CAPITOLO II

La pedagogia nera

Possiamo raggiungere una sorta di controllo tale per cui coloro che ne sono controllati, benché seguano un codice molto più scrupoloso di quello nel vecchio sistema, tuttavia si sentono liberi1.


Si diventa genitori giorno per giorno, attraverso l’esperienza della relazione con i figli; ma questa relazione è in ogni caso influenzata dalle nostre credenze e aspettative, che provengono dall’esperienza personale e dalla cultura in cui siamo cresciuti e viviamo. Più antichi e diffusi sono i paradigmi sulla genitorialità, più profondamente sono radicati in noi, e meno ne siamo consapevoli. Come l’aria che respiriamo, simili credenze sono impalpabili e invisibili, perché le abbiamo “respirate” da sempre. Alle pressioni e condizionamenti provenienti dalla nostra cultura, inoltre, al giorno d’oggi si aggiungono i messaggi intenzionalmente persuasivi del marketing, che vede nei genitori degli eccellenti consumatori di prodotti e servizi.


Non è infrequente sentirci dire che i nostri figli ci stiano manipolando. Ma se ci fosse un fondo di verità e se i genitori fossero davvero manipolati, ma non dai loro bambini?


La cultura intorno a noi è solidamente coerente nel favorire la propria visione dell’educazione, fondata sul controllo, il distacco emotivo e l’autosufficienza affettiva; e le pressioni a conformarsi e, per i genitori, a farsi strumento di omologazione, sono molto forti. I metodi di manipolazione culturale dei genitori – perpetuati da persone a loro volta strutturate dai processi educativi subiti nell’infanzia, e rinforzati da soggetti commerciali che rispondono a interessi enormi – sono sottili e pervasivi.


La violenza della manipolazione

Gli aspetti critici che i genitori di oggi hanno ereditato dalla vecchia tradizione educativa non si sono dissolti: sono meno evidenti, ma vivono ancora introiettati e sottintesi, tanto negli individui quanto nelle ideologie correnti, e permeano ancora la nostra cultura. L’esperienza avuta come figli, se non elaborata adeguatamente, pesa nelle scelte e nei comportamenti delle persone, diventate adulte e genitori a loro volta. Il ripetersi di certe situazioni e atteggiamenti educativi, legati a esperienze traumatiche rimosse della propria infanzia, è un fenomeno che autori come la psicoanalista Alice Miller hanno ben analizzato, parlando a questo proposito di pedagogia nera.


Di che si tratta? È un termine che viene usato per indicare quelle pratiche pedagogiche che, oltre a essere violente (cioè coercitive, impositive, privative rispetto a bisogni fisici o emotivi dei bambini), utilizzano anche l’applicazione di meta-regole (cioè regole sulle regole) di tipo manipolatorio. Questo significa che non includono solo regole su come ci si debba comportare, ma anche regole implicite che stabiliscono quanto si possano mettere in discussione le regole stesse, o addirittura se si possa o no essere consapevoli di stare seguendo una regola. Come ben sintetizza la stessa Miller, il primo comandamento della pedagogia nera è

“Non devi accorgerti del male che ti si fa”2.


Non si tratta insomma solo di un approccio educativo autoritario, ma di una strategia per manipolare la coscienza del bambino. La cosiddetta pedagogia nera non si pone solo l’obiettivo di obbligare o vietare certi comportamenti infantili, ma desidera anche che il bambino si comporti in un certo modo perché vuole farlo. Non pretende solo il controllo del suo comportamento, ma anche dei suoi pensieri e sentimenti. Si fa capire al bambino che per essere accettato deve allinearsi con certi comportamenti e certe emozioni “giuste”, favorendo così la rimozione o scissione dai propri sentimenti e bisogni.


Una regola della pedagogia nera può, ad esempio, essere vuotare tutto ciò che viene messo nel piatto. Ma poi c’è una seconda regola, che impone di credere che sia sbagliato rifiutare il cibo offerto, anzi, che sia sbagliato anche solo non desiderare di mangiarlo. Una terza regola è quella che impone di ritenere giusto che il genitore sgridi e punisca il bambino che non vuota il suo piatto, e di pensare che lo faccia non per cattiveria verso il bambino ma anzi perché gli vuole molto bene. E infine c’è una quarta regola, che è quella di non discutere le regole imposte, anzi dimenticare che sono state imposte regole. Le imposizioni e le manipolazioni spariscono, rimane solo ciò che è “giusto” o “sbagliato”.


È facile capire quanto questo approccio manipolatorio possa essere deleterio per il bambino, che ha un immenso bisogno di essere accettato, amato, apprezzato e considerato dai suoi genitori. Piuttosto che metterli in discussione, farà suoi i messaggi impliciti dell’adulto e concluderà di essere lui sbagliato, in errore, malfatto. Reprimerà i suoi sentimenti di rabbia, frustrazione o paura perché non accettabili. Ignorerà il suo senso di fame e sazietà, o penserà che il suo corpo funzioni male. Proverà confusione e senso di colpa, autobiasimo e perdita di autostima. Gli slanci del bambino, sottoposto a questo tipo di manipolazione, vengono mortificati: in senso letterale, cioè egli viene allontanato dalle sue parti più vitali. Il bambino preferirà “spegnersi” un po’, sentire meno, pensare meno, essere meno se stesso, se questo è il prezzo da pagare per essere amato; si costruirà così un falso sé, un’identità scollata dalla propria reale natura ma più accettabile per gli adulti e per la società.


E cosa succede quando il metodo autoritario o manipolatorio fallisce, quando le pulsioni o le emozioni del bambino sono così forti, o le aspettative degli adulti così elevate o irrealistiche, oppure le richieste così contraddittorie, che questi non riesce ad adeguarsi all’ideale richiesto? Al bambino non resta che conformarsi ai giudizi negativi che riceve. Il falso sé infatti non è soltanto modellarsi secondo le aspettative positive (cioè diventare un “bravo bambino” per poter essere accettato e amato): è anche conformarsi alle aspettative negative, cioè adattarsi all’etichetta di peste, monella, sciocca, fracassone e tutte le altre possibili che la gente affibbia ai bambini: profezie che si autoavverano. Ecco perché la comprensione dei bisogni e dei sentimenti del bambino, anche quando per forza di cose ci troviamo a limitarne l’irruenza, è fondamentale perché egli non perda coerenza con se stesso e impari con il tempo a tenere conto dei bisogni e dei sentimenti degli altri senza per questo rinnegare la sua natura.


Certo, non in tutte le famiglie la situazione è così drammatica, ma poiché la nostra cultura è impregnata ancora oggi di pedagogia nera, questa in parte passa inosservata, e in una certa misura tutti noi l’abbiamo subita e tramandata. Ad esempio, l’uso di aggettivi giudicanti, come buono/cattivo, bravo/monello, comunicano al bambino il messaggio che verrà amato e accettato solo se si conforma alle aspettative dei genitori. Allo stesso modo operano tutte quelle forme di colpevolizzazione che, per indurre un bambino a comportarsi come desiderato, gli attribuiscono la responsabilità dei sentimenti degli altri, ad esempio: “Dai un bacino a nonno sennò ci rimane male”, “Mi hai fatto arrabbiare”, “Finisci tutto il piatto, così papà è contento”. Ancora più sottile è quella forma di disconferma dei sentimenti e dei bisogni del bambino che consiste in affermazioni come: “Smettila di toglierti continuamente la giacca, non è possibile che tu non senta freddo”; oppure: “Ma che dici, non ti piace la scuola? Alla fine ti piace e ti diverti anche tu”. Quante volte, con le migliori intenzioni, ci sfuggono frasi come queste?


E cosa ne è dei bambini inascoltati, una volta che sono cresciuti e divengono a loro volta genitori? Il bisogno di accettazione e amore incondizionato non scompare né si colma da sé.


Possono allora accadere due cose.


  1. L’adulto può far proprio l’approccio dei suoi genitori, e per assolverli, poiché li ama immensamente, legittima il loro modo di fare: “Lo hanno fatto per il mio bene”. E per il bene dei figli, replica lo stesso amore condizionato, offrendolo al bambino soltanto quando si conforma alle proprie aspettative. Questo criterio richiede un congelamento delle emozioni più profonde, ma purtroppo, per non sentire riemergere il dolore provato quando non ci si è sentiti accolti, si perde anche la capacità di sentire il calore dell’affetto e dell’amore che potrebbe fiorire fra noi e i nostri figli, impedendoci di godere appieno di questo flusso vitale.

  2. Oppure può succedere che la consapevolezza di ciò che ci è mancato si riversi nella relazione con i nostri figli, come in una forma di risarcimento. Ecco che a questo punto il genitore cerca dal bambino quell’amore incondizionato che non ha avuto, ma non conoscendo altro che l’amore condizionato, cerca di conquistarsi il suo cuore cercando di compiacerlo, così come da bambino cercava di fare con i suoi genitori. Ho letto una volta una madre esprimersi in questi termini, riguardo alla sua decisione di dire a suo figlio di no e porgli dei limiti per la prima volta nel suo percorso di genitore: “E pazienza se poi dopo mi odierà”. Frase che illustra molto bene la logica dell’amore condizionato, che insegna la strategia di accontentare e compiacere, come modo per “non essere odiati”, per essere amati. Un genitore che non si contrappone mai, che sceglie la strada dell’accondiscendenza a ogni richiesta esplicita del bambino, non è un genitore che ama incondizionatamente: piuttosto non sopporta di assistere alla rabbia o al dispiacere dei propri figli, perché ha bisogno di essere lui (o lei) incondizionatamente accettato, non respinto.

Il retaggio del passato

Le radici della pedagogia nera affondano molto indietro nel nostro passato. La violenza come strumento educativo percorre i secoli e le culture, e sopravvive anche a messaggi spirituali che esortano invece alla compassione e alla premura verso il prossimo. Sembra che un punto cieco impedisca a molti adulti di vedere i bambini come parte di questo “prossimo”, cioè come persone. Posizioni etiche fondate sul rispetto e la cura verso gli altri sono nei secoli riuscite a coesistere con sopraffazione, guerre e violenza, semplicemente con l’espediente di escludere dalla qualifica di “persona” questa o quella categoria di esseri umani, sulla base delle differenze etniche, geografiche, politiche, religiose, di genere e sì, anche di età.


Morton Shatzman, uno psichiatra americano che ha studiato a fondo la pedagogia nera e il suo impatto sugli individui e sulla società, segue a ritroso le sue origini, partendo dall’analisi di un caso clinico di paranoia reso famoso da Freud, quello di Daniel Paul Schreber, e mettendo in relazione le sue idee deliranti con i metodi educativi subiti nell’infanzia a opera di suo padre3. Il padre di Schreber era un pedagogo ancora famoso all’inizio del ’900, e quasi ogni famiglia aveva in casa uno dei suoi manuali, dove i genitori venivano minuziosamente istruiti all’uso sistematico della pedagogia nera. La sua idea di educazione consisteva sostanzialmente nell’effettuare una battaglia senza quartiere contro gli impulsi dei bambini, “estirpando le erbacce” e piegandoli a leggi ferree in modo tale che essi non potessero nemmeno immaginare di poter disobbedire. L’obiettivo, anzi, era proprio quello di far sì che la libertà del bambino si esprimesse solo all’interno dei limiti che l’adulto aveva posto per lui. Parlando dei bambini di meno di un anno, nel suo manuale pedagogico scriveva:


Il nostro comportamento complessivo nei confronti della volontà del bambino di questa età consisterà nell’abituarla all’obbedienza assoluta, alla quale era già stata in gran parte preparata dall’applicazione dei principi esposti in precedenza… Il pensiero che la sua volontà possa essere sotto controllo non dovrebbe mai nemmeno passare per la mente del bambino4.

Oltre oceano, negli Stati Uniti, nello stesso periodo e cioè a cavallo fra il XVIII e il XIX secolo, un’analoga guerra contro la tenerezza e le cure amorevoli veniva portata avanti da educatori, pediatri e puericultrici, e in particolare dal Policlinico di New York e dalla Columbia University, ove insegnava il dottor Hemmet Holt senior. Il suo manuale La cura e l’alimentazione dei bambini aveva negli USA la stessa capillare diffusione della Kallipadie di Schreber nella Germania pre-nazista. Il suo manuale, come gli altri prodotti all’epoca, raccomandava di non prendere mai in braccio né cullare il bambino, per evitare l’instaurarsi di dannose abitudini, e contro le culle fu intrapresa una vera e propria crociata, fino alla loro sostituzione con il lettino a sbarre, più adeguato ai tempi.


Le idee pedagogiche promosse negli Stati Uniti dai principali esponenti della pediatria hanno ricevuto sostegno e nuova linfa dalle teorie comportamentiste, sviluppate a partire dal 1913 dallo psicologo John Watson e successivamente dal suo più fervido sostenitore, lo psicologo Burrhus Skinner. Questo approccio promuoveva una visione meccanicista degli individui, i cui comportamenti erano considerati il risultato delle abitudini e potevano essere modellati con premi e punizioni. L’aspetto intrapsichico veniva volutamente ignorato. Riguardo al comportamentismo, Ashley Montagu, un antropologo che si è a lungo interessato dell’importanza del contatto e del contenimento per il bambino, racconta:


Questo approccio non sentimentale, meccanico, nei riguardi del bambino ebbe per un certo tempo molta influenza sulla psicologia ed esercitò un effetto profondo sulla teoria e sulla pratica della pediatria. I pediatri raccomandavano ai genitori di mantenere un raffinato distacco dai figli, tenendoli a debita distanza e occupandosi di loro secondo un programma caratterizzato da obiettività e regolarità. Dovevano essere nutriti a orario fisso… bisognava lasciarli piangere finché l’orologio avvertiva che era l’ora del prossimo pasto… non bisognava tirarli su, perché cedere a tali impulsi di debolezza significava viziare il bambino, che in seguito avrebbe pianto ogni volta che desiderava qualcosa. E così milioni di madri restavano sedute e piangevano in compagnia dei propri figli5.

Analogamente in Germania, Schreber metteva in guardia i genitori sulle disastrose conseguenze dell’accondiscendenza verso i figli:


Sopprimete tutto nel bambino, tenete lontano da lui tutto ciò che non dovrebbe fare da solo e guidatelo con perseveranza in tutto ciò a cui egli dovrebbe abituarsi (…). Se si lascia che le abitudini sbagliate prendano radice, il bambino viene facilmente posto in pericolo; anche se poi riconoscerà il Meglio non avrà più il potere di sopprimere l’abitudine sbagliata6.

La pedagogia nera ha origini ancora più antiche. I pedagoghi del tardo ’800 avevano a loro volta le loro fonti di ispirazione, ad esempio nel filosofo ed educatore tedesco Johann Gottlieb Fichte, che un secolo prima aveva predicato di portare nelle famiglie la stessa struttura teocratica da lui immaginata nei Cieli: un regno governato da un potere assoluto al quale tutti si sottomettono con obbedienza e fede cieca. Si possono già intravedere in lui i germi della pedagogia nera laddove dichiara che i bambini dovrebbero obbedire senza senso di costrizione, ma volontariamente, essendo già in precedenza stati convinti della bontà di ciò che a loro si comanda7.


Fichte prende a sua volta ispirazione da Martin Lutero, che nella prima metà del ’500 aveva elevato l’obbedienza alla più grande delle virtù, e definito la disobbedienza come il più grave dei peccati.

Sono trascorsi da allora 500 anni, e almeno tre, se non quattro, generazioni sono passate dall’epoca di Shreber e Holt e dei terribili conflitti che hanno devastato il mondo durante le due guerre mondiali, ma molti manualetti di grande successo di oggi espongono ideologie ed esortazioni molto simili a quelle del passato, sia pure esprimendole in tono più accattivante. Il medico catalano Eduardo Estivill, ad esempio, esorta i genitori a essere inflessibili nell’applicare il suo metodo comportamentista per “insegnare al bambino a dormire”:


Piangerà, urlerà, singhiozzerà fino a strangolarsi, vomiterà, si agiterà in preda a convulsioni (…) e quant’altro pur di riuscire a piegarvi. Ma voi fate finta di nulla, siate stoici. Ricordate: non deve essere il bambino a dirci come vanno fatte le cose, siamo noi a dovergliele insegnare. (…) Per perdere la partita vi basterà fare una sola volta quel che vi chiede: dargli un sorso d’acqua, cantargli una canzoncina, tenergli ‘un pochino’ la mano, prenderlo fra le braccia… tutto ciò che avevate ottenuto fino a quel momento si volatizzerà8.

In apparenza meno spietata, ma più sottilmente manipolatoria è stata Tracy Hogg, una puericultrice inglese che si proponeva come “la donna che sussurra ai bambini” e divulgava un suo approccio per comprenderne il “linguaggio segreto”. Eppure anche lei ammonisce i genitori di resistere all’impulso di rispondere “troppo” prontamente ai richiami del proprio figlio prendendolo in braccio o allattandolo. Le sue motivazioni sono più raffinate e in un certo senso più subdole, perché la dilazione delle risposte di accudimento viene presentata come la risposta a un bisogno del bambino stesso. La rimozione dell’azione impositiva, il divieto, tipico della pedagogia nera, di riconoscere la crudeltà legata alla negazione dell’amore incondizionato, viene qui indotta non solo nelle vittime dirette, i bambini, ma anche nei genitori e negli educatori che si fanno portavoce di questa pedagogia.


Secondo la Hogg, una risposta sollecita al pianto del bambino gli impedirebbe di affinare la sua capacità di esprimere in modo articolato i suoi bisogni, e lo priverebbe della soddisfazione di imparare a calmarsi da solo: una “virtù” su cui si tornerà più avanti in questo libro.


Precipitandosi da lui ogni volta che piange, i genitori involontariamente lo abituano all’idea di non avere voce. (…) Se il pianto del bambino viene costantemente ignorato o se, al contrario, la risposta è sempre quella del cibo, questi imparerà che il modo in cui piange non è importante9.

Così, con le migliori intenzioni e spesso inconsapevolmente, si perpetuano l’inganno e la violenza, la negazione dell’amore, il distacco emotivo da una generazione all’altra. Questo avviene nel momento in cui il bambino manipolato diventa genitore, perché per sua stessa natura la pedagogia nera impedisce un chiaro riconoscimento della sua natura violenta, e perciò inconsapevolmente l’adulto può riapplicarla ai propri figli, e l’educatore può consigliarla ai futuri genitori.


Colpevolizzazione

Il bambino non è ancora nato, e già i genitori si vedono sommersi da drastiche indicazioni su ciò che è giusto o sbagliato fare; i consigli e i giudizi piovono inesorabili e raccomandano ogni cosa, e il suo esatto contrario.


La trappola dei consigli alimenta nei genitori l’idea che a ogni “errore” educativo seguirà una catastrofe psicologica nei figli: questo ha un effetto inibitore e finisce per limitare in madri e padri quell’apprendimento sul campo, attraverso prove ed errori, che rafforza il loro senso di competenza e li allena a osservare se stessi e il bambino e comprenderne sempre più profondamente i sentimenti e i bisogni.


In questo clima di incertezza, e in assenza delle informazioni realmente utili e rilevanti che potrebbero aiutare a gestire la quotidianità con il bambino e ad accudirlo con efficacia, i genitori leggono libri, consultano esperti e fanno domande sui social, compiendo scelte e costruendo un loro progetto di genitorialità.


E cosa succede quando questo progetto fallisce? Quando la gravidanza non va a termine o è irta di difficoltà, quando il parto naturale accuratamente pianificato finisce in un cesareo, quando l’allattamento declina molto prima di quanto sperato, o la pappa amorevolmente preparata finisce lanciata sul pavimento?


I genitori, e in particolare le madri, sono pronti ad addossarsi tutta la colpa e ad accusarsi di negligenza, incoerenza, incapacità mentale o difetti del proprio corpo.


Non servono nemmeno i giudici esterni (che pure non mancano), perché il peggior giudice la madre lo ha dentro di sé.


Abbiamo così il paradosso che i genitori che si sentono più in colpa sono proprio quelli che hanno tentato il possibile per dare il meglio al loro bambino e non sono riusciti a farlo nel modo ottimale.


D’altra parte, i genitori vengono colpevolizzati anche quando fanno scelte in armonia con i bisogni di tutti, che funzionano senza imposizioni e garantiscono la salute e il benessere. La società sembra infastidita dal successo di pratiche educative così in contrasto con quelle maggiormente diffuse, e si adopera a consigliare i genitori esortandoli a cambiare rotta. Questi consigli spesso forzano i genitori a soluzioni e interventi che non sentono propri e che possono essere causa di sofferenza per l’intera famiglia.

E quando questa sofferenza si manifesta, invece di essere colta per quello che è – un segnale di disagio che suggerisce di tornare sui propri passi – viene utilizzata dalla cultura del distacco come “prova” che i genitori non sono stati abbastanza determinati, e insinua che è proprio la loro riluttanza interiore ad applicare il metodo di turno a causare l’inquietudine nei loro bambini.


Definisco questo tipo di interventi “aggiustare ciò che non è rotto”. E questi consiglieri vengono a far parte a pieno titolo della categoria dei guastafeste. Questi teorici della sofferenza umana, così pronti a spaventare i genitori e a farli sentire in colpa per una quantità di aspetti marginali (come lo spostare nella sua culla, senza svegliarlo prima, un bambino già addormentato o scegliere male i colori della cameretta) o di cose che, invece, sono benefiche (come dormire con il bambino o coccolarlo e tenerlo con sé), suggeriscono poi senza battere ciglio comportamenti davvero traumatici, come separazioni precoci, svezzamenti forzati con conseguenti pianti inconsolabili, facendo paradossalmente sentire i genitori in difetto e con la necessità di scusarsi ogni volta che adottano una soluzione che fa star meglio sia loro sia i figli.


La nostra cultura accetta così a fatica il fatto che il contatto sia un bisogno naturale del bambino, che spesso la prospettiva è rovesciata, e perciò si legge o si sente dire che il bambino chiede alla mamma di poppare, o di essere preso in braccio, o di dormire nel suo letto, non perché semplicemente la vuole, ma “per compiacerla”. E qui si ridefinisce e si ribalta il comportamento di disponibilità materna, e si suggerisce che il bambino chieda le coccole alla mamma per far piacere a lei, e non il contrario! È il bambino, si insinua, ad accudire emotivamente sua madre. È davvero odioso questo instillare nelle madri e nei padri insicurezze e sensi di colpa. In pratica, l’essere materne diventa un disturbo psichico delle madri: un’idea, quella che siano le madri ad avere bisogno di tenersi vicino i figli, trita e ritrita, legata al preconcetto che i bambini abbiano bisogno di essere lasciati da soli: un controsenso biologico ed emotivo.


Disempowerment

I genitori dovrebbero essere considerati i massimi esperti del loro bambino. Infatti esperto è colui che esperisce, che sperimenta, e i genitori osservano il loro bambino e vivono con lui giorno e notte, sin dal primo giorno. Essere genitori competenti è un processo che accompagna madri e padri nel corso di un apprendimento dal vivo, che attinge all’istinto e alla capacità di sintonizzarsi sui figli e si affina con la pratica. Questo processo richiama e realizza il potenziale unico di ogni genitore, rafforzandolo secondo un circolo virtuoso che si autoalimenta: l’empowerment, come viene chiamato in modo molto efficace in inglese10.

A questo approccio autodiretto, che trova in sé le risorse e le competenze per accudire e crescere la prole, si contrappone il modello eterodiretto, sponsorizzato da una cultura che vuole invece mantenere il controllo sui genitori in quanto elementi chiave di trasmissione dello status quo.

Dice il filosofo Matteo Meschiari:

Il principio chiave di ogni società è l’autoconservazione. Per restare uguale a sé stessa una società deve inventare delle strategie di protezione e delle reti di conformismo11.

L’esperto diviene allora la figura esterna a cui ci si rivolge per consigli, che possiede la conoscenza che ai genitori manca.

I media alimentano il mito degli esperti (pediatri, psicologi, neuropsichiatri, pedagogisti) facendone i portavoce delle comuni credenze. Ma all’interno di ogni categoria professionale ci sono persone che hanno seguito percorsi formativi diversissimi, che hanno specializzazioni di tutti i tipi e che aderiscono a scuole di pensiero molto diverse fra loro. Se un professionista non ha approfondito l’area pedagogica, non ha elaborato la sua storia personale e non ha esperienza clinica sull’argomento, ne saprà quanto qualsiasi altro essere umano; sarà portavoce del sentire comune e proietterà sugli altri i suoi personali vissuti. Una volta investito della responsabilità di consigliare le famiglie, se non assume consapevolezza di queste dinamiche proiettive, si troverà nel ruolo di trasmettere semplicemente le ideologie correnti e mantenere lo status quo o, nella migliore delle ipotesi, nei panni di un profeta riluttante.


Che vengano o no seguiti, che abbiano o no successo, i consigli inibiscono e sviliscono il potenziale dei genitori, fanno insomma disempowerment. E oltretutto spesso questi consigli non sono appropriati né basati su alcuna evidenza scientifica, che anzi ne mostra l’infondatezza. L’ignoranza è molto estesa, così come un martellamento inesorabile della pedagogia nera attraverso i media, che aizzano i genitori all’insensibilità e a comportamenti “educativi” ai limiti del sadismo: quando il cervello non è connesso con il cuore non si producono che idee spietate e insensate. L’effetto di queste pressioni sui genitori è un grande disorientamento e tantissimi dubbi, e un annaspare nel buio chiedendosi “cosa fare” nei confronti di comportamenti infantili che sono normalissimi, ma che la società afferma essere sbagliati.


In qualunque campo, con qualsiasi persona, anche la più preparata o sensibile, laddove finisce la competenza inizia il pregiudizio. Ovvero, se la conoscenza manca, si supplisce con le proprie personali convinzioni e credenze, basate sull’esperienza personale e su ciò che è stato assorbito dall’ambiente, anche in modo acritico. Questo vale tanto per la gente comune quanto per le autorità in questo o quell’altro ramo del sapere.


Certo, se come genitori non siamo competenti in certo argomento, a un certo punto ci dobbiamo pur affidare a chi è qualificato; però un conto è il rapporto fiduciario che si ha con un professionista, e un altro è quando la relazione con il medico, l’insegnante, lo psicologo diventa asimmetrica e non consente una crescita del cliente ma anzi lo infantilizza, adoperando un linguaggio puerile, impedendo lo sviluppo di un dialogo, un confronto e un reale scambio di informazioni, creando e rafforzando una fragilità e una dipendenza emotiva dal parere dell’esperto.


Non basta, infatti, dichiarare a parole che i genitori sono competenti e devono “essere lasciati liberi di scegliere”, per fare empowerment, cioè per rispettare e potenziare le competenze delle madri e dei padri. Una scelta non è libera se non è informata, e l’informazione va offerta in modi che la rendano fruibile e comprensibile, accompagnata dagli strumenti critici per poterla valutare; i genitori vanno sostenuti e rafforzati non con un po’ di retorica, ma con un ascolto vero e con osservazioni che rimandino loro una vera comprensione e il riconoscimento di ciò che stanno facendo bene.


Bisogna prendere atto di come gli adulti di oggi si stiano sforzando di sganciarsi da queste dinamiche e di esplorare con coraggio altri approcci e modi di crescere i figli, basati sull’empatia e il rispetto. Un percorso non facile però, in quanto certe ideologie sono ancora ben radicate ed operanti, e da più parti l’approccio disciplinare violento viene riproposto non solo con pressioni dirette, ma anche in modi più subdoli e manipolatori, fondati sul ricatto affettivo e la colpevolizzazione, a cui l’adulto, a suo tempo cresciuto con la pedagogia nera, è doppiamente vulnerabile.

Consideriamo che i padri e le madri di oggi discendono da un processo sistematico e multigenerazionale di desensibilizzazione emotiva, che è stato praticato prima di tutto sui genitori stessi. È facile lasciarsi disorientare, fuorviare e trascinare, se non si ha una forte connessione con il proprio senso di giustezza interna, o il coraggio di andare controcorrente, o un retroterra ovvero una comunità che abbia offerto modelli alternativi ed efficaci, o una propria barriera critica contro le manipolazioni dei media.


Per emanciparci dal retaggio della pedagogia nera abbiamo una sola strada: quella della consapevolezza interiore. Come osserva la psicologa Alessandra Bortolotti.


Se vogliamo spezzare il perpetuarsi da una generazione all’altra di certi schemi comportamentali basati sulla violenza e sul potere, dobbiamo ascoltare i bambini che abbiamo dentro tanto quanto quelli che abbiamo di fronte12.


La rivoluzione della tenerezza
La rivoluzione della tenerezza
Antonella Sagone
Crescere i figli con una guida gentile.Scegliere la via della gentilezza per accompagnare i bambini a diventare individui integri e capaci di empatia, attraverso la presenza affettuosa, l’ascolto dei loro sentimenti e bisogni, il dialogo. La guida gentile non è essere sempre perfetti e nemmeno essere sempre accondiscendenti: è porsi ai nostri bambini con onestà e rispetto della loro integrità, è scegliere di saper essere piuttosto che di saper fare, di avventurarsi nel mare tempestoso delle emozioni e attraversarlo, insieme a loro, con empatia, e usare queste emozioni come guida per comprendere e conciliare i bisogni di tutti.Confermare il bambino nei suoi sentimenti e nelle sue sensazioni, accogliere la sua percezione anche quando non collima con la nostra, aiutandolo ad ampliare la sua visione delle cose e includere quella più vasta della società, è la strada per crescere individui integri, capaci di valutare in modo critico ciò che la vita propone loro, e quindi in grado di esprimere al massimo il loro potenziale.Al di là della falsa scelta fra autoritarismo e lassismo, nell’educazione dei bambini c’è una terza via, quella della gentilezza, che Antonella Sagone presenta nel suo libro La rivoluzione della tenerezza.Attraverso la presenza affettuosa, l’ascolto dei loro sentimenti e bisogni, il dialogo onesto e rispettoso, gli adulti possono, senza rinunciare al loro ruolo di guida, accompagnare i bambini a diventare individui integri e capaci di empatia, con una base affettiva sicura e la capacità di connettersi con gli altri e con l’ambiente intorno a loro, cambiando in meglio il mondo. L’ebook di questo libro è certificato dalla Fondazione Libri Italiani Accessibili (LIA) come accessibili da parte di persone cieche e ipovedenti. Conosci l’autore Antonella Sagone, psicologa in area perinatale e consulente professionale in allattamento materno IBCLC e formatrice; da 40 anni si occupa dei processi fisiologici della maternità e paternità, e delle pratiche di assistenza e sostegno che promuovono la salute e l’empowerment della madre e di tutte le persone coinvolte nell’accudimento e nella crescita del bambino.