CAPITOLO III

La crisi biosociale della genitorialità

La necessità di un cambiamento nell’uomo non costituisce soltanto un’esigenza etica e religiosa, non è frutto unicamente di un’aspirazione psicologica derivante dalla natura patogena del nostro attuale carattere sociale, ma è anche la condizione per la mera sopravvivenza della specie umana1.


Nell’arco di poche generazioni, quasi tutto ciò che veniva fatto in modo naturale, dalla gravidanza ai primi passi del bambino, è stato profondamente alterato: il parto, la nascita, l’allattamento, l’accudimento notturno e diurno del neonato, l’introduzione ai cibi solidi, tutto avviene in modi e tempi lontanissimi dal continuum biologico per il quale siamo stati modellati.


In nome della sicurezza, della convenienza o del profitto, abbiamo progressivamente medicalizzato i processi biologici, e sostituito sempre più le risorse naturali del corpo e delle azioni con prodotti e tecniche. Tutto questo è stato portato avanti con entusiasmo per le nuove tecnologie e saperi, ma sottovalutando profondamente quanto le nostre pratiche, così mutate, avrebbero inciso sulla salute a lungo termine della specie umana. Oggigiorno tuttavia, con il progresso di nuove discipline scientifiche, cominciamo a renderci conto dell’enorme impatto che queste deviazioni hanno per l’umanità.


Le neuroscienze, che studiano il funzionamento del sistema neuroendocrino-immunitario, hanno potuto osservare gli effetti a lungo termine dei traumi precoci di separazione e le conseguenze di una condizione di stress prolungato nel tempo. Gli studi sul microbioma, cioè l’insieme dei batteri che abitano in simbiosi nel nostro organismo, ci hanno palesato un’enorme complessità e un equilibrio delicato, che le pratiche spinte di igienizzazione e l’uso sconsiderato di antibiotici stanno distruggendo, con conseguenze drammatiche per la salute nostra e dell’intera biosfera. L’epigenetica, che studia come l’ambiente e le esperienze individuali influiscano sull’attività dei nostri geni, ha scoperto che questi fattori possono modulare l’espressione dei nostri geni in modo duraturo, persino tramandandone l’effetto ai discendenti per diverse generazioni.


Tutto questo ci porta a capire che le modifiche nel nostro modo di vivere e di crescere i bambini, che abbiamo compiuto nel corso delle ultime generazioni, allontanandoci dal nostro continuum come mai era successo prima, si stanno delineando come un azzardato esperimento senza precedenti, con conseguenze che vanno ben oltre l’immediato.


In molte parti del mondo ormai abbiamo più generazioni di individui cresciuti in modo distaccato e senza empatia; ciò può portarli a disconnettersi dai loro istinti materni e paterni e possono incontrare difficoltà, come adulti, a decodificare i messaggi non verbali che manda loro il bambino prima di essere capace di esprimersi a parole.


La gente oggigiorno sembra disorientata dal fatto che i bambini si comportino come tali. È un fenomeno comune ricercare, presso persone “esperte”, manuali pratici o anche semplicemente lanciando domande nei social, risposte semplici ad azioni del bambino, come ad esempio: “Perché mio figlio piange?” oppure “Perché non mi guarda negli occhi?”: domande impensabili fino a mezzo secolo fa, in cui tali comportamenti venivano semplicemente visti come il normale modo di essere dei bambini, e accolti tutt’al più con un sorriso o un’alzata di spalle. Si ricercano spiegazioni per decodificare frammenti di complesse comunicazioni preverbali del neonato, che acquistano significato solo se il genitore è sintonizzato sul bambino e capace di contestualizzare il segnale che egli ha lanciato e di inserirlo in una sequenza o in un processo interattivo.


Genitori che hanno perso la capacità di interpretare i segnali del bambino, o ai quali è stato detto che il loro istinto li inganna e li spinge a risposte avventate, che danneggiano la psiche del loro figlio, si trovano così alla fine disorientati e confusi di fronte al pianto e ad altre manifestazioni espressive dei bambini. Ed ecco che presunti esperti si fanno avanti porgendo suggerimenti e metodi basati su costrutti teorici privi di evidenze. Si apre un mercato per prodotti, app e manuali, che interpretano questi segnali secondo chiavi semplificate di lettura, inducendo i genitori a pensare che la vita, le emozioni e i bisogni dei propri figli debbano incasellarsi entro uno schema predefinito. La perdita di competenza dei genitori è funzionale a un sistema che ha bisogno di consumatori compulsivi e facilmente condizionabili. Questo modo di essere è ulteriormente rafforzato proprio dallo stile di accudimento distaccato che viene promosso e legittimato socialmente.


Il narcisismo sociale

Nella nostra cultura si attribuisce un enorme valore alla capacità di arrangiarsi emotivamente da soli, senza ricorrere al sostegno degli altri, senza cercare il conforto delle persone care.

I genitori si sentono dire che un bambino, fin da piccolissimo, dovrebbe pian piano imparare a calmarsi da solo quando è agitato, trovando in se stesso le risorse per stare bene; questa autosufficienza viene indicata come segno di maturità emotiva ed esaltata come una conquista nel cammino verso l’autonomia.


Certo, quando un individuo è solo e in difficoltà, avere una risorsa interiore a cui attingere, quella che un tempo veniva chiamata “forza d’animo”, può essere vitale per sopravvivere ai momenti difficili. Ma che dire di quando, invece, l’individuo non è solo ma ha vicino a sé persone che possono aiutarlo, sostenerlo, consolarlo? Per quale motivo dovrebbe essere celebrata la sua scelta di non ricorrere al conforto di chi lo ama e invece far da sé come se fosse completamente isolato?


La risposta è: un diffuso narcisismo. Il narcisismo è quel ritiro da ogni legame affettivo e da ogni slancio empatico verso gli altri, che nasce dalla paura di rimanere feriti e abbandonati. L’interesse e gli investimenti affettivi sono rivolti verso gli oggetti, e viene assai valutata la capacità di fare a meno degli altri, soprattutto del loro amore e sostegno. A questa idea di bastare a se stessi, nella nostra cultura viene dato il nome di indipendenza, ma si tratta in verità di autarchia affettiva, di una tristissima solitudine e distacco autoimposto per paura di subire l’abbandono, per timore che l’affetto degli altri ci venga negato lasciandoci nuovamente vulnerabili e bisognosi. Definire indipendenza o autonomia questa condizione, dandogli connotazioni positive, non è che un sistema difensivo basato sulla negazione delle passate sofferenze.


Saper chiedere aiuto e accogliere e sfruttare il sostegno che riceviamo è invece una competenza importante per gli esseri umani che, non dimentichiamolo, sono una specie sociale e non solitaria. Questa abilità, che nel bambino piccolo si esprime con il pianto, i vocalizzi e l’agitazione corporea come richiamo quasi irresistibile per gli adulti, va coltivata e sviluppata, e non ostacolata come fosse un elemento di debolezza. L’adulto, rispondendo con prontezza ai richiami del bambino e modulando la sua risposta secondo i suoi segnali, rinforza e raffina nel piccolo questa importante competenza.


La capacità di autoconsolarsi, acquisita precocemente da tanti individui a caro prezzo emotivo, non è affatto in sé una conquista, ma rappresenta invece un disvalore, essendo il triste risultato di un accudimento non empatico e non rispettoso dei tempi e dei bisogni infantili.

L’esasperato addestramento a un’anticipata indipendenza affettiva ha cresciuto individui incapaci di empatia, fragili, con una risposta elevata allo stress, l’attivazione frequente degli ormoni del pericolo, cioè adrenalina e cortisolo, e un’ipertrofia dei meccanismi neurocomportamentali di attacco o fuga: insomma dei perfetti soldati, che non tengono in conto la vita umana: nemmeno la propria.


La società industriale apprezza questo tipo di individuo perché è anche un perfetto consumatore, che investe sugli oggetti piuttosto che sulle persone, ed è particolarmente incline alle dipendenze. I genitori sono soli, e così entrano in scena i sostituti materiali dell’adulto che accudisce: ciuccio, girello, box, televisione e chi più ne ha più ne metta.


Poiché viviamo dunque in una società narcisista – che investe sull’ego, che promuove il consumo continuo e l’attaccamento a oggetti inanimati, che favorisce la superficialità promuovendo il distacco dalle emozioni e dagli affetti – tutte le conoscenze e le verità relative alla sana relazione affettiva, e il fatto che noi siamo esseri sociali – e quindi felicemente dipendenti gli uni dagli altri sotto il profilo affettivo – devono venire negate, ignorate, derise, distorte o apertamente combattute. Una relazione madre-figlio amorevole e felice può mettere in crisi, riaprire l’antica ferita, e nasce così l’urgenza di negarne la bontà e l’efficacia… o il castello di carte crolla.


Questo è lo scenario in cui noi, genitori empatici e rispettosi dei nostri figli, che abbiamo scelto le cure prossimali (cioè a intenso contatto fisico ed emozionale), ci troviamo ad operare.

Occorre al più presto rompere questo circolo vizioso. Oggi più che mai la battaglia per una pedagogia basata sull’amore, il rispetto, l’alto contatto, è la più grande rivoluzione che possiamo intraprendere per invertire la rotta, cambiando il mondo a piccoli passi, ma in maniera profonda e duratura.


Il paradiso perduto

Le radici della violenza educativa affondano molto indietro, nei condizionamenti che i genitori di oggi hanno a loro volta ricevuto. Come si fa a indurirsi abbastanza da restare impassibili di fronte al pianto di un bambino, ignorando i segnali e i richiami che manda con tanta chiarezza? Come si fa ad applicare metodi senza cuore nella convinzione di esprimere amore e protezione?


Gli approcci basati sul distacco attingono a una visione che vede il mondo come ostile e duro, e il compito del genitore come quello di temprare il carattere dei figli abituandoli fin da subito a quella durezza. Ma noi siamo fatti di carne, non di metallo! Questa filosofia terribile, crudele, disperata, del tutto disconnessa dalla vita è la logica di chi, pur di non soffrire di nuovo il dolore della separazione, del sentirsi negare l’amore dalle persone che ama, sceglie la solitudine a priori, il distacco dalle emozioni. Il problema è che con le emozioni non puoi scegliere: devi prendere tutto il “pacchetto”. Le buone come le dolorose. Altrimenti, le perderai entrambe.


Una conseguenza di questa prospettiva è temere e diffidare di ogni momento di tenerezza e di felicità, arrivando addirittura ad affermare, in certi casi, che appena il bambino raggiunge l’età in cui può ricordare le esperienze sarebbe il caso di smettere di allattarlo, di coccolarlo, di tenerlo nel lettone. Le vittime del mito del paradiso perduto sono convinte che se si continua a rimpiangere l’Eden non si riuscirà mai a vivere in questo mondo così ostile. Si ha paura di credere che la felicità sia a portata di mano, ignorando che evolversi non significa adattarsi a crescenti frustrazioni e limiti, ma anzi avere più strumenti per esprimere il proprio potenziale e godere di più di tutte le occasioni che la vita ci offre.


Questa visione sottovaluta il potenziale umano di autodeterminarsi, la spinta evolutiva che fa abbandonare il noto per l’ignoto, il desiderio di cimentarsi con nuove sfide che invece è un motore intrinseco nell’essere umano: basta vedere con quale determinazione i bambini cercano di sfuggire a ogni gabbia, di scavalcare ogni muro, per andare oltre ed esplorare tutto il possibile. Non c’è bisogno di cacciarli dal paradiso: crescendo, quel paradiso starà stretto al bambino, che non potrà fare a meno di allungare la mano fino al ramo più alto e mordere la mela con i dentini appena spuntati.


Si lavora per l’esercito?

Sembra che lavoriamo tutti per la guerra, a forgiare soldati, a schierare eserciti. Niente viene lasciato a evolversi così come la natura ha previsto. Si interferisce sui processi naturali, cercando di dominarli e di controllarli in modo rozzo e riduttivo, semplificando, negando la loro complessità.

Questo causa uno stress precoce, spesso sin dalla nascita, e prolungato nel tempo, che predispone ad atteggiamenti di ansia e aggressività. È un assetto “da combattimento” che preclude e inibisce la capacità di cooperare e di sostenerci a vicenda.


Questa situazione si riflette non solo su tutti i processi del periodo perinatale, ma anche in altri ambiti come la gestione della salute, l’educazione, il rapporto con l’ambiente.


La dottoressa Anne Katharine Zschocke, nel suo libro I batteri intestinali, fa una riflessione su come la visione militaristica, così forte all’inizio del secolo scorso, abbia influenzato anche il modo in cui gli studi sul sistema immunitario sono stati interpretati. Si tratta di una storia emblematica. La scoperta, grazie al microscopio, dell’esistenza dei batteri e delle cellule immunitarie, invece di svelarci lo scenario di un fantastico sistema simbiotico, articolato e modulato secondo complesse forme di comunicazione e retroazione, è stata letta come una guerra infinita fra due fronti, “noi” e “loro”, il cui funzionamento è stato semplificato e ridotto alla tradizionale domanda “Chi va là, amici o nemici?”, come si fosse in trincea. I termini stessi per descrivere il sistema immunitario sono mutuati dal linguaggio bellico e questo ci ha ipnotizzati tutti, impedendoci di capire, e gettandoci in una battaglia insensata contro batteri e virus, nel delirante tentativo di sterilizzare e uccidere tutto con antisettici e antibiotici. Questa lettura della vita in chiave militare è anche una forma di semplificazione, che cerca di combattere la complessità come se fosse una malattia. Nel XIX secolo, quando si sono iniziati a studiare i batteri.


I bravi medici si formavano negli ospedali di guerra e avevano interiorizzato il pensiero della guerra e le immagini del nemico. Tutto questo si è trasmesso… sui risultati della ricerca sulla batteriologia. Come una nazione che si deve proteggere da un esercito straniero per non venirne travolta e conquistata, così si temeva che il corpo umano potesse venire travolto da batteri “estranei” e venire sabotato, cioè ammalarsi. All’epoca non si avevano ancora le prove biochimiche che l’essere umano, in tutti i suoi processi organici, nel suo bilancio ormonale, nel suo metabolismo cerebrale, è fatto per la cooperazione, la convivenza e l’esserci l’uno per l’altro e che, al contrario, la lotta è sempre accompagnata da stress e da una diminuzione della qualità della vita2.

L’esperienza del Coronavirus ci ha mostrato che, perfino nel caso di agenti patogeni aggressivi, ricorrere alla metafora del combattimento può non essere una buona idea. La narrazione in termini bellici ci ha trascinato in una guerra di trincea, alimentando il mito del raggiungimento del “rischio zero”, accrescendo reazioni fobiche generalizzate, innescando comportamenti di avversione al contatto, insinuando il sospetto e l’ostilità nei rapporti sociali, addirittura proponendo “nuove normalità” fatte di barriere e chiusure, di ridotta mobilità e introducendo l’illusoria dicotomia interno = sicuro / esterno = pericoloso. Questa narrazione guerresca ha inibito comportamenti salutari e non ha aiutato nella corretta comprensione e attuazione di tutti i comportamenti di prevenzione del contagio; inoltre ha fatto trascurare e messo in secondo piano tutti gli aspetti legati alla protezione e promozione della salute. Ha portato e porta, poi, a sottovalutare le implicazioni psicologiche e sociali di un protratto clima di “stato di guerra”. Un diverso approccio, basato sul paradigma del prendersi cura, avrebbe consentito ugualmente di prendere provvedimenti a protezione della salute durante l’emergenza sanitaria, ma senza trascurare una visione integrata che collocasse l’umanità nel complesso sistema di interazioni con tutti gli altri viventi.


La Zschocke fa anche un parallelo con il modo in cui trattiamo la natura, classificando piante e animali come “amici o nemici”, “utili o dannosi”, senza capire la complessità e la cooperazione che c’è dentro un ecosistema, cercando ancora una volta di semplificare (monoculture, distruzione dei “parassiti”) e di schierare (“guerra biologica” agli animali “nocivi”).


L’autrice sottolinea il ruolo essenziale che i batteri svolgono anche a livello della crescita dei vegetali e nel mondo animale, per generare e mantenere un ecosistema sano, riflettendo sul fatto che tutto questo fa la differenza sul cibo che poi noi mangiamo, impattando a sua volta sulla ricchezza (o povertà) del nostro microbioma.


Macrocosmo e microcosmo sono strettamente correlati. Lungi dal comprendere questa circolarità alla base dei sistemi biologici, si interviene come in guerra e si perpetua questa attitudine anche nel modo in cui accogliamo e cresciamo le nuove generazioni.

Michel Odent, medico e pioniere della nascita senza violenza, nel suo libro La scientificazione dell’amore3 ne parla ampiamente. Gli approcci educativi basati sul distacco, e ancora più indietro lo stress in gravidanza, un certo modo di partorire e la separazione precoce dei primi giorni, ma soprattutto il subire ripetute frustrazioni da piccoli, essere lasciati piangere e così via, “tarano” il sistema neuroendocrino del bambino in un certo modo, specialmente nella risposta allo stress, e in poche parole creano esseri umani che sono buoni soldati ma cattivi cittadini in tempo di pace… cioè persone con un basso livello di empatia e una forte reattività allo stress e disposizione a combattere. Non è quindi un’ipotesi filosofica, ma una realtà biologica, e noi madri, in questo senso, abbiamo veramente nelle nostre mani il futuro dell’umanità.


Dalla predazione alla cooperazione

La visione bellicosa della vita che abbiamo ereditato dalle precedenti generazioni è legata anche a un atteggiamento predatorio nei confronti delle persone, degli animali, dell’ambiente e delle risorse terrestri. È un modo di essere che richiede un distacco emotivo dal resto del mondo, che crea separazioni e oggettifica quel tessuto vitale di cui siamo anche noi parte viva. Mantenere un’attitudine predatoria ci rende meno sensibili alla sofferenza e quindi ci conduce progressivamente all’autodistruzione, assieme al mondo a cui siamo, nonostante tutto, interconnessi. Questo sfruttamento crudele viene quotidianamente rimosso e va a far parte dell’Ombra: quella parte di noi stessi in cui non amiamo riconoscerci, e che continua ad agire e influenzare le nostre percezioni e azioni.


Will Tuttle, filosofo e umanista, descrive questa trappola della violenza ereditata:


Ci comportiamo come predatori e abbiamo creato istituzioni che sono l’antitesi dell’inclusività e della bontà che accompagnano la crescita spirituale4.


I comportamenti predatori richiedono un certo grado di insensibilità, che ottunde la percezione e limita l’intelligenza; la presa di coscienza non può prescindere da un processo doloroso di consapevolezza:


Oggi sentiamo un richiamo costante ad evolverci. Rientra in un canto più ampio al quale tutti partecipiamo, che si leva dalle nostre cellule e dalla natura stessa dell’universo che dà origine alla nostra esistenza. È un canto, fondamentalmente, di guarigione, gioia e festa, perché tutti noi, umani e non umani, siamo l’espressione di un universo meraviglioso e benevolo. Ma è anche un canto di dolore e violazione profondi perché dominiamo, mercifichiamo e uccidiamo diffusamente animali e persone5.

Anche Michel Odent è tornato più volte su questa connessione fra il comportamento predatorio verso l’ambiente e la violenza e distacco con i quali gestiamo l’assistenza al parto e alla nascita dei nostri bambini:


Il processo dell’industrializzazione tende a sopraffare e persino ad ignorare le leggi naturali, ciò almeno fino al giorno fatale in cui accadono dei disastri impressionanti (…). Affinché la vita umana possa continuare ad essere sostenibile per il nostro pianeta, dobbiamo prepararci ad affrontare una mutazione non genetica, ma indotta dalla necessità, dalla ragione e dalle conoscenze scientifiche6.


Dobbiamo uscire dalla logica della consuetudine, del “Si è sempre fatto così”, e passare da un sistema predatorio a uno cooperativo, dalla simbiosi parassitaria verso il nostro pianeta a quella mutualistica. L’evento nascita e le cure parentali nei primissimi anni di vita sono uno snodo cruciale di questo cambiamento.


Non è vero che le guerre ci siano “da che mondo è mondo”, e si può realmente fare qualcosa per prevenirle. Per esempio, non “lavorare per l’esercito” partorendo in condizioni di stress, innaturali, con interventi medicalizzanti, con la separazione immediata di madre e neonato, trascurando l’impatto sull’assetto emotivo e neurormonale degli individui. Una cultura non violenta già dalla nascita, anzi, fin dalla gravidanza, è un primo passo verso la creazione di una società più pacifica e capace di empatia.


Ma adesso? Si può praticare la non violenza in un mondo violento? Certamente: è proprio per rompere la spirale della violenza che è nato il movimento nonviolento. E come ci si difende da chi è violento verso di noi? Il vecchio paradigma giustifica la legge del più forte, con la considerazione che “Non si può tenere il bambino sotto una campana di vetro”, che bisogna imparare a difendersi e a rispondere alla violenza senza subire passivamente; e che quindi la dolcezza renderebbe fragili, deboli, mentre un trattamento duro, esigente, temprerebbe uomini forti (e donne remissive). È tempo di passare a un nuovo paradigma, abbandonare la dicotomia mascolino = duro, insensibile – un macho, un guerriero, e femmineo = fragile, emotivo – una persona gentile, che si prende cura degli altri. Maschi o femmine che siamo, siamo tutti capaci di empatia, di gentilezza, ma anche di forza e di assertività. Questo non ha nulla a che fare con l’identità profonda dell’essere uomo o donna. Molti ragazzi e ragazze, oggi giovani adulti, sono persone pacifiche, non sono bulli, non usano la violenza per difendersi dai comportamenti arroganti ma sanno difendersi ugualmente con garbo e fermezza; e sono stati educati da bambini con e alla gentilezza.


La nonviolenza (intesa come modo di essere, come approccio e come risposta alla violenza) non è assenza di violenza, ma è essere attivamente pacifici.

Riflettiamo, al di là degli stereotipi, sui concetti di attività e passività. Una bimba gentile ed educata in modo nonviolento viene spintonata ai giardinetti. Risponde con un’altra spinta? No, ma questo non significa che stia subendo. Invece, dice “Ciao” alla prepotente e va a giocare altrove. È attiva o passiva? Si direbbe molto attiva nella sua scelta di evitare una persona molesta. Un altro bambino piccolo, in una situazione simile, abbraccia i bulli che lo stanno provocando, facendo rapidamente sciogliere la tensione in una risata collettiva. Non si tratta certo di una risposta passiva!


Anche noi adulti, quando evitiamo le persone aggressive o prepotenti e scegliamo di non frequentarle, non stiamo subendo o soccombendo alla prepotenza. In altri casi, scegliamo invece di confrontarci; lo facciamo avendo valutato le forze e rispondiamo non necessariamente con arroganza o alzando anche noi la voce.


Non c’è solo la violenza per farsi valere. Non sottovalutiamo la forza della nonviolenza che insegniamo ai nostri figli. Non possiamo vederne i risultati subito, in un bambino piccolo; ci saranno le volte che “le prenderà” e verrà da noi a farsi giustamente consolare; ci saranno volte in cui reagirà fisicamente e alzerà le mani a sua volta. Deve imparare. Però quando sarà più grande, quello che conterà non sarà saper intimorire gli altri, ma il senso di sicurezza interiore. Si può essere gentili e assertivi, e un bambino cresciuto così non ha presa né attrattiva sui bulli, sarà rispettato, avrà molti amici e solidi rapporti umani.


Praticare in prima persona un comportamento cooperativo e non predatorio, e crescere i nostri figli coltivando in loro empatia e sensibilità è la strada che può condurci al profondo cambiamento sociale che la nostra specie deve affrontare, per risanare se stessa e il pianeta vivente che l’ospita.


La rivoluzione della tenerezza
La rivoluzione della tenerezza
Antonella Sagone
Crescere i figli con una guida gentile.Scegliere la via della gentilezza per accompagnare i bambini a diventare individui integri e capaci di empatia, attraverso la presenza affettuosa, l’ascolto dei loro sentimenti e bisogni, il dialogo. La guida gentile non è essere sempre perfetti e nemmeno essere sempre accondiscendenti: è porsi ai nostri bambini con onestà e rispetto della loro integrità, è scegliere di saper essere piuttosto che di saper fare, di avventurarsi nel mare tempestoso delle emozioni e attraversarlo, insieme a loro, con empatia, e usare queste emozioni come guida per comprendere e conciliare i bisogni di tutti.Confermare il bambino nei suoi sentimenti e nelle sue sensazioni, accogliere la sua percezione anche quando non collima con la nostra, aiutandolo ad ampliare la sua visione delle cose e includere quella più vasta della società, è la strada per crescere individui integri, capaci di valutare in modo critico ciò che la vita propone loro, e quindi in grado di esprimere al massimo il loro potenziale.Al di là della falsa scelta fra autoritarismo e lassismo, nell’educazione dei bambini c’è una terza via, quella della gentilezza, che Antonella Sagone presenta nel suo libro La rivoluzione della tenerezza.Attraverso la presenza affettuosa, l’ascolto dei loro sentimenti e bisogni, il dialogo onesto e rispettoso, gli adulti possono, senza rinunciare al loro ruolo di guida, accompagnare i bambini a diventare individui integri e capaci di empatia, con una base affettiva sicura e la capacità di connettersi con gli altri e con l’ambiente intorno a loro, cambiando in meglio il mondo. L’ebook di questo libro è certificato dalla Fondazione Libri Italiani Accessibili (LIA) come accessibili da parte di persone cieche e ipovedenti. Conosci l’autore Antonella Sagone, psicologa in area perinatale e consulente professionale in allattamento materno IBCLC e formatrice; da 40 anni si occupa dei processi fisiologici della maternità e paternità, e delle pratiche di assistenza e sostegno che promuovono la salute e l’empowerment della madre e di tutte le persone coinvolte nell’accudimento e nella crescita del bambino.