seconda parte - Capitolo vii
Trauma e legame
Fra trauma e legame
Madre e padre entrano in una reazione traumatica quando le loro risorse e strategie di adattamento non bastano, oppure il carico esterno è così elevato da portare il sistema al collasso. Ecco un esempio dalla pratica clinica:
Alla nascita del primo figlio Sven, la ventottenne Ellen aveva lottato per venti ore con le contrazioni e il dolore, e più volte era arrivata al punto di arrendersi, chiedendo al medico di effettuare un cesareo. Tuttavia si era sempre ripresa, aggrappandosi all’ultima volontà residua per tentare di farcela con le sue forze. Alla fine era riuscita a partorire, ma dopo era talmente sfinita, da non riuscire quasi a percepire il bambino sul suo ventre e godere della sua presenza. Dopo essersi riposata un po’, aveva iniziato ad agitarsi perché il marito e il medico - scomparsi portando via il bambino - non ritornavano. Soltanto due ore più tardi il primario, con espressione seria e preoccupata, era riapparso assieme al marito per comunicarle che il figlio appena nato era in pericolo di vita e doveva restare nel reparto di terapia intensiva neonatale. D’un tratto aveva sentito una fortissima emozione diffondersi nel suo corpo. Avrebbe voluto urlare e precipitarsi a vedere come stava, però - nonostante il suo corpo fosse tutto scosso da quest’impulso - non aveva potuto fare niente. Era rimasta semplicemente nel letto, immobile, sedata, senza alcuna sensazione.
Successivamente, nel corso di una sessione terapeutica, Ellen raccontò: “Quando il medico mi rivolse la parola, rimasi indifferente. Certo, sentivo le sue parole, ma non capivo cosa mi volesse spiegare. Ero come avvolta dall’ovatta, catapultata in un mondo lontano, dove le cose terribili che stavano succedendo non mi raggiungevano più.”
Guerra e pace
Vi invito a salire nuovamente sulla macchina del tempo per una breve visita al castello medievale di prima. Come prosegue la storia se, dopo settimane di calma apparente ma carica di ansia, le truppe accampate fuori dalle mura improvvisamente sferrano un attacco a sorpresa? Come reagiscono le truppe difensive al lancio incessante di bombe infuocate all’interno della fortificazione? Cosa succede se, d’un tratto, compare all’orizzonte un ulteriore contingente di soldati a nutrire le fila dell’esercito nemico? Da un momento all’altro i coraggiosi soldati alla difesa si ritrovano a fronteggiare un attacco lungo l’intero perimetro del castello.
Dopo un po’ di resistenza disperata, gli abitanti del castello sono costretti ad ammettere la sconfitta e ad arrendersi. Non appena i primi nemici riescono ad abbattere le porte, si diffonde il panico. Le truppe, imprecando, abbandonano le loro postazioni e non eseguono più gli ordini. Ognuno bada solo a salvare la pelle o a soccorrere i familiari. Svanisce ogni forma di solidarietà sociale, tutti sono sconvolti e in preda al panico, e corrono gridando per i vicoli alla disperata ricerca dei propri figli. In quella situazione, per ognuno è questione di vita o di morte. Il castello resta privo di organizzazione interna, di un piano d’azione o quantomeno di qualche strategia coordinata.
Rivivere la paura
Nel frattempo i disturbi da stress post-traumatico (PTBS) sono diventati un quadro clinico psichiatrico riconosciuto. Le persone con questo problema rivivono continuamente, nella vita quotidiana, l’esperienza spaventosa che le ha travolte. Spesso basta un determinato rumore, un improvviso movimento della mano o un certo odore a risvegliare l’intera serie di immagini, emozioni e sensazioni legate al trauma vissuto. Il pianto del neonato nel primo periodo dopo la nascita può riattivare i cosiddetti flashback, con il relativo senso di panico e impotenza. Particolarmente in caso di senso di sopraffazione vissuto durante la gravidanza, il parto o nell’immediato dopo parto, è alto il rischio che il pianto del neonato risvegli nei genitori le stesse emozioni, se non le hanno rielaborate.
Quando la madre di prima, Ellen, si presentò all’ambulatorio suo figlio Sven aveva già tre mesi. Nel primo colloquio ci raccontò di quanto era avvenuto all’ospedale e di quei giorni in cui aveva temuto per la vita del bambino. Essere stata in balia degli eventi senza poterci fare nulla, ci disse, era stata la cosa peggiore per lei. Quando, infine, il bambino è stato dimesso, per alcune settimane tutto era sembrato molto tranquillo. Continuò a raccontare così: “Davvero problematico è diventato quando Sven aveva cinque settimane e mi è venuta un’infiammazione al seno. In quel momento, d’un tratto, mi è tornata in mente ogni cosa.” È stato uno shock per lei, di colpo, rimanere da sola a occuparsi di tutto. Fino a quel momento, infatti, il marito era rimasto a casa in congedo parentale e si era dato molto da fare, specialmente quando il bambino era irrequieto e piangeva.
Ellen descrive il primo attacco di panico, quando Sven aveva pianto per mezz’ora nelle sue braccia e niente sembrava calmarlo. D’un tratto si è sentita di nuovo come subito dopo la sua nascita. “Di colpo mi sono accorta come la reazione che si scatenava nel mio corpo sfuggisse al mio controllo. Ho iniziato a provare un forte senso di impotenza e non capivo più cosa mi stesse succedendo. Nonostante Sven fosse nelle mie braccia, non percepivo nulla da lui. Il suo pianto era assordante e il mio corpo ha iniziato a diventare sempre più sordo.” Ellen, di fronte al pianto inconsolabile del figlio, ha rivissuto l’esperienza traumatica originaria. Il suo sistema nervoso autonomo ha reagito come se il medico stesse di nuovo dicendo che le condizioni del bambino erano molto gravi e rischiava di morire.
La paura esistenziale che ha provato non era affatto immaginaria, ma legata al reale stato psicologico ed emozionale del suo corpo. Ellen non percepiva il pianto del neonato per quel che era - l’indicazione di una precisa necessità di nutrimento, calma o stimolazione - ma era per lei la porta di accesso a un mondo esperienziale in cui si confrontava nuovamente con la paura della morte, il panico e lo spavento vissuti in precedenza.
Fra trauma e risorse
Nel Pronto Soccorso Emozionale distinguiamo, quindi, tre diversi stadi della regolazione del legame, che consideriamo come una sequenza di passaggi - un continuum - facenti parte di un circuito chiuso, dove a un’estremità troviamo il legame saldo e sicuro e all’altra il suo debilitante venir meno, accompagnato da una sensazione di pericolo esistenziale.
Nella prima fase, neonato e partner adulto di legame sono entrambi in una modalità di funzionamento ben regolata, connessi l’uno all’altro e rilassati. La madre coglie intuitivamente i segnali corporei del neonato ed è in grado di rispondervi. Il bambino si sente al sicuro, contenuto dalla connessione emozionale e oscilla continuamente tra apertura verso il mondo e ritiro in se stesso. Nelle fasi attive di veglia è interessato alle persone attorno a lui e vuole interagire con il partner per lui più importante, ne cerca lo sguardo e desidera essere a contatto fisico. Anche la persona adulta di riferimento è in grado di passare da fasi attive a fasi di relativa rigenerazione. In tal caso, brevi situazioni di paura e insicurezza non interferiscono con la generale capacità di regolazione e contatto.
Nella seconda fase, genitori e bambino si trovano in uno stato di stress, acuto o duraturo. Il sistema nervoso simpatico ha preso il sopravvento e ciò va di pari passo con un aumento della tensione corporea e un’accelerazione del battito cardiaco e del respiro. L’attivazione continua della modalità di stress è accompagnata da un vissuto soggettivo di paura e disagio. L’adulto ha difficoltà a percepire i propri segnali corporei e a intrattenere un dialogo interiore con essi, e lo stato generale di tensione riduce la disponibilità a lasciarsi andare emozionalmente con il neonato. Pertanto il “filo” - ovvero la sintonizzazione - con il bambino diventa più sottile, e a lungo andare il legame si indebolisce. Passi falsi e malintesi nella comunicazione con il neonato ne sono la diretta conseguenza. Quando i genitori sono continuamente in uno stato di stress e allarme, il neonato si sente meno contenuto e al sicuro. Se porta già con sé un carico emozionale, per esempio risalente al periodo prenatale, questo viene ulteriormente rafforzato quando la persona adulta di riferimento, a causa della paura che prova, è meno disponibile all’interazione.
Questo modello a tre fasi ha un grande significato per il Pronto Soccorso Emozionale56 e ora qui di seguito spiegherò come mai, a seconda dello stato di regolazione in cui si trovano il neonato e chi gli sta accanto, gli strumenti e i metodi applicati per ripristinare un legame sicuro devono essere diversi. Per esempio, se il pianto del neonato risveglia nei genitori uno stato d’animo legato a esperienze traumatiche non rielaborate, spesso non basta riportarli in contatto con il loro vissuto corporeo grazie a tecniche mirate. Quando a causa della riattivazione di un precedente trauma viene meno l’autolegame, il terapeuta deve ricorrere a strategie relazionali più complete perché venga ritrovata la competenza intuitiva.
La forza del legame
Thomas Harms
Il pronto soccorso emozionale nelle situazioni di crisi con i bambini.Un prontuario per genitori, psicoterapeuti e professionisti della salute del periodo perinatale per conoscere e gestire i momenti di crisi del bambino.
Il Pronto Soccorso Emozionale offre ai genitori che si trovano in difficoltà con i propri figli l’opportunità, fin dai primi momenti dopo la nascita, di (ri)trovare e rafforzare il filo emozionale che li unisce.
La descrizione del Pronto Soccorso Emozionale che Thomas Harms svolge nel libro La forza del legame è rivolta agli psicoterapeuti, ai genitori e a tutti i professionisti della nascita, della prevenzione, dello sviluppo o della consulenza nel periodo primale.
Conosci l’autore
Thomas Harms, psicologo, offre da più di 25 anni consulenza e psicoterapia corporea orientata al legame a neonati, bambini e adulti.Dal 1997 è direttore del Zentrum für Primäre Prävention und Körperpsychotherapie (Centro per la Prevenzione Primaria e la Psicoterapia Corporea) a Brema.