L'attaccamento fa sì che il bambino desideri farsi apprezzare dal genitore
L’ultimo e fondamentale modo in cui siamo sostenuti e aiutati dall’attaccamento è il più significativo di tutti: il desiderio del bambino di far piacere al genitore. Merita uno sguardo approfondito.
L’impazienza di compiacere dà al genitore un potere formidabile. Le difficoltà create dalla sua assenza sono altrettanto formidabili. Possiamo vedere quest’impeto di compiacenza nei cagnolini che con foga ubbidiscono ai comandi dei loro padroni, restando invece impassibili e indifferenti di fronte ai comandi degli estranei. Tentare di dare ordini a un cane che non abbia interesse a compiacerci ci dà un piccolo sentore di cosa si debba affrontare quando questa motivazione è assente in un essere molto più complesso emotivamente e vulnerabile come un piccolo essere umano.
Questo desiderio di essere apprezzati è una delle prime cose che ricerco in un bambino i cui genitori stiano incontrando difficoltà. Vi è una serie di ragioni che inducono un figlio a non accontentare il genitore, ma la più cruciale è di gran lunga l’assenza stessa del desiderio. È triste a dirsi, ma alcuni bambini non riescono mai a far fronte alle aspettative perché gli standard richiesti dai genitori sono disperatamente irrealistici. Ma se è il desiderio stesso del bambino a mancare, non ha più importanza che le attese siano realistiche oppure no. Quando interrogai i genitori di Sean, Melanie e Kirsten, riferirono tutti che la motivazione dei figli era carente. Tuttavia ognuno di loro ricordava un tempo non troppo lontano in cui il desiderio di farsi apprezzare dal genitore era stato molto più evidente.
La realizzazione suprema di un attaccamento che funzioni bene è quella di instillare nel bambino il desiderio di far piacere ai genitori, e questo è finalizzato agli obiettivi della crescita. Quando diciamo di un particolare bambino che è “bravo”, pensiamo di descrivere una sua caratteristica innata. Ma ciò che non vediamo è che è l’attaccamento del bambino all’adulto a promuovere quell’atteggiamento appagante. In tal modo, si resta ciechi al potere dell’attaccamento. Il pericolo nel credere che la personalità innata del bambino dia vita al suo desiderio di “fare il bravo” è che egli verrà rimproverato e biasimato – e verrà visto come “cattivo” – se si scoprirà la mancanza di un tale desiderio. L’impulso a fare “il bravo” deriva molto meno dal carattere del bambino che non dalla natura della sua relazione con il genitore. Se un bambino fa il “cattivo”, è la relazione che dobbiamo correggere e non il bambino.
L’attaccamento evoca il desiderio di far piacere all’altro in vari modi diversi, ognuno con la sua specifica sfera di influenza. Insieme, rendono possibile la trasmissione dei modelli di comportamento accettabile e dei valori da una generazione all’altra. Una delle fonti del desiderio di condiscendenza è quella che definisco “coscienza di attaccamento” – una sorta di allarme che è innato nel bambino e lo mette in guardia verso quelle condotte che susciterebbero lo sfavore del genitore. La parola coscienza deriva dal verbo latino conscire, essere consapevole. Viene usata qui nel suo significato di base, non come codice morale, bensì come consapevolezza interiore che ci protegge da una rottura con il genitore.
L’essenza della coscienza di attaccamento è l’ansia da separazione. Poiché l’attaccamento è tanto cruciale, vi sono degli importanti centri nervosi nel cervello preposto all’attaccamento che funzionano da allarme, creando un senso di disagio e agitazione quando ci troviamo a dover affrontare una separazione da coloro cui siamo legati. All’inizio è l’anticipazione della separazione fisica che provoca questo tipo di risposta nel bambino. Quando invece l’attaccamento diventa di natura essenzialmente psicologica, sarà l’esperienza della separazione emotiva a generare ansia. Il bambino starà male anticipando o sperimentando la disapprovazione e il disappunto del genitore. Tutto ciò che potrebbe disturbare il genitore, allontanarlo o alienarlo provocherà ansia nel bambino. La coscienza di attaccamento manterrà il comportamento del bambino entro i confini stabiliti dalle aspettative parentali.
La coscienza di attaccamento può, infine, evolvere nella coscienza morale del bambino, ma la sua funzione originaria è di preservare la connessione con chiunque serva da attaccamento primario. Quando l’attaccamento muta, la coscienza di attaccamento sarà opportunamente ricalibrata per evitare qualsiasi cosa possa provocare distanza o disappunto nella nuova relazione. Finché il bambino non abbia sviluppato una personalità abbastanza forte da dar vita a valori e giudizi indipendenti, non si evolve una coscienza più matura e autonoma, coerente in tutte le situazioni e le relazioni.
Se è un bene che il bambino stia male quando prevede una perdita di connessione con coloro che gli sono affezionati e si dedicano con amore al benessere del suo sviluppo, è di importanza cruciale per i genitori comprendere che non è saggio sfruttare continuamente tale coscienza. Non dobbiamo mai farlo stare male di proposito, suscitare in lui vergogna e sensi di colpa per indurlo a comportarsi bene. Abusare della coscienza di attaccamento risveglia una profonda insicurezza e potrebbe indurre il bambino a chiudersi per paura di essere ferito. Le conseguenze non valgono affatto la conquista di eventuali risultati a breve termine relativi al comportamento.
La coscienza di attaccamento può avere delle disfunzioni per ragioni diverse dall’orientamento ai coetanei, ma il motivo più comune per cui essa perde la giusta mira è proprio il fatto di essere deviata lontano dai genitori e rivolta ai compagni. In tali circostanze essa è ancora funzionante, ma il suo obiettivo naturale è stravolto. Ne derivano due conseguenze indesiderabili: i genitori perdono il suo aiuto nell’influenzare il comportamento dei figli e, allo stesso tempo, la coscienza di attaccamento si azzera e si ricalibra per servire le relazioni con i coetanei. Se siamo scioccati dai mutamenti di comportamento che arrivano sulla scia dell’orientamento ai coetanei, è perché ciò che è accettabile per loro è estremamente diverso da ciò che è accettabile per i genitori. Analogamente, quel che inimica i coetanei è molto lontano da ciò che aliena i genitori. La coscienza di attaccamento serve un nuovo padrone.
Quando un bambino ricerca l’approvazione dei compagni anziché quella dei genitori, la motivazione a compiacere i genitori ha un calo significativo. Se i valori dei coetanei differiscono da quelli dei genitori, il comportamento del bambino muterà del pari. Questo cambiamento ci rivela che i valori dei genitori non sono mai stati davvero interiorizzati; il bambino non li ha mai fatti autenticamente suoi: essi funzionavano soprattutto come strumenti per suscitare l’apprezzamento delle persone verso cui si orientava.
I bambini non interiorizzano i valori, cioè non li fanno propri, fino all’adolescenza. Perciò la variazione del comportamento non significa mutamento dei valori, ma solo che la direzione degli istinti di attaccamento ha mutato corso. I valori dei genitori, come studiare, impegnarsi per raggiungere un obiettivo, aspirare all’eccellenza, il rispetto per la società, lo sviluppo delle potenzialità e del talento, seguire le proprie passioni, l’apprezzamento della cultura, sono spesso sostituiti dai valori dei coetanei, molto più immediati e a breve termine. L’apparenza, l’intrattenimento, la lealtà verso i compagni, il trascorrere del tempo insieme, il conformarsi a una sottocultura, uscire in gruppo, saranno considerati più importanti dell’istruzione e della realizzazione personale. I genitori spesso si trovano a discutere dei valori, senza capire che per i loro figli orientati ai coetanei i valori non sono altro che gli standard da soddisfare per poter ottenere l’accettazione da parte del gruppo dei pari.
Accade perciò che perdiamo la nostra influenza sulla vita dei figli proprio quando sarebbe più appropriato e necessario riuscire ad articolare i nostri valori e incoraggiare l’interiorizzazione di ciò in cui crediamo. L’educazione ai valori richiede tempo e dialogo, ma l’orientamento ai coetanei priva i genitori di questa opportunità, arrestando in tal modo lo sviluppo morale dei bambini.
L’impulso a comportarsi male è il rovescio del desiderio di far bene. Indicare che apprezzeremmo questo o quest’altro, o che qualcosa che ha fatto nostro figlio ci ha resi felici e orgogliosi può in realtà ritorcersi contro di noi. La natura bipolare dell’attaccamento, discussa nel secondo capitolo, è tale che quando l’aspetto negativo è attivo può provocare comportamenti opposti a quelli desiderati. Questo era senz’altro vero con Melanie e sua madre. Quando un bambino resiste al contatto con noi invece di volerci far piacere, gli istinti sono quelli di respingere e irritare: Melanie si era spinta molto oltre nel contrariare sua madre. Può sembrarci che il bambino orientato ai coetanei voglia provocarci, e in un certo senso questo è vero, però viene fatto in modo istintivo e non intenzionale. Le creature di attaccamento sono creature di istinto e di impulso. Per loro non va bene, né sembra loro giusto o conveniente venire apprezzati da coloro che vogliono tenere a distanza. Se cercano l’approvazione dei coetanei, sarà per loro insopportabile compiacere gli adulti.
Un’avvertenza finale. Il desiderio del bambino di essere apprezzato è una motivazione forte che rende molto più semplice il compito del genitore, e richiede fiducia e una dedizione amorevole e attenta. Rappresenta una violazione della relazione non credere al desiderio del bambino quando questo di fatto esiste, per esempio accusandolo di nutrire cattive intenzioni quando disapproviamo il suo comportamento. Tali accuse possono far scattare facilmente le sue difese, danneggiare la relazione e farlo sentire sbagliato. È anche molto rischioso per il bambino continuare a volersi far apprezzare da un genitore o un insegnante che non ha fiducia nelle sue buone intenzioni e pensa, perciò, che egli debba essere stuzzicato con ricatti e lusinghe o minacciato con sanzioni. È un circolo vizioso. Gli stimoli esterni come le ricompense e le punizioni possono distruggere la preziosa motivazione interiore a far bene, rendendo infine necessario l’uso di queste leve comportamentali artificiose. Il miglior investimento per facilitarci il compito di genitori è proprio quello di confidare nel desiderio del bambino di far bene.
Molti metodi attuali di gestione del comportamento, facendo affidamento su motivazioni imposte dall’esterno, agiscono senza rispetto nei confronti di questa delicata spinta innata. La dottrina delle cosiddette “conseguenze naturali” ne è un esempio. Questo metodo disciplinare intende inculcare nel bambino la consapevolezza che a seguito di specifici comportamenti indesiderati egli incorrerà in specifiche sanzioni scelte dal genitore, secondo una logica che ha senso nella mente del genitore ma di rado in quella del bambino. Ciò che ai genitori sembra naturale, dai bambini è vissuto come arbitrario. Se le conseguenze fossero davvero naturali, che motivo ci sarebbe di imporle al bambino?
Per alcuni genitori, la fiducia ha a che fare con il risultato finale anziché con la motivazione di fondo. Ai loro occhi la fiducia è qualcosa da conquistare piuttosto che un investimento per il futuro. “Come posso fidarmi di te”, direbbero, “se non fai quello che avevi promesso o se mi hai detto delle bugie?”. Anche se un bambino non è mai stato all’altezza delle nostre aspettative, né ha mai realizzato le sue proprie intenzioni, è tuttavia ancora molto importante aver fiducia nel suo desiderio di far bene e di farsi apprezzare da noi. Togliergli la nostra fiducia significa soffiar via il vento dalle sue vele e ferirlo profondamente. Se non facciamo tesoro e non custodiamo con cura il suo desiderio di far bene, il bambino perderà la motivazione che lo spinge a sforzarsi per essere all’altezza. È il suo desiderio di farsi apprezzare che sarà a garanzia della nostra fiducia, non la sua abilità nel soddisfare le nostre aspettative.