SECONDA parte

Sabotati: come l’orientamento ai coetanei mette a rischio il legame con i genitori.

capitolo iV

La perdita di potere
dei genitori

Kirsten aveva sette anni quando i genitori vennero da me per un consulto, sconcertati e preoccupati per l’improvviso cambiamento della figlia. Ella tendeva a fare il contrario di ciò che doveva, ed era molto sgarbata con i genitori, soprattutto quando era in compagnia dei suoi amici. Il padre e la madre erano perplessi; prima di iniziare la seconda elementare, Kirsten, la più grande di tre sorelle, era sempre stata amorevole e affettuosa, pronta e collaborativa. “Farle da mamma è stata un’esperienza meravigliosa”, ricordava la madre, ma ora si mostrava recalcitrante e oppositiva ed era molto difficile trattare con lei. Alzava gli occhi al cielo alla minima richiesta, e tutto finiva sempre in una battaglia. La madre scoprì un lato di se stessa di cui non sospettava neppure l’esistenza, sorprendendosi arrabbiata e persino furiosa; si era sentita mentre urlava ed era rimasta scioccata e terrorizzata dalle parole che le erano uscite di bocca. Il padre trovava l’atmosfera così tesa e l’attrito talmente sfibrante da rifugiarsi sempre più nel lavoro. Come molti genitori nella stessa situazione, ricorrevano in modo sempre più massiccio ai rimproveri, alle minacce e alle punizioni, senza che ciò potesse servire a qualcosa.


Può stupire sentirsi dire che fare i genitori dovrebbe essere relativamente facile. Fare in modo che i figli prendano le mosse da noi, che seguano le nostre direttive o rispettino i nostri valori non dovrebbe richiedere alcuno sforzo, lotta o coercizione, e neppure il potere extra delle ricompense. Se si rende necessario fare pressioni o adottare tattiche di persuasione, è segno che qualcosa non funziona come dovrebbe. Il padre e la madre di Kirsten erano arrivati al punto di fare affidamento sulla forza perché, senza rendersene conto, avevano perduto il loro potere di genitori.


Quello dei genitori è un lavoro “servo-assistito”, un po’ come i modelli di lusso delle automobili moderne, con servosterzo, alzacristalli e servofreni. In caso di guasto di questi dispositivi, la maggior parte delle auto diventa troppo pesante da manovrare. Anche guidare i bambini quando il nostro potere genitoriale è venuto meno è pressoché impossibile, e tuttavia milioni di genitori tentano di fare esattamente questo. Se però è abbastanza facile trovare un bravo meccanico che ci aiuti con l’automobile, gli esperti, ai quali i genitori fanno presente le proprie difficoltà nel crescere i figli, di rado valutano il problema in modo corretto. Troppo spesso i bambini vengono accusati di essere difficili, o i genitori di essere inetti, o le tecniche genitoriali di essere inadeguate. In generale, né i genitori né i professionisti riconoscono che la radice del problema non è l’inettitudine parentale, bensì la sua impotenza, nel senso letterale della parola, ossia la mancanza di potere sufficiente.


La qualità assente è per l’appunto il potere, non l’amore o la conoscenza, né la dedizione o la capacità. I nostri antenati avevano molto più potere rispetto ai genitori odierni. I nostri nonni esercitavano un’influenza molto maggiore sui figli di quanta non ne avessero su di noi i nostri genitori, o di quanta non ne dimostriamo noi stessi con i nostri bambini. Se questa tendenza non si interrompe, i nostri figli avranno immense difficoltà quando verrà il loro turno di essere genitori: il potere ci sta sfuggendo di mano.

La spontanea autorevolezza che serve per fare i genitori

L’impotenza è difficile da riconoscere e penosa da ammettere. La mente si appiglia a spiegazioni più accettabili: i nostri figli non hanno più bisogno di noi, oppure sono particolarmente difficili, o le nostre abilità genitoriali sono manchevoli.


Ai giorni nostri molti oppongono resistenza al concetto di potere. Da bambini, alcuni di noi hanno sperimentato sin troppo bene il potere dei genitori e sono diventati dolorosamente coscienti del suo potenziale di abuso. Siamo consapevoli di come il potere induca in tentazione e sappiamo per esperienza che non possiamo fidarci di coloro i quali desiderano avere potere sugli altri. Per certi versi la parola “potere” ha acquisito una connotazione negativa, come nelle locuzioni “brama di potere” e “sete di potere”. Non c’è da meravigliarsi se molti ne rifuggono, ed è un atteggiamento che incontro di frequente fra genitori ed educatori.


Molti, inoltre, confondono il potere con la forza. Non è questo il senso in cui impieghiamo la parola potere in questo libro. Nella discussione che stiamo affrontando sulla genitorialità e l’attaccamento, il potere è inteso nel senso della spontanea autorevolezza che serve per fare i genitori. Quella spontanea forma di autorevolezza che non nasce dalla coercizione o dall’uso della forza, bensì da una relazione appropriata e in sintonia con il bambino. Il potere che consente di fare i genitori scaturisce senza sforzo quando le cose seguono il loro ordine naturale, senza ricorrere ad atteggiamenti artificiosi, né esercitare alcuna pressione. È proprio quando ci troviamo a corto di un tale potere che tendiamo a ricorrere alla forza. Maggiore è il potere a disposizione del genitore, minore sarà la forza richiesta per il quotidiano compito dell’accudimento. D’altro canto, minore è il potere in nostro possesso, e maggiore sarà la necessità di alzare la voce, inasprire il contegno, formulare minacce e cercare una qualche leva che induca i figli a conformarsi alle nostre richieste. La perdita di potere sperimentata dai genitori di oggi ha portato la letteratura specializzata a porre un forte accento su una serie di tecniche che sarebbero percepite come corruzione o minaccia in quasi ogni altro contesto. Abbiamo camuffato i segni di tale impotenza con eufemismi come “ricompense” e “conseguenze naturali”.


Il potere è assolutamente indispensabile al compito e alla funzione del genitore. Perché ne abbiamo bisogno? Perché abbiamo delle responsabilità. Non è mai stato previsto che la genitorialità potesse esistere senza il potere di adempiere alle responsabilità che comporta. Non c’è modo di comprendere le dinamiche della funzione genitoriale senza far riferimento alla questione del potere.


Il potere che abbiamo perduto è quello di attirare l’attenzione dei figli, di sollecitare le loro migliori intenzioni, di evocare la loro devozione e assicurarci la loro cooperazione. Senza queste quattro capacità, non ci resta altro che la coercizione e la corruzione. Era questo il problema che dovevano affrontare i genitori di Kirsten quando vennero da me, in ansia per la nuova ostinata opposizione che la figlia aveva iniziato a manifestare. Utilizzerò la relazione di Kirsten con i genitori come esempio di perdita della naturale autorità parentale; descriverò poi altri due casi che mi aiuteranno nella dimostrazione di cosa si intenda per potere dei genitori. Abbiamo perciò nove personaggi, sei genitori e tre ragazzi, e le loro storie esemplificheranno il dilemma che molte famiglie oggi sono costrette ad affrontare.


I genitori di Sean, nove anni, erano divorziati. Non si erano risposati e la loro relazione era buona a sufficienza perché potessero cercare aiuto insieme. Le difficoltà che avevano incontrato nel crescere Sean avevano contribuito alla separazione. I primi anni dopo la nascita del figlio erano stati abbastanza facili, ma gli ultimi due decisamente orribili. Sean maltrattava i genitori a parole ed era fisicamente aggressivo verso la sorella più piccola. Sebbene fosse un bambino intelligente, non c’era ragionamento che potesse indurlo a fare ciò che gli si chiedeva. I genitori avevano consultato diversi esperti e letto molti libri che raccomandavano approcci e tecniche varie. Niente sembrava funzionare. Le sanzioni comuni peggioravano solo le cose: mandarlo nella sua stanza non aveva alcun effetto apparente e, sebbene fosse contraria agli scapaccioni, nei momenti di disperazione la madre si era ritrovata ad applicare anche punizioni fisiche. I genitori avevano ormai rinunciato a conquistare l’ubbidienza del figlio in situazioni banali come il sedersi a tavola durante la cena e non riuscivano a fargli fare i compiti. Prima che il matrimonio naufragasse, la resistenza astiosa di Sean aveva rovinato l’atmosfera familiare; entrambi i genitori erano talmente esausti emotivamente da non riuscire più a convogliare sentimenti di calore e affetto verso il figlio.


Melanie aveva tredici anni e suo padre conteneva a stento la rabbia parlando di lei. La vita con la figlia era cambiata dalla morte della nonna, avvenuta quando Melanie frequentava la prima media. Fino ad allora aiutava in casa, era una buona studentessa a scuola e una sorella affezionata verso il fratello di tre anni più grande. Ora invece saltava le lezioni e non le importava nulla dei compiti, usciva regolarmente di nascosto e rifiutava di parlare con i genitori, affermando di odiarli e di voler essere lasciata in pace. Rifiutava anche lei di mangiare con la famiglia e consumava i pasti da sola nella sua stanza. La madre era traumatizzata, trascorreva il tempo supplicando la figlia di essere “gentile”, di tornare a casa per tempo e di non uscire più di nascosto. Il padre non riusciva a tollerare l’atteggiamento insolente di Melanie; credeva che la soluzione fosse in qualche modo quella di dettar legge, di dare all’adolescente una “lezione che non avrebbe più dimenticato”. Per quello che lo riguardava, qualsiasi cosa che fosse meno di un approccio duro e severo avrebbe significato indulgere verso il comportamento inaccettabile di Melanie, peggiorando la situazione. Era tanto più furioso in quanto, fino a prima del repentino cambiamento di personalità, Melanie era stata la “cocca di papà”, dolce e arrendevole.


Tre scenari differenti, tre serie di circostanze particolari e tre bambini assai diversi; e tuttavia nessuno di loro unico o eccezionale. Le frustrazioni nel crescere i figli sperimentate da questi genitori appartengono a molti padri e madri; le manifestazioni della difficoltà cambiano da bambino a bambino, ma il tema di fondo è assolutamente il medesimo: fare i genitori è molto più difficile del previsto. La litania dei lamenti oggigiorno è piuttosto comune: “I bambini di oggi non rispettano l’autorità come facevamo noi da piccoli; non riesco a convincere mio figlio a fare i compiti, a rifarsi il letto, aiutare in casa e pulire la sua stanza”. Oppure, l’altra rimostranza sotto forma di battuta: “Se fare i genitori è tanto importante, allora i bambini dovrebbero venire al mondo con il manuale di istruzioni!”

Il segreto del potere genitoriale

Molta gente ha tratto la conclusione che non ci si può aspettare che i genitori sappiano cosa fare senza un’opportuna formazione. Esistono ogni specie di corsi per genitori, e persino lezioni che insegnano loro come leggere le filastrocche ai figli più piccoli. Tuttavia gli esperti non sono in grado di insegnare ciò che è veramente fondamentale per una genitorialità efficace. Il potere dei genitori non risiede nelle tecniche, per quanto bene intenzionate, bensì nella relazione di attaccamento. In tutti e tre i nostri esempi, quel potere mancava.


Il segreto del potere dei genitori è nella dipendenza del bambino. I bambini nascono completamente dipendenti, incapaci di farcela da soli in questo mondo. La loro impossibilità a esistere come esseri separati e autonomi fa sì che si affidino interamente agli altri per farsi accudire, guidare e sapere cosa fare; per ricevere sostegno e approvazione, per avere un senso di appartenenza e sicurezza. È lo stato di dipendenza del bambino che in un primo momento rende necessaria la presenza dei genitori; se i nostri figli non avessero bisogno di noi, noi non avremmo bisogno del potere che serve per fare i genitori.


A un primo sguardo, sembrerebbe che un tale stato di dipendenza possa di fatto bastare, ma qui sta l’intoppo: essere dipendenti non garantisce che si dipenda dalla persona giusta. Ogni bambino nasce con la necessità di essere accudito, ma dopo i primi mesi e anni, non tutti i bambini si rivolgono per forza ai genitori affinché si prendano cura di loro. Il nostro potere di fare i genitori risiede non tanto nella misura della loro dipendenza, bensì in quanto siano specificamente dipendenti da noi. Il potere di esercitare le nostre responsabilità parentali non riposa nella natura bisognosa dei figli, ma nel fatto che essi guardino a noi come risposta ai propri bisogni.


Non possiamo davvero prenderci cura di un figlio che non fa affidamento su di noi per i suoi bisogni di cura, o che dipende da noi solo per il cibo, il vestire, per avere un tetto sulla testa e altre preoccupazioni di ordine materiale. Non possiamo sostenere emotivamente un bambino che non si appoggia a noi per i suoi bisogni psicologici. È frustrante dare direttive a un ragazzo che non accoglie la nostra guida, è tedioso e controproducente assistere qualcuno che non cerca il nostro aiuto.


Questa era la situazione che si presentava ai genitori di Kirsten, Sean e Melanie. Kirsten non si affidava più ai genitori per i suoi bisogni di attaccamento o per trarre ispirazione su come essere e cosa fare; alla tenera età di sette anni, non si rivolgeva più a loro per avere cure, educazione e conforto. L’atteggiamento di Sean andava oltre: egli aveva sviluppato una profonda resistenza a dipendere dal padre e dalla madre. Le resistenze di Sean e Melanie, infatti, si estendevano persino all’essere nutriti o, più precisamente, al rituale del nutrimento che ha luogo durante i pasti in famiglia. Melanie, appena entrata nell’adolescenza, non guardava più ai genitori per garantirsi un senso di calore familiare o di connessione. Non aveva alcun desiderio di essere compresa o che loro la conoscessero intimamente. Nessuno di questi tre bambini si sentiva dipendente dai genitori, e questo era alla radice di tutte le frustrazioni, le difficoltà e i fallimenti sperimentati dalle loro madri e dai loro padri.


Certo, tutti i figli iniziano la propria vita dipendendo dai genitori, ma qualcosa era cambiato lungo la strada per questi tre ragazzi, così come accade per molti bambini di oggi. Non si tratta del fatto che non avessero più bisogno di essere accuditi e guidati; finché un bambino non è in grado di vivere in modo indipendente, avrà sempre bisogno di dipendere da qualcuno. Qualsiasi cosa questi bambini avessero potuto provare o pensare, di sicuro non erano affatto pronti a reggersi sulle proprie gambe. Erano ancora dipendenti, solo non si percepivano più dipendenti dai genitori. I loro bisogni non erano svaniti; ciò che era mutato riguardava solo quali fossero le persone scelte per soddisfarli. Il potere di fare i genitori viene trasferito su colui dal quale il bambino dipende, che sia o meno una persona competente, responsabile, amorevole e comprensiva, su cui poter fare reale affidamento; addirittura che sia o no una persona adulta.


Nella vita di questi tre bambini, i compagni avevano sostituito i genitori come oggetto di dipendenza emotiva. Kirsten aveva un gruppo affiatato di tre amici che le servivano come bussola di riferimento e come base affettiva. Per Sean, il gruppo dei pari in generale era diventato il suo attaccamento attivo, l’entità alla quale connettersi in luogo dei genitori. Tutti i suoi valori, interessi e motivazioni erano investiti nei coetanei e nella loro cultura. Per Melanie, il vuoto di attaccamento creato dalla morte della nonna era stato riempito da un’amica. In tutti e tre i casi le relazioni con i coetanei erano in competizione con l’attaccamento ai genitori, e in ognuno la connessione ai pari aveva preso il sopravvento.


Un tale slittamento di potere è una doppia sciagura per i genitori. Non solo vengono lasciati senza il potere di guidare i propri figli, ma gli innocenti e incompetenti usurpatori acquisiscono il potere di fuorviarli. I coetanei dei nostri figli non hanno cercato questo potere in modo attivo: è una cosa che viene al seguito del bisogno di dipendenza. Questa sinistra frattura nel potere genitoriale arriva spesso quando meno ce lo aspettiamo, e in un momento nel quale avremmo più bisogno della nostra naturale autorità.


I semi della dipendenza dai coetanei di solito hanno attecchito durante i primi anni della scuola elementare, ma è durante gli anni successivi che la crescente incompatibilità fra l’attaccamento ai coetanei e quello ai genitori manda a monte il nostro potere genitoriale. È appunto durante l’adolescenza, proprio nel momento in cui ci sono più elementi da gestire come mai prima, e proprio quando la nostra superiorità fisica inizia a scemare, che il potere ci sfugge di mano.


Quello che a noi appare come indipendenza, è in realtà niente altro che un trasferimento di dipendenza. Abbiamo una tale fretta che i nostri figli siano in grado di fare le cose da soli che non riusciamo a vedere quanto sia dipendente la loro natura. Analogamente a quanto è avvenuto per la parola “potere”, anche la parola “dipendenza” ha assunto una connotazione negativa. Vogliamo che i nostri figli siano autonomi, indipendenti, sicuri di sé, che possiedano autocontrollo, facciano affidamento su se stessi, si sappiano orientare da soli e abbiano proprie motivazioni. Abbiamo assegnato un tale valore all’indipendenza che abbiamo perso completamente di vista ciò in cui consiste l’infanzia. I genitori lamentano i comportamenti oppositivi e indisponenti, ma di rado si accorgono che i figli hanno smesso di rivolgersi a loro per avere sostegno, conforto, assistenza. Sono disturbati che i ragazzi non si conformino più alle loro ragionevoli aspettative, ma sembrano inconsapevoli del fatto che non cerchino più il loro affetto, la loro approvazione e il loro apprezzamento. Non si accorgono che i figli si rivolgono ai coetanei per avere sostegno, amore, legame e senso di appartenenza. Quando l’attaccamento si trasferisce, si trasferisce anche la dipendenza e, insieme ad essa, il potere genitoriale.


La sfida più grande per i genitori di Kirsten, Sean e Melanie non era quella di rinforzare le regole, indurre all’obbedienza, o porre fine a questo o quel comportamento; era invece quella di reclamare i propri figli, di riallineare le forze di attaccamento ai genitori. Dovevano promuovere nei propri figli quella dipendenza che è la fonte del potere genitoriale. Per riconquistare la naturale autorità, dovevano sostituire e occupare la giurisdizione illegittima dei loro ignari e inconsapevoli usurpatori: gli amici dei figli. Per quanto ristabilire l’attaccamento con i propri figli sia molto più facile a dirsi che a farsi, è comunque il solo modo per riconquistare l’autorità parentale. Gran parte del mio lavoro con le famiglie, e molti dei consigli che darò in questo libro, sono volti ad aiutare i genitori a riguadagnare la loro naturale posizione di autorità.


Cos’è che all’inizio rende i coetanei capaci di prendere il posto dei genitori, visto che una tale permuta sembra essere del tutto contraria alle vere necessità? Come sempre, esiste una logica nell’ordine naturale delle cose. La capacità di un bambino di creare un attaccamento con persone che non siano i genitori biologici svolge un’importante funzione, poiché nella vita la presenza dei genitori non è affatto garantita: potrebbero morire o dileguarsi. Il nostro programma di attaccamento richiedeva la flessibilità di trovare dei sostituti a cui legarsi e da cui dipendere. Gli esseri umani non sono soli in questa capacità di trasferimento. Ciò che rende alcune creature degli ottimi animali da compagnia è proprio la loro capacità di trasferire l’attaccamento dai propri genitori agli umani, permettendo a noi uomini di gestirli e averne cura.


Poiché gli esseri umani hanno un lungo periodo di dipendenza, gli attaccamenti devono poter essere trasferiti da una persona a un’altra, dai genitori ai parenti e ai vicini o ai più anziani del villaggio e della tribù. La natura prevede che tutti costoro, a turno, giochino il loro ruolo nel crescere il bambino fino alla piena maturità. Questa notevole adattabilità, che è stata utile a genitori e figli per migliaia di anni, ha finito per perseguitarci in epoche recenti. Nelle condizioni attuali, è un’adattabilità che consente ai coetanei di prendere il posto dei genitori.


La maggior parte dei genitori è in grado di percepire la perdita di potere nel momento in cui i propri figli si orientano ai coetanei, anche se non sa riconoscere la vera natura dell’evento. Infatti l’attenzione dei bambini di questo tipo è più difficile da dirigere, il rispetto inizia a venir meno, l’autorità genitoriale viene erosa. Ognuno dei genitori dei tre casi citati nel nostro esempio, interrogato in merito, disse di essere in grado di identificare il momento in cui il proprio potere aveva iniziato a svanire. L’erosione della naturale autorità viene notata all’inizio dai genitori come una sensazione impercettibile che qualcosa stia andando per il verso sbagliato.

Cos'è che ci rende capaci di fare i genitori?

Sono tre gli ingredienti necessari al funzionamento del ruolo genitoriale: un essere dipendente che ha bisogno di essere accudito, un adulto desideroso di assumersi tale responsabilità, e un buon attaccamento fra adulto e bambino. Il più critico dei tre è anche quello più comunemente sottovalutato e trascurato: l’attaccamento del bambino all’adulto. Molti genitori e futuri tali si dibattono ancora nella convinzione errata di poter semplicemente entrare nel ruolo di genitore, che sia un genitore adottivo, acquisito, affidatario o biologico. Ci aspettiamo che il bisogno del bambino di essere accudito e la nostra volontà di farlo bastino all’impresa; siamo sorpresi e offesi quando i bambini oppongono resistenza ai nostri tentativi.


Riconoscendo che la responsabilità parentale è insufficiente per crescere al meglio un figlio, ma ancora ignari del ruolo svolto in questo senso dall’attaccamento, molti esperti credono che il problema risieda nelle conoscenze e abilità del genitore. Se ci sono problemi è perché i genitori non fanno la cosa giusta. Secondo questo modo di pensare non basta immedesimarsi nel ruolo, bisogna anche possedere delle abilità per essere genitori efficaci. Il ruolo genitoriale deve, perciò, essere integrato con tutta una serie di tecniche educative; perlomeno questo è ciò che molti esperti sembrano credere.


Ma anche molti genitori ragionano in modo analogo: se gli altri riescono a ottenere dai propri figli quello che vogliono e io no, dev’essere perché non ho i requisiti adatti. Tutte le loro domande presumono una semplice mancanza di conoscenza, in particolare si rifanno alla tipologia del “come si fa” per aiutarsi in ogni possibile situazione problematica: come faccio a farmi ascoltare da mio figlio? Come faccio a fargli fare i compiti? Cosa devo fare per fargli mettere in ordine la sua stanza? Qual è il segreto perché mio figlio aiuti in casa? Come faccio a farlo star seduto a tavola? I nostri antenati si sarebbero forse sentiti in imbarazzo a porre tali domande o a mostrarsi in un corso per genitori che affrontasse temi del genere. È come se fosse molto più semplice per i genitori di oggi dimostrare incompetenza anziché impotenza, soprattutto se la carenza di adeguate abilità può essere comodamente attribuita a una mancanza di formazione o di modelli appropriati nell’infanzia. Il risultato è stato un’industria multimiliardaria specializzata nel dar consigli ai genitori: dagli esperti che favoriscono strategie come quella di mettere in castigo oppure di allineare in mostra sul frigorifero i punti ricompensa, a tutti i manuali sulle tecniche dei genitori efficaci.


Gli esperti della crescita e l’industria editoriale offrono ai genitori ciò che essi chiedono, invece della saggezza e del discernimento di cui avrebbero un disperato bisogno. Solo la mole di consigli offerti tende a rinforzare il senso di inadeguatezza e l’impressione di non essere preparati per il lavoro richiesto. Il fatto che queste metodologie falliscano il proprio compito non ha rallentato il torrente di insegnamenti in questo senso.


Se continuiamo a percepire la genitorialità come una serie di competenze che devono essere apprese, sarà difficile riuscire a vedere il processo in qualunque altro modo. Ogni volta che si incontrerà un problema, l’assunto sarà che bisognerà leggere altri libri, seguire altri corsi, diventare esperti in altre tecniche. Nel mentre, la nostra squadra di sostegno non smette di affermare che noi abbiamo il potere di svolgere il compito richiesto. Gli insegnanti si comportano come se potessimo ancora riuscire a far fare i compiti ai nostri figli; i vicini di casa si aspettano che si riesca a tenerli a freno; i nostri stessi genitori ci rimproverano di non essere abbastanza fermi e risoluti. Gli esperti danno per scontato che l’obbedienza risieda un paio di abilità più oltre; i tribunali ci ritengono responsabili per il comportamento dei nostri figli e nessuno sembra rendersi conto di quanto la presa ci stia sfuggendo di mano.


Il ragionamento che sta dietro alla visione di una genitorialità intesa come insieme di abilità sembra abbastanza logico ma, con il senno di poi, è stato uno spaventoso errore. Ha condotto i genitori ad affidarsi artificiosamente agli esperti, derubati della naturale fiducia in se stessi, e spesso lasciati in balìa di sentimenti di inadeguatezza e ottusità. Abbiamo fretta di credere che i nostri figli non ci ascoltino perché non sappiamo come farci ascoltare, che non collaborino perché non abbiamo ancora imparato i trucchi giusti, che non siano abbastanza rispettosi dell’autorità perché noi genitori non abbiamo insegnato loro il rispetto. Ci sfugge il punto essenziale che ciò che conta veramente non è l’abilità del genitore, bensì la relazione del bambino con l’adulto che ne è responsabile.


Quando ci concentriamo esclusivamente su ciò che dovremmo fare, diventiamo ciechi di fronte alla nostra relazione di attaccamento e alle sue carenze. Essere genitori è soprattutto una relazione, non delle competenze da acquisire. L’attaccamento non è un comportamento che può essere appreso, bensì una connessione di cui andare in cerca.


L’impotenza dei genitori è difficile da vedere perché il potere che essi possedevano era inconsapevole. Automatico, invisibile, era una componente intrinseca della vita familiare e delle culture che si fondavano sulla tradizione. In linea di massima, i genitori del passato potevano dare per scontato il loro potere perché di solito era sufficiente a svolgere il compito richiesto; tuttavia, per ragioni che abbiamo iniziato ad analizzare, oggi non è più così. Se non si comprende l’origine del proprio benessere, non si è in grado di riconoscere la radice delle proprie difficoltà. A causa dell’ignoranza collettiva riguardo all’attaccamento, della difficoltà nel riconoscere l’impotenza genitoriale, e dell’avversione stessa verso il potere, la più comune delle calamità che affliggono i genitori è lasciata a implorare una spiegazione.

A caccia di etichette

L’alternativa più ovvia al biasimo rivolto ai genitori è quella di concludere che ci sia qualcosa di sbagliato o di mancante nel bambino. Se non ci è concesso dubitare della nostra genitorialità, allora presumiamo che la fonte dei nostri problemi debba essere il bambino. Ci rifugiamo in pensieri di biasimo ritenendo che non siamo noi ad aver fallito, bensì i nostri figli che non riescono ad essere all’altezza delle aspettative. Il nostro atteggiamento è espresso da richieste e esclamazioni del tipo “Perché non fai attenzione?” “Smettila di essere tanto difficile!” “Perché non fai mai quello che ti si dice?”


Le difficoltà che si incontrano nel fare i genitori conducono spesso a una caccia per scoprire cos’è che non va nel bambino. Si assiste oggi a una ricerca frenetica di etichette che spieghino i problemi dei nostri figli. I genitori chiedono la diagnosi formale di un professionista o si aggrappano a etichette informali; esistono libri su bambini “difficili” o “vivaci”. Più i genitori si sentono frustrati, più è probabile che i bambini vengano percepiti come difficili, e maggiore sarà la ricerca di etichette a conferma di tale difficoltà. Non è una coincidenza che il grande interesse rivolto alle etichette sia parallelo alla crescita dell’orientamento ai coetanei. Sempre di più, i problemi comportamentali dei bambini sono ascritti a varie sindromi mediche come il disturbo da deficit di attenzione o il disturbo oppositivo provocatorio [oppositional defiant disorder – ODD, N.d.T.]. Queste diagnosi hanno almeno il vantaggio di assolvere il bambino e sollevare i genitori dal peso del biasimo; mascherano, però, la reversibilità delle dinamiche che sono all’origine del comportamento distorto nei bambini. Le spiegazioni mediche aiutano a rimuovere la colpa ma rappresentano un ostacolo in quanto riducono la questione a termini eccessivamente semplificati. Presumono, infatti, che le complesse problematiche comportamentali di tanti bambini si possano spiegare da un punto di vista genetico oppure grazie a circuiti cerebrali mal connessi. Ignorano poi l’evidenza scientifica secondo cui il cervello umano è forgiato dall’ambiente sin dalla nascita e per tutto il corso dell’esistenza, e che le relazioni di attaccamento sono l’aspetto più importante di tutto l’ambiente che circonda il bambino. Le spiegazioni mediche dettano per di più soluzioni miopi, come l’uso di farmaci, senza prendere in considerazione le relazioni del bambino con i coetanei e con il mondo degli adulti. In pratica, non fanno che sottrarre ulteriore potere ai genitori.

Non stiamo dicendo che la fisiologia cerebrale non sia coinvolta in alcuni disturbi infantili, né che l’uso di farmaci sia sempre controindicato. Il mio coautore, ad esempio, vede molti bambini e adulti con ADD [disturbo da deficit di attenzione, N.d.T.], una condizione nella quale il funzionamento del cervello è fisiologicamente diverso dalla norma, ed egli prescrive dei farmaci quando ritiene che siano davvero necessari. Ciò che obiettiamo è il fatto di ridurre i problemi dell’infanzia a diagnosi mediche e ai loro relativi trattamenti, escludendo la molteplicità dei fattori psicologici, emotivi e sociali che contribuiscono all’origine dei problemi stessi. Persino nell’ADD e in altre condizioni in cui le diagnosi mediche e i farmaci possono risultare utili, la relazione di attaccamento con i genitori deve restare la preoccupazione principale e il miglior percorso verso la guarigione.14 I genitori di Sean avevano già intrapreso la strada dell’assegnazione di etichette, collezionando tre diverse diagnosi da tre esperti diversi: due psicologi e uno psichiatra. Uno dei professionisti diagnosticò una sindrome ossessivo compulsiva, un altro un disturbo oppositivo e infine un terzo affermò che si trattava di disturbo da deficit di attenzione. Scoprire che in effetti c’era qualcosa che non andava in Sean era stato un grande sollievo per i genitori: le difficoltà che incontravano non erano colpa loro. Inoltre le diagnosi dei dottori toglievano d’impaccio lo stesso Sean, che non poteva farci nulla. Le etichette avevano avuto il pregio di interrompere la catena del biasimo.

Personalmente, non mi trovai in disaccordo con nessuna di queste attribuzioni; in fin dei conti esse descrivevano abbastanza bene il comportamento di Sean. Egli era assai compulsivo, opponeva resistenza ed era disattento. Oltre a ciò, le tre sindromi hanno in comune il fatto che i bambini così diagnosticati sono anche impulsivi e poco adattabili. I bambini impulsivi (così come gli adulti) sono incapaci di separare gli impulsi dall’azione: mettono in atto qualsiasi impulso venga loro in mente. Non essere capaci di adattarsi significa non riuscire a farlo quando le cose vanno per il verso sbagliato, senza beneficiare delle avversità e di apprendere dalle conseguenze negative. Tali incapacità sottopongono i genitori a una maggior quantità di comportamenti inappropriati da gestire mentre, allo stesso tempo, limitano gli strumenti a loro disposizione per governare la condotta dei figli. Per fare un esempio, le tecniche negative come l’ammonimento, il rimprovero, le sanzioni, le conseguenze e le punizioni sono inutili con un ragazzino che non sia in grado di imparare da esse. Pertanto, da un certo punto di vista, si potrebbe dire senza tema di sbagliare che i genitori di Sean incontravano tante difficoltà a causa di ciò che non andava in Sean. C’è del vero in questo, ma a volte una verità ne maschera un’altra ancora più grande: nel nostro caso si trattava di un problema di relazione.


Le etichette medicalizzate avevano reso i genitori di Sean dipendenti dagli esperti. Anziché fidarsi nel proprio intuito, apprendere dai propri errori e trovare la strada giusta per loro, essi iniziarono a rivolgersi ad altri per trarre ispirazione sul modo di fare i genitori. Seguivano pedissequamente i consigli di altri, ricorrendo a metodi artificiosi di controllo del comportamento che agivano senza alcun rispetto per la relazione di attaccamento. A volte, dicevano, avevano la sensazione di relazionarsi a una sindrome anziché a una persona. Invece di trovare risposte, trovarono tante opinioni diverse quanti erano gli esperti che le proponevano.


Un altro aspetto ancor più preoccupante delle etichette, persino quelle informali come “bambino difficile”, o innocue come “bambino sensibile”, è che esse danno l’impressione di aver trovato la radice del problema. Nascondono la vera origine delle difficoltà: quando la valutazione ignora i fattori sottostanti legati al tipo di relazione, si ritarda la ricerca di una soluzione autentica.


Che Sean fosse difficile da trattare non era in discussione: la sua impulsività rendeva ancor più gravoso il compito di guidarlo, questo è certo. Gran parte degli impulsi però sono attivati dall’attaccamento, ed era proprio l’attaccamento di Sean che era stato sviato. Ciò che rendeva le cose così impossibili non era l’impulsività, quanto il fatto che questi impulsi lavorassero contro i genitori. Dipendere dai genitori, restare loro accanto o seguire il loro esempio era contro gli istinti naturali di Sean. E ciò era dovuto al suo orientamento ai coetanei, non a qualche disturbo di natura medica. I suoi istinti di attaccamento fuorviati rendevano anche conto del suo atteggiamento oppositivo e indicavano la via della cura. Il problema dell’orientamento ai coetanei infatti non spiegava tutti i suoi problemi di attenzione, ma ristabilire un sano attaccamento ai genitori era la via per creare una solida base per poterli affrontare. L’aspetto più saliente con cui dovevano fare i conti i suoi genitori non era quello che non andava in lui, bensì quello che mancava nella sua relazione con loro.


Sebbene né i genitori di Kirsten, né quelli di Melanie avessero intrapreso la strada della ricerca di diagnosi formali, si domandavano anch’essi se le loro figlie fossero normali o se ci fosse qualcosa di sbagliato nelle tecniche che utilizzavano. A un esame più attento scoprii che Melanie era piuttosto immatura per la sua età, ma questo non spiegava ancora le difficoltà dei genitori. Il fattore critico era la dipendenza dai coetanei, dipendenza che, data la sua immaturità psicologica, si trasformava in un colpo devastante per la funzione genitoriale.


Per buona sorte l’orientamento ai coetanei non solo si può prevenire ma, in molti casi, è anche reversibile (le parti quarta e quinta di questo libro saranno dedicate a questo compito). Dobbiamo tuttavia comprendere a fondo in cosa consista il problema. Fare i genitori dovrebbe essere qualcosa di naturale e intuitivo, ma ciò può realizzarsi solo se il bambino è strettamente attaccato a noi. Per riconquistare il potere di fare i genitori dobbiamo far sì che i nostri figli tornino a dipendere completamente da noi, non solo una dipendenza fisica, ma anche psicologica ed emotiva, così come è sempre stato previsto dalla natura.

I vostri figli hanno bisogno di voi
I vostri figli hanno bisogno di voi
Gabor Maté, Gordon Neufeld
Perché i genitori oggi contano più che mai.La potente riscoperta del valore basilare dell’attaccamento tra genitori e figli. Più l’attaccamento è forte e sano e più i figli crescono sicuri. Il caos culturale dettato dal materialismo imperante e dalle infatuazioni tecnologiche dell’economia globalizzata minaccia la relazione con i propri figli: questi fattori appartenenti al nuovo mondo, infatti, allentano i legami di attaccamento fra i bambini e gli adulti che se ne prendono cura, distruggono il contesto appropriato perché i genitori possano svolgere il loro compito, menomando lo sviluppo umano e, inesorabilmente, erodendo le basi della trasmissione culturale e valoriale.Nel libro I vostri figli hanno bisogno di voi, un medico e uno psicologo uniscono le forze per trattare una delle tendenze più fraintese e allarmanti del nostro tempo: i coetanei (amici, cuginetti, compagni di scuola) che prendono il posto dei genitori nella vita dei figli.Questo fenomeno è definito come “orientamento ai coetanei”: tale termine si riferisce al fatto che, quando i bambini in età scolare e i giovani ragazzi hanno bisogno di un’indicazione, preferiscono rivolgersi ai coetanei anziché far riferimento al padre, alla madre e al rispetto dei valori naturali, al senso di ciò che è giusto o sbagliato, all’identità e ai normali codici di comportamento.Quando i coetanei sostituiscono i genitori, lo sviluppo dei bambini si arresta: non ci sono più sane figure educative di riferimento, l’orientamento ai pari crea una massa di giovani adulti immaturi, conformisti e inquieti, incapaci di integrarsi nella società corrente. Ora, questo continuo orientarsi ai coetanei non può che deteriorare la coesione familiare, impedendo uno sviluppo sano e equilibrato del bambino, avvelenando l’atmosfera scolastica e favorendo la crescita di una cultura giovanile aggressiva, ostile e prematuramente sessualizzata.Dal canto loro, i genitori sono a disagio, frustrati, e si acuisce la sensazione che lo sviluppo dei bambini sia sfuggito alla loro influenza. Perché si possa essere genitori efficaci, è necessario quindi che i bambini sviluppino la giusta relazione con i genitori.I ragazzi non stanno perdendo i genitori perché manca competenza o coinvolgimento, ma per mancanza di un attaccamento primario. La conservazione della cultura si basa proprio sui modelli di questo genere, e la conseguenza principale della loro perdita è la scomparsa del contesto appropriato per una sana crescita. L’attaccamento di un bambino ai genitori crea infatti un grembo psicologico necessario per dare vita alla personalità e all’individualità.Gli autori Gordon Neufeld e Gabor Maté aiutano i genitori, gli insegnanti e gli operatori sociali a comprendere questo fenomeno inquietante, fornendo soluzioni utili per ristabilire la giusta preminenza del legame che unisce i figli ai genitori e restituendo a questi ultimi il potere e la forza di essere una fonte vera di contatto, guida, calore e sicurezza. Un libro non finisce con l’ultima pagina!Questo titolo si arricchisce di contenuti “extra” digitali. Per consultarli è sufficiente utilizzare il QR code in quarta di copertina.