CAPITOLO I

La gabbia senza chiave

La paura è una strega:ci rinchiude in una gabbia, mette la chiave nella nostra tasca, e crea l’illusione di averci mutilato le braccia1.


Qualche generazione fa la maggior parte delle famiglie era guidata da regole autoritarie e coerenti con la morale e la cultura dominante: il modello patriarcale era esplicito e saldo, il governo della famiglia era solidamente nelle mani del pater familias che dettava le leggi e le faceva rispettare; e a sua volta il capofamiglia si assoggettava alle leggi dello stato o del Re, che erano altrettanto esplicite ed autoritarie.


Questo modello gerarchico governava la libertà degli individui come in una prigione ben organizzata, di cui alcuni avevano le chiavi e decidevano quali porte aprire e quali tenere chiuse.


In meno di mezzo secolo, le cose sono radicalmente cambiate. Al giorno d’oggi ci troviamo in una situazione completamente diversa. Sembra non ci siano più né porte, né chiavi; anzi sembra che persino i muri siano scomparsi, nell’oceano comunicativo virtuale di cui tutti facciamo ormai parte. Eppure i genitori si trovano ugualmente prigionieri di una gabbia di regole non dette, di muri fatti di paure impalpabili, di porte invisibili fatte di disinformazione o assenza di informazioni. Questa gabbia senza chiave mantiene le persone al suo interno non per mezzo di coercizioni, barriere rigide e invalicabili, ma grazie a un’espansione infinita dei confini, come un enorme, labirintico ipermercato sovraccarico di prodotti e di offerte del quale, però, non si riesca a trovare mai l’uscita.


In questa situazione i genitori di oggi si trovano a fare i conti anche con alcune criticità che i propri nonni non hanno dovuto affrontare.


Il villaggio perduto

Quando si parla di villaggio a volte emerge un’idea modellata sui romanzi di avventura dei primi del novecento: Tarzan, con il suo corollario di dolce Jane che aspetta nella casa sull’albero; il guerriero sioux e la squaw nella capanna; il cacciatore preistorico che torna con la gazzella e la sua donna che lo aspetta nella caverna, e così via.


Allora è meglio andare a vedere quello che l’antropologia e l’etnologia ci hanno insegnato su cosa erano veramente i villaggi dei nostri antenati, e cosa sono ancora oggi, in rarissimi e nascosti angoli della terra.


Le donne nei villaggi, così come erano le nostre antenate, e come vivono ancora nei pochi luoghi della terra in cui esistono comunità “primitive”, sono il fulcro dell’attività sociale e produttiva del villaggio; tipicamente molto più indaffarate degli uomini. Esplorano il territorio facendo molti chilometri al giorno, assieme a figli piccoli e giovani adulti, in attività di raccolta (essendo il cibo vegetale la parte principale dell’alimentazione) e per trovare e portare l’acqua al villaggio, dove poi preparano il cibo, macinano i cereali, pestano i vegetali per fare le tinte, filano fibre per tessere, accudiscono eventuali animali domestici. Alcune di loro sono guaritrici o levatrici e si prendono cura delle malattie degli altri membri del villaggio. Gli studi archeologici basati sulle impronte digitali lasciate sugli antichi manufatti hanno dimostrato che l’antica arte della ceramica era femminile: erano le donne a creare e decorare le anfore, le ciotole, i calici e le urne cinerarie. In molte società antiche, la gestione delle comunità era matriarcale e quindi le donne si occupavano anche delle dispute e di mantenere la pace nel villaggio riunendosi periodicamente per prendere le decisioni importanti che riguardavano tutta la comunità.


Conciliare tutto questo con un accudimento ad alto contatto era allora molto più fattibile di oggi, proprio perché le varie attività non erano incompatibili con la cura della prole, il villaggio era presente e i compiti si distribuivano: i bambini erano quasi sempre in gruppo fra loro, i piccoli addosso alle madri, quelli a primi passi spesso a séguito dei bambini più grandi; tornavano dalla mamma per la poppata o per una coccola e per quello non c’era bisogno di grande fatica, anche perché le poppate erano brevi e frequenti e avvenivano spesso in fascia.


In tutto ciò, e nonostante anche gli uomini avessero il loro daffare, fra cacciare, fare lavori pesanti, costruire abitazioni, fabbricare strumenti o affiancare le donne nella raccolta o nell’accudimento degli animali, i nostri “primitivi” antenati avevano più tempo libero di noi, passando buona parte del loro tempo a cantare, danzare, stare seduti a raccontarsi storie o ridere insieme. E per antenati intendo i due sessi della specie e i loro piccoli. Inoltre, i bambini non erano poi così tanti per ciascuna donna, dato che con l’allattamento frequente e prolungato le nascite si distanziavano naturalmente di 3-4 anni.


Questi dati ci aiutano a capire che oggi non sono le madri a essere inadeguate, non sono i bambini ad avere pretese eccessive: dobbiamo sempre ricordare da dove veniamo. Siamo attrezzati per essere validi genitori e i bambini sono attrezzati per fare i bambini, nel contesto ambientale e sociale in cui la nostra specie si è sviluppata. Quindi finché siamo nel continuum della nostra natura di homo sapiens, le cose funzionano; quanto più ce ne distacchiamo, tanto più sorgono difficoltà (o possono sorgere). 


Oggi non possiamo certo tornare a vivere in una capanna di paglia e fango, con il pavimento di terra battuta e le caprette che dormono con noi; ma è importante essere consapevoli di questo aspetto per comprendere che forse stiamo pretendendo troppo da noi stessi, e che occorre un po’ più di villaggio nelle nostre vite, un po’ di condivisione in più: non solo nel mondo virtuale, ma anche fisicamente. Due braccia per dare una mano; spazi sociali comuni che non escludano la presenza dei bambini (emarginando in automatico anche chi se ne prende cura); i bambini un po’ più nel mondo degli adulti (invece che segregati in luoghi costruiti per loro); e un po’ più di solidarietà e sostegno collettivo.


Isolamento

Nelle società basate sulla produzione e sul consumo di beni, non c’è più spazio per una dimensione conviviale, di cooperazione, di condivisione affettiva e creativa. E cosa succede quando si vive in una comunità che rende le cure necessarie per la prole inconciliabili con tutte le altre attività quotidiane? Come far coesistere le necessità dei bambini, dei genitori e del resto della società, quando questa è organizzata a compartimenti stagni, spazi esclusivi e ambiti separati?


Ora la maggioranza dell’umanità vive nei termitai metropolitani, in cui madri e bambini sono segregati in solitudine, a volte per l’intera giornata, oppure gli adulti si allontanano dalla famiglia e “vanno” a lavorare mentre i loro figli passano ore con gruppi numerosi di altri bimbi della stessa identica età, sorvegliati da un adulto. Una condizione molto lontana da quella della nostra specie, che è stata modellata per vivere in gruppi misti di adulti e bambini di età diverse.


Sono sempre più scarse le occasioni non solo di assistere alla quotidianità delle cure parentali e vedere come è e come agisce naturalmente un bambino piccolo, ma anche di poter sperimentare direttamente l’accudimento dei fratelli minori. I genitori sono soli nel loro percorso di apprendimento con il bambino, senza paragoni viventi da osservare, senza idea di come veramente un neonato o un bambino si comporta. Siamo arrivati alla terza o anche quarta generazione di genitori cresciuti loro stessi a basso contatto, che mancano a volte dell’adeguato background sensoriale ed emotivo per saper apprendere la normalità in modo diretto, dal bambino stesso.


C’è spesso la percezione esistenziale che manchi qualcosa, che i conti non tornino, che manchi un tassello. L’assenza del villaggio è il pezzo mancante del puzzle. Questa mancanza viene colmata da un’illusoria partecipazione a una comunità virtuale che però è effimera e non può riempire davvero la fame di relazioni vive e vitali con altre persone in carne ed ossa. Quali strumenti hanno i genitori per discernere e scremare dall’oceano della rete le informazioni rilevanti e attendibili che servono a loro? I pregiudizi, i falsi miti, le ideologie rischiano in questa situazione di essere semmai potenziati e diffusi capillarmente. Tutti hanno da dire qualcosa ai nuovi genitori, ma pochi sembrano avere il tempo e l’interesse per ascoltarli, consentendo loro di crescere e focalizzarsi meglio sui propri bisogni e percezioni e di esprimere al meglio e in modo autonomo il loro potenziale.


Accudire i nostri figli in questa società così poco connessa con il continuum2 umano, in cui i genitori sono spesso isolati e senza sostegno della comunità, e talvolta incompresi o criticati, è un impegno fisicamente ed emotivamente gravoso. Nessuno si dovrebbe annullare per prendersi cura adeguatamente dei propri figli, ma troppe volte il vissuto dei genitori è quello di andare oltre le proprie energie e risorse e nello stesso tempo sentire ancora di “non aver fatto abbastanza”.


Credo che troppo a lungo si sia sottovalutato l’impatto enorme che ha l’assenza di una piccola comunità viva e attiva, non solo nella vita delle madri e delle famiglie, ma proprio nel modo in cui viene rappresentata la maternità e la paternità, nella costellazione di aspettative, vissuti, strategie che si modellano intorno alla cura di un bambino nei suoi primi anni.


L’isolamento della famiglia nucleare, che spesso durante il giorno si riduce alla sola madre, ha generato aspettative troppo elevate nei suoi confronti. Ci si aspetta che la mamma sia disponibile 24 ore al giorno, sette giorni a settimana, per la maggior parte del tempo senza nessuno che si alterni a lei, nessuno con cui condividere le proprie emozioni, i momenti difficili o quelli belli. Ai primi passi o alle prime parole di suo figlio, spesso la madre è da sola con lui, senza altri testimoni per gioire o per piangere insieme. E se la mamma è triste, spaventata, stanca, chi la consola? Con chi confrontarsi in un momento di rabbia o di confusione?


In passato, altre persone sarebbero state lì a testimoniare, celebrare e ascoltare. Oggi, i primi sorrisi del piccolo viaggiano in rete, le lacrime si esprimono con le emoticon e le domande e i dubbi vengono lanciati sui social, come messaggi in bottiglia che non si sa chi raccoglierà.


La trappola delle aspettative

Un problema derivato dall’isolamento è la mancanza di esempi vivi e reali e di esperienza diretta su come sia un bambino e cosa significhi prendersene cura. La società fornisce modelli mediati dalle necessità del marketing o derivati da idee astratte su come debba apparire e comportarsi un bambino, che di rado viene rappresentato secondo le sue reali potenzialità e abilità. Le richieste rivolte a neonati e bambini sono spesso troppo elevate o, al contrario, si sottovalutano le competenze che anche un neonato può avere. Così si creano aspettative irrealistiche, distorte ad arte anche dai media e dalla pubblicità, che mira a creare falsi bisogni per indurre al consumo di prodotti. L’idea di neonato e di bambino quindi oggi si modella sugli unici esempi visibili, e cioè su modelli proposti dai mezzi di comunicazione di massa, che sono molto lontani dalla fisiologia e dalla realtà. Si fatica a vedere semplicemente il proprio bambino per quello che è: un bambino!


Il confronto con queste aspettative irraggiungibili può causare nei genitori frustrazione, senso di inadeguatezza e rabbia, delusione o irritazione verso il proprio figlio, il sentirsi traditi riguardo al progetto che era stato costruito su di lui. Anche quando il bambino si piega alle richieste dei genitori, questi spesso non accettano se egli si mostra infelice o scontento o in collera, perché l’aspettativa è che capisca le ragioni degli adulti e quindi sia felice delle decisioni che sono state prese per lui.


Essere legati a uno standard, a una performance, danneggia anche i genitori di bambini particolarmente collaborativi. Chi ha bambini che “mangiano e dormono” pensa di aver fatto un buon lavoro e si costruisce aspettative sui propri figli basate su standard eccessivamente alti. Viene comunque minimizzato e non compreso quell’insieme di fattori che determinano un comportamento, che non sono frutto di interventi educativi ma dipendono dall’indole, dalle fasi di sviluppo del bambino, dal contesto, e dai bisogni ed emozioni che lo muovono. Questi genitori sono impreparati nel momento in cui questi bimbi hanno un comportamento diverso, di nervosismo, di pianto, cambiano ritmi di fame o di sonno; e questo avviene sempre, prima o poi. Sperimentare le “giornate storte”, per questi genitori, sarà utile per diventare più flessibili, accettare questi momenti di “normalità” del proprio figlio, rettificare le aspettative in modo più realistico e capire che, se succede, non necessariamente qualcosa è sbagliato nella loro famiglia.


Come poi al bambino si chiede di adeguarsi a certi standard per essere definito “bravo”, così al genitore la società richiede lo stesso. Ci sono standard per essere una “brava madre” o un “bravo padre”, e includono avere un figlio che si conformi a certe regole, sostanzialmente non disturbando la quiete degli adulti e adattandosi a vivere in un mondo che non è a misura di bambino.


E quel mondo non è nemmeno a misura di genitore. Se il bambino è troppo “puerile” (cioè fa il bambino) si guarda storto la mamma o il papà e si pensa che non l’abbiano saputo educare, poiché c’è questa idea che crescere un bambino significhi modellarlo in modo che diventi esattamente ciò che il suo ambiente si aspetta che sia.


Il giudizio degli altri

Viviamo nella cultura del distacco: la nostra società, oltre a non sostenere e anzi creare ostacoli ai genitori che vogliano crescere i loro figli attraverso un approccio empatico, rispettoso e ad alto contatto, è spesso apertamente critica verso pratiche come il cosleeping, l’allattamento a termine, l’alimentazione complementare a richiesta, l’uso della fascia per portare i bambini e in generale tutte quelle cure che richiedono una presenza costante e un’intimità condivisa. Questo tipo di genitori è quindi facilmente oggetto di giudizi severi da parte della comunità.


La nostra società è talmente assuefatta a un modo giudicante di comunicare, che spesso nemmeno si concepisce che possano esserci altre possibilità. Così anche la semplice espressione di un’opinione o l’offerta di un’informazione vengono vissute come fossero giudizi; e con la stessa chiave di lettura, chi promuove un approccio o un modo di comunicare privo di giudizio verso i bambini viene visto come troppo permissivo, perché l’astensione dal giudizio viene interpretata come un’assoluzione. Insomma: non si esce dall’aula di tribunale… ma c’è un mondo fuori da quest’aula, in cui è possibile valutare o anche dissentire senza giudicare, comprendere senza per questo concordare o giustificare.


Questi atteggiamenti critici e giudicanti, specie se ripetuti spesso, mettono i genitori gli uni contro gli altri e li portano ad arroccarsi su posizioni difensive a priori, anche quando si sta semplicemente offrendo loro informazioni. Quando si dà un’informazione importante per la salute, chi ha optato diversamente reagisce talvolta come se venisse accusato di volere il male dei propri figli. Ma è ovvio che non è così e nessuno lo pensa! Chi, spesso con fervore, diffonde informazioni sulle buone pratiche facendone, anche giustamente, una questione di salute delle madri e dei bambini, non desidera che promuovere il meglio per loro; ma a volte le modalità comunicative sono giudicanti, oppure il mezzo di diffusione delle informazioni (la rete, i social) non è adeguato per veicolare informazioni in modo corretto ed efficace.


Il successo, per un genitore, si misura più sulla qualità della relazione e sui sentimenti che sui risultati comportamentali del bambino; ma la nostra società sembra considerare solo quest’ultimo aspetto, come se dietro ai comportamenti non ci fossero persone, adulti e bambini, con i loro bisogni ed emozioni. Il coinvolgimento emotivo materno viene biasimato, e le mamme sollecite sono etichettate come ansiose, chiocce, iperprotettive, o con il più recente e orrido mamme pancine. Anche il genitore consapevole di stare facendo del suo meglio, conscio che anche suo figlio sta facendo del suo meglio, di fronte a questi giudizi, spesso ripetuti, prova disorientamento, frustrazione e senso di inadeguatezza. Difficile restare lucidi e consolarsi pensando che tali sentimenti in realtà sono provocati dalle aspettative di chi sta intorno: perché per un neogenitore, tali aspettative sono importanti. Anche gli adulti infatti desiderano essere accettati, apprezzati, inclusi nel gruppo dei pari.


Vedremo più avanti come sia tipico della nostra cultura e organizzazione sociale portare bisogni essenziali, come quello di coccolare il bambino da un lato e quello di approvazione dall’altro, a entrare in competizione fra loro.


La rivoluzione della tenerezza
La rivoluzione della tenerezza
Antonella Sagone
Crescere i figli con una guida gentile.Scegliere la via della gentilezza per accompagnare i bambini a diventare individui integri e capaci di empatia, attraverso la presenza affettuosa, l’ascolto dei loro sentimenti e bisogni, il dialogo. La guida gentile non è essere sempre perfetti e nemmeno essere sempre accondiscendenti: è porsi ai nostri bambini con onestà e rispetto della loro integrità, è scegliere di saper essere piuttosto che di saper fare, di avventurarsi nel mare tempestoso delle emozioni e attraversarlo, insieme a loro, con empatia, e usare queste emozioni come guida per comprendere e conciliare i bisogni di tutti.Confermare il bambino nei suoi sentimenti e nelle sue sensazioni, accogliere la sua percezione anche quando non collima con la nostra, aiutandolo ad ampliare la sua visione delle cose e includere quella più vasta della società, è la strada per crescere individui integri, capaci di valutare in modo critico ciò che la vita propone loro, e quindi in grado di esprimere al massimo il loro potenziale.Al di là della falsa scelta fra autoritarismo e lassismo, nell’educazione dei bambini c’è una terza via, quella della gentilezza, che Antonella Sagone presenta nel suo libro La rivoluzione della tenerezza.Attraverso la presenza affettuosa, l’ascolto dei loro sentimenti e bisogni, il dialogo onesto e rispettoso, gli adulti possono, senza rinunciare al loro ruolo di guida, accompagnare i bambini a diventare individui integri e capaci di empatia, con una base affettiva sicura e la capacità di connettersi con gli altri e con l’ambiente intorno a loro, cambiando in meglio il mondo. L’ebook di questo libro è certificato dalla Fondazione Libri Italiani Accessibili (LIA) come accessibili da parte di persone cieche e ipovedenti. Conosci l’autore Antonella Sagone, psicologa in area perinatale e consulente professionale in allattamento materno IBCLC e formatrice; da 40 anni si occupa dei processi fisiologici della maternità e paternità, e delle pratiche di assistenza e sostegno che promuovono la salute e l’empowerment della madre e di tutte le persone coinvolte nell’accudimento e nella crescita del bambino.