prima parte - prologo - capitolo i
Gli inizi
Sono entrato per la prima volta in contatto con neonati che piangono in modo inconsolabile alla fine degli anni Ottanta, mentre studiavo psicologia alla Freie Universität di Berlino. Nell’ambito di un progetto di ricerca condotto da studenti, abbiamo intervistato un gruppo di madri che avevano scelto di portare i loro bambini sul loro corpo nel primo anno2, per verificare se ciò facilitasse una relazione stabile ed empatica.
Nelle visite a domicilio ho avuto modo di osservare per la prima volta cosa succede quando i genitori, sentendosi impotenti e sopraffatti di fronte al pianto del bambino, non riescono più a rispondere alle sue richieste. Molte madri raccontavano di non sapere cosa fare e di provare da settimane, se non addirittura mesi, rabbia e delusione a contatto con il bambino, che piangeva parecchie ore al giorno senza lasciarsi calmare nei soliti modi. Diverse di loro erano precipitate in una spirale di paura e sfinimento: l’interazione con il neonato era diventata problematica e sembravano spaventate, tese e prive di fiducia nelle proprie competenze3.
Nonostante a Berlino la rete di assistenza fosse altrimenti buona, quei genitori assillati da preoccupazioni e dubbi non trovavano un centro d’informazione adeguato. Venivano consolati da consulenti professionali che spiegavano loro come il pianto fosse una fase di sviluppo transitoria a cui non bisogna dare troppa attenzione, o che consideravano esagerate le loro reazioni nelle situazioni di crisi ed esse stesse all’origine del problema. Spesso si sentivano incompresi, umiliati e abbandonati e le loro domande restavano senza risposta.
Nel 1993 ho aperto il primo ambulatorio di pronto soccorso per genitori di neonati che piangono tanto, i cosiddetti Schreibabies in tedesco, all’interno di un centro di solidarietà e mutuo aiuto a Berlino Tempelhof4. Doveva essere semplicemente un centro d’informazione per chi si sentisse sopraffatto dall’irrequietezza e dal pianto del bambino, ma la sua apertura ebbe una risonanza molto maggiore di quanto ci aspettassimo. Si presentarono persone appartenenti alle più diverse classi sociali, ce n’erano di laureate ma anche di estrazione molto semplice, e il motivo principale era quasi senza eccezioni il pianto inconsolabile del neonato. Riportavano le storie più svariate, dai pesanti retroscena.
A volte si trattava di situazioni vissute con ansia durante la gravidanza o il parto, in altri casi piuttosto di difficoltà e conflitti nella relazione di coppia. Alcuni neopapà non volevano impegnarsi in una relazione stabile, o erano addirittura scomparsi senza dire una parola. Vi erano madri che raccontavano con le lacrime agli occhi di aver temuto che il figlio, ricoverato nel reparto di terapia intensiva neonatale, morisse. Anche se le situazioni erano le più diverse, alla fine le difficoltà incontrate dai genitori erano simili e ben tangibili: non capivano come mai non riuscissero a calmare il bambino, perché non reagisse come tutti gli altri quando lo cullavano e gli parlavano amorevolmente, e sembrasse rifiutare il conforto, la vicinanza e la sicurezza che gli offrivano. Fin dall’inizio della mia attività a Berlino negli anni Novanta, mi resi conto di quanto fosse limitata l’esperienza clinica nella terapia per genitori e neonato. Le pubblicazioni di psicoterapia corporea, particolarmente sulle ricerche di Wilhelm Reich - che al tempo era un punto di riferimento importante per me - da un punto di vista pratico erano di scarsa utilità, dato che trattavano per lo più di aspetti teorici piuttosto che addentrarsi concretamente nel trattamento terapeutico del neonato5.
Un impulso importante me lo diede la ginecologa Eva Reich, figlia di Wilhelm Reich, che ho incontrato per la prima volta a Berlino nel 1987. Eva Reich aveva ripreso il lavoro del padre rivolto alla prevenzione della nevrosi e l’aveva sviluppato con coerenza, adattando i metodi di psicoterapia corporea all’accompagnamento di neonati e genitori. Era soprattutto interessata alla prevenzione e ad approfondire come, fin dal principio, si potesse proteggere e preservare la salute del neonato, piuttosto che affrontare in seguito eventuali disturbi psicosomatici.
Nonostante Eva Reich sia stata per me da tutti i punti di vista una fonte inesauribile di stimoli e idee brillanti, la sua esperienza clinica di accompagnamento nelle situazioni di crisi era all’epoca alquanto ridotta. Inoltre, in quel periodo, era ancora limitata la gamma di strumenti terapeutici pratici a disposizione compatibili con un approccio orientato alle moderne ricerche sul neonato e il legame. Anche in questo caso emergeva una forte discrepanza tra il numero di studi empirici sull’avvio della relazione di legame tra genitori e bambino da un lato, e lo sviluppo alquanto rudimentale di modalità di accompagnamento e terapia dall’altro.
In questa prima fase della storia del Pronto Soccorso Emozionale ho cercato di adattare i metodi di psicoterapia corporea che conoscevo al caso particolare dell’accompagnamento di genitori e neonati nelle situazioni di crisi. Mi confrontai subito con una serie di domande: com’è possibile lavorare con una madre disperata, se il bambino nelle sue braccia non smette di piangere e non si calma? Come entrare in interazione con il neonato, se sfugge allo sguardo e rifiuta il contatto fisico? Quando è indicata una terapia corporea applicata direttamente al neonato, e quando invece è meglio concentrarsi piuttosto sul rafforzamento dei genitori? Tutte domande che, fino a quel momento, non si era posto pressoché nessuno, pertanto agli inizi si avanzava quasi a tentoni in un terreno sconosciuto.
Ripetutamente emergevano in me dubbi e timori. Per esempio, succedeva spesso che durante una sessione il neonato vivesse intensi processi emozionali non appena i genitori ritrovavano la sicurezza interiore, quasi come se riuscisse a mostrare interamente il suo dolore e la sua disperazione solo se l’adulto accanto a lui era in grado di dargli sostegno. Tuttavia, mi chiedevo se fosse legittimo che un neonato vivesse processi di tale intensità. Quelle forti reazioni lasciavano tracce in lui? Erano pericolose? E se così fosse, come mai sembrava tanto rilassato e aperto dopo un forte attacco di pianto liberatorio?
La forza del legame
Thomas Harms
Il pronto soccorso emozionale nelle situazioni di crisi con i bambini.Un prontuario per genitori, psicoterapeuti e professionisti della salute del periodo perinatale per conoscere e gestire i momenti di crisi del bambino.
Il Pronto Soccorso Emozionale offre ai genitori che si trovano in difficoltà con i propri figli l’opportunità, fin dai primi momenti dopo la nascita, di (ri)trovare e rafforzare il filo emozionale che li unisce.
La descrizione del Pronto Soccorso Emozionale che Thomas Harms svolge nel libro La forza del legame è rivolta agli psicoterapeuti, ai genitori e a tutti i professionisti della nascita, della prevenzione, dello sviluppo o della consulenza nel periodo primale.
Conosci l’autore
Thomas Harms, psicologo, offre da più di 25 anni consulenza e psicoterapia corporea orientata al legame a neonati, bambini e adulti.Dal 1997 è direttore del Zentrum für Primäre Prävention und Körperpsychotherapie (Centro per la Prevenzione Primaria e la Psicoterapia Corporea) a Brema.