La violenza della manipolazione
Gli aspetti critici che i genitori di oggi hanno ereditato dalla vecchia tradizione educativa non si sono dissolti: sono meno evidenti, ma vivono ancora introiettati e sottintesi, tanto negli individui quanto nelle ideologie correnti, e permeano ancora la nostra cultura. L’esperienza avuta come figli, se non elaborata adeguatamente, pesa nelle scelte e nei comportamenti delle persone, diventate adulte e genitori a loro volta. Il ripetersi di certe situazioni e atteggiamenti educativi, legati a esperienze traumatiche rimosse della propria infanzia, è un fenomeno che autori come la psicoanalista Alice Miller hanno ben analizzato, parlando a questo proposito di pedagogia nera.
Di che si tratta? È un termine che viene usato per indicare quelle pratiche pedagogiche che, oltre a essere violente (cioè coercitive, impositive, privative rispetto a bisogni fisici o emotivi dei bambini), utilizzano anche l’applicazione di meta-regole (cioè regole sulle regole) di tipo manipolatorio. Questo significa che non includono solo regole su come ci si debba comportare, ma anche regole implicite che stabiliscono quanto si possano mettere in discussione le regole stesse, o addirittura se si possa o no essere consapevoli di stare seguendo una regola. Come ben sintetizza la stessa Miller, il primo comandamento della pedagogia nera è
“Non devi accorgerti del male che ti si fa”2.
Non si tratta insomma solo di un approccio educativo autoritario, ma di una strategia per manipolare la coscienza del bambino. La cosiddetta pedagogia nera non si pone solo l’obiettivo di obbligare o vietare certi comportamenti infantili, ma desidera anche che il bambino si comporti in un certo modo perché vuole farlo. Non pretende solo il controllo del suo comportamento, ma anche dei suoi pensieri e sentimenti. Si fa capire al bambino che per essere accettato deve allinearsi con certi comportamenti e certe emozioni “giuste”, favorendo così la rimozione o scissione dai propri sentimenti e bisogni.
Una regola della pedagogia nera può, ad esempio, essere vuotare tutto ciò che viene messo nel piatto. Ma poi c’è una seconda regola, che impone di credere che sia sbagliato rifiutare il cibo offerto, anzi, che sia sbagliato anche solo non desiderare di mangiarlo. Una terza regola è quella che impone di ritenere giusto che il genitore sgridi e punisca il bambino che non vuota il suo piatto, e di pensare che lo faccia non per cattiveria verso il bambino ma anzi perché gli vuole molto bene. E infine c’è una quarta regola, che è quella di non discutere le regole imposte, anzi dimenticare che sono state imposte regole. Le imposizioni e le manipolazioni spariscono, rimane solo ciò che è “giusto” o “sbagliato”.
È facile capire quanto questo approccio manipolatorio possa essere deleterio per il bambino, che ha un immenso bisogno di essere accettato, amato, apprezzato e considerato dai suoi genitori. Piuttosto che metterli in discussione, farà suoi i messaggi impliciti dell’adulto e concluderà di essere lui sbagliato, in errore, malfatto. Reprimerà i suoi sentimenti di rabbia, frustrazione o paura perché non accettabili. Ignorerà il suo senso di fame e sazietà, o penserà che il suo corpo funzioni male. Proverà confusione e senso di colpa, autobiasimo e perdita di autostima. Gli slanci del bambino, sottoposto a questo tipo di manipolazione, vengono mortificati: in senso letterale, cioè egli viene allontanato dalle sue parti più vitali. Il bambino preferirà “spegnersi” un po’, sentire meno, pensare meno, essere meno se stesso, se questo è il prezzo da pagare per essere amato; si costruirà così un falso sé, un’identità scollata dalla propria reale natura ma più accettabile per gli adulti e per la società.
E cosa succede quando il metodo autoritario o manipolatorio fallisce, quando le pulsioni o le emozioni del bambino sono così forti, o le aspettative degli adulti così elevate o irrealistiche, oppure le richieste così contraddittorie, che questi non riesce ad adeguarsi all’ideale richiesto? Al bambino non resta che conformarsi ai giudizi negativi che riceve. Il falso sé infatti non è soltanto modellarsi secondo le aspettative positive (cioè diventare un “bravo bambino” per poter essere accettato e amato): è anche conformarsi alle aspettative negative, cioè adattarsi all’etichetta di peste, monella, sciocca, fracassone e tutte le altre possibili che la gente affibbia ai bambini: profezie che si autoavverano. Ecco perché la comprensione dei bisogni e dei sentimenti del bambino, anche quando per forza di cose ci troviamo a limitarne l’irruenza, è fondamentale perché egli non perda coerenza con se stesso e impari con il tempo a tenere conto dei bisogni e dei sentimenti degli altri senza per questo rinnegare la sua natura.
Certo, non in tutte le famiglie la situazione è così drammatica, ma poiché la nostra cultura è impregnata ancora oggi di pedagogia nera, questa in parte passa inosservata, e in una certa misura tutti noi l’abbiamo subita e tramandata. Ad esempio, l’uso di aggettivi giudicanti, come buono/cattivo, bravo/monello, comunicano al bambino il messaggio che verrà amato e accettato solo se si conforma alle aspettative dei genitori. Allo stesso modo operano tutte quelle forme di colpevolizzazione che, per indurre un bambino a comportarsi come desiderato, gli attribuiscono la responsabilità dei sentimenti degli altri, ad esempio: “Dai un bacino a nonno sennò ci rimane male”, “Mi hai fatto arrabbiare”, “Finisci tutto il piatto, così papà è contento”. Ancora più sottile è quella forma di disconferma dei sentimenti e dei bisogni del bambino che consiste in affermazioni come: “Smettila di toglierti continuamente la giacca, non è possibile che tu non senta freddo”; oppure: “Ma che dici, non ti piace la scuola? Alla fine ti piace e ti diverti anche tu”. Quante volte, con le migliori intenzioni, ci sfuggono frasi come queste?
E cosa ne è dei bambini inascoltati, una volta che sono cresciuti e divengono a loro volta genitori? Il bisogno di accettazione e amore incondizionato non scompare né si colma da sé.
Possono allora accadere due cose.
-
L’adulto può far proprio l’approccio dei suoi genitori, e per assolverli, poiché li ama immensamente, legittima il loro modo di fare: “Lo hanno fatto per il mio bene”. E per il bene dei figli, replica lo stesso amore condizionato, offrendolo al bambino soltanto quando si conforma alle proprie aspettative. Questo criterio richiede un congelamento delle emozioni più profonde, ma purtroppo, per non sentire riemergere il dolore provato quando non ci si è sentiti accolti, si perde anche la capacità di sentire il calore dell’affetto e dell’amore che potrebbe fiorire fra noi e i nostri figli, impedendoci di godere appieno di questo flusso vitale.
-
Oppure può succedere che la consapevolezza di ciò che ci è mancato si riversi nella relazione con i nostri figli, come in una forma di risarcimento. Ecco che a questo punto il genitore cerca dal bambino quell’amore incondizionato che non ha avuto, ma non conoscendo altro che l’amore condizionato, cerca di conquistarsi il suo cuore cercando di compiacerlo, così come da bambino cercava di fare con i suoi genitori. Ho letto una volta una madre esprimersi in questi termini, riguardo alla sua decisione di dire a suo figlio di no e porgli dei limiti per la prima volta nel suo percorso di genitore: “E pazienza se poi dopo mi odierà”. Frase che illustra molto bene la logica dell’amore condizionato, che insegna la strategia di accontentare e compiacere, come modo per “non essere odiati”, per essere amati. Un genitore che non si contrappone mai, che sceglie la strada dell’accondiscendenza a ogni richiesta esplicita del bambino, non è un genitore che ama incondizionatamente: piuttosto non sopporta di assistere alla rabbia o al dispiacere dei propri figli, perché ha bisogno di essere lui (o lei) incondizionatamente accettato, non respinto.