terza parte - I metodi - capitolo viii

Respirazione e legame

Autoregolazione e respirazione

La respirazione ha un ruolo particolare nel Pronto Soccorso Emozionale, dato che fornisce informazioni importanti sulla disponibilità al contatto dei genitori. In un certo senso, è come un sismografo che reagisce con precisione allo stress interno ed esterno, come si osserva in modo particolarmente evidente proprio nelle crisi del primo periodo dopo la nascita. Le madri di bambini particolarmente irrequieti, che piangono spesso, sono sollecitate enormemente ogni giorno, per tante ore. Quando tengono in braccio il bambino, o come si dice lo portano, gli cantano una ninna nanna, lo cullano, magari molleggiano su un pallone da ginnastica, il loro corpo entra in una modalità di funzionamento che di solito si attiva solo di fronte a un grave pericolo. Di fatto, probabilmente il sistema neurofisiologico per affrontare le situazioni di emergenza non è affatto cambiato negli ultimi 100.000 anni57. In caso di attacco da parte di un predatore, da un punto di vista ormonale un cacciatore Neanderthal58 avrebbe reagito in modo paragonabile a quello di una madre di oggi che si sente minacciata dal pianto del figlio.

Entrambi si spaventano se percepiscono di non essere in grado di affrontare la situazione con le loro forze. Una madre sottoposta a forte stress passa automaticamente a una modalità neurovegetativa che mobilita in breve tempo una grande quantità di energia nel suo organismo. L’attivazione del sistema nervoso simpatico provoca un aumento della tensione e c’è una correlazione complessa tra respirazione e cicli di stress. Il modo di respirare cambia quando ci troviamo a fronteggiare atti di violenza, incidenti o l’esclusione sociale, e ne siamo spaventati: respiriamo in modo più rapido e, allo stesso tempo, più superficiale.


Ciò significa, da un lato, che l’ampiezza complessiva del ciclo respiratorio diminuisce, ovvero che inspiriamo ed espiriamo meno, e dall’altro, che l’aria si espande principalmente nel torace, con una conseguente tensione dei muscoli addominali e del diaframma. In caso di stress improvvisi e intensi si osserva sempre questo tipo di respirazione toracica. Dopo aver corso i 400 metri, un atleta ha il fiatone, cioè respira velocemente e rumorosamente con il torace per ricaricarsi di ossigeno dopo lo sforzo della gara, che gli ha richiesto tanta energia. Anche guardando un film d’azione avvincente la respirazione si modifica. Inchiodati davanti allo schermo per seguire le peripezie dei poliziotti alle calcagna di malviventi ancora a piede libero, la tensione aumenta fino a farsi quasi insopportabile, e soltanto quando riescono a prenderli ci accorgiamo di cosa abbiamo, o meglio non abbiamo fatto: ci siamo dimenticati di respirare!


Finalmente tiriamo un bel respiro di sollievo, sciogliendo così la tensione che si è creata nel giro di novanta minuti grazie all’attivazione del sistema nervoso simpatico. Apprezziamo particolarmente un film d’azione quando sappiamo che, nel colpo di scena finale, la tensione se ne andrà. Nel frattempo accettiamo di buon grado che la respirazione diventi più superficiale e, di solito, non ce ne accorgiamo neppure di quanto cambia il modo di respirare in quello stato di tensione, a parte alla fine quando la suspense si scioglie e sospiriamo sollevati.

Niko ha solo quattro settimane e sta piangendo già da due ore. Ogni sera, stranamente, fa così. A dire il vero inizia a diventare irrequieto all’inizio del pomeriggio, ma in un primo momento a sua madre Eva, un’impiegata di 39 anni, sembra che basti offrirgli il seno perché si calmi. Tuttavia, l’effetto dura poco e ben presto torna ad agitarsi. Al calare della sera ogni strategia diventa inutile, Niko inizia a piangere a squarciagola e a inarcarsi tutto. Ogni minuto che passa Eva è più disperata, se solo potesse scegliere lo metterebbe giù e scapperebbe via. La sua mente di adulta le dice che il bambino è in pericolo e ha bisogno di lei, tuttavia è scossa interiormente. Le sembra che Niko non le conceda alcuna tregua e si sente delusa e arrabbiata. Quando, finalmente, dopo un attacco particolarmente lungo di pianto, il bambino si addormenta, cerca di non fare alcun rumore. Si muove nell’appartamento in punta di piedi, quasi non respira per paura che si svegli e sa che basta il minimo movimento per farlo saltare di soprassalto. Eva è totalmente in allerta e, perfino ora che dorme tranquillo, lo guarda con apprensione restando seduta immobile, come se fosse incatenata al divano. L’unica sensazione che riesce a distinguere nel suo corpo è di infinita stanchezza.

La madre di un bambino che piange tanto, come Eva, si trova in una situazione paragonabile a chi guarda un film d’azione, con la differenza sostanziale che non ha scelto deliberatamente la sua condizione. Da un punto di vista fisiologico, ci sono dei paralleli: anche lei respira in modo molto superficiale quando da ore cammina per la casa con il bambino che piange tra le braccia. Lo riconosciamo dal suo torace, sollevato e pieno, dato che tende a prevalere l’inspirazione. Di fatto boccheggia come chi sta per annegare e viene a galla per un attimo.


A causa della forte tensione del diaframma e della parte superiore dell’addome, il torace non si può espandere più di tanto e, di conseguenza, il respiro diventa più rapido e superficiale. C’è una forte riduzione del volume respiratorio. Inoltre, per il forte stato di stress, anche la capacità di percepire il corpo è molto limitata. Concretamente ciò significa che, spesso, chi si trova in una simile situazione non si accorge affatto di respirare così, né tanto meno di come ciò vada di pari passo con l’insicurezza e la paura vissute a contatto con il bambino nella vita quotidiana.

Psicofisiologia della respirazione

Per chiarire meglio il ruolo della respirazione nel PSE diamo ancora un’occhiata alla regolazione psicovegetativa. Il ciclo respiratorio comprende due fasi, inspiratoria ed espiratoria, che si susseguono come una pulsazione con un ritmo di base di circa 18-22 cicli per minuto59. Il tipico schema di ogni ciclo è: inspirazione - raggiungimento del picco massimo - pausa - espirazione - raggiungimento del picco minimo - pausa - inspirazione, e così via. Sul piano psichico l’inspirazione comprende il ricevere, l’incorporare, il trattenere e il tornare in sé, mentre l’espirazione corrisponde alla dedizione, al lasciar andare e allo scambio.

È una bella giornata estiva e mi muovo rilassato per casa. Credendo che mia moglie e i figli siano usciti a sbrigare alcune commissioni, sono felice all’idea di bermi un buon caffellatte sulla terrazza in giardino. Già mi pregusto il momento mentre passo per il corridoio, quando mio figlio di sette anni salta fuori da dietro una porta con un urlo. Sobbalzo, gridando dallo spavento, e guardo sconcertato mio figlio, dipinto come un guerriero, con una pistola in mano e gli occhi luccicanti.


Preso alla sprovvista, il cuore mi batte all’impazzata e non so bene se arrabbiarmi o riderci su, ma comunque opto per la seconda opzione. La tensione cala, faccio un paio di respiri profondi, e io e mio figlio ci abbracciamo divertiti. Un tipico episodio sui pericoli che corre un padre della moderna civiltà occidentale, che ben si presta per esaminare più in dettaglio la regolazione neurofisiologica della respirazione. Quando siamo colti all’improvviso dalla paura, inspiriamo di scatto e spesso si sente il rumore secco dell’aria che entra.


Questa è solo la prima di una serie di reazioni fisiologiche che avvengono se ci spaventiamo. Tutto il corpo, in effetti, ha un sobbalzo. Le spalle si sollevano e i muscoli della fronte, delle sopracciglia e della zona occipitale si contraggono, così come il diaframma, che suddivide la parte superiore da quella inferiore del tronco, e i muscoli della schiena. La testa e il bacino si ritraggono indietro e ci tendiamo come un arco. Per un attimo vacilliamo, ci sentiamo insicuri e tremanti sulle gambe e restiamo letteralmente bloccati dalla paura. Non appena ci rendiamo conto di non essere in pericolo - nel mio caso, non appena mi sono accorto che non si trattava di un ladro ma solo del figlio più piccolo - lasciamo uscire l’aria con un profondo sospiro. In un primo momento si attiva la diramazione simpatica del sistema nervoso autonomo (SNA), da cui dipende l’inspirazione improvvisa che gonfia il torace.

La sensazione soggettiva è di terribile spavento, e il corpo non è ancora in grado di valutare la reale portata del pericolo incombente. Il movimento respiratorio e il senso di paura dipendono entrambi dalla reazione del SNA simpatico, che riduce anche l’irrorazione sanguigna superficiale e accelera il battito cardiaco affinché il sangue arrivi in tutto il corpo, nonostante la vasocostrizione dovuta allo stress, e allo stesso tempo provoca la liberazione di ormoni come il cortisolo, che in un paio di secondi si distribuisce in tutto il corpo60.
Finalmente espiriamo quando, non temendo più per l’integrità fisica, ci sentiamo sollevati. Con un profondo sospiro lasciamo andare il respiro trattenuto e, assieme ad esso, la tensione e le emozioni accumulate. Si scioglie anche la tensione muscolare, specialmente a livello del diaframma. A questo punto la respirazione si fa calma, ampia e riempie l’addome. Il volume respiratorio aumenta e il movimento respiratorio diventa visibile, fino al bacino. Grazie alla vasodilatazione periferica dei capillari si diffonde un senso di calore e benessere sull’intera superficie del corpo. Come si dice, ci sentiamo bene nella nostra pelle.

Blocco del respiro e difesa affettiva

Nella storia della psicoterapia corporea, la ricerca sulla funzione emozionale del blocco respiratorio ha un ruolo straordinario. Negli anni Trenta Wilhelm Reich si interessò a come si fissano nel corpo i meccanismi di difesa affettiva. Si chiese se cambiava qualcosa nel corpo quando venivano represse emozioni sgradevoli o sgradite, per esempio di tristezza. Reich è stato uno dei primi ricercatori a riconoscere che la nevrosi ha un corpo61.

Grazie all’osservazione clinica si accorse che il meccanismo inconscio di difesa affettiva si manifesta a livello somatico nella contrazione di muscoli e tessuti. Quindi, il processo di rimozione, il cui significato fondamentale per la nevrosi era già stato esposto dettagliatamente da Freud, trovava anche la sua controparte somatica. Wilhelm Reich si interessò anche alle possibili conseguenze sulla respirazione. Per farvi un’idea di quanto i meccanismi di difesa emozionale influenzino la vitalità del corpo e l’attività respiratoria, immaginate di trovarvi a un’importante riunione di lavoro e d’un tratto di venire a sapere per telefono che un caro amico è rimasto coinvolto in un grave incidente stradale ed è ricoverato con prognosi riservata.

Siete fortemente addolorati, ma cercate di trattenere le lacrime perché non volete mostrare i vostri sentimenti di fronte ai colleghi. Vi accorgete che in questo modo si forma un groppo alla gola e dovete ripetutamente deglutire. Provate un attimo a immaginare di avere un grosso boccone incastrato in gola, cercando di imitare il movimento che fate per buttarlo giù, e osservate come cambia il vostro respiro.

Esatto, avete smesso di respirare. Mentre vi sforzate di mantenere in tensione i muscoli della gola e della bocca, la respirazione perde il suo ritmo e la sua naturale pulsazione si riduce al minimo. Reich, di fronte a questa manifestazione clinica, credette di riconoscere la funzione del blocco del respiro: una riduzione delle emozioni, o almeno della capacità di percepirle.

Quando blocchiamo il respiro proviamo paura, rabbia e tristezza in modo meno intenso e, dunque, si tratta di una sorta di complesso sistema fisiologico di difesa dalle emozioni. Reich sottolinea ripetutamente nei suoi scritti come le nevrosi siano inscindibili da un disturbo della funzione respiratoria naturale e trae la conclusione che la salute psichica vada di pari passo con la capacità di autoregolarsi e di respirare liberamente. In una monografia pubblicata nel 1937, Reich riassume in questo modo: “Il disturbo del respiro nelle nevrosi è un sintomo dovuto alla tensione addominale… Che funzione ha la postura descritta in caso di respirazione superficiale? Se osserviamo la posizione degli organi interni e la loro relazione con il plesso solare, comprendiamo subito di che si tratta. Sotto effetto della paura, automaticamente inspiriamo proprio come se stessimo per morire annegati: il diaframma si contrae e spinge contro il plesso solare.
Questo meccanismo diventa comprensibile solo alla luce dei risultati della ricerca caratteriale analitica dei meccanismi di difesa nella prima infanzia. Il bambino tende a trattenere il respiro per affrontare gli stati di paura dolorosi e persistenti, che percepisce nella parte superiore dell’addome. Lo stesso accade se è spaventato dalle sensazioni piacevoli che prova alla pancia o ai genitali.”62

La respirazione come porta di accesso alle emozioni

Il ricorso alla respirazione è uno strumento classico della moderna psicoterapia corporea. Già Wilhelm Reich, fondatore di questa disciplina, usò il respiro per far emergere alla coscienza emozioni rimosse e facilitarne l’espressione. Da un punto di vista teorico, Reich abbracciò le prime riflessioni di Freud sull’approccio catartico. Già nel 1898 Freud, nell’ambito dei suoi studi sull’isteria, riporta di evidenti miglioramenti nelle pazienti che ritrovavano accesso corporeo alle emozioni represse in passato. All’inizio delle sue sperimentazioni in psicanalisi, Freud usava ancora tecniche corporee, come per esempio un massaggio profondo alla testa, che descrive dettagliatamente.


Nei suoi scritti parla di emozioni “strozzate”, che non emergono né alla coscienza né a livello motorio. Secondo lui, il vero effetto di questo processo di pulizia emozionale che, quando si innescava, era accompagnato da reazioni molto intense, riguardava l’espressione liberatoria della tensione intrappolata, legata alla repressione delle emozioni. Freud osservò che l’espressione delle emozioni risultava, in un certo senso, purificatoria e liberatoria. Riteneva che, quando l’eccitazione accumulata - che lui chiamò ingorgo della libido - trovava sfogo, veniva meno il terreno energetico su cui si sviluppano i sintomi psiconevrotici, come per esempio la paralisi isterica. All’inizio delle sue ricerche Freud ebbe una particolare affinità con i postulati scientifici bioenergetici.

Da studente era stato enormemente influenzato da ricercatori meccanicistici quali Bruecke e Helmholz e quindi non sorprende che anche successivamente restasse fedele a una valutazione quantitativa della vita emozionale dell’essere umano63. In un primo momento, sia Wilhelm Reich sia tutti coloro che proposero approcci neo-reichiani di psicoterapia corporea restarono convinti che esprimere le emozioni avesse necessariamente un effetto benefico nella terapia.
Non stupisce affatto, dato che con l’utilizzo di tecniche corporee come la respirazione, gli esercizi per lo stress o un contatto fisico provocatorio è possibile mobilizzare molto rapidamente emozioni intense. Reich, nel corso delle sue ricerche psicanalitiche, si era accorto che il processo di rimozione descritto da Freud, grazie al quale si spiegava la repressione psichica interiore delle singole emozioni, aveva anche una connotazione corporea. Reich riconobbe come il blocco a livello di muscoli e tessuti fungesse da sistema di difesa, impedendo che nell’interazione con l’ambiente venissero rivissute continuamente e in modo doloroso emozioni intense.

Prendiamo, ad esempio, il caso di un bambino, che si ritrova ripetutamente nella situazione in cui il suo pianto viene rifiutato dai genitori. Magari piange perché non osa esprimere le sue necessità all’interno di un gruppo di bambini, o gli manca il coraggio di presentarsi e rappresentare se stesso, e pertanto si sente rifiutato ed escluso dal gruppo. Si rivolge piangendo alla madre, che tuttavia lo respinge in modo brusco: lo sguardo, il tono della voce, la postura, tutto in lei gli fa capire che il suo pianto è indesiderato. Tra i possibili messaggi impliciti della madre “Te la cavi da solo”, “Non vogliamo un frignone”, “I maschi non piangono, devono essere forti”.

Con il tempo, il bambino impara la lezione. La continua esperienza di rifiuto e mancanza d’amore è una minaccia troppo grande per lui, perché voglia continuare a nutrire un simile conflitto. Pertanto, per garantirsi un legame più sicuro, quello da cui in fondo dipende la sua sopravvivenza, sceglie di non mostrare disperazione e tristezza. Tuttavia, si tratta di una decisione dalle gravi conseguenze, poiché in tal modo tiene lontane sì le emozioni sgradevoli, ma allo stesso tempo anche la madre, colei che gli dà sicurezza. Nasconde lacrime e vulnerabilità solo perché ha dovuto ripetutamente constatare che le preoccupazioni e le paure che lo attanagliavano non venivano ascoltate né comprese da chi gli sta vicino. Per non rischiare di essere ancora rifiutato, si trattiene e, nel suo corpo, il processo di difesa si manifesta in una tensione permanente dei muscoli e dei tessuti coinvolti nell’espressione delle emozioni considerate pericolose.

A questo proposito, Reich parla di corazza corporea. La corazza corporea va vista come una sorta di blocco dinamico, in cui parte dell’energia vitale, che sarebbe altrimenti stata usata per esprimersi, nel caso specifico attraverso il pianto, adesso viene dirottata per reprimere quell’impulso. In pratica, viene usata sempre la stessa energia, proveniente dalla stessa fonte, sia per generare l’impulso sia per difendersi da esso. Nell’illustrazione sotto ho cercato di descrivere con maggiore precisione l’unità funzionale dei due processi.
A metà degli anni Trenta, Wilhelm Reich iniziò piano piano a includere tecniche corporee nel lavoro psicanalitico. Grazie a questi primi tentativi maldestri, successivamente poté mettere a punto la “vegetoterapia caratterialeanalitica”, come lui stesso nel 1937 chiamò il suo metodo. La vegetoterapia può essere considerata una pietra miliare per tutti i tipi di psicoterapia corporea oggi conosciuti. La scoperta più importante fatta grazie a questo approccio è che è possibile accedere a processi esperienziali ed emozionali rimossi direttamente attraverso il corpo. Reich appositamente lasciò respirare i pazienti come loro veniva e analizzò come utilizzavano il respiro per evitare di contattare le loro emozioni. Come mai improvvisamente trattenevano il fiato? Reich si interessò alla funzione emozionale della respirazione, che era inscindibile dalla repressione di determinate esperienze emozionali e processi espressivi64.

L’analisi del tipo di respirazione, della postura corporea e del livello di tensione diventarono gli strumenti centrali nel metodo terapeutico corporeo sviluppato da Reich, in cui, accanto alla rielaborazione di dinamiche di conflitto della prima infanzia, l’accento viene messo soprattutto sulla risoluzione e l’espressione di emozioni trattenute. Inoltre, Reich durante la sessione incoraggiava i pazienti a esprimere con il corpo rabbia, tristezza e grida trattenute. Questo sfogo emozionale, che rientrava completamente nel modello catartico inizialmente proposto da Freud, aveva come obiettivo quello di sciogliere la tensione e le emozioni bloccate e ancorate al corpo. Detto in altri termini, i pazienti venivano accompagnati alla riconquista di forme “sepolte” di espressione di sé, in una sorta di viaggio alla fonte, alla scoperta di parti vitali non vissute. 
Il modello di vegetoterapia originariamente sviluppato da Reich prevedeva il ripristino della capacità dell’organismo di passare facilmente da una modalità neurovegetativa all’altra. Secondo Reich una respirazione più profonda e dinamica era un punto chiave per sciogliere le emozioni bloccate. La logica era semplice: se una riduzione della respirazione aveva un ruolo centrale nel contenere processi emozionali indesiderati, allora doveva funzionare anche all’inverso. Pertanto, Reich provò a far respirare i pazienti profondamente, per un tempo prolungato e in posizione distesa, e osservò che in tal modo si giungeva a un aumento della carica emozionale, emergevano le strutture conflittuali originarie e si liberava un surplus di energia corporea che contribuiva alla liberazione dell’impulso represso.

Ritorniamo ora al bambino di prima, che alla tenera età di quattro anni era già riuscito a reprimere tanto efficacemente il pianto, e immaginiamolo trent’anni più tardi, disteso a terra sul tappeto da uno psicoterapeuta corporeo. Cosa succede? Che processi si presentano respirando profondamente? Verosimilmente, possiamo immaginare che, secondo quanto osservato da Reich, grazie a questa tecnica si attivi la costellazione conflittuale originaria, mentre nella vita quotidiana il giovane uomo non ha realmente accesso alle sue emozioni e all’inizio del trattamento si lamentava di uno stato generale di vuoto interiore e alienazione. Improvvisamente potrebbe percepire la debolezza e lo scoraggiamento provati in passato e sentire l’impulso di piangere, ma allo stesso tempo scatta anche il sistema di difesa, e fa di tutto per evitare il pianto e il senso di sopraffazione. Nell’ambito della sessione di psicoterapia corporea emerge, come in un microcosmo, un conflitto centrale della storia del suo sviluppo emozionale.

Con una respirazione profonda si induce, quindi, una scarica della dinamica conflittuale, carica di stress. Probabilmente, non appena gli vengono le lacrime agli occhi, trattiene il fiato per contenere l’intensità delle sue emozioni. In un certo senso, il modello di scarica emozionale della psicoterapia corporea assomiglia all’apertura di una bottiglia di spumante dopo averla ben sbattuta: l’enorme pressione che si è creata all’interno si scarica non appena salta il tappo, e lo spruzzo è incontrollabile. Se la bottiglia di spumante potesse parlare, direbbe “Che liberazione!”, ma allo stesso tempo, al venir meno della pressione, si genera un certo scompiglio. Nella terapia ci imbattiamo in simili problemi quando adottiamo questo modo di procedere: le scariche emozionali si susseguono in modo esplosivo, senza tuttavia essere percepite e integrate in profondità, e possono sfociare in crisi indesiderate e incontrollabili.

Nel Pronto Soccorso Emozionale non si usa più la respirazione con l’obiettivo di indurre un processo di scarica, per facilitare la liberazione e l’espressione di emozioni bloccate. Rinunciamo deliberatamente a una mobilizzazione intensa del sistema energetico e piuttosto ricorriamo alla respirazione per rafforzare nei genitori la connessione con le loro percezioni e le informazioni corporee, e aumentarne la disponibilità al legame. Nei capitoli seguenti illustro come, nella psicoterapia corporea, il modello iniziale incentrato sulla catarsi emozionale si sia trasformato in un modello in cui in primo piano vi sono la disponibilità al legame e la capacità di essere in relazione con se stessi, cioè l’autolegame.

Al di là della catarsi

A partire dalla metà degli anni Ottanta, nell’ambito della psicoterapia corporea, si è aperto il dibattito sui limiti degli approcci incentrati sull’espressione delle emozioni e l’aumento della carica emozionale. Le problematiche di tale modo di procedere erano divenute evidenti, specialmente nel caso di persone con gravi carenze e traumi all’inizio della vita, che sembravano incontrare difficoltà con un lavoro corporeo orientato all’espressione delle emozioni.

A causa della fragilità della struttura dell’Io e di uno scarso sviluppo del sistema di difesa, la loro tolleranza verso la presenza di emozioni intense era bassa e venivano meno i presupposti, emozionali e corporei, per vivere positivamente “esperienze di forte carica”. L’americano Will Davis, uno degli psicoterapeuti più famosi a criticare il modello catartico nella psicoterapia corporea65, partendo dai primi concetti di Reich cercò di sviluppare un nuovo approccio bioenergetico che funzionasse anche in caso di disturbi della personalità venutisi a creare nel primo periodo della vita.
Negli anni Novanta ho avuto la grande opportunità di essere allievo di Davis e mi permetto, pertanto, di presentare più dettagliatamente le sue riflessioni, anche perché il suo modello instroke è stato fondamentale per l’elaborazione del modello basato sull’autolegame del Pronto Soccorso Emozionale. Le argomentazioni di Davis sono semplici e convincenti: secondo lui, quando si usano tecniche di scarica emozionale, come per esempio l’intensificazione della respirazione, è inevitabile che l’aumento del livello energetico sia accompagnato da un senso di sopraffazione. Proprio nel caso di disturbi della personalità, che si sono instaurati a partire da carenze vissute nel primo legame - come i quadri patologici schizoidi, narcisistico-orali o borderline - la persona è già talmente sovraccarica al livello energetico di base, da non essere in grado di esprimere pienamente le sue emozioni.

Cosa succede quindi se, intensificando la respirazione o con esercizi corporei mirati, si aumenta ulteriormente la carica emozionale? Le osservazioni cliniche indicano chiaramente che, in chi ha vissuto grandi carenze nel primo periodo della vita, la tendenza a dissociarsi dall’esperienza interiore, a seguito di attivazione emozionale tramite tecniche corporee, può essere molto pronunciata. Anche se nel corso della sessione terapeutica sembra collaborare diligentemente, spesso tra l’altro per compiacere il terapeuta e non rischiare di perdere la sua stima e il suo apprezzamento narcisistico, dentro di lui non si lascia toccare dall’esperienza emozionale.

Peggio ancora, con metodi orientati all’espressione delle emozioni, può sentirsi in trappola, sotto pressione e sopraffatto. Pertanto, Davis si è dichiarato favorevole soltanto a metodi che coinvolgono esclusivamente il livello di emozioni ed energia già presente nell’organismo, senza aggiungervi altro. Davis fa un’ulteriore riflessione importante a proposito. Il neonato dipende soprattutto dalla presenza affidabile e continuativa di una persona e, se questa relazione primaria di accudimento materno gli trasmette un senso di sufficiente stabilità, passa molto tempo totalmente centrato su di sé, mentre le fasi di veglia, in cui è tranquillo e gli interessa interagire con le persone accanto a lui, sono brevi.
Proprio il fatto di sentirsi al sicuro grazie al contatto affidabile con la madre gli permette di dedicarsi pienamente alla relazione con se stesso, trovando nel contatto con il suo corpo pace e sicurezza. A questo proposito Davis parla di movimento instroke66, ovvero un movimento di raccoglimento interiore e di concentrazione della forza vitale, in cui poter digerire e integrare ogni informazione e stimolo provenienti dall’ambiente.

Che significato hanno queste osservazioni per l’accompagnamento terapeutico a indirizzo corporeo di persone che hanno vissuto gravi carenze relazionali nel primo periodo della vita? Davis crede che con approcci focalizzati sull’espressione e la liberazione delle emozioni e che, quindi, seguono il modello della catarsi, non si riesca ad arrivare fino alle necessità primarie di queste persone, ossia che il bambino interiore non venga toccato. Perché possano connettersi del tutto con il loro bambino interiore, avrebbero piuttosto bisogno di sentirsi al sicuro e contenute. Per queste persone, ogni movimento prematuro verso l’esterno e ogni sollecitazione a muoversi verso l’esterno con processi emozionali che non si innescherebbero ancora spontaneamente e che, in un certo senso, vengono quindi forzati, rappresentano un carico eccessivo e una fonte di stress.


Pertanto, Davis ha messo a punto un approccio terapeutico che utilizza diverse tecniche corporee per sostenere il movimento dell’organismo verso l’interno. Secondo lui, grazie a questa forma di sostegno, si genera un raccoglimento interiore, in cui prevale l’attenzione per l’autolegame. Proprio le persone particolarmente fragili psichicamente, che hanno difficoltà a rispettare i propri limiti e ad attivare il loro sistema di difesa, e si sentono facilmente sopraffatte con il lavoro corporeo tradizionale - come per esempio le personalità schizoidi o narcisistico-orali - fanno esperienze del tutto diverse con il modello instroke di Davis, in cui il contatto fisico e la respirazione vengono utilizzati prevalentemente per ripristinare una presenza nel proprio corpo. Gli stati di trance indotti nell’instroke vengono vissuti come curativi e benefici. Oggi mi sento di affermare che questo tipo di approccio permette di accedere, su di un piano psichico, alla memoria degli eventi preverbali e prenatali vissuti all’inizio della vita.


Lo fa rendendo possibile un’esperienza interiore in cui non viene richiesto nulla, non ci sono aspettative né condizioni, ed è molto simile a quella vissuta da un neonato quando si trova nella braccia accoglienti della madre. Il puro piacere di essere, libero da aspettative. Per quel che riguarda il PSE, ho trovato interessante che Davis utilizzasse le tecniche di respirazione in modo totalmente diverso da altri approcci di terapia corporea che già conoscevo, prediligendo in particolare una specifica modalità di respirazione addominale per facilitare la connessione con il corpo. Davis si era accorto che non dovevano per forza innescarsi processi emozionali profondi, ma bastava che la persona adottasse quella particolare forma di respirazione per percepire un senso di calore, sicurezza e contenimento, come se scoprisse dentro di sé un luogo che prima non era mai stato toccato e per sentirsi più autentica e maggiormente in contatto con se stessa e l’ambiente circostante. Tutto ciò grazie solamente a una specifica modalità di respirazione, in grado di toccare le parti più profonde dell’essere.

Vie verso il legame

Come consulente e terapeuta per genitori e neonati, all’inizio la mia attenzione era rivolta ancora principalmente al bambino, tuttavia rapidamente mi resi conto che bisognava includere i genitori nelle crisi acute di pianto. Ma come lavorare con una madre paralizzata dalla paura, mentre il figlio piange disperato nelle sua braccia? Come fare un’anamnesi accurata, se il bambino piange così forte che riesci a malapena a comprendere le tue stesse parole, per non parlare di quelle di un’altra persona? Wilhelm Reich e sua figlia Eva avevano entrambi descritto approcci corporei di terapia per il neonato, ma non si erano soffermati abbastanza sui dettagli tecnici o lo avevano fatto in modo poco utile per la pratica terapeutica.

Eva Reich, con il suo approccio bioenergetico dolce, si è concentrata particolarmente sull’utilizzo di una tecnica di massaggio delicato, noto con il nome di massaggio a farfalla. Il suo metodo era particolarmente indicato quando le risorse del neonato sono ancora intatte, ma non altrettanto se c’erano disturbi nella regolazione della relazione tra genitori e figlio. In alcuni scritti, Wilhelm Reich aveva già descritto una simile breve terapia energetica del neonato67, tuttavia, anche in tal caso, si sofferma di più su generici principi teorici che sul modo di procedere in concreto.
All’inizio degli anni Novanta, la sperimentazione di un trattamento clinico dei disturbi della regolazione del primo legame tra genitori e figli con la psicoterapia corporea muoveva ancora i primi passi. Come già ho segnalato, un’enorme tensione corporea e il concentrarsi dell’attenzione dei genitori sul bambino sono fenomeni tipici delle situazioni di crisi, quando la regolazione del legame tra genitori e neonato è disturbata. Paradossalmente, l’attenzione è tutta rivolta al bambino proprio quando la capacità di percepire le sensazioni è ridotta al minimo. Di conseguenza, spostare l’attenzione dal bambino al proprio corpo sembrava essere una strategia sensata per aumentare la disponibilità al legame e, pertanto, ho iniziato a sperimentare a partire da questa ipotesi.
Nonostante possa sembrare un’intuizione geniale immaginare che la connessione emozionale con il neonato migliori se la madre resta in contatto con il proprio corpo, rimane ancora aperta la questione su come applicare tutto ciò nella pratica professionale. Nel 1990 a Berlino in una delle mie prime consultazioni si presentarono una neomamma e la figlia di due settimane, nata con cesareo d’emergenza, che fin dall’immediato dopo parto avevano incontrato grandi difficoltà nel trovare il “filo” emozionale tra di loro. La donna raccontava come Rivka piangesse disperata diverse volte al giorno e non avesse la più pallida idea di come fare per aiutarla. Mi ricordai allora di un episodio riportato in un seminario a Berlino dalla giornalista americana Jean Liedloff, che a metà degli anni Ottanta aveva raggiunto una certa popolarità in Germania grazie al libro Il concetto del continuum68, in cui descrive la sua lunga permanenza presso gli indio Yequana nella foresta amazzonica del Venezuela.
Quando un partecipante le chiese cosa facessero se un bambino era agitato, raccontò la seguente storiella: “La madre lo tiene stretto a sé, o lo porta con un telo. Poi dispone per terra, in cerchio, alcuni mucchietti di rami secchi, a uno o due metri di distanza uno dall’altro, e inizia a correre veloce lungo questo percorso a slalom, facendo bene attenzione a non toccarli.” Jean Liedloff era rimasta molto colpita da questa procedura e aveva visto con i suoi occhi come alcuni bambini in breve tempo si calmassero, e spesso perfino si addormentassero. Mentre ascoltavo quella madre durante la consultazione, mi venne in mente il racconto della Liedloff e d’un tratto, folgorato da un’illuminazione, compresi come mai funzionasse.

Era evidente che, correndo a slalom, la madre non rivolgeva più la sua attenzione al bambino ma piuttosto a dove metteva i piedi, e che quello era il vero effetto. Pertanto le proposi una versione adattata dell’esercizio degli Yequana, disponendo disordinatamente alcuni cuscini sul pavimento e invitandola a tenere in braccio il bambino che piangeva, camminando a slalom tra di essi, aumentando sempre più la velocità e badando a non toccarli. La donna sembrò divertirsi un mondo, così come la piccola Rivka. Da tutta tesa che era, iniziò subito a rilassarsi mentre la madre la teneva ben stretta contro di sé, appoggiò la testa alla spalla e in breve tempo si addormentò.

Dopo aver riproposto alcune volte con successo questo procedimento, mi misi alla ricerca di alternative che permettessero di lavorare da seduti. Mi era capitato di chiedere ad alcune madri particolarmente insicure di spostare l’attenzione alla pancia mentre camminavano tra i cuscini, per percepire come, durante l’inspirazione, si espandesse stimolando il corpo del bambino. L’effetto era sbalorditivo e la respirazione addominale aveva sui genitori e sul neonato un influsso molto più positivo del semplice concentrarsi nella corsa, senza badare al respiro. In alcuni casi, inoltre, non era proprio possibile far correre la madre nella stanza, come per esempio quando il bambino iniziava a piangere all’improvviso.

Iniziai quindi a invitare i genitori a spostare l’attenzione completamente sul loro corpo. In un certo senso si trattava di un intervento paradosso. Invece di sostenere la naturale reazione di orientamento e movimento verso il bambino, ai genitori veniva indicato di dirigersi verso una zona sicura del proprio corpo. Proponevo un tipo di respirazione addominale dall’effetto tranquillizzante, simile a quella che successivamente ho conosciuto grazie a Will Davis. I genitori avevano l’unico compito di concentrarsi totalmente sul respiro quando il bambino nelle loro braccia iniziava a muoversi, per percepire come a ogni inspirazione l’addome si solleva creando uno spazio dentro di loro. I genitori che riuscivano ad abbandonarsi al processo raccontavano che, dopo una prima fase di sintonizzazione, si erano tranquillizzati e avevano sentito calore e sicurezza.

Le madri erano sbalordite dal fatto che, nonostante il bambino si muovesse irrequieto o addirittura piangesse agitato, si sentivano calme e sicure. Non appena i genitori diventavano più tranquilli, anche il bambino si calmava, come se venisse contagiato da una scintilla, esattamente come avevo avuto modo di osservare con il percorso a slalom tra i cuscini. I bambini si soffermavano su loro stessi, come se ascoltassero attentamente all’interno del loro corpo, e alcuni sembravano perfino sorpresi, in quanto succedeva qualcosa di completamente diverso dal solito. Inoltre, grazie alla respirazione addominale, non si innescava soltanto una reazione di rilassamento: quel che sembrava ancor più sbalorditivo era che genitori e neonato iniziavano a sincronizzarsi.

Un paio di minuti prima i genitori mi parlavano di delusione, senso di alienazione, distanza e rifiuto, e ora vedevo con i miei occhi che erano già capaci di interagire in modo molto amorevole. Era palpabile come madre e bambino, quasi avvolti da una rete di connessione, si sciogliessero letteralmente per diventare un’unica entità. Improvvisamente i neonati cercavano lo sguardo e sembravano godere del contatto fisico con chi stava loro accanto. Genitori e bambino ritrovavano quel filo d’amore che avevano perso fin dai primi momenti del loro percorso assieme. Le madri che, a causa delle condizioni cliniche dopo il parto, non avevano potuto stare da subito a contatto con il figlio, se ne sono innamorate per la prima volta.

Si veniva a creare insomma un legame tra genitori e bambino, simile a quello che spesso si osserva nella prima fase sensibile alla nascita. Impressionante era anche la velocità a cui la situazione cambiava con gli interventi che proponevo. In molti casi bastavano solo pochi minuti per passare da uno stato di stress a uno di rilassamento. All’inizio quasi non riuscivo a crederci, ero esterrefatto di fronte a tale fenomeno. Com’era possibile che un intervento talmente piccolo e poco impegnativo avesse un simile effetto?

Rafforzamento del legame tramite la respirazione addominale

Da molti punti di vista la respirazione addominale è adatta a interrompere rapidamente il circolo vizioso di stress, tensione corporea e perdita del legame descritto precedentemente. Soffermiamoci un attimo per comprendere la dinamica neurofisiologica che si innesca grazie alla respirazione addominale, con cui possiamo davvero, in modo del tutto mirato, influenzare lo stato corporeo di stress.


Adottando consapevolmente la respirazione addominale otteniamo un effetto sul ramo parasimpatico del sistema nervoso autonomo. Respiriamo spontaneamente in questo modo nei momenti di rilassamento e rigenerazione quando, per esempio, ci concediamo un sonnellino dopo aver pranzato o un benefico massaggio a tutto il corpo. In questi frangenti della vita prende il sopravvento il ramo parasimpatico del sistema nervoso vegetativo e il nostro organismo preferisce la respirazione addominale, che significa rilassarsi, digerire, ritrovarsi, rigenerarsi e integrare. 


La respirazione addominale corrisponde quindi ai momenti di benessere, piacere e sicurezza. Se davvero la respirazione addominale è inscindibile dal rilassamento corporeo e se, quando siamo rilassati, inevitabilmente respiriamo in tal modo, dovrebbe funzionare anche in senso inverso e dovrebbe essere possibile usarla in modo mirato per rilassare il nostro corpo. La respirazione è una delle poche funzioni vegetative che possiamo influenzare a livello cosciente. Per questo motivo ha un ruolo centrale in quasi tutte le pratiche di rilassamento e meditazione. Sebbene nessuno solitamente rifletta su come sta respirando, per esempio al risveglio il mattino o durante le normali attività quotidiane, il sistema nervoso autonomo garantisce la regolazione di questa vitale funzione di base. 


Tuttavia, a differenza di altre funzioni corporee vegetative come la digestione o l’aggiustamento del cristallino, possiamo controllarla anche in modo cosciente e imporci di respirare più profondamente oppure, quando siamo in pericolo, più lentamente. Molti atleti si preparano così prima di una gara, per essere rilassati alla partenza. È una capacità fondamentale per coloro che, nel giro di pochi secondi, devono passare da un’intensa prestazione fisica a una respirazione calma e rilassata, come avviene nel biathlon. In questa disciplina gli atleti devono cambiare rapidamente e continuamente dall’estrema prova di resistenza dello sci da fondo alla concentrazione necessaria per il tiro al bersaglio, e si allenano per molti anni a usare coscientemente la respirazione addominale rilassante, per passare in pochi secondi dalla tensione al rilassamento. In fondo, con il PSE, una madre che tiene in braccio il figlio mentre piange si ritrova a fare qualcosa di simile all’atleta di biathlon quando si prepara a sparare.

La sosteniamo a indurre nel suo corpo impulsi di rilassamento grazie all’uso cosciente della respirazione addominale, nonostante si trovi in uno stato di forte tensione e grave pericolo. Si avvia un circolo virtuoso rafforzante: se la madre si concentra sull’addome, sposta la sua attenzione verso se stessa e sente maggiormente la vicinanza del consulente, allora il suo organismo può passare alla modalità parasimpatica, che a sua volta influenza in modo positivo diversi parametri emozionali e corporei. Si genera un senso di calore alla pelle grazie alla dilatazione dei vasi sanguigni, mentre il rilassamento del diaframma e dei muscoli toracici sfocia in una sensazione di sollievo e liberazione69.
Nell’illustrazione seguente vengono riassunte ancora una volta le correlazioni funzionali appena descritte: Legame attraverso la respirazione addominale.

Con la respirazione addominale si innesca una reazione a catena, con un effetto a cascata del tutto simile a quello che diventa la croce per genitori e neonato nelle situazioni di crisi dei primi tempi dopo la nascita. Solo che in questo caso non sfocia in un circolo vizioso, ma in un processo contagioso di salute. Tutto ciò è possibile perché il bambino risponde sempre, direttamente, con apertura e un aumento della disponibilità al contatto, in presenza di un cambiamento positivo dell’ambiente circostante. Se il partner di legame del bambino riesce a uscire dal circolo vizioso di stress, paura e tensione corporea, il bambino lo ricompensa immediatamente con attenzioni, apertura emozionale e rilassamento corporeo.
Pertanto, la respirazione addominale sostiene il circolo virtuoso che stimola una sorta di difesa immunitaria psichica nei genitori e nel bambino. Qui è racchiuso il reale valore preventivo del Pronto Soccorso Emozionale. 

La respirazione come campanello d’allarme

Il significato della respirazione nel PSE non si limita al fatto che possiamo influenzare in modo mirato i processi di regolazione del sistema nervoso autonomo. Essa svolge l’ulteriore, straordinaria, funzione di sensibile sistema di allarme per i genitori, che durante le sessioni di intervento nelle situazioni di crisi imparano a riconoscere con maggiore precisione i segnali del loro corpo. Già dopo un paio di incontri la respirazione diventa per i genitori una fonte importante di informazioni, grazie a cui riconoscono se il loro organismo in quel momento si trova in uno stato di chiusura o, piuttosto, di disponibilità al legame.


Conny, un’ostetrica di trent’anni, si presenta all’ambulatorio con suo figlio Leon di dodici settimane per il terzo appuntamento. Leon da alcune settimane piange più ore al giorno, senza che la madre capisca come mai la sua reazione sia tanto intensa. Nei primi colloqui la madre aveva raccontato la storia drammatica che Leon ha dietro di sé.


Durante il parto in casa maternità, il battito era improvvisamente molto diminuito e la madre era stata trasferita in ospedale per un cesareo di emergenza. Soltanto il giorno dopo aveva potuto prenderlo in braccio per la prima volta e fino a quel momento aveva temuto che potesse morire. Dopo una settimana è stata dimessa dall’ospedale assieme a Leon, che i primi giorni aveva quasi sempre dormito e nel complesso era tranquillo, ma piano piano aveva iniziato a diventare sempre più agitato e a comportarsi in modo apparentemente incomprensibile. Di giorno faceva soltanto piccoli pisolini di un quarto d’ora e piangeva forte e a lungo, in modo inconsolabile e disperato.


Ogni volta che si metteva a piangere, anche la madre scoppiava in lacrime, rimproverandosi di non essergli stata subito accanto in ospedale e, anche, di non aver scelto di partorire direttamente lì. Durante la consulenza, Leon, in braccio alla madre, inizia ad agitarsi e inarcarsi sempre più, come faceva di solito prima di scoppiare a piangere forte. Invito Conny a restare tranquilla e a portare l’attenzione all’inspirazione, smettendo per un attimo di dedicarsi al bambino. Mentre ad occhi chiusi la madre si sintonizza con il suo corpo, io sostengo la schiena del bambino con una mano e la informo continuamente su come sta e che reazioni ha. Dopo pochi minuti l’atmosfera è già più calma e il ritmo del respiro si è fatto più regolare. La madre è in grado di raccontare con estrema precisione come, man mano che si creava un senso di connessione con Leon, aveva percepito calore nel corpo ed era tornata a sentirsi sicura a contatto lui.


Per alcuni minuti regna la calma, ma ben presto Leon riprende a inarcarsi e, come un’onda travolgente, irrequietezza e tensione prendono di nuovo il sopravvento. La madre accoglie amorevolmente i primi segnali dell’aumento di tensione, allo stesso tempo però smette di respirare: senza rendersene conto “trattiene”. Quando le chiedo cosa sta succedendo, risponde che ora sente di nuovo paura e insicurezza, esattamente come le succede sempre a casa quando Leon sta per cominciare a piangere. Se lo vede soffrire così, si ricorda immediatamente della situazione in ospedale e inizia a farsi accuse e rimproveri feroci, con commenti svalorizzanti.


Le chiedo quindi se sente ancora stress a quei pensieri debilitanti. Non appena conferma con le lacrime agli occhi, le segnalo che, quando Leon aveva iniziato a piangere, aveva smesso di respirare e la invito a riprendere la respirazione addominale come all’inizio. In pochi istanti l’atmosfera è di nuovo calma e rilassata e Leon guarda la madre meravigliato, come se fosse sorpreso. Conny racconta delle ondate di tensione e disperazione che la sommergono nella vita quotidiana. Normalmente non succede, infatti, quello che si era appena prodotto nella consulenza.


Solitamente la tensione in Leon non fa che aumentare, fino a sfociare in un pianto disperato, che termina solo quando si addormenta sfinito, spesso un’ora più tardi. Questa volta si è resa conto di come, nella morsa della paura, il respiro si era fatto molto flebile:“Proprio come se qualcuno mi spegnesse la luce dentro.” Non appena si era di nuovo concentrata sul respiro, aveva ritrovato coraggio e fiducia.


Questo è solo un esempio scelto tra le centinaia che negli anni abbiamo raccolto con il PSE. I genitori imparano a utilizzare la respirazione come strumento di aiuto: la perdita della respirazione addominale diventa sinonimo di un indebolimento della disponibilità al legame e comprendono intuitivamente che è un segnale corporeo della reazione allo stress e, di conseguenza, del fatto che diventano meno presenti e meno accessibili per il bambino.

Quando i genitori riescono a riconoscere l’insieme dei diversi fenomeni - i segnali di stress nel bambino, il loro smettere di respirare con la pancia e la riduzione della loro disponibilità all’ascolto dei segnali del bambino - come perle di una stessa collana, spesso riescono anche ad applicare in modo consapevole queste scoperte nella vita quotidiana e iniziano a ricorrere alla respirazione addominale per ripristinare la vicinanza con se stessi e il bambino. Quando la madre si accorge del diffondersi in lei di un senso di oppressione al petto e il coraggio la abbandona, mentre il figlio piange di nuovo in modo inconsolabile tra le sue braccia, ritrovare la respirazione addominale diventa sinonimo di scegliere di prendersi cura di sé70.


La madre pensa a se stessa, smette di dimenticarsi di esistere e così facendo non permette più che lo stress a contatto con il neonato la travolga.

Dalla respirazione addominale all’autolegame

Quelle prime esperienze all’inizio degli anni Novanta segnano di fatto la nascita del Pronto Soccorso Emozionale di oggi. Agli inizi della sperimentazione, la scoperta più importante è stata osservare che è possibile promuovere in modo mirato la disponibilità al legame dei genitori grazie alla connessione con le proprie sensazioni corporee. La respirazione addominale diventava quindi una porta di accesso a un nuovo approccio per la regolazione psicofisiologica del primo legame tra genitori e bambino. Grazie alle prime esperienze abbiamo potuto verificare che un’autentica vicinanza con il bambino è possibile solo se l’adulto è connesso con il proprio corpo. Detto con parole semplici, significa che:

Per sentire l’altro, devi sentire te stesso!


Nel PSE, il fenomeno appena descritto di connessione con se stessi lo chiamiamo processo di autolegame. Con quest’espressione si intende ciò che accade quando i genitori, con l’ausilio di interventi mirati, sia verbali sia corporei, sviluppano una relazione stabile con il proprio corpo, avviando una sorta di dialogo interiore con il flusso delle sensazioni corporee. L’autolegame con il sistema automatico di informazione del corpo è il vero fondamento della tanto invocata competenza genitoriale intuitiva, ovvero del saper essere genitori in modo intuitivo.


A questo punto emerge con maggiore precisione quale sia il vero obiettivo del PSE come strumento di prevenzione: incoraggiare i genitori a fidarsi dell’intelligenza del loro corpo. Le esperienze cliniche indicano che, se prestano attenzione alla percezione del corpo, i genitori sono in grado di sviluppare disponibilità al legame e sensibilità per i loro bisogni e le loro capacità. Quando i genitori iniziano a considerare il corpo il loro miglior consigliere e a tener conto dei messaggi e segnali che invia, aumenta la loro disponibilità a cogliere il linguaggio espressivo e le necessità del bambino. Nelle consultazioni e nelle sessioni terapeutiche, se il processo di autolegame avviene fino in fondo, si osserva sempre come spontaneamente l’atteggiamento dei genitori verso il bambino cambia e si comportano diversamente. Per questo motivo evitiamo assolutamente approcci di tipo pedagogico o comportamentale.


Autolegame vuol dire essere in relazione con le sensazioni e le emozioni, sia gradevoli sia sgradevoli, del proprio corpo e basarsi su di esse per orientarsi quando si tratta di scegliere o agire. Nel caso, per esempio, di un bambino che piange da due ore, se il giovane padre si rende conto di aver raggiunto il limite delle forze, fisiche e mentali, allora vuol dire che è consapevole della sgradevole tensione corporea, del dolore alla schiena, della mancanza di forza nelle braccia e che, quindi, riconosce i messaggi del suo corpo. Il flusso di sensazioni corporee gli segnala che ha bisogno di alleggerire il carico. Nel PSE ci chiediamo se la madre o il padre sotto stress riescono ancora a ricevere e decifrare questi messaggi corporei. È la questione decisiva. Possono farlo solo nel momento in cui prestano attenzione alla loro realtà corporea. Se hanno forti aspettative sulla propria prestazione o un’immagine esagerata di sé, il dialogo con il corpo diventa impossibile e spesso viene compromesso un cambiamento, nel senso di rafforzare o creare risorse.

La forza del legame
La forza del legame
Thomas Harms
Il pronto soccorso emozionale nelle situazioni di crisi con i bambini.Un prontuario per genitori, psicoterapeuti e professionisti della salute del periodo perinatale per conoscere e gestire i momenti di crisi del bambino. Il Pronto Soccorso Emozionale offre ai genitori che si trovano in difficoltà con i propri figli l’opportunità, fin dai primi momenti dopo la nascita, di (ri)trovare e rafforzare il filo emozionale che li unisce. La descrizione del Pronto Soccorso Emozionale che Thomas Harms svolge nel libro La forza del legame è rivolta agli psicoterapeuti, ai genitori e a tutti i professionisti della nascita, della prevenzione, dello sviluppo o della consulenza nel periodo primale. Conosci l’autore Thomas Harms, psicologo, offre da più di 25 anni consulenza e psicoterapia corporea orientata al legame a neonati, bambini e adulti.Dal 1997 è direttore del Zentrum für Primäre Prävention und Körperpsychotherapie (Centro per la Prevenzione Primaria e la Psicoterapia Corporea) a Brema.