via i giocattoli, o raccontarle che non c’erano adulti a giocare con noi, a sorriderci o a parlarci, se non quando arrivava il papà o la mamma di uno di noi.


Più sto a casa di Jenny e più sento di non essere amato da nessuno. La mia mamma mi abbraccia e dice di amarmi.


Ma se mi amasse davvero non mi lascerebbe per così tanto tempo e starebbe lì con me quando mi faccio male o sono triste. Credo che non le importi più nulla di me: tutto il suo tempo e tutte le sue energie lei li dedica all’ufficio. Quando, nel tardo pomeriggio, mi viene a prendere per portarmi a casa, è stanca e affannata. Lei e papà sono nervosi, e quando mi leggono qualcosa, dopo vogliono che me ne vada subito a nanna. Io li sento quando parlano con i loro amici della “qualità” del tempo trascorso con me una volta rientrati dal lavoro, ma io invece preferirei meno di quella “qualità” e mamma sempre a casa con me, tutto il giorno. Tornerei a dipendere solo da lei, ritroverei la fiducia e la sicurezza di essere il suo bimbo speciale. Non sarei più tanto inquieto.


Adesso che ho quasi due anni sono così sconvolto e arrabbiato con mamma e papà che neanche li sto ad ascoltare, perché loro non ascoltano i miei bisogni. Devo contare solo su di me per consolarmi e darmi piacere. Se piango non cambia nulla, quindi tanto vale smettere di piangere e lamentarsi. Mi succhierò di più il dito e forse troverò altri giocattoli da gettare per terra. Sento i miei genitori quando confessano ai loro amici di quanto si sentano in colpa di dovermi lasciare a casa di Jenny, ma di come ci sia bisogno di due stipendi per traslocare in una casa più grande e comprare una macchina nuova. A me piacciono la casa e la macchina che abbiamo ora. Vorrei che la mia mamma e il mio papà sapessero che l’unica cosa di cui mi importi davvero è averli vicino a me. Ma i miei bisogni non sembrano interessargli, quindi credo che mi toccherà restare con Jenny, o con qualcun altro come lei, per molto, molto tempo ancora.


Fermiamoci un attimo a osservare un po’ più da vicino che cosa è successo davvero a Timmy nei primi diciotto mesi della sua vita. E ricordiamoci che quanto è successo a lui si verifica sempre più spesso in milioni di famiglie negli Stati Uniti [e in Europa, N.d.E.].

Timmy ci “ha detto” quanto si sentisse bene e al sicuro nei suoi primi quattro mesi di vita, quando mamma e papà si prendevano cura di lui: lo cullavano, gli cambiavano il pannolino, gli sorridevano e rispondevano subito ai suoi pianti. Timmy conosceva l’odore, la voce e le altre caratteristiche fisiche di sua madre (parole queste che ricordano quelle di Diario di un bambino di Daniel Stern4).


Poi, alla tenera età di quattro mesi, questa felice routine viene interrotta all’improvviso. La mamma di Timmy torna al lavoro e una nuova figura di riferimento principale si occupa di lui per l’80% o più della sua giornata. Questa percentuale vi scandalizza? Forse, ma sta di fatto che una tata che sta con un bambino dalle 8 di mattina alle 6 di sera per cinque giorni la settimana è responsabile della fetta più grossa del suo tempo!


La conseguente interruzione della continuità del fragile legame di attaccamento ancora in via di strutturazione infligge un duro colpo alla stabilità emotiva di Timmy. Ad aggravare tale trauma interviene la sua incapacità di esprimersi: non ha avuto modo di prepararsi al cambiamento che avrebbe dovuto affrontare. Per citare la nota psicologa infantile Penelope Leach, un bambino dell’eta di Timmy “non può sapere che il genitore appena andato via prima o poi tornerà, non è in grado di quantificare il tempo trascorso, né di interiorizzare l’immagine del genitore per anticiparne il ritorno5.

Ciononostante, come molti bambini, Timmy ha ottime capacità di recupero. Dopo poco tempo comincia a fidarsi di Betty, la sua prima tata, con la quale arriva a stabilire un legame. La sua vita torna a essere prevedibile e rassicurante, perché chi si occupa di lui risponde a ogni sua necessità con amore e dedizione.


Purtroppo però, quattro mesi dopo – a soli otto mesi –, Timmy si trova a doversi confrontare con un nuovo sconvolgimento quando Betty all’improvviso va via e lui viene affidato a una nuova tata, Agata. Ad aggravare ulteriormente questa vera e propria violenza emotiva, l’abbandono, pochi mesi più tardi, anche da parte di Agata e l’irruzione nella sua vita di Jenny, con la sua casa sconosciuta piena di altri bambini.


Nel descrivere i sentimenti di un bimbo come Timmy, abbandonato da numerose figure di riferimento, la dottoressa Leach aggiunge: “La disperazione del bambino che si sente abbandonato è disperazione vera, anche se l’abbandono non è altro che il quotidiano allontanamento di un genitore che va al lavoro6. Il problema di Timmy, poi, è ancor più esasperato dalla perdita consecutiva di più figure di riferimento. Il racconto della sua triste esperienza illustra meglio di tanti manuali il trauma causato dalla discontinuità dell’accudimento e dal continuo e inaspettato avvicendamento di diverse figure di riferimento nei primi anni di vita.

Purtroppo quando un bambino come Timmy viene accompagnato da un terapeuta in età scolare, o addirittura prescolare, difficilmente si riesce ad accedere a certi episodi della primissima infanzia. Una madre o un padre che lavora spesso non è a conoscenza degli eventi significativi dei primi anni del figlio. Timmy era stato forse spaventato da un cane? Era caduto dal letto? Era stato spintonato da un altro bambino? Aveva dovuto piangere a lungo perché gli venisse dato il biberon?


Timmy non poteva raccontare al terapeuta che Agata era nervosa e depressa, non poteva esprimere la propria tristezza per l’improvvisa scomparsa di Betty o la paura di essere lasciato in un “posto strano”, qual era per lui la casa di Jenny. Eventi così remoti sono quasi sempre impossibili da recuperare, e i ricordi del bambino rappresentano spesso un contributo inaccessibile per il lavoro psicoterapeutico. La mancanza di informazioni riguardanti la storia del paziente e dei suoi genitori, come nel caso delle difficoltà di Timmy a fidarsi degli adulti, mina le probabilità di successo di una psicoterapia. A quel punto, le ferite nell’anima del bambino restano aperte e a volte non guariscono mai.


Le esperienze preverbali irrisolte rischiano di inibire seriamente la capacità di un bimbo come Timmy di inserirsi costruttivamente nel mondo e di esprimere il proprio potenziale intellettivo.


Perché la terapia diventi un’esperienza davvero riparatrice è importante che la relazione con il terapeuta si fondi in principio sulla fiducia. Tuttavia, la capacità di provare fiducia dipende dalla qualità delle esperienze con le primissime figure di accudimento. Nel caso di Timmy, lui non è mai riuscito a costruire legami di attaccamento sufficientemente intimi e saldi e quindi tenderà ad essere piuttosto cauto nel creare un rapporto di vicinanza con un terapeuta.


Nei miei 35 anni di esperienza clinica con i bambini, mi sono resa conto che i problemi affrontati in studio negli ultimi dieci anni sono molto più seri di quelli di 15 o 30 anni fa. Altri terapeuti infantili concordano nell’affermare che oggi non si curano più semplici nevrosi e problematiche legate allo sviluppo, ma disturbi più complessi che riguardano le capacità di relazione, l’iperattività e le gravi manifestazioni di aggressività.


Tali disturbi hanno soppiantato difficoltà di più semplice risoluzione quali, ad esempio, la rivalità tra fratelli, l’educazione sfinterica, l’enuresi notturna, i problemi alimentari e le lotte di potere tra il bambino e i genitori. Il progredire delle disfunzioni infantili sembra aver avuto una lenta evoluzione. Le storie di questi bambini rivelano che, in numero sempre crescente, vengono affidati ancora piccolissimi alle cure di molte persone diverse. Ciò starebbe a indicare che esiste una relazione di causa-effetto tra precoce discontinuità delle cure e gravità degli effetti prodotti.

Scegliere: un genitore o un sostituto

Tutti i genitori prima o poi si trovano a dover scegliere dei sostituti che si occupino dei loro figli. La scelta dovrebbe essere tra due alternative:

  1. Un genitore (o entrambi i genitori) resta a casa con il bambino e provvede a quella continuità dell’accudimento che è stata negata a Timmy. È ovvio che non si tratta di un’alternativa accessibile a tutti, ma possibile per molti milioni di genitori, se solo fossero disposti ad accettare alcune momentanee rinunce economiche e professionali (si veda il capitolo II). Naturalmente ciò dipende anche dalle possibilità materiali della famiglia e dalle soluzioni pratiche di fatto adottabili per mettere in atto le decisioni prese (si veda il capitolo VII).

  2. La seconda alternativa consiste nel trovare una persona che si prenda cura del bambino con affetto e dedizione, garantendo quella continuità necessaria al pieno raggiungimento del suo potenziale intellettivo ed emotivo e alla realizzazione di una vita appagante (si veda il capitolo VII e le soluzioni per garantire la continuità dell’accudimento da parte di un sostituto).


Più avanti verranno analizzati sia i vantaggi della prima alternativa, sia le soluzioni proposte per la realizzazione della seconda. Ma riuscire a garantire al proprio bambino la continuità di un accudimento premuroso, a prescindere dalla scelta fatta, produrrà i seguenti benefici:

  • ottimismo e autostima; – una maggiore capacità di ascolto e di apprendimento nei confronti di genitori, insegnanti e altri adulti;

  • una maggiore capacità di introiezione di princìpi morali positivi proposti dai genitori e della comunità;

  • una maggiore capacità di stabilire relazioni di intimità durante l’adolescenza e nell’età adulta. In termini pratici, ciò si esplica in una maggiore probabilità di contrarre matrimoni felici e duraturi.

I genitori potrebbero chiedersi: “Sebbene il nostro bambino abbia sperimentato un accudimento discontinuo nei primi mesi e anni di vita, perché non dovrebbe essere in grado di realizzare un attaccamento sicuro più avanti, qualora gli venisse garantita maggiore continuità, per esempio, a 3, 4 o 5 anni?” La risposta è che mentre la prevedibilità e la stabilità dell’accudimento è sempre importante a qualsiasi età, la capacità di provare fiducia si sviluppa soprattutto nei primi 3 anni di vita. Si tratta della principale tappa di sviluppo dell’infanzia: è in quegli anni che il bambino vive le sue prime esperienze di relazione. Se la capacità di provare fiducia non si compie in quel periodo, si vanno man mano a definire quelle potenti strutture di difesa inconscia che servono a proteggersi dal dolore della delusione, dell’abbandono e della perdita. Tali strutture fungono da corazza emotiva, con lo svantaggio però di impedire al bambino di formare quelle intime alleanze tanto importanti per la formazione di relazioni positive.


Inoltre, come evidenziato con forza e convinzione da recentissimi studi, risulta che le difese costituitesi nella primissima infanzia rimangono come elemento strutturale alla base del carattere del bambino, e dell’adulto che sarà.

Come sostiene L. Alan Sroufe: “Le esperienze precoci possono assumere un significato speciale perché vanno a costituire il fondamento dell’intero processo di sviluppo successivo. Un accudimento di scarsa qualità nei primi anni di vita, quando si stabiliscono i primi legami di attaccamento, può produrre conseguenze molto più profonde di uno scarso accudimento ricevuto in anni successivi7.
È molto difficile giudicare gli aspetti positivi o negativi di un sostituto materno quando un genitore non è lì a osservarlo, valutarlo e a metterlo in discussione. Come è possibile conoscere il livello dell’accudimento ricevuto dal bambino? E con quanta gentilezza, allegria, solerzia, sintonia ed empatia si è soliti rispondere alle necessità di un lattante o di un bambino tanto indifeso?

Basi della teoria dell’attaccamento

Le basi teoriche che oggi consentono di identificare le difficoltà di sviluppo di un attaccamento sicuro nei primi anni di vita, furono gettate dallo psichiatra inglese John Bowlby che, con la psicologa Mary Ainsworth, fu tra i primi, nel 1940, a osservare e descrivere il legame di attaccamento tra mamma e bambino, il concetto di “base sicura” e la reazione alla separazione dalla madre, illustrata nella storia di Timmy.

Fin da subito, Bowlby notò che i bambini separati dai genitori durante i massicci bombardamenti su Londra della seconda guerra mondiale (per motivi di sicurezza, i bambini venivano mandati presso famiglie che vivevano in campagna) avevano subìto traumi emotivi maggiori rispetto ai coetanei rimasti con la propria madre durante gli attacchi aerei. In un articolo intitolato Forty-Four Juvenile Thieves [“quarantaquattro ladruncoli”, N.d.T.]8, Bowlby mostrava l’alto tasso di delinquenza minorile nei ragazzi che avevano subìto una precoce separazione materna.


Sulla base delle sue osservazioni cliniche, Bowlby iniziò a formulare la nota “teoria dell’attaccamento” il cui principio fondamentale è che un bambino è portato per istinto ad assumere comportamenti volti a garantirgli la stretta vicinanza con la madre o con un’altra principale figura di riferimento. Scoprì inoltre che i neonati e i lattanti separati dalla madre o da una figura analoga subiscono un grave stress emotivo. A differenza di Freud, che indicava nelle pulsioni istintuali (sesso, aggressività, fantasie e conflitti interni) i principali moventi del comportamento, Bowlby era molto più interessato alle esperienze reali dei bambini e alla qualità della loro relazione con i genitori o con le persone destinate a prendersi cura di loro. È interessante notare come, cinquant’anni dopo, la stessa teoria venga esposta dal Carnegie Corporation Report, che afferma: “Già sul finire del primo anno di vita, il bambino ha raccolto un significativo numero di ricordi legati a episodi particolarmente importanti e significativi”9.


Un altro principio della teoria di Bowlby è l’importanza del legame di attaccamento del bambino con la persona che per prima si è presa cura di lui e delle profonde conseguenze che le precoci esperienze scaturite da tale attaccamento – o dalla sua assenza – esercitano negli anni a venire. “Quello di base sicura individuale”, scrive Bowlby, “dalla quale un bambino, un adolescente o un adulto parte per esplorare il mondo e alla quale ritorna di quando in quando, è un principio cruciale per comprendere lo sviluppo e il funzionamento, nell’arco dell’intera esistenza, di un individuo emotivamente stabile10. Bowlby ritiene che “l’attaccamento” primario tra il bambino e una figura materna serva da prototipo per le future relazioni sociali, per cui l’assenza precoce di un adeguato accudimento avrà successive ripercussioni sulla vita di relazione. Molti psicologi dello sviluppo concordano nell’affermare che i bambini necessitino di cure amorevoli, solerti e costanti nel tempo, e che abbiano bisogno, oltre che di protezione e nutrimento, di stimoli e d’amore. Come già rilevava il dottor R.A. Spitz dall’osservazione dei piccoli ospiti di strutture educative e istituti, quando ci si limita a dispensare cure meramente materiali, molti bambini smettono di crescere e spesso muoiono11.


Nei primi anni Settanta due ricercatori, Suomi e Harlow, studiarono gli effetti della separazione dalla madre nei cuccioli di scimmia e scoprirono che le scimmie private delle normali cure materne presentavano problemi analoghi a quelli degli esseri umani. I piccoli isolati, per esempio, manifestavano evidenti segni di stress emotivo e comportamenti insoliti nonostante venissero loro garantiti cibo e acqua. Tali anomalie erano molto simili a quelle riscontrate nei bambini descritti dal dottor Spitz12.

I motivi della sottovalutazione dei problemi dovuti all’avvicendamento di diverse figure di riferimento

È piuttosto evidente che i problemi legati alla primissima infanzia sono stati ampiamente ignorati dall’opinione pubblica, dagli organismi governativi e dai servizi di igiene mentale. Questa è una delle principali ragioni per le quali la Carnegie Corporation ha deciso di focalizzare la propria attenzione su questo momento specifico della vita del bambino: “L’arco di tempo che va dal periodo prenatale ai primi tre anni di vita – denuncia il Canergie Reportè probabilmente il più ignorato13. E per evidenziare il grande numero di individui coinvolti, non manca di sottolineare che “ad oggi, negli Stati Uniti si contano 12 milioni di bambini di età inferiore a 3 anni14.


Sono molte le ragioni per cui il problema della discontinuità dell’accudimento e del continuo avvicendarsi di diverse figure di riferimento – con relative ripercussioni sulla salute del bambino – è stato così a lungo e così largamente ignorato dai genitori e da buona parte degli operatori sociosanitari.


La prima è che il problema si è andato insinuando poco alla volta, in punta di piedi. Non ci sono state trombe ad annunciare l’esodo delle donne che, anno dopo anno e sempre più numerose, abbandonavano il focolare per il posto di lavoro – o, se si è udito uno squillar di trombe, era in onore della rivoluzione epocale! Nel 1965 solo il 17% delle madri di bambini di un anno lavorava a tempo pieno o mezza giornata15. Erano quindi le madri casalinghe a garantire la necessaria continuità all’accudimento della prole, senza difficoltà se non in caso di separazione o di morte di uno dei genitori.


Da allora si è consumata una rivoluzione sociale silenziosa. Un insieme di pressioni economiche (alcune reali e altre indotte dai mass-media), unite al dilagare del movimento femminista, ha comportato un ribaltamento delle statistiche riguardanti il lavoro femminile, tanto che oggi ben più del 50% delle madri – anche quelle con figli molto piccoli – lavora fuori casa. Ma il ribaltone è stato così graduale che solo pochi operatori socio-sanitari ne hanno rilevato gli effetti sui bambini.


Le conseguenze del frequente avvicendarsi di figure di riferimento sempre diverse sono state anch’esse assai sottostimate – e in questa sede verranno analizzate nel dettaglio nel capitolo IV.


Tali disturbi, tra cui delinquenza, abbandono scolastico, depressione, uso di droghe e difficoltà nelle relazioni intime, spesso si manifestano solo molti anni più tardi. Ecco perché alcuni genitori non colgono – o si rifiutano di cogliere – il rapporto di causa-effetto tra l’alternanza delle baby-sitter durante l’infanzia e i comportamenti negativi degli anni successivi. Essi prestano scarsa attenzione alla qualità dei legami di attaccamento precoce dei figli, avendo piuttosto la tendenza ad attribuire la responsabilità di certi cattivi comportamenti alla scuola, ai compagni, alla televisione e anche alle baby-sitter del momento.


Ma, come osserva lo psicologo Jay Belsky riguardo all’affidamento dei figli a strutture per l’infanzia: “si può ragionevolmente ipotizzare che le modalità di accudimento adottate nella prima infanzia possano essere associate a un atteggiamento sempre più elusivo della madre, tale per cui il legame di attaccamento risulta essere di grande insicurezza, e all’eventuale calo di collaborazione e obbedienza nei confronti degli adulti, all’aumento dell’aggressività e persino a un maggior disadattamento in età prescolare e scolare16.

Il secondo motivo sostanziale per cui si sono ignorati i problemi legati alla frequente sostituzione delle figure di riferimento è semplice: il messaggio è scomodo e spiacevole.


Nessun genitore, in attesa di un figlio o dopo la sua nascita, vuole sentirsi dire che andare a lavorare e lasciare il proprio figlio con una persona pagata per prendersi cura di lui può essere dannoso. Ed è ancora più scomodo prendere in considerazione un’ovvia e pratica soluzione: quello di accettare qualche piccolo sacrificio economico e personale, per consentire a uno dei due genitori di rimanere a casa per un paio d’anni, o fintanto che il bambino non sia veramente in grado di comprendere il motivo per cui papà e mamma sono assenti per la maggior parte del tempo. È più facile negare l’esistenza del problema e “attaccare il messaggero” accusandolo di essere sessista, retrogrado, in torto o inadeguato rispetto alla realtà attuale. Pochi di noi sono disposti ad ammettere di aver fatto qualcosa di potenzialmente nocivo per i propri figli.


I professionisti della salute mentale e i genitori sono ben consapevoli degli effetti a lungo termine delle violenze fisiche e sessuali, ma intento di questo libro è chiarire finalmente il principio secondo cui frequenti sostituzioni delle figure di riferimento nella primissima infanzia, così come attaccamenti caotici e imprevedibili sono causa di una diversa e più sottile forma di sofferenza emotiva, tanto subdola da passare il più delle volte inosservata. Cogliere e finanche capire i mutamenti degli ultimi anni, e il perché di tali mutamenti, ci darà modo di affrontare con maggior sensibilità e intuito il dilemma di chi sia più idoneo a occuparsi dei nostri figli: ecco lo scopo di questo libro. Una maggiore consapevolezza delle difficoltà farà sì che i genitori riescano a trovare le soluzioni più idonee all’accudimento dei loro figli con maggior facilità.


Riporteremo esperienze atte a dimostrare come i genitori (più che i sostituti) siano di continuo arricchimento per la vita dei figli nel corso di tutta l’infanzia. Stiamo parlando di qualcosa che dovrebbe risultare ovvio, e cioè che la maggior parte dei genitori è desiderosa di dare affetto e sicurezza. Ora però mostreremo come la presenza di un genitore comporti numerosi vantaggi “nascosti” per ogni età del bambino.


Mi rendo conto che alcune madri o alcuni padri risultino irrispettosi, ostili e inadeguati nei confronti dei figli, o irrimediabilmente infelici nel ruolo di genitori, e che esistono molti sostituti in grado di offrire un ambiente sereno e stimolante in cui crescere. Comunque sia, questo libro si rivolge alla maggior parte delle madri e dei padri dotati di stabilità emotiva, energia e motivazione sufficienti a occuparsi in prima persona della gestione amorevole dei propri figli.


Infine, riconosco che alcuni dei consigli volti a incoraggiare i genitori in tal senso risultino economicamente impraticabili per molte famiglie. A queste ultime suggerisco alcune soluzioni pratiche (si veda il capitolo VII), per garantire ai figli la necessaria continuità dell’accudimento nei primi anni di vita anche attraverso sostituti materni, oltre a illustrare come il lavoro parttime dia al bambino l’opportunità di creare un legame di attaccamento con il genitore evitando, nello stesso tempo, l’eccessiva dipendenza emotiva dal sostituto materno.


Questo libro è dedicato al bambino. È stato scritto per aiutare madri e padri a capirne meglio i bisogni emotivi. Come sottolineato nell’ultimo capitolo, sono pochi i difensori dei più piccoli, che pure ne avrebbero tanto bisogno!


So che per le madri e i padri non sarà una lettura consolatoria, ma desidererei che lo fosse. Non è di conforto al nostro ego di genitori, né ci dice quale grande lavoro stiamo facendo nonostante gli ostacoli economici da affrontare. E neppure placa il senso di colpa che ci assale ogni qual volta i nostri figli si trovano ad affrontare numerose perdite e separazioni.


E nello sforzo di capire i problemi di tanti genitori, e futuri genitori, ho maturato, nel corso degli anni, la consapevolezza che sono i nostri cittadini più giovani – gli adulti e i leader di domani – ad aver bisogno di un portavoce già da molto piccoli, e di protezione, sostegno e fiducia. Ma loro non sanno esprimere la necessità di cure costanti e della presenza di una mamma o di un papà sempre vicini.

Sempre con lui
Sempre con lui
Isabelle Fox
I vantaggi di essere un genitore a tempo pieno.Quanto è importante stare con il proprio figlio almeno durante i primi due anni di età? Una forte presa di coscienza da parte di una psicologa evolutiva. Sempre con lui è dedicato ai milioni di bimbi piccoli che al giorno d’oggi sono privati del necessario e sano accudimento, per colpa dell’eccessivo impegno lavorativo di entrambi i genitori e della conseguente sostituzione delle principali figure di riferimento. L’autrice Isabelle Fox approfondisce questo fenomeno sociale, offrendo spunti di riflessione e illustrando concetti di vitale importanza per il benessere psicologico dei bambini. Un libro particolarmente ricco di soluzioni e suggerimenti pratici che, compatibilmente con i vincoli familiari e gli impegni lavorativi di mamma e papà, permetteranno di offrire ai bambini la migliore possibilità di sentirsi accuditi, compresi e amati. Conosci l’autore Isabelle Fox è psicoterapeuta da più di 40 anni, con specializzazione in psicologia evolutiva e relazioni genitori-figli. Per 10 anni ha prestato servizio come consulente per la salute mentale per Operation Head Start.