CAPITOLO IV

L'iperattività

Quando ero bambino l’iperattività non era conosciuta. Gli specialisti già cominciavano a parlare, alla fine degli anni Settanta, di bambini iperattivi o ipercinetici, ma certo l’idea non era ancora arrivata alla maggior parte dei medici, e meno che mai a maestri, genitori e al pubblico in generale.


La mia classe contava circa cinquanta bambini. Tutti maschi (tra cui si suppone che l’iperattività sia più frequente, tre volte in più che nelle femmine). Statisticamente avrebbe dovuto esserci quasi un 10% di bambini con sindrome da deficit di attenzione e iperattività, o ADHD (attention deficit-hiperactivity disorder). Avrebbero dovuto esserci cinque bambini iperattivi (di più, secondo alcuni); invece non ce n’era nessuno.


Non solo in classe non c’erano bambini diagnosticati come iperattivi, ma non riesco a ricordare nessuno che ora, visto a distanza, mi faccia pensare: “Quello là, che tipo! di sicuro era iperattivo”. Naturalmente c’erano bambini più tranquilli e altri più agitati; alcuni si “comportavano bene” e altri non tanto, alcuni prendevano bei voti e altri venivano bocciati (ma, anche se l’incidenza di fallimenti scolastici da allora è aumentata, non sembra che diagnosi e trattamento dell’iperattività abbiano migliorato molto il problema). Ovviamente a volte stavamo attenti a lezione, e altre volte no. Ricordo di aver passato ore molto piacevoli guardando dalla finestra, chiacchierando con il compagno di banco o giocando a battaglia navale.


Oggi moltissimi bambini vengono diagnosticati come iperattivi, e gran parte di questi vengono curati in modo permanente con anfetamine e altri psicofarmaci. Una madre mi raccontava: “A scuola mi hanno chiesto perché non gli dò queste pillole che ci sono adesso per farli stare calmi, visto che diversi bambini in classe le prendono e vanno a meraviglia”.


Suppongo che esistano alcuni bambini in cui l’iperattività è davvero una malattia e che, tra loro, alcuni traggano beneficio da un trattamento. Ma penso anche che molti esperti considerati seri stiano diagnosticando e trattando troppi bambini con criteri eccessivamente ampi. E sono sicuro che, oltre a questi autorevoli esperti, ci siano anche molti professionisti, genitori e insegnanti che diagnosticano e trattano bambini (o chiedono per loro diagnosi e trattamento) che quegli stessi esperti, i più entusiasti del trattamento, non curerebbero mai.

Solo così si spiega l’esplosione dell’“epidemia” di iperattività e le abissali differenze di incidenza della malattia nel tempo e nello spazio. Secondo i dati presentati dai Centri per la prevenzione e il controllo delle malattie (CDC) nella loro pagina web1, nell’anno 2007 il 9,5% dei bambini nordamericani tra quattro e diciassette anni hanno ricevuto una diagnosi di ADHD. E tra loro, due terzi assumevano farmaci. Più di cinque milioni di “malati”, di cui quasi tre milioni trattati con farmaci.


L’incidenza era maggiore nei maschi (13,2%) che nelle femmine (5,6%); inoltre, una volta diagnosticato, un ragazzo ha 2,8 probabilità in più di ricevere farmaci rispetto a una ragazza.


La distribuzione all’interno degli Stati Uniti è molto variabile. In alcuni stati, come la Carolina del Nord o l’Alabama, vengono diagnosticati come iperattivi più del 14% dei bambini, mentre in altri, come la California o lo Utah, non si arriva al 7%. Nella Carolina del Nord assumeva farmaci il 9,4% della popolazione infantile, contro solo l’1,2% in Nevada o il 2,3% in California.


I CDC ci informano che il tasso di diagnosi ha subìto un incremento annuale del 3% tra il 1997 e il 2007 (3% in più rispetto al tasso precedente, non sul totale dei bambini; il che significa, per esempio, non un aumento dal 5% all’8%, ma dal 5% al 5,15% in un anno). Nulla fa pensare che l’aumento si arresterà.


E infatti, il 31 Marzo 2013, il New York Times ha pubblicato una propria analisi di dati raccolti dai CDC, con sondaggi a 76.000 genitori nordamericani condotti nel 2011 e 20122. Alle scuole superiori, tra quattordici e diciassette anni, hanno avuto una diagnosi il 10% delle ragazze e il 19% dei ragazzi. Tra gli adolescenti maschi nordamericani, uno su cinque è ufficialmente malato di iperattività. E le differenze tra stati continuano a essere enormi, intorno al 23% in Carolina del Sud o Louisiana, meno del 10% in California o Nevada.

Il concetto di “malattia”

Come si spiegano queste differenze all’interno di uno stesso Paese? Nessuno sembra credere davvero che i bambini della Carolina del Nord siano tanto più malati di quelli della California. Quello che succede è che, in Carolina, medici e psicologi sono più propensi a diagnosticare l’iperattività e trattarla con farmaci, o forse maestri e insegnanti sono più propensi a dire ai genitori di portare il figlio dal medico perché non ha un comportamento normale.


Il problema è che spesso risulta difficile decidere chi è malato e chi no. Risulta persino difficile stabilire cos’è una malattia e cosa non lo è.


In genere, una malattia è un’alterazione dell’organismo da cui deriva dolore, sofferenza, incapacità, invalidità o morte.


Probabilmente tutti convengono che una persona è malata se ha un osso rotto, una polmonite o un tumore (in realtà, non tutti; si potrebbe argomentare che una persona può essere sana e avere un osso rotto, in quanto ferite e traumi non sono propriamente “malattie”). E probabilmente tutti ammetteranno che i capelli biondi, gli occhi azzurri o il naso aquilino non sono malattie. Ma la forfora e la calvizie lo sono? Dipende dall’opinione di ognuno. Chi ritiene che la salute consista nell’avere capelli e non avere forfora, penserà che l’alopecia e la dermatite seborroica siano malattie. Altri possono pensare che avere capelli oppure no siano solo due possibilità ugualmente normali nell’essere umano, come essere biondi o bruni. Alcuni riterranno che l’alopecia è normale a partire da una certa età, ma deve considerarsi patologica in bambini e adolescenti. Altri penseranno che sia normale per il sesso maschile, ma non per quello femminile. Qualcuno argomenterà che essere calvo non accorcia la vita, non causa dolore né incapacità nel soggetto, pertanto non è una malattia. Ma altri potranno dire che alcune persone calve vengono schernite, hanno vergogna o bassa autostima (“sono complessati”, si diceva qualche anno fa), per cui la calvizie, generando sofferenza, è una malattia.


Sono malattie l’ipertensione arteriosa o il colesterolo alto? Probabilmente sì, a livelli estremi: per esempio la crisi ipertensiva che porta rapidamente complicazioni cerebrali e renali, o alcune iperlipidemie ereditarie che danno livelli molto alti e complicazioni gravi. Tuttavia, strettamente parlando, pressione e colesterolo alto in genere non sono malattie, ma solo fattori di rischio che a lungo andare aumentano la probabilità di soffrire di una vera malattia, come l’angina pectoris o l’embolia cerebrale.


Anche la pelle bianca è un fattore di rischio che aumenta l’incidenza di tumore alla pelle, ma nessuno pensa che essere bianchi sia una malattia. Se al mondo, anziché esserci centinaia di milioni di persone con la pelle bianca, fossimo tutti neri e ogni tanto nascesse un bambino bianco, diciamo uno ogni cinquemila, verrebbe considerato malato? Probabilmente la patologia si chiamerebbe ipopigmentazione cutanea ereditaria o deficit congenito di melanina, dovuta alla mutazione di alcuni geni che regolano il funzionamento dei melanociti, e verrebbe considerata un fattore di rischio per le scottature solari e il tumore alla pelle, oltre a causare rifiuto sociale e bassa autostima.

Ammettendo che ipertensione e colesterolo alto siano malattie, si incontra un altro problema: definire il limite della normalità. Questo succede con tutte le malattie la cui definizione si basa sulla misura di un valore su una scala continua. La polmonite, i tumori, la varicella possono considerarsi malattie dicotomiche: o si contraggono oppure no. Ma il colesterolo, l’ipertensione, il nanismo, l’obesità, la pubertà precoce o l’anemia si basano su una scala continua; è stato definito in forma arbitraria un livello di emoglobina nel sangue che distingue i sani dai malati. Davvero chi ha un livello di emoglobina pari a 11,9 g/dl è anemico e chi lo ha pari a 12 g/dl è sano? Ogni tanto capita che un comitato di esperti modifichi la definizione, e d’un tratto milioni di persone passano da sani a malati o viceversa.


Tutto questo può risultare sorprendente, quasi scandaloso, per alcuni lettori. Ci piacerebbe pensare che essere sani o malati siano cose oggettivamente distinte, e che i medici sappiano come individuare (e curare!) i malati. In realtà i medici sono alle prese da decenni con la difficoltà di definire la malattia (si veda l’articolo di Campbell3, scritto già nel 1976, o il più recente di Smith4) e negli ultimi tempi il problema si è aggravato a causa del marketing dell’industria farmaceutica: le malattie vengono pubblicizzate, “vendute”, incrementate o semplicemente inventate dopo aver creato la medicina che le cura. Quasi nessuno parlava di impotenza prima che fosse inventato il viagra; in seguito l’argomento iniziò ad apparire regolarmente sui giornali e in televisione, personaggi famosi rivelarono pubblicamente il loro problema per aiutare altri uomini a “prendere coscienza”, e subito si inventò un nome, “disfunzione erettile”, più gradevole di “impotenza”. Altre malattie ampiamente pubblicizzate sono menopausa, andropausa, fobia sociale (prima chiamata timidezza), ecc. Se vi interessa l’argomento, vi consiglio il libro Gli inventori delle malattie di Jörg Blench5, o il numero monografico che la rivista scientifica PLoS Medicine ha dedicato nell’Aprile 2006 all’argomento della promozione e vendita di malattie, o disease mongering6.

Il fatto che una determinata situazione venga considerata malattia oppure no ha importanti implicazioni positive e negative, e gli interessi commerciali non sono gli unici in gioco. Alcuni chirurghi che realizzano protesi mammarie assicurano di non attuare semplice chirurgia estetica, ma di curare una malattia che causa molta sofferenza tra le sue vittime: l’ipomastia (cioè avere il “seno piccolo”). Mentre alcune persone, come gli omosessuali, lottano contro l’etichetta di malattia e insistono nel ritenersi perfettamente sani, altre, come gli affetti da “sensibilità chimica multipla”, lottano per essere riconosciuti come malati, in quanto ciò significherebbe avere comprensione, sostegno, cure, eventuale congedo per malattia al lavoro, e soprattutto il riconoscimento di “avere qualcosa davvero” e non essere considerati pazzi (anche se essere pazzi sarebbe di per sé una malattia, ma per molti l’infermità mentale ha ancora connotazioni negative e quella fisica è preferibile). In altri casi, essere considerato sano o malato può avere importanti conseguenze morali e persino penali; non è la stessa cosa essere ubriaco o alcolista, giocatore o ludopatico, incendiario o piromane.


Considerare l’iperattività una malattia può avere ripercussioni positive. Il bambino iperattivo non è più totalmente responsabile delle sue azioni, non può più essere (almeno in teoria) rimproverato e punito come “scapestrato”. Anziché urla e rimostranze, merita rispetto e aiuto particolare. Ma ci possono essere anche conseguenze negative: lo stigma sociale, eventuali difficoltà ad essere ammesso in alcune scuole e forse più avanti nel trovare lavoro, abbassamento dell’autostima, sensazione di non essere “normale”, ecc. E soprattutto, a mio parere, la possibilità di essere trattato con anfetamine e farmaci simili per anni; anche se, naturalmente, i sostenitori di tale trattamento affermeranno che è proprio questo il grande vantaggio della diagnosi di iperattività.


Il campo della psichiatria si presta in modo particolare alla comparsa di malattie controverse. Dov’è il limite tra essere “diverso” o “strano” ed essere “pazzo”? Un mio professore di psichiatria diceva: “L’umanità si divide in psicotici, cioè i pazzi, e nevrotici, cioè le persone di buon senso”.


Quando l’infermità è fisica, il limite può essere arbitrario, ma almeno può essere misurato in forma più o meno oggettiva: si può sapere se la pressione è maggiore o minore di 140-90 mm Hg, o se la glicemia (gli zuccheri nel sangue) a digiuno è più alta o più bassa del valore 126 mg/dl. Ma come si può sapere se un bambino è più attivo o meno attento del “normale”?

E infatti l’iperattività è proprio una delle malattie “inventate” (o almeno, enormemente esagerate) descritte nel libro di Blech, mentre la rivista “PloS” gli ha dedicato un articolo tra quelli sulle malattie “in commercio”. In un articolo intitolato: La medicina va a scuola: gli insegnanti come promotori di malattia per l’ADHD7, Christine Phillips spiega che gli insegnanti hanno un ruolo importante nell’identificare, diagnosticare e persino curare l’iperattività, visto che spesso tocca a loro somministrare il farmaco; e che possono influire sui genitori perché accettino o rifiutino la diagnosi o la cura. Per questo l’industria farmaceutica cerca di fare pressione sugli insegnanti, sia direttamente sia tramite fondazioni e associazioni senza scopo di lucro generosamente sovvenzionate dalle aziende. L’autrice porta degli esempi in inglese, non è difficile trovarne di simili in spagnolo:


www.tdahmexico.com


www.trastornohiperactividad.com


http://www.tdah.net/


Questi siti contengono materiale specifico per insegnanti e anche per famiglie. La prima è una pagina della Novartis, la seconda (che contiene anche un “test di autodiagnosi”) della Janssen, la terza della Rubio. Le tre aziende producono lo stesso farmaco, metilfenidato, con i suoi principali nomi commerciali: Ritalin, Concerta e (in Spagna) Rubifen.


La Phillips segnala che la “promozione di farmaci mascherata da formazione professionale è tanto comune in àmbito medico che molte università insegnano agli studenti di medicina come analizzare in modo critico il materiale promozionale” e propone che chi studia per diventare insegnante riceva lo stesso tipo di formazione.

Stampa sensazionalista e iperattività

Nello stesso numero monografico della rivista PLoS c’è un articolo di Steven Voloshin e Lisa Schwarts che esamina l’utilizzo dei mezzi di comunicazione per la campagna promozionale di un’altra malattia: la sindrome delle gambe senza riposo8. La malattia esiste; si tratta di persone che hanno bisogno di alzarsi durante la notte e camminare un po’ perché avvertono una sgradevole sensazione alle gambe. Ovviamente il problema può essere grave quando gli episodi sono intensi e frequenti, causando insonnia e sofferenza, e alcune persone possono aver bisogno di assistenza medica e trarre beneficio da una cura. Ma per il laboratorio GlaxoSmithKline, che aveva ideato un nuovo farmaco (ropinirol), il numero di malati spontanei non era sufficiente, e nel 2003 iniziò negli Stati Uniti una campagna di “presa di coscienza” delle gambe senza riposo. Si dovevano convincere migliaia di persone con sintomi lievi, che mai se ne erano preoccupati né avevano consultato il medico per questo motivo, di essere malati e avere bisogno di un farmaco.


Voloshin e Schwartz hanno analizzato 33 articoli sulle gambe senza riposo apparsi nei principali quotidiani nordamericani tra il 2003 e il 2005. Le strategie pubblicitarie sono state classificate in tre grandi gruppi:

  • Esagerare l’incidenza (o frequenza) della malattia: accettare acriticamente la definizione di malattia e presunti tassi di incidenza molto alti (dodici milioni di nordamericani!), porre l’enfasi sulle conseguenze più gravi, riportare aneddoti solo relativi ai pazienti più gravi (può portare al suicidio!).
  • Incoraggiare la diagnosi: dire che i medici non conoscono la malattia, che i pazienti non hanno coscienza del problema; pubblicizzare determinate associazioni senza scopo di lucro evitando di precisare che sono sovvenzionate dalle aziende; promuovere l’autodiagnosi, senza menzionare il rischio di sovradiagnosi (cioè di trasformare in “malati” persone che stavano bene e vivevano serene).
  • Suggerire che il trattamento farmacologico è necessario in tutti i casi: esagerare i benefici del farmaco con descrizioni puramente aneddotiche e guarigioni poco meno che miracolose, senza fornire cifre concrete sull’efficacia. Non fornire cifre sui possibili effetti secondari. Non menzionare l’assenza di studi a lungo termine.

Il lettore non pensi che si stia parlando di giornalisti pagati per pubblicare menzogne. Se questo succede, dev’essere molto raro. Sono certo che la maggior parte degli articoli siano stati pubblicati in buona fede. I giornalisti ricevono comunicati stampa, comodi riassunti che facilitano il loro lavoro; sono poi invitati a conferenze e congressi, e ascoltano esperti entusiasti. E neppure costoro probabilmente sono corrotti, nemmeno loro mentono in cambio di denaro. Semplicemente, come in qualunque attività umana, le persone hanno opinioni diverse. Le aziende farmaceutiche cercano i medici dalle cui opinioni possono trarre profitto, e li aiutano: a loro favore pagano i congressi, elargiscono borse di studio o di ricerca, forniscono consulenza e sostegno per la ricerca. Questi medici si fanno una reputazione e una brillante carriera (il numero di pubblicazioni scientifiche è un criterio importante per avere promozioni, per diventare professore o direttore di dipartimento). Il sostenitore di un determinato trattamento farmacologico finisce per diventare esperto dell’argomento, viene invitato a tenere conferenze (di frequente sovvenzionate dalle aziende produttrici) e i giornalisti lo ascoltano e lo intervistano.

Il 22 Gennaio 2013, il quotidiano “El Mundo” ha pubblicato un articolo sull’iperattività9. Pochi giorni prima la mia editrice mi aveva raccomandato di parlare dell’argomento in questo libro, così che scorrendo una rassegna stampa su internet mi è caduto l’occhio su un titolo: Iperattività: via la paura. Via la paura, mi dico, perché non è un problema tanto grave e non richiede tanta medicalizzazione. E invece, sorpresa, l’articolo dice tutto il contrario: via il timore di diagnosticare l’ADHD, via la paura dell’uso di psicofarmaci nei bambini.


E così si è chiuso il cerchio. Ho iniziato a cercare informazioni a partire da un articolo di giornale e sono arrivato a un articolo scientifico che tratta della promozione di malattie da parte della stampa.


L’articolo di “El Mundo” si basa sulla pubblicazione di uno studio da parte di Getahun e collaboratori10, della Fondazione Kaiser Permanente (una sorta di assicurazione sanitaria statunitense che dispone di vari ospedali). La conclusione principale dello studio è che, tra i più di 800.000 bambini assistiti dall’organizzazione tra il 2001 e il 2010, il 4,9% aveva ricevuto una diagnosi di ADHD, e la cifra era aumentata “notevolmente” nel corso di quegli anni. Le diagnosi tra i bianchi erano quasi doppie che tra gli ispano-americani, e i neri si situavano a metà. Basta, la “notizia” è tutta qui, non era stata scoperta una cura né niente del genere. Questo tipo di notizie mediche, a volte piuttosto irrilevanti, a volte troppo premature, arrivano alla stampa non specializzata perché le principali riviste mediche emettono regolarmente comunicati stampa. Il giornalista spagnolo cita correttamente Getahun nel parlare di “dimensioni epidemiche”; ma poi cita svariati esperti spagnoli, tra cui una che sostiene: “L’incidenza di ADHD in età infantile in Spagna è tra il 5% e il 7%, un tasso nella media mondiale che si mantiene stabile da decenni”. In realtà, il numero di diagnosi e di trattamenti farmacologici è salito alle stelle negli ultimi anni, sia in Spagna che negli Stati Uniti; questo fa pensare che l’esperta consultata si avvalga della teoria secondo cui tutti questi bambini iperattivi c’erano anche prima ma non erano diagnosticati. Viene poi nominato Ramón y Cajal11 come esempio di bambino iperattivo, ma a me sembra che senza cura non gli sia andata tanto male. Un’altra esperta afferma: “I farmaci sono la prima scelta da considerare nell’80% di questi giovani” e insiste anche nel “demistificare l’immagine negativa che tali medicinali si portano dietro”. Un altro suggerisce: “Secondo me, la sfida che adesso si pone sono i bambini non diagnosticati. In troppi casi, né i familiari né gli educatori riconoscono il problema.”


Qui si distinguono diverse linee d’azione tra quelle segnalate da Voloshin per gli articoli che pubblicizzano malattie. Si incoraggia la diagnosi, si avverte che il problema non viene riconosciuto, si raccomanda il trattamento farmacologico generalizzato, non si menzionano (anzi, si negano) possibili effetti indesiderati, ecc.


L’entusiasmo degli esperti contrasta con la freddezza della scheda tecnica. Tutti i farmaci hanno un bugiardino, il foglietto che si trova nella scatola, e una scheda tecnica, un documento decisamente più lungo con informazioni destinate ai medici. C’è ancora chi pensa che nel bugiardino le aziende farmaceutiche mettano un po’ quello che vogliono, ma non è così (almeno non è più così da anni). Si tratta di documenti molto seri, supervisionati e approvati dalle autorità sanitarie e simili per tutti i Paesi dell’Unione Europea. La scheda tecnica e il bugiardino di tutti i farmaci sono consultabili sulla pagina web dell’Agenzia Spagnola dei Farmaci e dei Prodotti sanitari: http://www.aemps.gob.es/cima.


Si è appena visto che, secondo un’esperta: “I farmaci sono la prima scelta da considerare”. Ma la scheda tecnica del metilfenidato afferma:

Il trattamento con metilfenidato non è indicato in tutti i bambini con ADHD e la decisione di utilizzare il medicinale si deve basare su una valutazione molto approfondita della gravità e della persistenza dei sintomi in relazione al quadro generale del bambino.La sicurezza e l’efficacia dell’uso a lungo termine [più di dodici mesi] del metilfenidato non è stato valutata sistematicamente attraverso studi controllati.Il metilfenidato non è raccomandato per l’uso in bambini di età inferiore a 6 anni. La sicurezza e l’efficacia del prodotto non sono state stabilite per i pazienti di questa fascia di età.12


Per quanto riguarda gli effetti indesiderati, ai sostenitori del “via la paura” vorrei citare il bugiardino del farmaco Concerta 27 mg13, visto che la scheda tecnica è troppo lunga:


Comune (si manifesta in meno di 1 persona su 10)


Battito cardiaco irregolare (palpitazioni).


Alterazioni o sbalzi d’umore o alterazioni della personalità.


Non comune (si manifesta in meno di 1 persona su 100)


Pensare o avere voglia di suicidarsi.


Percepire o sentire cose che non sono reali – questi sono sintomi di psicosi.


Linguaggio e movimenti del corpo non controllati (sindrome di Tourette).


Segni di allergia come ad esempio eruzione cutanea, prurito o orticaria della pelle, gonfiore alla faccia, alle labbra, alla lingua o ad altre parti del corpo, respiro corto, sibili respiratori o difficoltà a respirare.


Raro (si manifesta in meno di 1 persona su 1.000)


Sentirsi insolitamente eccitato, iperattivo e disinibito (mania).


Molto raro (si manifesta in meno di 1 persona su 10.000)


Attacco di cuore.


Convulsioni (epilessia).


Desquamazione della pelle o comparsa di macchie rosso-violacee.


Contrazioni muscolari non controllabili di occhi, testa, collo, del corpo e del sistema nervoso – ciò è dovuto ad una temporanea mancanza di apporto di sangue al cervello.


Paralisi o problemi con i movimenti e la vista, difficoltà nel linguaggio (questi possono essere segni di problemi ai vasi sanguigni cerebrali).


Diminuzione del numero delle cellule del sangue (globuli rossi, globuli bianchi e piastrine) che può rendere più probabili le infezioni e facilitare sanguinamenti e contusioni.


Aumento improvviso della temperatura corporea, pressione molto alta e convulsioni gravi (‘Sindrome Neurolettica Maligna’). Non è chiaro se questi effetti indesiderati siano causati dal metilfenidato o da altri farmaci che possono essere assunti in combinazione al metilfenidato.


Altri effetti indesiderati (non è noto con quale frequenza si manifestano)


Pensieri indesiderati che tornano in continuazione.

Svenimento senza motivo, dolore al torace, respiro corto (questi possono essere segni di problemi al cuore).14


Questo è solo l’elenco degli effetti indesiderati potenzialmente gravi. C’è un altro elenco, ancora più lungo, di effetti secondari generalmente lievi come mal di testa, nervosismo e difficoltà a dormire (più di uno su dieci), o disorientamento, confusione o visione doppia (fino a uno su mille).


Naturalmente, gli effetti secondari indesiderati molto rari sono, come dice il nome, molto rari. Non dovrebbero spaventarci quando il farmaco è davvero necessario per curare una malattia grave. E le palpitazioni, benché siano molto frequenti, di solito non destano preoccupazioni. Ma il fatto che un paziente su cento possa presentare idee suicide o allucinazioni, non mi pare una cosa per cui si possa dire: “Via la paura dei farmaci”.


Nel 2012, François Gonon15 e collaboratori, del Centro Nazionale di Ricerca Scientifica di Burdeos, hanno pubblicato un articolo dal titolo: Perché gran parte delle scoperte biomediche riportate nelle riviste risulta falsa: il caso della sindrome da deficit di attenzione e iperattività. È una semplice coincidenza; gli autori non sono direttamente interessati all’ADHD, lo hanno solo preso come esempio per condurre una ricerca sulle notizie scientifiche riportate dalla stampa non specializzata.


Per fare ciò, consultando una base dati che copre centinaia di periodici di lingua inglese, hanno identificato i dieci articoli scientifici sull’ADHD che avevano avuto più eco negli anni Novanta. In totale, hanno trovato 223 notizie diffuse dalla stampa a partire da questi dieci articoli. In seguito hanno cercato in una base dati di pubblicazioni scientifiche altri studi posteriori (ne hanno trovati 77) sugli stessi argomenti e hanno verificato se i nuovi dati confermavano o smentivano i dieci studi iniziali. Infine, hanno individuato tutte le notizie (ne hanno trovate solo 57) che divulgavano i risultati dei 77 nuovi studi.


Ebbene, dei dieci studi iniziali, solo due sono risultati confermati: che zucchero e aspartame non causano iperattività e che il consumo di metilfenidato è aumentato negli Stati Uniti. Un altro studio, secondo il quale il metilfenidato avrebbe dovuto avere effetti completamente diversi in bambini iperattivi o sani, effetti rilevabili con una risonanza magnetica, non è stato confermato, né si pensa lo sarà mai visto che l’analisi dettagliata dello studio originale ha rivelato conclusioni probabilmente false. Tre studi sono stati completamente confutati da ricerche successive, in due casi eseguite dagli stessi autori del primo studio: il metabolismo cerebrale del glucosio non risultava alterato, la sindrome da resistenza agli ormoni tiroidei non aveva nulla a che vedere con l’iperattività, e non era possibile individuare l’iperattività mediante una tomografia computerizzata a emissione di fotone singolo. Le conclusioni di altri quattro studi, anche se non confutate, sono state molto ridimensionate da studi successivi: un’ulteriore alterazione genetica non influisce quanto si pensava; gli antidepressivi non sembrano molto utili in caso di iperattività come aveva suggerito un primo studio sui topi; il trattamento con anfetamine non sembra evitare che i pazienti finiscano con l’avere problemi di droga (ne torneremo a parlare più avanti); infine, il trattamento farmacologico non dà risultati tanto migliori rispetto ad altri trattamenti come sembrava (si veda a pag. 138). La maggior parte di questi nuovi studi che contraddicevano i risultati preliminari avevano ottenuto poca o nessuna eco nella stampa non specializzata.


Come segnalano Gonon e collaboratori, nell’insieme, i dieci studi di riferimento presentano un’idea medicalizzata e biologica dell’iperattività: alterazioni genetiche, esami clinici, tomografia, farmaci. Nulla, per esempio, sulla psicoterapia o speciali tecniche educative.


Ma perché, in fin dei conti, la maggior parte delle notizie sulle scoperte scientifiche risultano false? Forse, secondo Gonon, proprio perché sono notizie. I quotidiani pubblicano soprattutto scoperte che fanno notizia. Purtroppo, in medicina le pubblicazioni risultano distorte da un potente vizio: gli studi che danno risultati “positivi” (il farmaco che cura davvero, l’esame che era proprio utile alla diagnosi, il gene che era alterato, ecc.) hanno molte più probabilità di essere pubblicati nelle riviste scientifiche (l’eccellente libro di Ben Goldrace16 analizza in profondità le cause e le gravi conseguenze di questo problema). A volte, per motivi economici, le aziende farmaceutiche possono occultare studi che non le favoriscono. Ma anche quando non c’è denaro in gioco, molti ricercatori sembrano pensare: “Tutto sommato non ho scoperto niente, non vale la pena pubblicare”. Di conseguenza, è più probabile che il primo studio pubblicato su un determinato argomento sia “positivo”. E gli studi negativi che appaiono in seguito ormai non fanno “notizia”.

Le cause dell’ADHD

Un altro argomento che viene portato a favore o contro l’iperattività come “vera malattia” è la sua possibile base biologica. Ho trovato l’argomento usato da entrambe le fazioni. Alcuni parlano di una probabile base genetica e questo, dicono, dimostrerebbe che si tratta di una “vera” malattia17. Ma è un ragionamento assurdo; molte caratteristiche come il colore degli occhi o dei capelli hanno base genetica, e non per questo sono malattie. Gli altri sono all’estremo opposto: l’iperattività, sostengono, non è una malattia perché non vi è nessun esame clinico, né radiografia, né biopsia che risulti alterata, ma è tutto nella mente. È un ragionamento ugualmente assurdo: molte malattie mentali sono solo nella mente; la psicosi maniaco-depressiva o la paranoia non vengono diagnosticate con analisi o radiografie.


No, il fatto di avere una base biologica non ha nulla a che vedere con il considerare l’iperattività una malattia oppure no. Sono state in effetti riscontrate anomalie genetiche ed esiste persino una teoria secondo cui l’iperattività (caratterizzata da interesse diffuso per molteplici argomenti, spirito di esplorazione e curiosità per cose nuove, reazioni rapide, sprezzo del pericolo, ecc.) potrebbe aver avuto dei vantaggi per la sopravvivenza del cacciatore preistorico. Se non fosse così, se un’anomalia ereditaria procurasse solo problemi, difficilmente interesserebbe un 5% o un 10% della popolazione.


Di cacciatori preistorici ne sono rimasti pochi, ma la nostra società permette ancora agli adulti un’ampia varietà di modi di vivere. Alcuni, forse la maggioranza, passano la vita seduti davanti alla scrivania di un ufficio, ma altri si dedicano allo sport o alla musica, vigilano boschi, spengono incendi, pattugliano o puliscono le strade… Ci sono persone che si siedono tutti i giorni per quarant’anni sulla stessa sedia e altre che prendono l’aereo tutte le settimane, c’è chi passa la giornata senza parlare con nessuno e chi sta tutto il tempo in mezzo al pubblico dietro un bancone. Rispettiamo tutti, ognuno ha diritto a vivere la propria vita; molte persone vivono in modo non convenzionale e hanno addirittura la nostra ammirazione.


Il tizio che si vede in televisione mentre caccia serpenti e coccodrilli morirebbe di noia se dovesse lavorare ogni giorno in ufficio. E l’impiegata dell’anagrafe morirebbe di paura se fosse inviata nella foresta in Malesia a cacciare serpenti. Ma entrambi hanno frequentato la stessa scuola, si sono seduti insieme nello stesso banco, hanno dovuto aprire il libro alla stessa pagina per leggere lo stesso paragrafo, fare le stesse quattro divisioni per mercoledì o rispondere alle stesse domande negli stessi esami. Sono sempre stato convinto che i cacciatori di coccodrilli devono essersela passata piuttosto male a scuola. Se si accetta che noi adulti possiamo vivere, lavorare o divertirci in modi tanto diversi, perché si pensa che tutti i bambini debbano apprendere nello stesso modo e adattarsi allo stesso tipo di scuola?


Sì, esiste una base biologica, genetica, per l’ADHD. Ma non è una questione di genetica di base, come il gruppo sanguigno o il fattore Rh; vi sono diversi geni coinvolti (e non tutti noti) che interagiscono in forma variabile con svariati fattori ambientali (neppure questi del tutto noti). Come accade, per esempio, con i geni che predispongono ai tumori o all’ipertensione: con gli stessi geni, il fatto di fumare o di usare molto o poco sale cambia il risultato finale.

Quindi, di fronte al fatto innegabile che negli ultimi decenni il numero di bambini diagnosticati e curati per l’ADHD è straordinariamente aumentato, ci sono due possibilità:

  1. I bambini di adesso sono iperattivi quanto quelli di un tempo, ma prima nessuno se ne rendeva conto, non erano diagnosticati. O avevano altri nomi, li si chiamava rivoltosi, monelli, piantagrane… O forse la nostra società li tollerava meglio e l’iperattività non causava tanti problemi.
  2. I bambini di ora sono più iperattivi di quelli di un tempo; se è così, qual’è il motivo? Cosa abbiamo fatto per rendere nervosi i bambini?

Probabilmente c’è del vero in entrambe le affermazioni. La nostra società esige sempre più uniformità tra i bambini, tollera meno chi è diverso. Adesso per esempio, l’istruzione di base obbligatoria dura fino a diciassette anni. Ai miei tempi arrivava a quattordici. E un secolo fa intraprendere un apprendistato in una bottega a dieci o dodici anni si considerava normale e meritevole. C’erano delle possibilità per chi non si adattava al contesto scolastico, per chi non era “portato per lo studio”. Oggigiorno, c’è solo un’alternativa al successo: il fallimento scolastico.


Neppure era abitudine, qualche decennio fa, rimanere a mangiare a scuola o dedicarsi ad attività extrascolastiche. I bambini hanno sempre meno tempo per il gioco libero, per fare ciò che vogliono, e passano invece più tempo in attività organizzate e sorvegliate da adulti. Prima c’erano solo i maestri, adesso anche allenatori sportivi e animatori. Non solo devono stare sei ore al giorno seduti in un banco ad ascoltare l’insegnante, ma anche per dare un calcio a un pallone occorre ricevere spiegazioni, seguire istruzioni, mettersi dove indicato… Non possono nemmeno più giocare tranquilli, perché c’è qualcuno che gli dice se stanno giocando “bene” o “male”.


Allo stesso tempo stiamo anche facendo cose che rendono i bambini più nervosi: portarli all’asilo nido, fargli vedere la televisione nei primi anni di vita, iperstimolarli. Andiamo con ordine.

Negli Stati Uniti, il NICHD (Istituto Nazionale della Salute del Bambino e dello Sviluppo Umano) ha avviato all’inizio degli anni Sessanta uno studio sulle cure neonatali e la crescita nei giovani. Più di 1.000 bambini in 10 città sono stati seguiti fin dalla nascita in forma intensiva. Già in età prescolare, verso i quattro anni e mezzo, è stato osservato che chi aveva passato più tempo all’asilo (o assistito in altro modo al di fuori della famiglia) aveva più problemi di aggressività, disobbedienza e conflitti con gli adulti, in base alle valutazioni dei maestri e dei rispettivi genitori. I problemi persistevano a quindici anni (Vandell e collaboratori18): quante più ore passate all’asilo, tanta più impulsività e comportamenti a rischio (tabacco, alcolici e droghe).


Non sto dicendo che i bambini che sono andati all’asilo diventeranno delinquenti e tossicodipendenti. Semplicemente che ci sono lievi differenze, ma apprezzabili e statisticamente significative, nei punteggi medi in una serie di valutazioni psicologiche. Non sto dicendo che andare all’asilo provoca l’iperattività. Non sono riuscito a trovare nessuno studio su questo argomento. Credo però che l’impulsività, la disobbedienza e i conflitti con gli adulti, benché non siano una vera e propria ADHD, possano portare a una falsa diagnosi, quando è evidente che le false diagnosi sono tante. E forse avere in classe diversi bambini che sono, in ultima analisi, un po’ più conflittuali, rende gli insegnanti meno pazienti e crea loro più difficoltà nel gestire i bambini iperattivi.


In quanto alla televisione, Christakis e collaboratori, nel 2004, in uno studio su più di 1.000 bambini nordamericani, hanno riscontrato una relazione tra il numero di ore passate davanti alla televisione a un anno e a tre anni, e i sintomi di iperattività a sette anni19. È un tema controverso; nel 2006, Stevens e Mulsow non hanno riscontrato alcuna relazione tra televisione e iperattività in un altro campione di 5.000 bambini nordamericani20. Nel 2010 Cheng e collaboratori hanno invece riscontrato un effetto in quasi 500 bambini giapponesi21: chi a diciotto mesi vedeva più televisione aveva più sintomi di iperattività e meno vita sociale a trenta mesi.


Swing e collaboratori, da parte loro, hanno studiato due gruppi, uno di 1.300 bambini (da sei a dodici anni) e l’altro di 200 adolescenti e giovani adulti (da diciotto a trentadue anni)22, e hanno scoperto che chi passava più ore al giorno davanti a televisione o videogiochi aveva più problemi a mantenere l’attenzione.


Nessuno di questi studi è aleatorio, ossia ciascun bambino vedeva la televisione quanto voleva o quanto i genitori gli permettevano, e non secondo le indicazioni del ricercatore; pertanto non si può affermare che l’associazione sia causale. Forse il tipo di genitori che lascia i bambini piccoli molte ore davanti alla televisione li tratta anche in altro modo nel resto del tempo. Forse l’importante non è quanto tempo si guarda la televisione, ma quanto se ne perde a non fare cose migliori come muoversi, giocare o parlare con altri bambini o adulti. Potrebbe persino esserci una relazione inversa: forse i bambini erano già iperattivi prima di vedere la televisione, e proprio per questo i genitori, disperati, hanno provato con i cartoni animati per farli stare un po’ tranquilli.


Una teoria interessante è che le immagini in televisione (come nei film, al computer e nei videogiochi) cambiano troppo rapidamente. I neonati vedono già dal primo giorno, ma hanno bisogno di anni di pratica e gioco per imparare a comprendere ciò che stanno vedendo: valutare distanze, dimensioni, movimenti. Capire che un oggetto è lo stesso anche se sembra diverso visto da un’altra angolazione o in un’altra luce. Per fare un’analogia, anche se piuttosto approssimativa, il cervello del bambino è come un computer su cui non sia stato installato il software. Ciascun bambino costruisce il programma di riconoscimento visuale tramite le reiterate esperienze dei primi anni. Ma la televisione e gli altri teleschermi forniscono esperienze visuali completamente diverse rispetto a ciò che è normale vedere nella vita quotidiana, e non permettono al cervello di programmarsi in modo adeguato. Qual’è la scena più movimentata e concitata che possiamo osservare nella vita reale? Una partita di calcio? Fondamentalmente si tratta di un fondo verde, tutto verde, in cui poche figure multicolori si muovono lentamente. E la maggior parte delle cose che un piccolo osserva ogni giorno sono ancora più statiche; il volto della madre che sorride e muove le labbra, un giocattolo che il bambino stesso muove su uno sfondo immobile. Guardate invece la televisione per un minuto: spesso la scena cambia completamente nel giro di pochi secondi, un primo piano di un viso, poi di un altro viso, un campo lungo su una scena di guerra, un’esplosione, una macchina a tutta velocità, improvvisamente una pubblicità di yogurt…

Nel 2011, riconfermando precedenti raccomandazioni del 1999, l’Accademia Americana di Pediatria (AAP) ha suggerito che i bambini minori di due anni non guardino televisione (né film, né computer o altri teleschermi)23. E qui ci si ricollega al tema dell’iperstimolazione. Esistono trasmissioni televisive e DVD che si dichiarano educativi e vengono pubblicizzati come diretti principalmente ai bambini piccoli. Questo è ciò che dice la AAP a riguardo:


Il tempo di gioco non strutturato è più prezioso per il cervello in fase di sviluppo rispetto all’esposizione a qualunque mezzo elettronico.


Gioco non strutturato. Gioco in cui il bambino può fare ciò che vuole, quando vuole, senza dover seguire le assurde regole degli adulti. Perché il gioco è troppo importante per lo sviluppo del bambino.


Qualche decennio fa si era visto che i bambini poco stimolati avevano seri ritardi nello sviluppo psicomotorio. “Poco stimolati” si riferiva a bambini in stato di semiabbandono, per esempio in orfanotrofi con poco personale (nei buoni orfanotrofi i bambini sono sufficientemente stimolati). Si riferiva all’assenza di stimolazione normale, quella che riceve qualsiasi bambino tutti i giorni. Sfortunatamente l’idea si è deformata passando di bocca in bocca, fino a diventare una cosa del tipo: “Se stimolate molto il vostro bimbo, diventerà un genio”.


No, ciò di cui ha bisogno un bambino piccolo non è un vortice di luci e suoni senza senso che gli solleciti al massimo i neuroni. Ha bisogno di calma, tempo, situazioni reali, cose che cambiano lentamente e tempo per rifletterci, e la presenza dei genitori che gli rispondono, lo guidano e lo aiutano a interpretare il mondo. E non pensate di non saper fare queste cose e che dovrete leggere un libro o fare un corso sulla stimolazione psicomotoria, perché è facilissimo e lo sanno fare tutti. L’hanno fatto i nostri nonni e i trisnonni dei nostri trisnonni: all’inizio, semplicemente, abbracciavano il figlio e lo cullavano, sussurrando e cantando, più avanti gli mostravano cose, gli sorridevano e lo incoraggiavano, poi gli raccontavano storie, gli mostravano disegni e ponevano sottotitoli al mondo. Ma solo per un po’. Soprattutto erano presenti, e lasciavano che il bambino seguisse il suo ritmo.


A volte neonati e bambini hanno bisogno che i genitori stiano lì, al loro fianco, parlando, guardandoli e interagendo in forma diretta; altre volte hanno bisogno di essere lasciati in pace. Non soli, ma in pace. Hanno bisogno di essere presi in braccio in silenzio, o che rimaniamo vicini, disponibili, magari dicendo qualcosa ogni tanto, ma lasciandoli esplorare il mondo o meditare.


Adesso c’è una sorta di paura del vuoto, come la necessità di riempire ogni ora del bambino. Che non si annoi! Che non perda tempo! Ma annoiarsi e perdere tempo sono cose importanti. Ricordo di aver passato ore felici nella mia infanzia guardando gocce di pioggia scivolare sui vetri, o ascoltando il suono del vento tra i rami degli alberi. “Stai di nuovo pensando ai toporagni” mi diceva mio padre, o “Sei in Babia”24, ma per fortuna non aveva soldi per iscrivermi a nessun attività. Di sicuro sono passati decenni prima che scoprissi che il toporagno è un piccolo mammifero e la Babia una regione della Spagna nella provincia di León.


Catherine L’Ecuyer, nel suo libro Educare allo stupore25, argomenta che non è molto logico pretendere di “stimolare” di continuo neonati e bambini piccoli e poi sorprenderci del fatto che non stiano tranquilli.

La diagnosi di ADHD

La diagnosi di ADHD si basa su una serie di criteri, per esempio (ne esistono anche altri) quelli pubblicati nell’anno 2000 dall’American Psychiatric Association nella quarta edizione del loro Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM-IV). Ci sono nove possibili sintomi di disattenzione, sei sintomi di iperattività e tre sintomi di impulsività. Per essere diagnosticato un bambino deve presentare almeno sei sintomi di disattenzione (forma disattentiva) o sei tra iperattività e impulsività (forma iperattiva), o entrambe le cose (forma combinata). I sintomi devono essere presenti per almeno sei mesi “a un grado inadeguato e inappropriato al livello di sviluppo [psicomotorio]”. Inoltre, alcuni sintomi devono essere apparsi prima dei sette anni, devono causare problemi in due o più ambienti (come casa e scuola) e devono esserci prove chiare di incapacità clinicamente significativa nel funzionamento sociale, scolare e lavorativo; i sintomi, poi, non devono essere causati da altre infermità mentali.


Mentre scrivo questo libro (Maggio 2013) è apparsa la nuova versione, il DSM-5. I sintomi dell’ADHD sono gli stessi, ma è cambiato il criterio dell’età di esordio: ora i sintomi devono essere apparsi prima dei dodici anni.


Alcuni esempi di sintomi:


Disattenzione:


Spesso non presta molta attenzione ai dettagli o commette errori di distrazione nelle mansioni scolastiche, o in altri compiti e attività.


Spesso ha difficoltà a mantenere l’attenzione nei compiti che svolge o nei giochi.


Spesso è facilmente distratto da stimoli esterni.


Iperattività:


Spesso si alza dalla sedia in classe e in altre situazioni in cui ci si aspetta che rimanga seduto.


Spesso parla troppo.


Impulsività:


Spesso risponde prima che sia finita la domanda.


Come potete vedere, non si tratta solo di una definizione arbitraria, ma di una lunga catena di arbitrarietà. Come se definissimo l’ipertensione “pressione arteriosa alta” senza fornire una cifra. Che grado di intensità si considera “inadeguato” per ciascun sintomo? Cos’è una “difficoltà a mantenere l’attenzione”? (per quanto tempo occorre mantenere l’attenzione? In che ambiti? Ha un deficit di attenzione un bambino che si distrae in classe ma può vedere per intero un film o una partita di calcio? Tutti gli insegnanti hanno le stesse capacità didattiche, o ce ne sono alcuni che sanno mantenere l’attenzione degli scolari meglio di altri?). Che frequenza si intende con “spesso”: ogni giorno, diverse volte al giorno, una volta alla settimana? Quante parole all’ora occorre pronunciare per “parlare troppo”? Tutto dipenderà dalle aspettative del professionista che redige la diagnosi; davanti allo stesso bambino, un medico o un maestro potrà dire che è “iperattivo”, e un altro che è “vivace” o “impaziente”, o addirittura che “è un bambino normale”.


Il fatto di aver stabilito dei criteri diagnostici numerati e messi nero su bianco sembra dare credibilità alla questione. Ma non è così. Tra l’affermazione: “Questo paziente è molto pallido” e la misura dell’emoglobina nel sangue c’è una differenza sostanziale; è stato fatto un’esame oggettivo per confermare o scartare il sospetto di anemia. Ma rispondere “sì” o “no” ai diciotto criteri diagnostici non costituisce una prova oggettiva; semplicemente, la considerazione soggettiva iniziale “questo bambino sembra iperattivo” è stata suddivisa in altre diciotto considerazioni ugualmente soggettive: “questo bambino sembra alzarsi spesso dalla sedia”, “questo bambino sembra parlare troppo”, ecc.

Alcuni ricercatori stanno provando a realizzare dei test di laboratorio che permettano di individuare questi “geni dell’iperattività”; potete leggere la notizia nella pagina web del Servizio Comunitario di Informazione in materia di Ricerca e Sviluppo dell’Unione Europea26.


Non si sa ancora come finirà questa storia. Ma se davvero alla fine si giungerà a commercializzare questo “chip a DNA” per la diagnosi dell’iperattività, non sono molto sicuro che sarà utile. La relazione tra geni e iperattività è ben lontana dall’essere esclusiva. Neppure in altri aspetti puramente biologici, come il colore dei capelli o della pelle, le cose sono tanto semplici come sembravano nei fondamenti di genetica studiati alle superiori. Figuriamoci se si tratta di una questione di comportamento, in cui senza dubbio influiscono anche cultura, contesto, famiglia e scuola. Ci saranno quindi bambini iperattivi per cui il test genetico risulterà nella norma, e altri apparentemente normali, per cui risulterà alterato.


Il bambino che non sta attento in classe, non finisce i compiti, non sta tranquillo un attimo, ma ha il test del DNA normale, non si vedrà privato della protezione della diagnosi? Se non è iperattivo, allora cos’è? Un attaccabrighe, un bugiardo, un maleducato? Non riceverà punizioni anziché aiuto? E al contrario, se un bambino dal comportamento normale ha “i geni dell’ADHD”, come sarà trattato da genitori e insegnanti? Non finirà per compiersi inevitabilmente la profezia, visto che tutti si aspettano problemi da un momento all’altro?


Come dite? Nessuno gli avrebbe fatto il test se non avesse avuto sintomi di iperattività? Speriamo che sia così, che questo test del DNA sia solo una procedura costosa e complicata usata a scopi di ricerca. Ma se verrà commercializzato e sarà veloce e semplice come il test di gravidanza, subito spunteranno le proposte di fare il test ai fratelli dei bambini iperattivi, e poi a cugini e altri parenti, e le stesse aziende farmaceutiche che ora propongono il test di autodiagnosi nelle loro pagine web, non esiteranno a raccomandare anche un semplice test del DNA. Persino se sarà venduto solo dietro ricetta medica i genitori potranno fare pressioni sul pediatra per ottenerlo, o acquistarlo su internet. Garantito che qualche esperto iperentusiasta finirà per proporre questo benedetto test a tutti i bambini all’inizio della scuola primaria.

Evoluzione e trattamento

Un altro argomento per considerare l’iperattività una malattia sono le sue conseguenze. I bambini con ADHD prendono brutti voti e quando prendono anfetamine migliorano; questo dimostrerebbe che la malattia è reale e il trattamento efficace.


È vero, in vari studi si riscontra che i bambini iperattivi vanno male a scuola. Ma per definizione sono bambini che non stanno attenti a lezione e non finiscono i compiti: certo che prendono brutti voti! Più che una malattia è una petizione di principio (cioè un errore logico che consiste nel porre come premessa ciò che si vuole dimostrare). Negli Stati Uniti, come abbiamo visto, un adolescente maschio su cinque è già stato diagnosticato. Il sistema scolastico appare inadeguato per un allievo su cinque, ma anziché modificare il sistema scolastico si preferisce trattare i ragazzi con anfetamine.


E, d’altra parte, molti altri fattori abbassano il rendimento scolastico: la classe sociale, i quartieri problematici, le aule gremite, la mancanza di aiuto dei genitori, i cattivi insegnanti, ecc. Ma tutti questi fattori non sono considerati “malattie”.


Quanto è efficace il trattamento con anfetamine? Internet è pieno di genitori e giovani che riferiscono l’esperienza dei figli o la propria, da chi vede il trattamento come un incubo devastatore a chi lo vede come una magica salvezza. Ma in medicina non ci si deve accontentare delle esperienze aneddotiche; servono studi ben fatti. E il problema è che ce ne sono pochissimi.


Uno dei migliori è lo statunitense MTA (Multimodal Treatment Study), realizzato nel corso di decenni da sei unità di ricerca indipendenti in collaborazione con l’Istituto Nazionale di Salute Mentale e il Dipartimento dell’Istruzione degli Stati Uniti. Al MTA hanno partecipato quasi 600 bambini da sette a nove anni, diagnosticati da specialisti con criteri rigorosi. Sono stati destinati, in modo casuale, a quattro possibili trattamenti:

  1. Trattamento psicologico consistente in una sessione di formazione per i genitori, un campo estivo specializzato per i bambini e la collaborazione di un esperto con il maestro durante l’anno scolastico.
  2. Trattamento farmacologico con metilfenidato, anfetamina o (raramente) altri farmaci, con un rigido protocollo per la determinazione della dose più adeguata in ciascun caso: nel primo mese si somministravano dosi diverse di metilfenidato o placebo, a doppio cieco (senza che medici, genitori e maestri sapessero cosa stesse prendendo il bambino in un dato giorno). Un bambino su nove in questo gruppo non ha mai preso farmaci perché era già migliorato molto con il placebo.
  3. Trattamento combinato: i due precedenti insieme.
  4. Trattamento in comunità: semplicemente è stato consegnato ai genitori un referto e loro si sono rivolti al medico o allo psicologo che preferivano. Anche due terzi di questi bambini hanno ricevuto farmaci, soprattutto metilfenidato, anche se in genere in dosi un po’ più basse.

I primi risultati, dopo quattordici mesi, sono stai pubblicati nel 199927. L’articolo comincia col dire che “l’ADHD colpisce dal 3% al 5% dei bambini in età scolare” (bei tempi, quando l’avevano solo meno del 5% dei bambini, e non dal 10% al 20% come ora! E non sono passati neppure quindici anni). Nei quattro gruppi c’erano stati notevoli miglioramenti. I bambini che avevano ricevuto il trattamento farmacologico o combinato erano migliorati più di quelli che avevano ricevuto solo il trattamento psicologico o in comunità. Ma anche il trattamento psicologico era migliore di quello in comunità, nonostante il fatto che la maggior parte di questi, se ben ricordate, avesse anche assunto farmaci; questo significa che un buon trattamento psicologico è più efficace di un trattamento “normale” con farmaci, cioè quello che sono soliti ricevere i bambini nella vita reale.


Lo studio non è finito lì. Nel 200428, dopo ventiquattro mesi, i vantaggi del trattamento farmacologico si erano ridotti della metà. Soprattutto in coloro che avevano abbandonato il trattamento. Ma coloro che avevano continuato a prendere farmaci mostravano una minor crescita in altezza. In questo momento (dopo ventiquattro mesi di trattamento) si è scelto un gruppo di controllo di quasi 300 bambini confrontabili (compagni di classe) non affetti da ADHD.


Nel 2007 sono stati pubblicati i risultati dopo tre anni di svolgimento29: non c’erano differenze tra i quattro gruppi iniziali. Nel gruppo farmacologico e in quello combinato il numero di bambini che assumevano farmaci si era abbassato, nel frattempo, passando dal 91% al 71%, mentre nel gruppo con trattamento psicologico l’uso di farmaci era aumentato dal 14% al 45%, e nel gruppo trattato in comunità si era mantenuto stabile intorno al 60%.


Infine nel 2009 arriva l’ultima puntata (per il momento), con i risultati dopo sei e dopo otto anni (cioè, quando i ragazzi avevano tra tredici e quindici anni, e quando ne avevano tra quindici e diciassette). Non ci sono differenze con i quattro diversi trattamenti: né per i voti scolastici, né per gli arresti da parte della polizia, né per l’ospedalizzazione psichiatrica. Più della metà di chi prendeva medicinali li aveva nel frattempo abbandonati, ma, anche tenendo conto di questo fattore, non vi erano differenze tra i gruppi (in altre parole, continuare a prendere farmaci per anni non dava risultati migliori).


Riassumendo, anche se nel corso di pochi mesi il trattamento con anfetamine può sembrare efficace, nel lungo periodo il risultato non cambia. Un bambino non si perde granché se non viene trattato. Gli autori segnalano “la necessità di sviluppare trattamenti efficaci, accessibili e duraturi”. Bisognerà svilupparli, perché al momento non esistono.


Confrontando l’insieme di adolescenti affetti da ADHD (tutti insieme, visto che i quattro trattamenti si mostravano equivalenti) con il gruppo di controllo dei compagni di classe non iperattivi, i primi presentavano punteggi peggiori in quasi tutti i parametri. Ma non è un divario come tra la notte e il giorno. Nella scala che misura la gravità dei comportamenti violenti (che va da 1 a 5) si posizionano a 1,62 contro 1,10. Arrestati dalla polizia sono il 19,8% contro l’11,6% (negli Stati Uniti l’11% degli adolescenti “normali” sono stati arrestati qualche volta! Non riesco a crederci). Hanno ripetuto l’anno scolastico nella misura del 37,3% contro il 17,9%.

Iperattività, farmaci e droga

Si è osservato che tra adolescenti e giovani iperattivi vi è una maggior frequenza di incidenti, abuso di stupefacenti, teppismo e attività delittuose. Ma se questo dimostra l’esistenza di una malattia, allora anche essere nati in determinati quartieri o classi sociali è una malattia. Al massimo si può dire che l’iperattività è un fattore di rischio per certi problemi, ma di certo non una “condanna”.


Vedremo in dettaglio uno di questi studi, realizzato negli Stati Uniti da Christine Walther e collaboratori30. Sono stati confrontati 142 adolescenti (da tredici a diciotto anni) con ADHD, seguiti fin dall’infanzia, con altri 100 adolescenti sani. Quasi tutti erano maschi. Sono stati intervistati figli e genitori, insieme e separatamente, e sono state misurate le seguenti variabili:

  • Conoscenza che i genitori hanno dei propri figli, proponendo ai figli il questionario PACAI (Conoscenza parentale delle attività e interessi dei figli), con domande come: “Sanno davvero chi sono i tuoi amici?” o “Sanno davvero dove passi il tempo libero?”.
  • Coerenza dei genitori, con il questionario CRPBI (Test sui comportamenti parentali riportati dai figli), con enunciati come: “I miei genitori dimenticano subito le regole che hanno posto” o “I miei genitori cambiano idea in modo da esserne avvantaggiati”.
  • Sostegno dei genitori, tramite il Test sulle relazioni, con domande come: “Tua madre ti dà buoni consigli quando hai problemi?” o “Puoi fare affidamento sul fatto che tuo padre sarà con te qualsiasi cosa succeda?”.
  • Conflitti tra genitori e adolescenti, tramite il Questionario sui comportamenti conflittuali, con enunciati come: “Mia madre urla molto” o “Sembra che non siamo quasi mai d’accordo”.

E per quanto riguarda il comportamento dei ragazzi, si è misurato:

  • L’abuso di sostanze (alcolici, tabacco e marijuana), con domande come: “Negli ultimi sei mesi, quante volte ti sei ubriacato?” o “Quante sigarette al giorno hai fumato nell’ultimo mese?”.
  • Teppismo e altri comportamenti problematici, proponendo questa volta alla madre il Questionario sul comportamento dei figli (CBCL), per verificare con che frequenza il figlio aveva fatto, negli ultimi sei mesi, cose come dire bugie, marinare la scuola o andare con persone che si mettono nei guai.

(A proposito, in riferimento a questi comportamenti l’articolo usa la parola inglese delinquency, che mi è parsa un po’ esagerata, visto che per me un delinquente è chi ruba, uccide, spaccia droga o, in sostanza, commette un crimine. Ho cercato la parola in un dizionario di lingua inglese e con mia sorpresa viene definita come: “Violazione o misfatto, in genere di piccola entità, solitamente commesso da una persona giovane”. Immediatamente capisco che “delinquenza giovanile” non è la traduzione corretta di juvenile delinquency. È un errore di traduzione, un “falso amico”. In realtà sarebbe più appropriato parlare di “comportamenti problematici giovanili”, mentre ciò che noi chiamiamo delinquenza in inglese si chiama crime. Capisco che per più di quaranta anni, da quando ho sentito quest’espressione per la prima volta da bambino, l’ho considerato un problema più grave di quello che è in realtà, che i sociologi anglosassoni stanno parlando di ragazzi che dicono bugie e marinano la scuola, mentre qui stiamo pensando a ragazzi che si prendono a coltellate. Il linguaggio influisce sulle categorie mentali e sul nostro modo di vedere e comprendere il mondo).

Risultati: sì, gli adolescenti con ADHD erano maggiormente soggetti a tutti i comportamenti problematici. Nel consumo di alcolici avevano un punteggio medio di 1,84 contro il valore 1,43 del gruppo di controllo. La differenza è poca ed entrambi i punteggi sono bassi, visto che i valori non partono da zero, ma da 1 (non si ubriaca mai) e arrivano a 9 (più di due volte alla settimana). Neppure con il tabacco ci sono grossi problemi né grandi differenze: 2,0 contro 1,39 su una scala che va da 1 (non fuma) a 7 (due pacchetti al giorno o più). La differenza era un poco più grande con l’uso di marijuana, 2,74 contro 0,67, su una scala che va da 0 (non consuma) a 9 (più di due volte alla settimana).


Negli altri comportamenti problematici, la differenza può sembrare maggiore se si guardano solo le cifre, 3,96 contro 1,0. Ma la scala in questo caso contemplava tredici possibili comportamenti, ognuno dei quali poteva avere come punteggio 0 (non l’ha mai fatto), 1 (un po’ o qualche volta), 2 (abbastanza o molto). Dei punti non è stata fatta la media, ma la somma. Il punteggio individuale quindi poteva avere un valore da 0 a 26, di modo che una media che non arriva a 4 è piuttosto bassa.


Intanto quindi si vede che, anche se i ragazzi con iperattività hanno qualche problema durante l’adolescenza, in genere non sono problemi né molto gravi né molto frequenti. Ora immaginate che la notizia fosse apparsa sui giornali, e per di più con una traduzione poco accurata. Quale sarebbe stato il titolo? Probabilmente: “I bambini iperattivi diventano giovani delinquenti”. Che effetto vi fa?


Ma non siamo ancora arrivati alla parte più importante dello studio, quella che confronta il comportamento dei genitori con gli effetti sui ragazzi. Il grado di conoscenza dei figli da parte dei genitori (cioè fondamentalmente il fatto che i genitori siano al corrente di dove sono e cosa fanno i figli) si relazionava con migliori risultati in tutti gli ambiti (soprattutto meno alcolici e teppismo, e anche meno tabacco e marijuana), sia per gli iperattivi che nel gruppo di controllo. E la combinazione complessiva delle buone pratiche parentali (conoscenza, coerenza, sostegno e pochi conflitti) si relazionava con meno comportamenti problematici.


In altre parole: l’iperattività favorisce alcuni problemi nei bambini, ma non è assolutamente detto che debbano averne. E le attenzioni dei genitori, il fatto di occuparsi di loro, di ascoltarli, può prevenire molte difficoltà.


I farmaci più usati nel trattamento dell’ADHD appartengono al gruppo delle anfetamine. I nomi commerciali sono già famosi: Ritalin (metilfenidato, in Spagna commercializzato come Rubifen, Mediknet o Concerta) e Adderall (una miscela di anfetamina e dextroanfetamina non commercializzata in Spagna).


Il metilfenidato diminuisce i sintomi di ADHD, e questo per alcuni sarebbe una prova che siamo di fronte a una vera malattia: se si cura, vuol dire che c’era una patologia. Ma in realtà, assumere anfetamine per andare meglio a scuola non è una novità. Quando frequentavo l’università andava di moda prendere anfetamine per studiare in tempo di esami; i professori ci avvertivano del pericolo e personalmente non ne ho mai fatto uso. Oggigiorno le anfetamine sono passate di moda soprattutto perché sono state ritirate dal mercato (non erano fabbricate clandestinamente, ma acquistate in farmacia), e alcuni studenti usano il metilfenidato con lo stesso proposito. È un farmaco che aumenta la capacità di attenzione e concentrazione in tutti, non solo negli iperattivi, e quindi il fatto che qualcuno si concentri di più dopo averlo assunto non dimostra che fosse malato.

In Spagna, il Ministero della Sanità ha inserito, nel 2011, il metilfenidato nel suo rapporto sulle droghe emergenti31. Negli Stati Uniti è già “emerso” da tempo, e costituisce un importante problema di salute pubblica e un’importante causa di dipendenza32.


In un episodio de I Simpson, genitori, maestri e medici insistono perché Bart prenda il “Focusin”, nome di fantasia per evitare problemi legali, suppongo, ma il riferimento al Ritalin è chiaro. Gli sceneggiatori giocano sul fatto che in inglese una sola parola, drug, indica sia le droghe illegali che qualsiasi medicina. Così la madre insiste: “Dì di sì alla droga”, la droga meravigliosa che trasforma il mascalzone e il buffone della classe in uno scolaro esemplare.


Il giornalista Alan Schwarz ha dedicato al problema del metilfenidato una serie di articoli sul “New York Times”33. Denuncia come alcuni dei “pazienti” affetti da ADHD abbiano simulato deliberatamente i sintomi per ottenere la diagnosi e la prescrizione dei farmaci. Vogliono la droga per preparare gli esami, per essere in grado di fare la nottata e riuscire a finire i compiti, per prendere voti migliori alla scuola secondaria e poter così entrare in una buona università. Le pillole avanzate sono oggetto di un traffico attivo. I veri pazienti si lamentano di essere tartassati, in tempo di esami, dai compagni di classe che li supplicano per qualche pillola. Uno degli articoli riporta in dettaglio la storia di un giovane che ha finto la malattia per ottenere le pillole, le ha ottenute facilmente con visite psichiatriche di appena cinque minuti, è diventato dipendente da anfetamine, ha sperimentato gravi effetti secondari (psicosi e paranoia) e infine si è suicidato.


L’UNODC, ufficio delle Nazioni Unite per il Controllo della Droga e la Prevenzione del crimine, ha pubblicato nel 2007 un documento sulla prevenzione del consumo di anfetamine34. In base ai loro calcoli, 35 milioni di persone nel mondo fanno uso illegale di anfetamine, più di quelli che fanno uso di cocaina (13 milioni) e oppiacei (16 milioni) messi insieme. Gli studenti usano soprattutto compresse di Ritalin e Adderall; in strada e in discoteca sono più diffuse lo speed (metanfetamina) o l’estasi (metilendiossimetamfetamina).

Si è visto più sopra che negli Stati Uniti esistono enormi differenze nel numero di diagnosi (e trattamenti) di ADHD tra i diversi stati. Sulle prime mi ha sorpreso una distribuzione che pareva contraria all’intuito. Si pensa all’iperattività (o più esattamente, alla diagnosi di iperattività) come a qualcosa di moderno, legato allo stress delle grandi città. Invece risulta che l’incidenza più bassa si ha negli stati ricchi e altamente urbanizzati come California, Nevada (Las Vegas), Colorado (Denver) o New Jersey, mentre l’incidenza più alta compete agli stati rurali e relativamente poveri come Carolina del Nord, Louisiana, Alabama o Mississippi. Un altro articolo di Schwarz mi ha suggerito una possibile spiegazione per questo paradosso: alcuni medici prescrivono anfetamine ai pazienti più sfavoriti, che siano iperattivi oppure no, nel tentativo di evitare il fallimento scolastico e offrire loro la possibilità di frequentare scuole superiori. Un pediatra di una cittadina nei dintorni di Atlanta lo spiega così: “Non ho molta scelta. Come società abbiamo deciso che ci costa troppo modificare l’ambiente del ragazzo, e quindi dobbiamo modificare il ragazzo”. E il sovrintendente di un distretto scolastico in California afferma che le diagnosi di ADHD sono aumentate con l’abbassarsi dei fondi destinati all’istruzione: “[…] magari un medico vede un bambino in difficoltà in un’aula affollata con altri quarantadue bambini e i genitori, disperati, gli chiedono cosa si può fare; e allora dice: ‘Potrebbe essere ADHD, proviamo a fare il test’”.


L’ADHD predispone al consumo e all’abuso di droghe illegali. Ma questo accade perché l’iperattività porta l’adolescente a “provare cose nuove”, o piuttosto perché in una società che pretende bambini tranquilli, l’iperattivo entra in conflitto con genitori e scuola e questo lo costringe alla marginalità? Non posso dirlo, ma ho dei sospetti.


Era diffusa l’idea che il trattamento con stimolanti (anfetamine o metilfenidato) potesse di fatto aumentare il consumo di altre droghe. Nel 1999, Joseph Biederman e collaboratori, dell’Hospital General del Massachusetts, hanno annunciato con grande gioia che non è così: di fatto il trattamento farmacologico per l’iperattività riduce il rischio di tossicodipendenza35. Il loro studio non è molto esteso: 56 ragazzi (aventi un’età media di 17,2 anni) trattati con stimolanti, 19 (età media di 18,5 anni) con diagnosi di ADHD ma non trattati, e un gruppo di controllo di 137 ragazzi sani (età media di 19,2 anni), tutti maschi bianchi non ispano-americani, seguiti per quattro anni e con un’età di almeno quindici anni al termine dello studio. Alla fine del periodo in esame, il 18% dei ragazzi del gruppo di controllo, il 25% degli iperattivi trattati e il 75% degli iperattivi senza trattamento abusavano o erano dipendenti da almeno una delle cinque droghe considerate (alcool, marijuana, allucinogeni, stimolanti, cocaina). E, rispettivamente, il 16%, 34% e 32% abusavano di tabacco o ne erano dipendenti. In altre parole, il trattamento con anfetamine diminuisce il rischio di dipendenza da varie droghe, ma non influisce sul rischio di tabagismo. Mi sembrano percentuali molto alte, anche nel gruppo di controllo dei sani, visto che si misura solo l’abuso o la dipendenza (diagnosticata con criteri rigorosi, come intossicazione frequente, sintomi di astinenza, fallimento del tentativo di smettere) e non il semplice consumo, che risulterebbe ancora più alto. C’è da chiedersi in che tipo di quartieri vivessero questi ragazzi (lo studio non lo specifica). Si noti anche che l’uso o la dipendenza da stimolanti non comprende le anfetamine prescritte, visto che in tal caso il 100% dei ragazzi in trattamento starebbe assumendo droga per definizione. Anche se gli autori concludono affermando di non sapere cosa succede su un periodo più lungo, o con ragazzi di altri gruppi etnici, o con le ragazze, le loro conclusioni sono state ampiamente riportate come dimostrazione dei vantaggi del trattamento.


In seguito però sono apparsi nuovi studi che per lo più non confermavano il lavoro di Biederman. Per esempio, Ken Winters e collaboratori, del Minnesota, hanno seguito 149 pazienti con ADHD per quindici anni36. Al termine dello studio, i giovani non trattati presentavano meno dipendenza o abuso di alcolici (33% contro 50%), tabacco (54% contro 67%) e quasi uguale di marijuana (24% contro 25%) e altre droghe (6% contro 8%). Visto che le differenze non sono in nessun caso statisticamente significative, non si può neppure affermare che l’assunzione di farmaci abbia aumentato la tossicodipendenza, e gli autori concludono semplicemente che “il trattamento con stimolanti non crea un significativo rischio futuro di abuso di sostanze”.


Infine, nel 2008, Biederman e collaboratori hanno pubblicato un nuovo studio37 con gli stessi ragazzi del primo (tutti maschi bianchi), più qualche altro ragazzo (in totale 85 trattati con stimolanti e 25 non trattati), ma questa volta seguiti per dieci anni, anziché quattro. E non è stata riscontrata nessuna differenza significativa, anche se la tendenza era verso un maggior abuso di droghe tra coloro che avevano assunto anfetamine. La conclusione è piuttosto modesta: “Non ci sono prove che il trattamento con stimolanti aumenti o diminuisca il rischio futuro di abuso di droghe”. E questo, insisto, senza contare come “droga” le anfetamine prescritte.


Viviamo in una società in cui si può togliere una medaglia a un atleta professionista per aver preso una pillola per correre di più, ma che è capace di somministrarla a un bambino di sei anni perché stia più attento a lezione.

Esercizio fisico e iperattività

Vari studi eseguiti negli ultimi anni indicano che l’esercizio fisico può migliorare i sintomi dell’ADHD.


Per esempio, Pontifex e collaboratori hanno studiato 40 bambini da otto a dieci anni, 20 iperattivi e 20 sani come gruppo di controllo, che alternativamente dovevano fare esercizio fisico o sedersi a leggere un libro per venti minuti38. Tutti i bambini, sia iperattivi che sani, hanno mostrato più concentrazione in un compito che richiedeva attenzione dopo aver fatto esercizio, e hanno anche risposto meglio a un piccolo esame di ortografia e matematica.


Wigal e collaboratori hanno riesaminato gli studi su esercizio fisico e ADHD e hanno proposto l’ipotesi secondo cui l’esercizio fisico agisce sulle medesime strutture cerebrali stimolate dall’anfetamina39 (ma invece di avere effetti secondari negativi, li ha positivi: diminuisce l’obesità, il colesterolo, la pressione arteriosa, ecc.). Spiegano che in una scuola canadese ci sono tapis roulant per correre in modo che gli scolari possano fare esercizio durante le lezioni.


Anche se gli studi scientifici sono recenti, gli insegnanti sanno da molto tempo che l’esercizio migliora l’attenzione degli scolari. È per questo che a scuola si fa ricreazione (e forse servirebbero ricreazioni più frequenti). Ricreazioni e gioco libero, non esercizi obbligatori: la lezione di ginnastica e la ricreazione non sono la stessa cosa.


Si osservi che l’efficacia dell’esercizio smentisce completamente un possibile “rimedio popolare” per l’iperattività. Di sicuro più di un genitore e più di un insegnante qualche volta ha pensato: “Questo bambino deve imparare a stare tranquillo”. Ebbene no, non sono le attività tranquille e rilassate, come sedersi a leggere, quelle che tranquillizzano il bambino. È l’altro rimedio popolare, totalmente opposto, a risultare vincente: “Quello che serve a questo bambino è scaricarsi e bruciare tutta questa energia”.


I bambini di oggi si giovano di molto meno gioco libero. Non passano più diverse ore a giocare all’aperto, con la corda, a nascondino, a fare la lotta, a correre. Adesso molti giochi sono statici, davanti a uno schermo, e l’attività fisica è spesso controllata e regolamentata. Il gioco è stato trasformato in sport, sotto il controllo di un adulto, con una forte spinta alla competizione e rimproveri per chi gioca male.


Molti genitori e molti insegnanti credono ancora che limitare l’attività fisica dei bambini sia un’adeguata forma di punizione: “Vai sulla sedia per riflettere, vai nell’angolo, vai in camera tua, in punizione senza ricreazione, ecc.”. Se tutte le punizioni sono controproducenti, questa lo è doppiamente. Il bambino che si “comporta male” a lezione è proprio quello che più ha bisogno di ricreazione. Privarlo della pausa per punizione lo renderà solo meno attento e tranquillo nella lezione successiva.

Iperattivi celebri

Si è visto prima che Santiago Ramón y Cajal, il primo premio Nobel e il più grande scienziato che abbia dato la Spagna, è stato un bambino iperattivo, o perlomeno questo deducono molti fra coloro che hanno analizzato la sua biografia. E naturalmente fu scapestrato fino a sfiorare la delinquenza. Lui stesso, in Recuerdos de mi vida, spiega come a undici anni fabbricò con gli amici un’arma da fuoco in legno:


Quell’estate i miei giochi preferiti furono i combattimenti, in modo particolare con la fionda, le frecce e a pugni. Ben presto li trovai insulsi e infantili. Ambivo a più alte imprese; aspiravo al cannone e al fucile. E mi misi intesta di costruirli a qualunque costo. […]L’improvvisato pezzo di artiglieria venne caricato a dovere, prendendo anzitutto una bella manciata di polvere da sparo, comprimendola quindi in un robusto bossolo e riempiendo, infine, il tubo di puntine da disegno e ciottoli. […]Un’ampia crepa aperta nella porta nuova, da cui, furente e minacciosa, si sporse poco dopo la testa dell’ortolano, ci rivelò gli effetti materiali e morali dello sparo, che, come il lettore dedurrà, quel giorno non fu ripetuto. […]La bravata ebbe per me, in ogni caso, conseguenze spiacevoli. […]Il sindaco del paesello, che sapeva anche di altre mie scorribande, approfittò dell’occasione che gli si offriva per darmi una lezione; e venendomi a prendere a casa in compagnia dell’ufficiale giudiziario, mi sbatté nella prigione locale. Questo avvenne con il consenso di mio padre, che vide nella reclusione un eccellente ed energico mezzo per correggermi; giunse persino a ordinare che mi si privasse di cibo per tutta la durata della reclusione. […]Passarono tre o quattro giorni. Il digiuno fu, in ogni caso, solo una minaccia; e non perché mio padre si fosse pentito della dura sentenza, ma per la compassione di una certa gentilissima signora di nostra conoscenza, donna Bernardina de Normante, la quale, senza dubbio d’accordo con mia madre, infranse la severa disposizione, inviandomi, dal giorno successivo a quello dell’arresto, eccellenti stufati e frutta appetitosa. […]Si sbaglia in pieno il paziente lettore se crede che la contrarietà subita mi abbia fatto aborrire le armi da fuoco; al contrario, accentuò il mio interesse per la balistica. La lezione servì soltanto a renderci più cauti in altre spacconate. Venne costruito un altro cannone, con cui sparammo contro un mucchio di terra; ma questa volta, caricata l’arma fino all’orlo, scoppiò come un ordigno, spargendo schegge ovunque. Eravamo incorreggibili.


Quanti elementi pedagogici in questa storia! Ecco la punizione, ed ecco le conseguenze, e come reputa don Santiago, conseguenza e punizione sono termini intercambiabili. E quella che è stata una grave infrazione, che avrebbe potuto uccidere qualcuno se fosse uscito in quel momento dalla porta in cui si è aperta una crepa, non è nulla più, nelle parole del cattedratico, che una “bravata”.


Sostiene anche (e lo scrive a sessantacinque anni, undici anni dopo aver vinto il Nobel) che la punizione non è servita a correggere il suo comportamento, ma gli ha solo insegnato a compiere le sue prodezze più di nascosto. E che dire di questa madre che viola le disposizioni paterne, e di donna Bernardina, questa “gentilissima signora”, il cui nome lui ricorda ancora dopo cinquanta anni? Non hanno questo onore gli altri personaggi: “l’ortolano”, “il sindaco”, neppure i suoi compagni di birbonerie sembrano avere nome.


Conosco questo aneddoto fin dall’infanzia, tramite una storia illustrata nel giornale per bambini pubblicato dai salesiani. Nei Recuerdos di don Santiago, così come nella storia illustrata che avevo letto, non traspare il minimo pentimento o la minima critica. La morale che avevo tratto da questa lettura non era stata: “Come era cattivo da piccolo, meno male che dopo si è pentito, si è messo a studiare e ha fatto qualcosa di utile nella vita”, ma piuttosto: “Come era sveglio, già a undici anni è stato capace di costruire da solo un’arma da fuoco”. Io stesso provai a costruire un ordigno esplosivo unendo la polvere da sparo di vari petardi. Non esplose. Sarà per questo che non ho vinto il Nobel.


Lo stesso Ramón y Cajal vede una relazione tra le sue malefatte di gioventù e il suo spirito scientifico:


La mia passione per le armi da fuoco nascondeva, oltre al desiderio di emozioni, ammirazione sincera per la scienza e curiosità insaziabile per la conoscenza delle forze naturali. L’energia misteriosa della polvere da sparo mi procurava uno stupore indefinibile. Ogni scoppio di petardo, ogni detonazione d’arma da fuoco, per me erano miracoli straordinari.Non avendo soldi per comprare polvere da sparo, cercai di scoprire come si fabbricava. E alla fine, a forza di tentativi, riuscii nel mio proposito.


Che sarebbe stato di don Santiago diagnosticato di ADHD e trattato con metilfenidato? Non è un banale contrattempo, come dargli un antibiotico per un’infezione; stiamo parlando di un farmaco che può cambiare la vita e il destino di una persona, o almeno così ce lo vendono: migliorerà gli studi, diminuirà la probabilità di avere problemi con la droga o con la legge, di subire un fallimento scolastico e più avanti lavorativo, ecc. Ma la vita di Ramón y Cajal è stata tanto produttiva e piena che è difficile immaginarla migliore. In cosa sarebbe dunque cambiata? Avrebbe fabbricato meno polvere da sparo, avrebbe corso meno di qua e di là, avrebbe letto più libri, sarebbe andato più a messa? Avrebbe potuto perdere l’eccesso di vivacità, il rifiuto dell’autorità e lo sprezzo del pericolo, senza perdere al contempo il fuoco sacro, la capacità di sfidare gli insegnamenti dei professori cercando da solo nuove risposte, l’irrequietezza che lo portò ad addentrarsi in territori mai calpestati, a vedere per primo ciò che nessuno mai aveva visto?


Don Santiago racconta nei dettagli le sue bravate, durante le vacanze e a scuola, e in base ai dati che lui stesso offre, altri lo hanno diagnosticato come iperattivo, un secolo dopo. Lui non suggerisce che la soluzione sia cambiare i bambini, ma piuttosto la scuola. Non dice: “Spero proprio che in futuro si scopra una medicina per far stare i bambini più attenti”, ma è a favore di un cambiamento nei programmi e nei metodi:


[…] gli allievi troppo giovani si mostrano poco propensi, salvo onorevoli eccezioni, allo studio delle lingue e della matematica. […] Queste cose giungeranno a suscitare interesse, ma più avanti, a partire da quattordici o quindici anni. […] A questo errore pedagogico autorizzato per legge, si aggiungono ancora i gravissimi inconvenienti della forma, in genere fredda e astratta, con cui viene presentata la scienza. Preso dal rigore logico di definizioni e corollari, il maestro spesso dimentica una cosa importantissima: suscitare la curiosità delle giovani intelligenze, riuscendo a conquistare con l’insegnamento sia il cuore che l’intelletto dell’allievo.


Non so se Santa Teresa d’Avila fosse iperattiva, ma mi hanno raccontato, quando ero piccolo, che anche lei ne combinò di tutti i colori. Ho cercato la fonte originale. Così lo spiega la santa nel Libro della mia vita, scritto a sessanta anni:

Progettavamo, così, di andarcene in terra di mori, a mendicare per amor di Dio, nella speranza che là ci decapitassero, e credo che il Signore ci avrebbe dato il coraggio, in così tenera età, di attuare il nostro desiderio, se ne avessimo avuto i mezzi, senonché l’aver genitori ci sembrava il più grande ostacolo.40


Padre Francesco di Santa Maria, nella sua opera Riforma de’ scalzi di nostra Signora del Carmine (1644, sessantadue anni dopo la morte della santa) fornisce alcuni dettagli in più:


Con questo ardore e desiderio, con più impegno e generosità di quella che le consentiva l’età, cominciò poi a discutere con il fratello Rodrigo di come potevano mettere in pratica tanto virtuosi pensieri; e accordandosi per prendere qualcosa da mangiare, uscirono dalla casa paterna, determinati ad andare nella terra dei mori, a farsi tagliare la testa per Cristo. Uscendo da una porta della città di Avila, chiamata di Adaja dal nome del fiume, passarono il ponte. E proseguendo il cammino, incontrarono un loro zio chiamato Francisco Álvarez de Cepeda; alla domanda: “Dove andate?” rivelarono l’intento e lui, rimproverando i loro errori, li riportò a casa dai genitori, che con pena e attenzione li cercavano credendo si fossero persi. Li redarguì molto la Madre per l’impudenza, e scusandosi Rodrigo dava la colpa a Teresa, per esser stata lei a istigare e a sollecitare la decisione.


Aveva sette anni, e il fratello, a quanto pare, undici (in altre versioni, otto, e da qualche parte credo di aver letto addirittura cinque). Che faremmo oggi con una bambina che scappa di casa portandosi dietro il fratello? In versioni più moderne della storia ho visto che si parla di punizioni, di bastonate e botte, ma padre Francesco dice solo che la madre li rimproverò. E si faccia attenzione a come inizia la storia: i bambini non sono mossi da incoscienza o disobbedienza, ma da “impegno e generosità”. La stessa Teresa si riferisce alla sua fuga nel primo capitolo dell’opera, “in cui tratta di come il Signore cominciò a indirizzare la sua anima alla virtù fin dall’infanzia”, mentre il secondo capitolo, in cui non scappa di casa e non fa nulla di strano, “tratta di come andò man mano perdendo queste virtù”.


Non ricordo dove ho letto o sentito per la prima volta questa storia, ma probabilmente me l’hanno raccontata dandogli lo stesso valore di Teresa e padre Francesco, perché la morale che ne ho tratto non è stata: “Com’era cattiva da bambina, fortuna che poi è cambiata ed è diventata una santa”, ma piuttosto: “Com’era buona già da piccola”.


Queste due storie, del nostro più grande scienziato e della nostra più grande santa, mi fanno pensare che la nostra società stia perdendo la capacità di comprendere, direi quasi di sopportare i bambini. Cose che qualche secolo fa erano semplici ragazzate o persino segni di una qualche virtù precoce, oggi si considerano gravi problemi di comportamento. E forse questa è la causa principale dell’epidemia di iperattività che viviamo: genitori e insegnanti non tollerano bene come un tempo il comportamento normale dei bambini.


Non sto dicendo che tutti i bambini a cui è stato diagnosticato l’ADHD abbiano un comportamento normale. Ma alcuni sì. Non è una questione di tutto o niente, qualcosa che si ha oppure no. È una caratteristica distribuita lungo una scala, e il punto in cui si pone il valore di soglia, dove si separano gli “iperattivi” dai “normali”, è arbitrario, come sempre sarà né potrà mai smettere di essere. Persino se si inventasse uno strumento in grado di misurare l’iperattività in modo esatto fornendo una cifra precisa e definitiva, qualcosa che siamo ben lontani dall’avere, il limite continuerebbe a essere arbitrario.


Sono sicuro che esistono alcuni bambini che hanno un problema effettivo di iperattività o deficit di attenzione e che hanno bisogno di una cura, non necessariamente farmacologica. E sono disposto ad ammettere, quando sarà dimostrato da buoni studi e risultati a lungo termine, che per alcuni di loro i farmaci possano essere utili. Ma neppure ho dubbi sul fatto che ci sia un problema di sovradiagnosi. Bambini a volte molto dotati, che si annoiano a lezione perché hanno già capito la spiegazione da venti minuti e i problemi troppo semplici non comportano per loro nessuna sfida. Bambini depressi o con altri problemi psicologici. Bambini con problemi fisici, come una sordità non riconosciuta. Bambini sani e normali, semplicemente un po’ più vivaci dei compagni (“scriteriati”, si diceva una volta), trasformati in malati perché l’ADHD è una diagnosi di moda, perché qualcuno ha fissato un punto limite troppo basso.

È stato proposto un test per distinguere i bambini molto intelligenti (“ad alte capacità intellettive”) dagli iperattivi41.


Già nel 1859, nel suo Saggio sulla libertà, il filosofo ed economista John Stuart Mill metteva in guardia contro la tirannia della società, contro la sua tendenza a imporre “come norme di condotta […] le proprie idee e usanze”, una tirannia “più potente di molti tipi di oppressione politica” perché “lascia meno vie di scampo”, e avverte che questa tirannia è diretta soprattutto contro le peculiarità personali, con “l’ideale […] di rendere tutti gli uomini uguali”:


La pretesa che tutti si rassomiglino cresce quanto più la si nutre: se si aspetta a resistere fino a quando la vita non sarà quasi completamente ridotta a un tipo uniforme, ogni deviazione da esso finirà coll’essere considerata empia, immorale, persino mostruosa e contro natura. Gli uomini diventano rapidamente incapaci di concepire la diversità quando per qualche tempo si sono disabituati a vederla.42


Penso che questa tendenza della società a imporre l’uniformità a qualunque costo sia forte in modo particolare, da qualche decennio a questa parte, negli ambiti della cura e dell’educazione dei bambini. I genitori consultano il pediatra per qualsiasi possibile anomalia, chiedendo sempre: “È normale?”. Se ai tempi di Gesù Cristo i muti parlavano e i paralitici camminavano, ora si vuole che parlino i silenziosi e si zittiscano i chiacchieroni, che “si aprano” i timidi e si calmino i vivaci. Chi gioca sempre con lo stesso amico dovrebbe relazionarsi con più gente, chi gioca con chiunque dovrebbe stringere legami più forti. Chi presta tutto dovrebbe stare più attento alle sue cose, chi si tiene tutto dovrebbe imparare a condividere. Si vuole che il dormiglione si svegli, che l’insonne dorma, che chi grida parli più piano, che chi non grida sia più assertivo. Certi dovrebbero studiare di più, altri dovrebbero giocare di più, certi dovrebbero fare più attività fisica e altri leggere più libri. Si vogliono tutti i bambini uguali, rigorosamente uguali, e ci sono libri e psicologi per chi si allontana dalla “normalità”.

I “bambini indaco”

Tra chi ha criticato gli eccessi nella diagnosi e nel trattamento farmacologico dell’iperattività ci sono professionisti seri. Non mancate di leggere, se siete interessati all’argomento, l’articolo del dottor Tizón43 o il sito italiano www.giulemanidaibambini.org.


Ma ci sono anche critici poco seri, dalla chiesa di Scientology (che per principio è contraria alla psichiatria) fino ad alcune correnti new age.


Sembra che l’epidemia di iperattività abbia contribuito alla diffusione della leggenda dei bambini indaco. La faccenda è cominciata negli anni Settanta, quando una parapsicologa nordamericana affermò in un libro che dagli anni Sessanta vedeva in giro sempre più bambini con un’aura di colore indaco. In seguito uscirono altri libri, dozzine di libri, e un’infinità di pagine web. Qui molti genitori, i cui figli erano stati giudicati “iperattivi”, trovano un’idea alternativa che può risultare più attraente: il figlio non è “malato”, ma “speciale”, addirittura “migliore”.


La descrizione di bambino “indaco” si può applicare a quasi tutti i bambini. Alcuni dei tratti distintivi sarebbero, secondo www.indigochild.com:

  • Hanno la sensazione di “meritare di essere qui”. [Che significa? Esistono bambini che hanno la sensazione di “non meritare” di essere qui?].
  • Hanno problemi con l’autorità assoluta. [E chi non ne ha?].
  • Si rifiutano di fare determinate cose; ad esempio, fare la fila è difficile per loro. [Sì, per i bambini piccoli è difficile stare fermi per molto tempo, non lo sapevate?].
  • Appaiono antisociali, a meno che non siano circondati da persone simili a loro. [Traduzione: parlano e giocano di più con gli amici che con gli sconosciuti. Ma guarda, come gli adulti!].
  • Non rispondono alla disciplina che instilla il “senso di colpa”. [Quasi nessuno risponde a una cosa del genere].
  • Non sono timidi nel farvi sapere ciò di cui hanno bisogno.44 [Chiedono di stare in braccio, chiedono attenzioni, gelati, giocattoli… Che strano! Non si erano mai visti bambini così!].

Questa sembra essere la descrizione classica, che consiste di dieci punti in totale. Qui45 c’è un’altra descrizione, con più di cinquanta punti:

  • Sono molto creativi e adorano costruire. [Tutti i bambini pasticciano, ritagliano o fanno case con i cuscini del divano. E a noi genitori, certo, piace pensare che nostro figlio sia straordinariamente creativo e che gli altri non sappiano pasticciare altrettanto bene].
  • Hanno i sensi molto attivi. [Come si distinguono i sensi attivi da quelli poco attivi?].
  • È probabile che siano ribelli a scuola, rifiutando di fare i compiti e mettendo in discussione l’autorità degli insegnanti. [Qui chiaramente c’è una relazione con l’iperattività].
  • Comunicano molto, di continuo, in modi diversi. [Parlare di continuo è considerato un altro sintomo di iperattività].
  • Possono avere problemi di malumore o rabbia. [Che significa? Almeno i criteri dell’ADHD specificano che i sintomi devono essere “gravi”, “frequenti” o qualcosa del genere. Ma qui non è specificato. Malumore e rabbia sono intrinsecamente negative, quindi chiunque le abbia avute, fosse anche una volta nella vita, ha avuto un problema di malumore o rabbia, non si è mai “felici con malumore o rabbia”].
  • A volte sono indifferenti alla politica, hanno la sensazione che la loro voce non conterà. [Bambini indifferenti alla politica? Mai visti!].
  • Sono dotati di grande empatia, ma sono intolleranti nei confronti di quella che considerano stupidità. [Visto che non ci piace pensare di essere antipatici, se siamo appena nella media ci crediamo molto empatici. E chiaramente tutti sono intolleranti con ciò che considerano stupidità, solo che alcuni vedono molta più “stupidità” di altri].

Come vedete, alcuni dei “sintomi” richiamano in modo lampante l’iperattività; altri si applicano a qualsiasi bambino normale. Io stesso soddisfo perfettamente la maggior parte dei criteri (ma non posso essere indaco, perché una volta ho letto, non ricordo dove, quando sono nati i primi, e io sono troppo vecchio). Secondo i seguaci, la maggioranza dei bambini di oggi ormai sono indaco, e la cosa non mi sorprende.


E da dove vengono i bambini indaco? Ho letto diverse versioni, una più assurda dell’altra: che hanno cromosomi diversi, che i loro cromosomi hanno un’aura di colore indaco visibile al microscopio, che gli extraterrestri hanno piantato un piccolo seme tra noi per cambiare l’umanità e portarla alla perfezione, ecc.


Come fanno alcuni genitori a pensare che il figlio completamente normale, che chiede ciò di cui ha bisogno, si arrabbia quando non riesce a fare ciò che vuole, a volte disegna, a volta parla molto e a volte gioca, abbia in realtà delle qualità rarissime e straordinarie che lo qualificano come “bambino indaco”? Forse perché non hanno idea di come sia un bambino normale. Alcuni genitori hanno creduto a questa assurda e recente idea del bambino come essere senza sentimenti né necessità affettive, che “si può lasciare con chiunque”, che obbedisce, mangia, dorme e mostra di gradire i limiti imposti (e se non gli sono imposti limiti, sta tutto il tempo a cercare il modo di disturbare). Quando scoprono che in realtà i bambini non sono così, ma hanno sentimenti, necessità affettive e attitudini morali e sociali, li chiamano indaco. Mette molta tristezza (e anche un po’ d’inquietudine) il fatto che alcune persone preferiscano credere che i loro figli siano mutanti introdotti tra noi dagli extraterrestri piuttosto che riconoscerli come esseri umani normali, dotati di libero arbitrio, memoria, intelligenza e volontà. Ed è ancora più inquietante vedere che anche degli psicologi, o presunti tali (non ne ho verificato la qualifica), oltre ad alcuni educatori, sostengano di credere a questa sciocchezza.

Genitori e figli insieme
Genitori e figli insieme
Carlos González
Dall’infanzia all’adolescenza con amore e rispetto.Dall’autore di Besame mucho, un libro sull’educazione e l’accudimento di bambini che hanno già superato la prima infanzia. Essere genitori è un privilegio: ogni volta che nasce un bambino, nascono un padre e una madre con lui e da quel momento crescono insieme in saggezza e virtù.La maggior parte delle madri ha una tendenza naturale a fare le scelte migliori e lo ha fatto per millenni, così come importante è stato anche il ruolo della figura paterna, tendente a un comportamento più autorevole nei confronti dei figli. Con il tempo è cambiato l’approccio genitoriale e il modo di concepire il concetto di famiglia. È un errore, infatti, pensare che esista soltanto un modo giusto di crescere i figli: le madri di un tempo si comportavano tutte allo stesso modo poiché valori e usanze venivano tramandate da una generazione all’altra e, qualora avessero dei dubbi su come educare i propri figli, avrebbero chiesto consigli ad altre madri con esperienza. Oggi invece, il confronto con le vecchie generazioni non si presenta, soprattutto per scarsa fiducia in questi metodi, definiti e giudicati spesso obsoleti. Viviamo però in un mondo sovraesposto all’informazione, in cui chiunque può dire qualunque cosa su qualsiasi argomento e ottenere l’attenzione di un vasto pubblico. Imparare a leggere con senso critico, a chiedere riscontri, a distinguere i professionisti dai ciarlatani è ormai diventato necessario e imprescindibile. Carlos González, autore di numerosi best seller in tutto il mondo, con Genitori e figli insieme, per la prima volta si occupa dell’educazione e dell’accudimento di bambini che hanno già superato la prima infanzia. Una rassegna completa dei fantasmi che i genitori di oggi devono affrontare. Conosci l’autore Carlos González, laureato in Medicina presso l’Università Autonoma di Barcellona, si è formato come pediatra presso l'ospedale Sant Joan de Déu.Fondatore e presidente dell’Associazione Catalana per l’Allattamento Materno, tiene corsi sull’allattamento per personale sanitario e traduce libri sul tema. Dal 1996 è responsabile del consultorio sull’allattamento materno e da due anni cura la rubrica dedicata della rivista Ser Padres.È sposato, padre di tre figli e vive a Hospitalet de Llobregat, in provincia di Barcelona.