Una cultura di attaccamenti mancati
Il contrasto fra le culture tradizionali multigenerazionali e l’odierna società nordamericana è sconcertante. Nel moderno Nord America urbanizzato – e in altri paesi industrializzati dove lo stile di vita americano è diventato la norma – i bambini si trovano costantemente in situazioni di vuoto d’attaccamento, nelle quali manca uno stabile e profondo legame con adulti che si prendano cura di loro. Sono molti i fattori che promuovono questa tendenza.
Una conseguenza dei mutamenti economici avvenuti nel secondo dopoguerra è che i bambini trascorrono precocemente, a volte sin da subito dopo la nascita, gran parte della giornata in contesti nei quali si ritrovano gli uni in compagnia degli altri. La maggior parte del contatto avviene con altri bambini anziché con gli adulti che contano nella loro vita; e trascorrono molto meno tempo creando un legame con genitori e adulti. Mentre crescono, il processo non fa che accelerare.
La società ha generato una forte pressione economica che spinge entrambi i genitori a lavorare fuori casa quando i bambini sono ancora molto piccoli, ma ha provveduto ben poco al soddisfacimento del loro bisogno di nutrimento affettivo. Per quanto possa apparire sorprendente, gli educatori della prima infanzia, gli insegnanti e gli psicologi – per non parlare dei medici e degli psichiatri – molto di rado sono stati istruiti sull’attaccamento. Nelle strutture che si occupano di cura dell’infanzia e di educazione non esiste una coscienza collettiva riguardo all’importanza cruciale delle relazioni di attaccamento. Sebbene molti singoli insegnanti e puericultori comprendano intuitivamente il bisogno di formare un legame con i bambini, non è raro che si trovino in conflitto con un sistema che non sostiene il loro approccio.
Poiché alla cura dei più piccoli la nostra società non assegna il giusto valore, gli asili nido non ricevono sufficienti finanziamenti. È difficile per un adulto estraneo soddisfare pienamente i bisogni di attaccamento e orientamento di un singolo bambino, soprattutto se molti altri neonati e bambini rivaleggiano per attirare l’attenzione dello stesso adulto di riferimento. Per quanto molte strutture siano ben organizzate e il personale, seppur malpagato, si dedichi con impegno e passione al proprio lavoro, i livelli di qualità sono ben lontani dall’essere uniformemente soddisfacenti. Lo Stato di New York, ad esempio, prescrive che negli asili nido ci sia un addetto per non più di sette bambini, ma si tratta di un rapporto terribilmente pesante. L’importanza del legame con l’adulto non viene apprezzata: bambini che si trovino in tali circostanze non hanno altra speranza se non quella di formare relazioni di attaccamento gli uni con gli altri.
Non è il fatto che entrambi i genitori lavorino ad essere tanto dannoso; la chiave del problema è piuttosto la mancanza di considerazione che attribuiamo all’attaccamento nel gestire la separazione dai figli. Non ci sono abitudini culturali nella società corrente che mettano al primo posto fra i compiti delle puericultrici negli asili nido e degli insegnanti nella scuola materna quello di stabilire prima dei legami con i genitori e solo in un secondo tempo, grazie a un’amichevole presentazione, quello di coltivare un vivo ed efficace attaccamento con il bambino. Sia i genitori sia i professionisti dell’infanzia sono lasciati alla loro propria intuizione, e più spesso neppure a quella. A causa della mancanza di una coscienza collettiva, la gran parte degli adulti segue semplicemente la prassi corrente, pensata senza avere a mente i bisogni dell’attaccamento. Una prassi di attaccamento che veniva seguita da molte parti – quella degli insegnanti delle scuole materne e degli asili che andavano a far visita a casa dei futuri studenti – è stata largamente accantonata, tranne, forse, nelle scuole private con grandi disponibilità economiche. Al cospetto delle forbici che hanno tagliato i finanziamenti, nessuno è stato in grado di giustificare in modo adeguato la funzione vitale di una simile abitudine. I problemi economici sono più facili da comprendere di quelli dell’attaccamento.
Il nodo della questione non è tanto nel cambiamento sociale in sé, ma nella mancanza di compensazione a tale cambiamento. Se dobbiamo condividere con altri il compito di crescere i nostri figli, abbiamo bisogno di costruire il contesto giusto affinché ciò si possa realizzare, creando ciò che chiamo un villaggio di attaccamento, ossia diverse relazioni con adulti in grado di prendersi cura dei nostri figli per rimpiazzare ciò che è andato perduto. Esistono molti modi per farlo, come spiegherò nel capitolo 18.
Dopo l’asilo nido e la scuola materna i nostri bambini entrano nel mondo della scuola, dove vivranno per gran parte della giornata in compagnia dei coetanei, in un ambiente dove la supremazia degli adulti è destinata a scemare sempre più. Se mai esistesse una precisa intenzione di favorire l’orientamento ai coetanei, le scuole, così come sono gestite attualmente, sarebbero senz’altro il nostro strumento migliore. Inseriti in grandi classi con insegnanti esausti, i bambini creano legami gli uni con gli altri. Le regole e i regolamenti tendono a tenerli fuori della classe prima dell’inizio della lezione, facendo in modo che restino per conto loro senza un contatto con gli adulti. Trascorrono la ricreazione e l’intervallo del pranzo in reciproca compagnia. La formazione degli insegnanti trascura completamente l’attaccamento, ed è così che essi studiano come insegnare le varie materie, ma non sanno nulla dell’importanza cruciale che le relazioni di attaccamento e connessione rivestono per il processo di apprendimento dei giovani esseri umani. A differenza di qualche decennio fa, gli insegnanti oggi non si mescolano ai loro studenti nei corridoi o nei cortili delle scuole e viene scoraggiata un’interazione che sia più personale. In contrasto con quanto avviene nelle società tradizionali, la vasta maggioranza degli studenti in Nord America non torna a casa per pranzare con i genitori.
“Ci sono cinquecento studenti nella scuola che frequentano i miei figli”, dice Christina, madre di due bambini, rispettivamente in terza elementare e seconda media, “vado a prenderli ogni giorno per pranzo, ma sono solo dieci su cinquecento quelli che tornano a casa a mangiare, e gli insegnanti fanno anche pressione perché restino a scuola; forse pensano che sono un po’ strana, una mamma iperprotettiva. Eppure, trovo che quel tempo trascorso a casa sia essenziale, i bambini hanno così tanto da raccontare, tutto il resoconto di quello che è successo a scuola, di ciò che è sembrato loro difficile e di ciò che li ha eccitati”. “Mia figlia si precipitava in auto”, racconta un’altra mamma che aveva l’abitudine di riportare a casa la figlia per pranzo: “Mi sommergeva letteralmente di informazioni, tutto quello che le era successo, cosa aveva provato, come si era sentita facendo qualcosa di ‘sbagliato’ oppure qualcosa di molto buono”. Ci si domanda, ascoltando queste due mamme, quale moltitudine di esperienze e sentimenti resti inespressa e non rielaborata per molti degli altri bambini.