CAPITOLO III

L'autorità

Autorità, disciplina, regole, punizioni… sono temi che stanno a cuore a molti genitori. Certi si mostrano quasi preoccupati. Sembrano credere, o sembra che qualcuno gli abbia fatto credere, che i figli siano in agguato pronti ad approfittarsi, prenderli in giro e manipolarli fino ad averla vinta.


Più di una volta mi hanno chiesto: “Se non lo punisco, come gli farò capire le cose?”. Ecco, io proverei a parlarci.


Regalado e collaboratori hanno pubblicato nel 2004 i risultati di un sondaggio telefonico fatto a poco più di 2.000 genitori nordamericani (in realtà la maggior parte erano madri), rappresentativi dell’intero Paese1. La domanda principale era: “Le leggerò un elenco di possibili pratiche disciplinari per genitori di bambini dell’età di suo figlio. Per ciascuna mi dica, per favore, se la usa con lui spesso, a volte, raramente o mai”. Ai genitori di bambini con meno di diciotto mesi venivano elencate solo due pratiche: urlare e picchiare. Per bambini tra i diciannove e i trentacinque mesi le possibili “pratiche disciplinari” erano urlare, picchiare, togliere un giocattolo, usare il time-out (cioè “l’angolo del castigo” o “la sedia per riflettere”), oppure fornire spiegazioni. Fortunatamente il metodo più usato è risultato essere quello di fornire spiegazioni. Tuttavia, tra un anno e mezzo e tre anni, il 17% dei genitori intervistati urlava spesso e il 50% a volte; il 2% picchiava spesso e il 24% a volte. Un 13% urlava e un 2% picchiava (a volte) bambini tra i quattro e i nove mesi.


Picchiare bambini con meno di tre anni perché si sono “comportati male”! Urlare a neonati di qualche mese! Che può fare di male un neonato che non parla né cammina? E questo è ciò che la gente confessa, su due piedi, a uno sconosciuto che telefona: come sarà la realtà?

Fin dai primi studi, più di sessanta anni fa, si è osservato più volte che i bambini sottomessi a una più rigida disciplina non sono quelli che obbediscono di più, piuttosto il contrario. Urla e punizioni, soprattutto schiaffi, non sono solo immorali, ma anche inefficaci e controproducenti.


Gran parte di questi studi sono stati fatti nell’America del Nord. Elizabeth Gershoff, dell’Università del Texas, ha voluto verificare se i risultati fossero estendibili ad altri Paesi2. Sono state interpellate 292 madri con figli da otto a dodici anni in Cina, India, Italia, Kenia, Filippine e Tailandia. Si chiedeva, sia ai figli che alle madri, con che frequenza venivano usate undici possibili pratiche disciplinari.


Si è scoperto che le punizioni corporali, l’esprimere delusione e urlare, si associavano a una maggiore aggressività dei bambini. Il time-out (mettere in castigo), le punizioni corporali, l’esprimere delusione e indurre vergogna nel bambino si associavano a più gravi sintomi di ansia infantile. Gli effetti si attenuavano se il bambino pensava che il comportamento della madre fosse “normale” (cioè il bambino soffre meno per le urla se pensa che tutti i genitori urlano). Le altre sei pratiche per cui non si è riscontrata associazione né con l’aggressività, né con l’ansia (il che non esclude altri svantaggi) erano: dire cosa è bene e cosa è male, far chiedere scusa, sottrarre privilegi, togliere l’affetto a fronte di un comportamento indesiderato, minacciare con punizioni e promettere premi o privilegi.


Esistendo una pratica disciplinare tanto semplice come “dire cosa è bene e cosa è male”, mi domando sempre perché qualcuno vorrà usare le altre dieci. In compenso, ora almeno sapete che dire a un bambino “cosa è bene e cosa è male” è una pratica disciplinare riconosciuta a livello internazionale e scientificamente comprovata. Al prossimo che se ne esce dicendo: “Lo assecondi troppo, a questo bambino serve disciplina” potete rispondere con disinvoltura: “Ma già impongo disciplina! Tutti i giorni!”

L’autorità dei genitori

I genitori hanno autorità sui figli. È un’autorità naturale, inevitabile e irrinunciabile. Abbiamo autorità perché siamo più grandi e forti, più vecchi e saggi; almeno, fino a una certa età siamo più saggi, e sempre, sempre, saremo più vecchi. Disponiamo di più esperienza e più informazioni e quindi sappiamo meglio cosa fare in ogni situazione. E, soprattutto, abbiamo autorità perché i figli ci amano tantissimo e desiderano obbedire. I bambini piccoli non hanno né forza, né esperienza, né conoscenze. Molte cose li spaventano, altre li sorprendono, molte volte non sanno come ottenere ciò che vogliono e spesso non sanno nemmeno cosa vogliono. Abbiamo paura che cerchino di prendere il sopravvento, quando in realtà è l’ultima cosa che desiderano. Forse ad alcune persone (e non alla maggioranza, senza dubbio) piacerebbe essere dirigente in azienda, nell’esercito, in politica… e in famiglia? Condurre una famiglia è come essere consigliere di condominio: tocca quando è il proprio turno, perché nessuno si presenta volontario.


Ai figli piace, come a tutti naturalmente, averla vinta ogni tanto. Ma non vogliono comandare. Non vogliono fare colpi di stato, non vogliono diventare tiranni, neppure “piccoli tiranni”. Troppi grattacapi. In genere, sono molto contenti che siano i genitori, che considerano (per il momento) molto forti e intelligenti, a prendere le decisioni.


I bambini piccoli vogliono obbedire ai genitori.


Lo vedo spesso durante le visite. Mi avvicino al piccolo per auscultarlo o toccargli la pancia, gli sorrido, gli dico cose simpatiche… il piccolo guarda la madre preoccupato, lei sorride e dice qualche parola di incoraggiamento: “Sì, è il dottore, adesso ti tocca il pancino…!” e allora il piccolo guarda me, si rilassa, magari sorride se è abbastanza grande, e si lascia toccare senza protestare. Ha appena chiesto il permesso, ha sollecitato istruzioni: “Mamma, posso lasciarmi toccare da questo signore?”. Se anziché un pediatra fossi stato un grosso cane o un serial killer, l’espressione della madre sarebbe stata molto diversa, e il bambino si sarebbe messo a piangere. (Importante: questo vale solo per bambini piccoli. A partire, più o meno, da nove mesi, fino a due o tre anni, molti bambini piangono disperati alle visite mediche, nonostante i genitori cerchino di tranquillizzarli. È l’età).

Tutti abbiamo autorità

In realtà, tutti gli esseri umani hanno autorità su altri esseri umani. Occorre soltanto saper impartire ordini nel modo adeguato.


“Sa l’ora, per favore?” è un ordine molto efficace; qualunque sconosciuto si ferma in mezzo alla strada, smette di fare ciò che sta facendo, guarda l’orologio e dice l’ora. Se invece si dicesse: “Ma sei stupido, o cosa? Ti ho detto venti volte di dirmi l’ora!”, pensate che l’ordine sarebbe ugualmente efficace?


I camerieri danno ordini tutto il giorno: “Di qua, per favore”, “Vuol essere così gentile”, “Cosa desidera da bere?”, e il cliente, anche se fosse direttore di banca, obbedisce senza protestare, va dove gli dicono di andare, siede dove gli indicano, dice il nome della bibita preferita. Se il cameriere dicesse: “Si tolga da lì, è in mezzo al passaggio!”, “Si sieda una buona volta, le dico!”, “Il signore vuole decidersi a ordinare da bere, non possiamo aspettare tutta la serata!”, forse i clienti più timidi si adeguerebbero per evitare una scenata, ripromettendosi di non tornare più, mentre i più suscettibili se ne andrebbero immediatamente dal ristorante.


E invece quanti genitori parlano abitualmente ai figli con un tono e dei modi che susciterebbero reazioni stizzite da parte di qualsiasi adulto. I figli ci amano tanto che spesso sopportano le nostre insolenze; ma questo non significa che non si possa fare di meglio.


Ho appena assistito a una scena giù in strada. Un padre spingeva un passeggino con un neonato. Davanti camminava, allegra, una bimba di circa sette anni. Sono passati tra le sbarre di un’impalcatura eretta per dipingere una facciata. A quanto pare (non ho visto) la bambina si è strofinata contro le sbarre. E il padre ha cominciato a gridare a pieni polmoni:


“Ecco, ti sei già sporcata! Non vedi che fa schifo ?”; e dopo una pausa drammatica: “A che stavi pensando, ti devi sempre avvicinare alle cose sporche?”


Tutto questo a squarciagola e con espressione dura, mentre la povera bambina si guardava la manica del cappotto e continuava a camminare in silenzio. Dico io: non avrebbe potuto dire semplicemente, senza alzare la voce: “Attenzione a queste sbarre, sono sporche”? (sempre che fosse necessario dire qualcosa, visto che a me le sbarre non sono parse particolarmente sporche, né la bambina portava il vestito della prima comunione).


Cosa porta alcuni genitori a perdere le staffe in questo modo? Sarà stato di malumore per qualche altro motivo, avrà avuto una discussione con la moglie o sarà stato licenziato e ora la fa pagare alla bambina? Oppure lei ha fatto da poco diverse gravi prepotenze (come picchiare il fratellino o qualcos’altro davvero brutto) e questa è solo la goccia che fa traboccare il vaso, l’inezia che fa perdere la pazienza al padre? Si tratta di un episodio isolato, o è il modo abituale di comunicare in questa famiglia? Io sono il tipo che cerca di dissimulare e fare bella figura davanti agli estranei, perciò quando vedo qualcuno che si comporta così in pubblico non posso evitare di chiedermi cosa farà a casa propria… Forse questo padre è stato trattato anche lui così quando era piccolo e gli sembra normale, e non concepisce l’idea di trattare i figli in altro modo? O per caso è una persona collerica e tratta tutti abitualmente in questo modo?


No, quest’ultima eventualità di fatto è impossibile. Nessuno (o quasi nessuno) tratta tutti così male. C’è in giro gente poco rispettosa e maleducata, aggressiva e offensiva, ma quasi nessuno tratta così gli amici e i colleghi di lavoro. A volte le urla, gli insulti e il malumore si riservano ai familiari più vicini, in particolar modo ai figli.


Per chi è stato cresciuto con le urla (o addirittura con le botte) può essere difficile imparare a trattare i figli diversamente. Occorre impegnarsi. Occorre prendere fin dal primo giorno la ferma decisione di parlare ai figli con rispetto, dar loro informazioni o istruzioni con educazione, riprenderli quando è necessario, ma senza astio; dire a un bambino: “Attento, non toccare, si rompe”, dirlo con tono gentile e con il sorriso sulle labbra, è già riprenderlo. Non è necessario dire nulla di più. E visto che non si cambia dalla notte alla mattina forse ci si dovrà impegnare, a partire da molto prima prima di avere figli, a trattare tutti con rispetto. Il coniuge e i familiari. I commessi e i camerieri. I vicini e gli sconosciuti. Anche gli assenti.


Quando il semaforo diventa verde, invece di precipitarsi a suonare il clacson e urlare: “E muoviti!”, si potrebbe commentare con filosofia: “Ma guarda, quello davanti si è distratto!”. Quando guardiamo la partita in televisione, invece di apostrofare l’arbitro con: “Ma sei cieco o imbecille?”, limitiamoci a esprimere la nostra opinione: “Be’, a me sembrava un fuorigioco”. Ricordiamo di mostrare affetto alla nostra compagna senza aspettare che la pubblicità in televisione ci ricordi che è San Valentino. Prendiamo l’abitudine di chiedere per favore, di ringraziare, di sorridere: saremo più felici (e probabilmente più longevi e sani) e quando avremo dei bambini il rispetto verrà ormai naturale. Inoltre sarà un modo per insegnare loro, tramite un esempio eccellente, la maniera corretta di comportarsi in società.

L’autorità si logora

Mia madre non era una di quelle nonne assillanti che danno sempre ordini, indicazioni e suggerimenti ai genitori (e in molti casi la distinzione tra “ordini” e “suggerimenti” è puramente semantica) elargendo in abbondanza critiche e consigli non richiesti.


In realtà, probabilmente, mi ha dato un solo consiglio sull’educazione dei miei figli. E me l’ha dato tanto bene che ho tardato quasi venti anni a rendermi conto di aver ricevuto un consiglio, a capire di averlo seguito, e di come aveva cambiato il mio modo di essere padre e modellato i libri che più tardi avrei scritto.


È successo quando è venuta la prima volta a vedere il nostro primo figlio in ospedale. Entrando, tra i saluti e le congratulazioni di prammatica, ha fatto un commento su una cosa che era successa:


Nel corridoio dell’ospedale c’era una bambina sui sette anni che correva e strisciava le dita sui muri, come fanno di solito i bambini per sentire il tic tic tic tra una piastrella e l’altra. E i genitori non facevano altro che urlare e minacciarla per farla stare buona. Ma cosa credono, che a quindici anni continuerà a correre strisciando le dita sulle piastrelle?


Non solo mi ha dato un ordine (traducibile con: “Non rimproverare mai questo mio nipote per cose senza importanza come strisciare le dita sulle piastrelle”), ma me l’ha dato con tanta efficacia che, senza notare che era un ordine, l’ho ricordato e ho obbedito per decenni. Nel fare ciò non ha alzato la voce, né mi ha minacciato (“se rimproveri questo bambino, vedrai…”), né è ricorsa al tono epico-paternalista (“figlio mio, devo dirti una cosa molto importante, qualcosa che spero custodirai nel cuore nei giorni a venire”), né mi ha offerto un premio. Semplicemente l’ha lasciato cadere, perché i figli desiderano obbedire ai genitori, e in genere si tende a seguire qualunque suggerimento sembri ragionevole.


Spero solo che sarò, quando verrà il momento, un nonno poco assillante come mia madre. So che sarà molto difficile. Forse, adesso che ci penso, è stato difficile anche per lei. Grazie.


Non si possono rimproverare i figli, né si può imporre autorità, quando si tratta di cose senza importanza. Innanzitutto perché non è ragionevole; in secondo luogo perché è un comportamento indegno. E lo è per chi dà ordini, non per chi obbedisce; non illudiamoci, è il prepotente che si copre di ridicolo. Infine perché, così facendo, si perde autorità.


Il fatto è che l’autorità è un po’ come il denaro: serve a ottenere molte cose, ma più se ne spreca, meno ne rimane. Lo sanno molto bene quelli che governano: non si mettono a dare ordini così, senza motivo, a controllare ogni aspetto della nostra vita. Legiferano su ciò che sembra loro realmente importante, e per il resto che ognuno faccia ciò che vuole. Molti genitori sprecano la loro autorità in questioni che non hanno nessuna importanza, cercando di proibire o imporre cose per cui neppure il più sanguinario dei tiranni si prenderebbe il fastidio: non mettere le dita nel naso, non strofinarti sui muri, siediti dritto sulla sedia, finisci la verdura, ecc. A volte è un susseguirsi continuo di ordini e divieti che diventano il sottofondo della vita del bambino per anni. Come farà il bambino a distinguere, in questa valanga di ordini assurdi, pronunciati senza neppure speranza di avere obbedienza, quelli un po’ più importanti come “fa’ i compiti” o “non giocare con l’accendino”? Altre volte, ordini banali sono accompagnati da minacce tanto vaghe o sproporzionate che già si sa che non succederà niente: “Vedrai”, “Quando ti prendo!”, “Guarda che te le dò”, “E allora niente cena”, “Vedrai quando torna tuo padre”, ecc. Infine, alcuni genitori particolarmente irascibili riescono a mettere in pratica alcune di queste minacce, riescono a urlare, punire e persino prendere a schiaffi un bambino per banalità prive di importanza. Se la sanzione per non allacciarsi le cintura di sicurezza fosse venti anni di carcere, non vi pare che, già che ci siamo, converrebbe rapinare una banca? Le pene sproporzionate in genere incentivano la delinquenza, anziché ridurla.


Ricordo di aver preso consciamente la decisione, poco dopo essere diventato padre (e forse influenzato dal sottile consiglio di mia madre) di non urlare ai miei figli se non per motivi veramente gravi. “Se un giorno” ho pensato, “vedo mio figlio sul punto di aprire il gas, o buttarsi dalla finestra, o mettersi davanti a una macchina, logicamente dovrò urlare: ‘NO!’, sperando che si fermi immediatamente. Ma se è abituato a sentirsi gridare: ‘NO!’ ogni volta che si mette le dita nel naso, calpesta una pozzanghera o scarabocchia un foglio, arriverà il momento in cui non ci farà neppure caso. Continuerà a camminare tutto tranquillo e potrà essere investito da una macchina”. Credo che quell’elementare misura di sicurezza ci abbia risparmiato molte liti domestiche. Perché si dà il caso che non abbiano mai cercato di aprire il gas, buttarsi dalla finestra o sotto una macchina; e quindi, se qualche volta ho urlato, poveri figli, è stato senza motivo.

I bambini non imparano subito

Nemmeno gli adulti, per la verità. Ma con i bambini è particolarmente evidente.


E ciò nonostante, molti genitori sembrano aspettarsi questo miracolo. “Gli dico di non toccare e lo tocca lo stesso”, mi dicono, tra l’indignato e il sorpreso, genitori di bambini di due o tre anni, come se la cosa più normale del mondo fosse dire una volta: “Non toccare” e ottenere che il bambino non tocchi mai più.


E quando le autorità comunali dicono: “Divieto di sosta”, quante volte lo devono ripetere? Devono metterci un cartello permanente perché la gente lo veda tutti i giorni, devono dipingere di giallo il bordo del marciapiede, e inoltre la polizia passa ogni tanto a mettere la multa; e nonostante ciò la gente parcheggia dove è vietato, a volte anche in doppia fila.


I bambini hanno bisogno che gli si ripetano le cose molte volte per imparare. Provate a pensarci un attimo: quante nozioni e informazioni ricordate di ciò che avete appreso a scuola? Dò per scontato che tutti i miei lettori sappiano fare moltiplicazioni e divisioni con una certa sicurezza. Quante moltiplicazioni avete dovuto fare? Per anni a lezione, poi a casa con i compiti; e in seguito problemi più complessi in cui alla fine occorreva svolgere anche qualche operazione. Probabilmente avete fatto svariate centinaia di moltiplicazioni. Ai miei tempi, senza calcolatrice, se ne facevano migliaia.

Avete quindi dovuto fare varie centinaia di moltiplicazioni per imparare a moltiplicare. Nessun maestro di scuola primaria si aspetta che i bambini imparino la moltiplicazione dopo averla spiegata una sola volta. Sa che dovrà insistere giorno dopo giorno, anno dopo anno. Se i bambini imparassero le cose subito, l’intero programma di tutta la scuola primaria si potrebbe studiare in un mese.


E ora, quanti dei miei lettori sapranno calcolare la radice quadrata di 3128,738 o risolvere un sistema di equazioni, fare operazioni con coseni e logaritmi, parlare dei gas nobili o ripetere a memoria gli affluenti di destra del Duero3? Le cose che abbiamo ripetuto meno di duecento volte, le abbiamo quasi tutte dimenticate.

“Mi guarda e lo fa di nuovo”

Come conseguenza della necessità di ripetere per imparare, i bambini si dedicano spesso a un’attività che, e non ne so la ragione, fa infuriare alcuni genitori: ripetere ciò che è stato proibito, come buttare cibo o giocattoli per terra, mentre guardano mamma o papà negli occhi e sorridono. A seconda del genitore che lo racconta, si tratta di un sorriso “malizioso” o “di sfida”, o persino “di trionfo”. Questo comportamento a volte è stato descritto con espressioni come “provare i limiti”, “prendere in giro” o addirittura “cercare uno schiaffo” (come se qualcuno sano di mente potesse cercare una cosa del genere). Io credo che in realtà il bambino stia solo sperimentando.


I bambini sono scienziati nati. Lo troverete spiegato molto bene nel libro Il bambino filosofo di Alison Gopnik4. Se ci pensate un attimo, i bambini piccoli devono imparare moltissime cose.


Di ciò che si studia a scuola, dicevamo, non si ricorda quasi nulla. Nella vita quotidiana, di tutte quelle cose studiate ci serve appena leggere, scrivere e fare le quattro operazioni. Eppure ci sono tantissime cose che ogni giorno si devono fare: aprire una porta, bere da un bicchiere, parlare, relazionarsi in società, ecc. Cose che sono state apprese al di fuori della scuola (o almeno al di fuori da libri e lezioni) e spesso ancora prima di frequentarla. Per fare azioni tanto semplici come alzarsi da una sedia o camminare occorre contrarre simultaneamente o in sequenza, con una forza e un’estensione calibrate con esattezza, una (o due?) dozzine di muscoli di cui non conosco nome né posizione, e io sono medico. E non l’ho dimenticato; non l’ho proprio mai saputo. Sono sicuro che il giorno in cui ho fatto l’esame di anatomia non sarei stato in grado di scrivere l’elenco completo dei muscoli da contrarre per alzarsi da una sedia. Un piccolo errore in uno qualunque di questi muscoli e si vacilla; due o tre errori e si cade a terra. E tuttavia, prima dei due anni, tra sforzi improbi e innumerevoli ripetizioni, qualsiasi bambino è capace di camminare o alzarsi da una sedia alla perfezione, e anche andare in punta di piedi, di talloni, su un piede solo…

E con lo stesso entusiasmo i bambini cercano di imparare cosa è bene e cosa è male, ciò che si può fare e ciò che non si può. Non è così semplice. I nostri ordini spesso sono contraddittori, o poco chiari, o pieni di eccezioni. Gli diciamo di non andare nelle pozzanghere e poi lo portiamo in spiaggia a farlo sguazzare nella pozzanghera più grande di tutte. Ci arrabbiamo se strappa il giornale che non abbiamo letto, ma gli diamo il giornale di ieri da strappare. Gli lasciamo scarabocchiare un foglio (un volantino pubblicitario), ma ci mettiamo a urlare se prova a disegnare su un altro foglio molto simile (la ricevuta dell’acconto della macchina). Quando butta un giocattolo per terra glielo raccogliamo più volte, magari persino sorridendo come se il gioco ci divertisse (e ci diverte davvero) e a un tratto ci stufiamo e cominciamo a protestare: “Adesso basta, smetti di buttare le cose, papà si arrabbia…”. Gli stessi genitori che hanno detto: “Sei molto cattivo”, pieni di collera, un altro giorno magari esclamano: “Ma che cattivo questo bambino!”, dicendolo per scherzo, mentre abbracciano e baciano il figlio.


Il bambino deve essere ben sicuro. Se è stato rimproverato per aver disegnato sul muro, cosa ha sbagliato esattamente? Disegnare sul muro, qualunque muro? Disegnare su questo muro in particolare? Fare rumore mentre disegna sul muro? Usare un pennarello, sarebbe stato meglio usare una penna o una matita? La mamma si è arrabbiata perché si è rotta la punta della matita? Avrebbe dovuto lavarsi le mani prima di disegnare? Sarà il colore che non piace? È vietato disegnare sui muri all’ora di pranzo? E così prova a farlo varie volte e ci guarda come a chiedere: “E adesso, si può? E da quest’altra parte, si può? E se faccio righe invece di cerchi? E se uso il blu? E la sera, si può disegnare?”.


Davvero credete che vi guardi perché sa di fare qualcosa di sbagliato? Provate a ricordare. Quando facevate qualcosa che sapevate avrebbe disturbato i vostri genitori, qualcosa di proibito (e non venitemi a dire che non l’avete mai fatto), lo facevate davanti a loro, guardandoli negli occhi, o di nascosto? Io credo che lo facciano apertamente e guardandovi negli occhi proprio perché vogliono essere visti e vogliono sapere la reazione. Quando disobbediscono (naturalmente faranno anche quello), ci pensano loro a fare in modo che non lo veniate a sapere; quello che fanno ora è chiedere più informazioni per poter obbedire meglio. E il sorriso probabilmente non è di sfida, ma per ingraziarsi. Cercano di essere simpatici. “Mamma, papà, non vi arrabbiate. Senza offesa e in via strettamente ipotetica, come reagireste se io disegnassi con questo pennarello su questo muro?”


Tra l’altro, sapete che quegli scarabocchi sui muri vi mancheranno? A volte mi pento di aver ridipinto la parete. Dovrò aspettare che i nipoti mi decorino di nuovo la casa.

Altre volte penso che il sorriso con cui ci guardano nel fare qualcosa di “proibito” sia un sorriso giocoso. Sono convinto che non è sempre facile per un bambino piccolo distinguere tra gioco e vita reale. Forse che nel gioco dell’oca o del “non t’arrabbiare” non ci sono “punizioni”, non si mangiano le pedine, non si torna al via se si fa qualcosa di “sbagliato”? Però è divertente, è un gioco, non è un vero castigo, lo si fa ridendo… E se anche disegnare sul muro o buttare cibo per terra fossero dei giochi? E se la mamma fosse arrabbiata “per finta”, come quando dice: “Corri, corri che t’acchiappo!”. Non vi preoccupate, con il tempo imparerà cosa è un gioco e cosa non lo è. Nessuno gioca a tirare cibo a dieci anni, e quasi nessuno a cinque. Imparerà col tempo, non è necessario diventare una furia vendicatrice per mostrargli di essere davvero arrabbiati.


Dicevo prima che non capisco perché questo comportamento erroneamente interpretato come “di sfida” esaspera tanto alcuni genitori. Be’, in realtà forse un po’ lo capisco. Ho trovato molti anni fa una possibile risposta in un libro di Eda LeShan, When your child drives you crazy (“Quando vostro figlio vi fa diventare matti”)5. L’autrice sosteneva che quello che ci fa più uscire dai gangheri, che ci da più fastidio di ciò che fanno i figli, è esattamente quello per cui siamo stati più rimproverati e puniti dai nostri genitori. Può essere? Cercate di ricordare…

Imparate dagli esperti

Uno degli ordini più obbediti della storia è: “Bevete Tonta-Cola”. Qualcuno obbedisce tutti i giorni e molti obbediscono con una certa frequenza. È difficile trovare una persona che non abbia obbedito almeno una volta nella vita. Come ci riescono?


Fondamentalmente con la ripetizione instancabile di un messaggio semplice e chiaro. “Bevete Tonta-Cola”. All’ingresso del bar, sul cartellone pubblicitario, in televisione, nella rivista. A volte il messaggio è nudo e crudo, a volte accompagnato da immagini che richiamano l’attenzione, per non stancare.


Ma sempre, sempre, sempre con cortesia, con delicatezza, senza urlare. Niente del tipo: “Te l’ho detto ventimila volte di bere Tonta-Cola” o “Se non finisci la Tonta-Cola, niente verdura”; non ci portano dal medico o dallo psicologo: “Non capisco cosa succede a questo signore, gli continuo a dire di bere Tonta-Cola e non c’è verso”.


Imparate dai veri esperti l’arte di imporre la propria volontà: i pubblicitari. Niente violenza, né minacce, né punizioni, né premi (bisogna persino pagare per obbedire all’ordine!). Con la semplice ripetizione paziente e costante delle istruzioni gran parte delle persone obbedisce, almeno ogni tanto. E quelli che non obbediscono così… forse non obbedirebbero comunque.


Altri che sanno imporsi sono i diplomatici. Dubitate forse che i Paesi piccoli facciano quasi sempre ciò che impongono loro i Paesi grandi? Ma i Paesi grandi non vanno in giro a dire: “Fate così o vi bombardiamo, fate cosà o vi invadiamo”. Almeno non di primo acchito. Certi Paesi, in qualche epoca, si sono comportati così e spesso le cose sono andate a finire male. Oggigiorno le superpotenze sanno che il trucco è convocare un “incontro al vertice”, esporre alcune pretese, voglio dire proposte, alcune importanti e altre meno, ascoltare pazientemente i rappresentanti del Paese piccolo, cedere sulle questioni minori e insistere su quelle importanti, modificandone alcuni aspetti perché il Paese piccolo possa sentirsi soddisfatto e conservare la dignità.


Ma certi genitori conoscono molto poco la diplomazia. Passano tutto il giorno proferendo urla, punizioni e minacce: “Stai calmo, una buona volta!”, “Guarda che stasera non vedi i cartoni!”, “No, la mamma non ride, è molto arrabbiata”…

L’obbedienza assoluta è impossibile

Nessuno può riuscire a farsi obbedire sempre, in tutto e subito. Nessuno. Nessun capo, generale, eresiarca, nemmeno un tiranno. Perché questo stupisce alcuni genitori? “Glielo dico e non mi dà retta”. Per l’amor di Dio, è solo una bambina, che vi aspettavate?


Noi medici passiamo la vita a dire alla gente di smettere di fumare. Pochissimi prestano ascolto. Se ci dessero un euro per ogni paziente che ha continuato a fumare saremmo tutti ricchi. E se aggiungessimo un altro euro per quelli che continuano a esagerare con sale e grassi, o a non fare attività fisica, saremmo già multimilionari. E stiamo parlando di adulti, gente matura e responsabile, che capisce il perché e il percome delle cose, capisce un medico che ha detto molto seriamente: “Se continua a fumare questo respiro affannoso peggiorerà” o “Se continua a fumare le potrebbe venire un tumore”. E non obbediscono. Davvero credete che un bambino di tre anni si ricorderà di lavarsi i denti tutti i giorni, quando neppure sa cos’è una carie?


Le autorità civili, con tutto il loro potere, non riescono a ottenere l’obbedienza assoluta. Nella maggior parte dei casi, neppure si prendono la briga di dare ordini. Pensate alle cose per cui avete rimproverato vostro figlio nell’ultima settimana. Rapine all’arma bianca, qualche assassinio, falsi in atti pubblici o truffa per gonfiare i prezzi? Certo che no. Di sicuro vostro figlio non ha commesso nessun crimine nell’ultima settimana. Probabilmente neanche in quella precedente. Lo avete rimproverato, forse punito, per cose come dire stupido al fratello, sporcarsi i vestiti, saltare sul divano, lasciare giocattoli per terra, fermarsi davanti a tutte le vetrine. Tutte cose perfettamente legali, che fatte da un adulto invece che da un bambino non sarebbero reato. Potete calpestare una pozzanghera, togliervi il cappotto o raccogliere uno scarafaggio morto davanti a un poliziotto e lui non batterà ciglio.


Quelli che governano, di norma, si limitano a dare ordini nelle questioni davvero importanti: non rubare, non uccidere, pagare le tasse, guidare tenendo la destra. Limitano l’autorità e la sorveglianza a questi pochi soggetti. E anche così sanno perfettamente che milioni di persone evaderanno il fisco alla minima occasione. Nessuno, tranne alcuni genitori, pretende di essere obbedito in tutto.


Attenzione, non sto dicendo che dovete smettere di dare istruzioni a vostro figlio, o di proibirgli solo ciò che è vietato dal codice penale. La situazione è certo molto diversa. I bambini hanno bisogno della nostra guida e del nostro aiuto per imparare a fare tutto, dal giocare al “non t’arrabbiare” a lavarsi i denti. Occorre insegnargli tutte le regole, non solo il codice penale. Quello che sto dicendo è che non si possono insegnare le regole minori, quelle che sono solo convenzioni sociali o consigli pratici per la vita quotidiana, come se fossero questioni di vita o di morte. Non è la stessa cosa picchiare un altro bambino e mettere i piedi sul divano. Non potete mettervi a urlare, rimproverare, punire o picchiare vostro figlio perché ha messo i piedi sul divano. Basta dirgli con gentilezza: “Non mettere i piedi sul divano, perché si sporca” oppure “Togliti le scarpe prima di mettere i piedi sul divano”. Basta dirlo e continuarlo a ripetere con la stessa pazienza tutte le volte che è necessario. Ricordando che, in definitiva… magari fosse solo mettere i piedi sul divano la “cosa peggiore” che vostro figlio farà nella vita! E una volta che avete appreso (voi) questa importante lezione, che si può riuscire a far smettere un bambino di mettere i piedi sul divano senza punire, urlare o picchiare, semplicemente chiedendolo con educazione, spiegandolo con pazienza e ripetendolo senza stancarsi, perché non usare lo stesso metodo in altre circostanze? Naturalmente ogni situazione richiede una determinata reazione. Se vostro figlio picchia un altro bambino, non basta dire “non picchiaaaaaare!” mentre lui continua a picchiare tutto tranquillo; occorre trattenerlo fisicamente, allontanarlo dall’altro bambino e chiedere scusa. Tra l’altro, pretendere che un bambino piccolo chieda scusa, di solito porta a situazioni molto imbarazzanti, perché se non lo fa, si fa brutta figura e si potrebbe perdere la pazienza; è meglio chiedere scusa noi stessi all’altro bimbo e ai suoi genitori, dando così il buon esempio. Impedire l’aggressione, chiedere scusa, spiegare a nostro figlio di non picchiare perché agli altri bambini non piace essere picchiati, ripeterlo tutte le volte che sia necessario… e nulla più. Non serve punirlo né sgridarlo, meno che mai picchiarlo, perché così gli staremmo solo insegnando: “Non essere così stupido da picchiare un bambino grande come te, che te le può ridare. Aspetta di essere grande come me e potrai picchiare i bambini piccoli quanto vuoi, vedi? Prendi questo, questo e questo!”

Le punizioni

La punizione è del tutto superflua nell’educazione dei figli. Lo so perché i miei genitori non mi hanno mai punito e io non ho mai punito i miei figli.


I miei genitori mi rimproveravano, naturalmente. Mi dicevano: “Non fare questo” o “Guarda cosa hai rotto!” o “Non parlare così”. Ma mai, mai in tutta la vita, mi hanno vietato di uscire o di vedere la televisione per punizione, né mi hanno tolto un giocattolo o negato un dolcetto perché mi ero comportato male. Semplicemente mi dicevano ciò che dovevo e non dovevo fare, e basta.


Certo, ho fatto molte cose che mi avevano proibito e ne ho tralasciato molte che avrei dovuto fare. Come tutti i bambini. Come tutti gli adulti. Ma non credo che avrei obbedito di più se mi avessero punito.


Non ho mai punito nemmeno mia moglie. Né lei lo ha fatto con me (non per merito mio, ma per sua clemenza). Per quanto ne so io, la stragrande maggioranza degli adulti non è solita punire altri adulti. A un collega di lavoro si può dire: “Per favore, archivia le pratiche nella loro cartella, se sono in disordine non riesco a trovare niente”, ma non si direbbe mai: “Se lasci di nuovo una pratica fuori posto non andrai al cinema per due sabati”. Sappiamo che una punizione del genere è superflua, sospettiamo che sia inutile e soprattutto siamo consapevoli del fatto che sarebbe ridicola e prepotente. Quasi più ridicola che prepotente. Il rifiuto sociale cadrebbe, inevitabilmente, su chi punisce. Se Juan vietasse a Pedro di uscire il sabato come punizione per l’ufficio in disordine, la maggior parte delle persone non direbbe: “Che vergogna, com’è disordinato Pedro”, ma piuttosto: “Ma chi si crede di essere questo Juan, che imbecille”.


A scuola invece ho ricevuto punizioni. Dei compiti in più, qualche bacchettata con il righello, qualche ricreazione saltata. Non ricordo che nessuna di queste punizioni mi abbia spinto a comportarmi meglio; al contrario, quando mi pareva che la punizione fosse ingiusta, quando per esempio punivano tutta la classe per qualche baldoria a cui non avevo partecipato, pensavo: “Adesso ho diritto di parlare durante la lezione, tanto ho già pagato il prezzo”. A proposito, il fatto di assegnare compiti in più (un tema, cinque moltiplicazioni, ecc.) come punizione, non l’ho mai capito. Una punizione, per definizione, deve essere qualcosa di brutto. E i compiti si suppone siano una cosa buona (o almeno questa è l’opinione degli insegnanti che li assegnano; io non ne sono tanto sicuro). Come si può pretendere che gli scolari facciano i compiti contenti se allo stesso tempo gli si sta dicendo che è una punizione? Non si possono punire i bambini con i compiti, come non si può far leggere, mangiare frutta o riordinare casa per punizione, perché così si sta dicendo che queste sono cose brutte.


Le punizioni non mi inducevano neppure a rispettare di più l’insegnante. Ho sempre preferito gli insegnanti che non le usavano. Molto presto mi sono reso conto che i migliori insegnanti non punivano perché sapevano imporre la propria autorità facendone a meno. I migliori non avevano neppure bisogno di urlare, minacciare, rimproverare; li rispettavamo e basta. Insegnanti seri, gentili e rispettosi che dicevano: “Fai questo” o “Non fare quello” e quasi tutti, quasi sempre, obbedivamo contenti. All’opposto c’erano altri insegnanti strepitanti, sarcastici, accigliati, irascibili e inefficaci, a cui facevamo finta di obbedire solo quando ci guardavano.


Quando ero bambino (come tutti i bambini, suppongo), non avevo una coscienza chiara di cosa mi avrebbe trasformato in adulto e delle molteplici implicazioni di questo processo. Sapevo che un giorno sarei stato adulto, naturalmente, come da qualche anno a quella parte molta gente sapeva che “la bolla immobiliare sarebbe scoppiata”, ma non avevo un’idea esplicita di cosa mi sarebbe capitato. In concreto non riflettevo sul fatto che anche i miei insegnanti erano stati scolari, si erano comportati male ed erano stati puniti. Ora che comprendo interamente questi aspetti, capisco anche che, mentre mi punivano e io li guardavo con espressione servile e contrita, loro sapevano, dovevano sapere, che io stavo pensando a quanto fossero imbecilli mentre meditavo tremenda vendetta; le stesse cose che probabilmente avevano pensato loro quando erano bambini. E il fatto che, pur sapendo questo, se la sentissero ancora di punire qualcuno, è qualcosa che non smette mai di sorprendermi.


Ebbi un paio di insegnanti che ci sgridavano dicendo cose tipo: “Quando vi comporterete come persone, vi tratterò come persone” e io, naturalmente, mentre assentivo in rispettoso silenzio (atteggiamento che sono solite adottare le persone prudenti di fronte ai prepotenti, e che questi ultimi interpretano erroneamente come efficacia del loro metodo) pensavo: “E io mi comporterò come una persona quando sarò trattato come una persona”. Addirittura ce n’era uno che diceva, con incredibile candore: “Non fate gli asini, che se ci mettiamo a fare gli asini vinco io”. E tutti, chiaramente, dovevamo reprimere un sorriso mentre gli davamo mentalmente ragione.


Curiosamente, non è possibile punire i figli per cose realmente gravi. Se nostra figlia rapinasse una banca o se nostro figlio stuprasse una ragazza, non potremmo punirli. Lo proibisce la legge. Nessuno ha diritto ad amministrare la giustizia per proprio conto. Nemmeno la polizia può punire, solo i giudici. E solo rispettando una serie di garanzie, in base a una legge scritta prima del reato e previo ascolto dell’accusato, con l’assistenza di un avvocato e possibilità di ricorso presso un tribunale superiore. E se non si può punire il figlio per un reato, allora per cosa lo si può punire? Perché si sporca quando gioca, perché dice parolacce o prende brutti voti? Per delle sciocchezze?

La sedia per riflettere

Da qualche anno in Spagna vanno di moda la “sedia per riflettere” e il “cartellone delle regole” (un grande foglio appeso al muro con le regole di casa) grazie alla trasmissione televisiva Supernanny. Di nuovo vale il principio già menzionato riguardo a punizioni e compiti: davvero quello che intendiamo dire a nostro figlio è che sedersi a riflettere è una punizione? Forse che i “bambini buoni” non si siedono e non riflettono?


Sembra che questa benedetta sedia per riflettere si stia diffondendo non solo nelle case, ma anche nelle scuole. Il che mi sorprende, perché si suppone che gli educatori abbiano studiato e debbano applicare metodi pedagogici “scientifici”, e non qualunque cosa vedano in televisione, ma tant’è.


Un’amica, Rosa Jové, psicologa e autrice di libri sull’educazione, raccoglie le reazioni dei bambini davanti alla sedia per riflettere. Un paio di risposte mi sono piaciute in modo particolare (perdonate eventuali errori, cito a memoria):

  • Un bambino sui cinque anni con tutta la buona volontà ha detto: “Non si preoccupi, signora, so già riflettere in piedi!”.
  • Una bambina ha spiegato ai genitori: “Oggi mi hanno fatto sedere sulla sedia per pensare alle cattiverie” (perché i bambini non sono stupidi, si rendono conto che su questa sedia si pensa solo alle cattiverie; non gli diranno mai: “Siediti un momento a pensare al bellissimo disegno che hai fatto”).

Ho visto alcuni episodi di Supernanny originale, in inglese, con Jo Frost. So che ci sono diverse versioni locali, ma non le ho viste e non posso esprimere un’opinione. Debbo dire che nella serie originale ci sono diverse cose buone. Non mi convince per nulla il fatto che mostrino in televisione bambini chiaramente identificabili in situazioni compromettenti; io, di certo, non vorrei che si vedesse la mia faccia in una trasmissione su come correggere i pediatri con “problemi di comportamento”. Non mi piacciono neppure i consigli sul sonno, sempre in linea con il metodo Ferber (secondo cui il bambino deve dormire solo, quindi bisogna uscire dalla stanza e lasciarlo piangere un minuto, tre, cinque… fino a che si stanca e smette di piangere). Però mi piace che si dica con chiarezza ai genitori che per nessun motivo possono picchiare, urlare o insultare i bambini, che si insista con la necessità di dedicare tempo tutti i giorni ai figli, prestar loro attenzione, aiutarli con i compiti, giocare con loro, portarli a fare gite e fare altre attività in famiglia.


Le famiglie che appaiono nelle puntate di Supernanny spesso mostrano gravi problemi relazionali e di comportamento. Non solo i bambini. Immagino che con certi genitori determinati argomenti non funzionino. Lei adotta una strategia, non dice: “Non picchiate né insultate vostro figlio perché non è un comportamento etico e vostro figlio ha dei diritti”, ma dice: “Non picchiate né insultate vostro figlio perché dovete mostrare autorità, e se vi mettete a urlare e picchiare perdete controllo e autorità di fronte a vostro figlio”. È solo un altro modo di darvela a bere. E la sedia per riflettere ha la stessa funzione. Si tratta di stare seduti solo un minuto per anno di età, molto poco in confronto a quelle ore e ore di altri tempi, chiusi in camera o in una stanza buia. E benché ai genitori la si faccia passare come una sorta di punizione o di metodo per far riflettere il bambino su quello che ha fatto, l’obiettivo reale è quello di separare i genitori dal bambino per evitare l’aggressione. Mio padre era solito consigliarmi: “Prima di dire una stupidaggine, conta fino a dieci, e poi non dirla”. Ecco, la sedia per riflettere è una sorta di “prima di urlare o di picchiare vostro figlio di tre anni, allontanatevi da lui per tre minuti, così vi calmate un po’ e dopo non urlerete e non lo picchierete più”.


Quindi, se non avevate la benché minima intenzione di urlare o di picchiare vostro figlio, non c’è nessun bisogno di usare la sedia per riflettere. E se davvero qualche volta perdete le staffe e dite a vostro figlio cose di cui poi vi pentite, invece di farlo sedere in un angolo potete voi stessi appartarvi, in silenzio, per tre minuti. Siamo noi genitori che dobbiamo riflettere un poco per non combinare guai.


Purtroppo tutti preferiscono le soluzioni facili e veloci che richiedono poco tempo e impegno. Se il medico raccomanda una dieta sana, esercizio fisico e una pasticca, la gente si prende la pasticca e dimentica dieta ed esercizio. È un peccato che molta gente abbia notato, nella trasmissione Supernanny, solo la sedia per riflettere, e abbia dimenticato di non urlare, né insultare, né picchiare, o di passare più tempo con i figli, prestare loro più attenzione e mostrare maggior fiducia.

Le conseguenze

La parola punizione è stata inventata per non chiamarla con il suo vero nome: vendetta. È la stessa cosa: “Se tu mi fai questo, io ti faccio quest’altro”. Ma come succede di solito con il linguaggio politicamente corretto, quando è la cosa in sé che sembra brutta, comunque la si chiami, finirà per apparire ugualmente brutta. Punizione ormai non suona più bene e si cerca un altro nome, meno esplicito. Adesso va abbastanza di moda l’espressione conseguenze.


Un padre mi ha detto, qualche tempo fa: “Il bambino non vuole cenare perché ha visto che, anche se non cena, non ci sono conseguenze. Deve capire che invece ce ne sono. Ho pensato che quando non cena, non gli racconto una storia. Così vedrà che non cenare ha delle conseguenze”. Per quanto ci ragioni su, non riesco a capire la differenza tra queste “conseguenze” e non raccontare la storia al bambino come punizione per non aver cenato (e neppure capisco perché punire il fatto di non cenare: non è una brutta azione, una malefatta, un dispetto, semplicemente non ha fame. È suo pieno diritto non cenare).


Certo, il fatto che qualche genitore abbia confuso conseguenze e punizioni, e che neppure io veda bene la differenza, non toglie che in realtà siano cose diverse. Devo informarmi meglio, non posso rifiutare una cosa solo perché non la conosco.


Non riesco a trovare studi scientifici che parlino di punizioni e conseguenze, solo qualcuno sulle conseguenze delle punizioni; che non sembrano essere buone. Tracie Afifi e collaboratori6, per esempio, hanno studiato gli effetti di “severe punizioni corporali” (definite come spingere, trattenere, strattonare, schiaffeggiare o picchiare) in assenza di maltrattamenti gravi (abuso fisico tanto violento da lasciare segni o ferite, abuso sessuale o emotivo, abbandono fisico o emotivo, esposizione alla violenza tra i coniugi). È uno studio su misura per chi pensa che gli schiaffi non siano maltrattamenti. Ebbene, gli adulti che durante l’infanzia avevano ricevuto queste punizioni “che non sono maltrattamenti” erano più soggetti a disturbi mentali, tossicodipendenza e alcolismo.


Ho trovato invece una pagina web intitolata: “La grande differenza tra punizioni e conseguenze”7. Il titolo sembra promettere proprio la risposta che cerco. Sembra una pagina seria; l’autrice è Margaret McGavin, insegnante e dirigente scolastica con più di venticinque anni di esperienza. Comincia col dire che c’è una grande differenza:

Punire significa pretendere un risarcimento e attuare una rappresaglia per la disobbedienza commessa. Impartendo una punizione si fa soffrire il figlio (e ci si sente in colpa).Al contrario, le conseguenze di aver infranto le regole sono i risultati naturali dell’aver ignorato gli accordi presi con i familiari. Se in famiglia si è lavorato per arrivare a un consenso sulle “regole d’oro” da seguire in casa, allora tutti conoscono già le conseguenze del non tenerne conto. Usare il concetto di “conseguenza” pone la responsabilità sul figlio: lui ha deciso di rompere l’accordo comune, lui ha scelto di subire le conseguenze.


Come teoria, molto bella. Poi però vengono diversi esempi di regole (non dire mai bugie, fare i compiti, non mancare di rispetto alla mamma) e un solo esempio di conseguenza: “Oggi hai picchiato tuo fratello: non hai il permesso di giocare con gli amici”. Mi dispiace, ma non vedo differenze rispetto a: “Oggi hai picchiato tuo fratello; per punizione non esci a giocare”. Hanno cambiato il nome, ma continua a essere la stessa cosa.


E francamente, anche il fatto che la famiglia “ha lavorato per arrivare a un consenso sulle regole” mi stona. Che possibilità ha un bambino piccolo di negoziare con i genitori per arrivare a un consenso? Non solo il bambino non ha la capacità intellettuale e l’indipendenza per concordare alcunché; non c’è proprio il tempo materiale, una famiglia avrebbe bisogno di ore e ore, mesi e mesi, per dibattere ciascuna delle possibili regole (“Che ne dite, si può disegnare sul muro oppure no? E quali pensate debbano essere le conseguenze per aver disegnato sul muro? Molto bene, passiamo al prossimo punto all’ordine del giorno, si può sputare per terra?…”).


E se ci sono due genitori e tre figli, e i figli ottengono la maggioranza? Che succede se decidono che non è necessario fare i compiti, o che mamma e papà non devono mancare di rispetto ai bambini, o che si deve mangiare gelato per dessert tutti i giorni? E se il bambino rovescia vernice sul divano e risulta che ancora non è stata concordata nessuna regola a riguardo? No, non prendiamoci in giro, le “regole di casa” non si concordano, ma le pongono i genitori, e non saranno scritte, né saranno state comunicate in precedenza al bambino, ma verranno fuori al momento. E se è successo che il bambino abbia “concordato” una punizione, voglio dire una conseguenza, sarà perché lo abbiamo plagiato con la nostra superiorità dialettica, perché è evidente che lui avrebbe preferito non ci fosse punizione alcuna.


Non sto criticando il fatto che le regole le impongano i genitori. È logico, è nostro dovere. Non possiamo sederci e metterci d’accordo su tutto con un bambino piccolo. I bambini non sanno quello che fanno, noi sì. Abbiamo il diritto e il dovere di porre regole ragionevoli, di insegnarle ai nostri figli e di cercare, con le buone maniere, di farle rispettare nella forma appropriata alla loro età.


In definitiva, l’affermazione: “Lui ha deciso di rompere l’accordo e scelto di subire le conseguenze” continua a essere il “te lo sei cercato” di sempre. È il modo con cui gli adulti negano la propria responsabilità nella punizione. “Ah, io sono un ottimo padre, attento, affettuoso e rispettoso, ma è questa bambina che fa di tutto per essere punita, voglio dire, perché io applichi le conseguenze.”


Esiste anche un’idea più ragionevole, quella delle “conseguenze naturali”. Se non si studia, si prendono brutti voti; se si esce senza cappotto, si sente freddo; se non si mangia, dopo si ha fame; se non si raccolgono i giocattoli, li si perde. Però, attenzione, le conseguenze naturali devono essere davvero naturali: non vale nascondere a un bambino un giocattolo lasciato fuori posto, perché veda che così lo perde. Il giocattolo deve perdersi da solo. E chiaramente la maggior parte dei giocattoli non si perde, per quanto li si lasci sparsi in giro.


Il problema delle conseguenze naturali è che in molti casi non possiamo permettere che nostro figlio le sperimenti, sono troppo pericolose. Non possiamo permettere che nostro figlio giochi con fuoco o coltelli, che infastidisca il cane (“Vedi che succede? Se gli dài fastidio ti morde”) o che beva il liquido dei freni. E in molti altri casi non ci sarà nessuna conseguenza, per lo meno immediata e tangibile, anche se il bambino fa qualcosa di inequivocabilmente sbagliato: se mangia venti caramelle al giorno, non ci sarà nessuna conseguenza (ce ne saranno dopo diversi mesi, quando compariranno le carie); se picchia un bambino più piccolo, l’unica conseguenza sarà farlo piangere (ma questo non è qualcosa che preoccupa molto l’aggressore). Succede anche agli adulti: fumano e apparentemente non c’è nessuna conseguenza, fino a che dopo molti anni avranno la bronchite o il cancro.


Certo, in alcune situazioni concrete è utile lasciare che il bambino sperimenti le conseguenze delle sue azioni. Ma non la vedo come una “tecnica” per modificare il comportamento del bambino, piuttosto quello dei genitori: lasciate in pace vostro figlio perché le vostre continue ingiunzioni e consigli sono peggio delle conseguenze dei suoi errori.


Per esempio: il bambino che non si vuole mettere il cappotto. Un evento molto frequente con bambini piccoli: i genitori vogliono mettergli cappotto e sciarpa e il bambino piange opponendo resistenza. Logico, visto che ancora non è in strada e non sente freddo. I meteorologi, con strumenti, satelliti, computer e anni di studio, non possono prevedere il tempo con un anticipo di più di tre giorni, e pretendiamo che un bambino di due anni sappia che tempo farà tra cinque minuti? Non può! Un bambino che si trova in casa e ha caldo non è in grado di capire che tra cinque minuti, in strada, avrà freddo. Invece di fare liti assurde, tenete in mano il cappotto e uscite in strada con vostro figlio; nel giro di qualche minuto sarà lui stesso a chiedere il cappotto e se lo metterà contento. E soprattutto, non rovinate tutto con il tipico commento: “Vedi? Te l’avevo detto che faceva freddo!”; non c’è nessun punto da segnare, semplicemente portate il cappotto in mano e metteteglielo quando lo chiede. E può anche essere che non faccia tanto freddo come pensavate e che vostro figlio non chiederà proprio di mettersi il cappotto, e allora sarete voi che sperimenterete le conseguenze delle vostre azioni: per questa fissazione di mettere il cappotto, ora ve lo dovrete tenere in mano.


Un altro esempio: quando vostro figlio si mette le dita nel naso, o fa le smorfie, o cammina sulle punte, sui talloni o a saltelli, o striscia contro il muro o urla di allegria, invece di rimproverarlo, sgridarlo, dirgli di stare buono, di non strofinarsi, o che gli verrà la bocca grande, provate a non dire nulla di nulla. Permette a vostro figlio di sperimentare le conseguenze del fare tutte queste cose. Vedrete che non c’è nessuna, assolutamente nessuna conseguenza. Vediamo se i genitori imparano qualcosa da questa esperienza.

Nel 1998 un medico californiano, il dottor Donald Unger89 a quegli studi “che prima fanno ridere e poi danno da pensare”. È un esempio estremo della prolungata influenza che hanno i genitori sulla vita dei figli, e di quanto possano stancarsi alcuni bambini quando i genitori li rimproverano sempre per delle sciocchezze. Si osservi incidentalmente che, pur non credendo in linea di principio agli avvertimenti della madre, il dottor Unger fece l’esperimento con la mano sinistra. Non si sa mai.


Un ultimo esempio: i pasti. Ho già dedicato un intero libro all’argomento. Quando vostro figlio non vuole mangiare, che non mangi. Così sperimenterà le conseguenze: nel giro di qualche ora, avrà più fame. Se non ha pranzato, farà merenda o cenerà. Però, anche questa volta, non si tratta di una tecnica per modificare il comportamento. Per lo meno, non quello del bambino. Perché il suo comportamento è corretto: se non ho fame, non mangio; se ho fame, mangio. Se lo facessero tutti si ridurrebbero considerevolmente obesità, anoressia e bulimia. È il comportamento dei genitori a essere inadeguato; è assurdo far mangiare un bambino che non ha fame o mettere il cappotto a uno che non ha freddo.

Il perdono

Se avete avuto un’educazione religiosa, probabilmente ricorderete la parabola del figliol prodigo. “Un uomo aveva due figli…”. Era un uomo ricco: aveva servi e greggi di pecore. A volte i nuovi ricchi commettono l’errore di offrire ai figli una vita troppo agiata, viziandoli. Ma di solito le famiglie ricche da tempo, in cui il patrimonio si tramanda da generazioni, sanno inculcare ai loro fanciulli le virtù dell’impegno e del risparmio. Così che i due figli dovevano lavorare prendendosi cura delle greggi.


Forse il padre del figliol prodigo aveva preteso troppo. Il figlio maggiore (quello “buono”, obbediente) gli rimprovera con astio di non aver mai avuto un capretto per fare festa con gli amici. E il figlio minore finisce per ribellarsi: stufo di pascolare pecore, pretende la sua parte di eredità e se ne va di casa.


Il denaro lo sperpera con gli amici in vino e donne. Ma il denaro, come ben si sa, mostra la fastidiosa tendenza ad allontanarsi dal proprietario, e più viene sprecato, prima finisce. Rimanendo senza soldi, rimane anche senza vino, senza donne e (da non crederci) senza amici. Deve mettersi a lavorare, addirittura custodendo maiali. Guarda con invidia le carrube per i maiali, ma non gli permettono di mangiarle.


È in quel momento che decide di tornare dal padre. Non si aspetta di essere accettato come figlio, pensa di dirgli: “Trattami come uno dei tuoi salariati”. Il Vangelo, mi sembra, è piuttosto chiaro su un punto: non è realmente pentito. La sua motivazione principale, o meglio l’unica, per tornare è: “Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame!”. Non si domanda quanto abbiano sofferto i genitori, non pensa neppure lontanamente di aver agito male. Non si affligge per la loro pena, ma per la propria. Ha avuto tempo per pentirsi mentre stava con gli amici, il vino e le donne, ma è chiaro che non si è pentito neppure un po’. Se decide di tornare dal padre è solo per interesse, per mangiare pane in abbondanza invece di smaniare per delle carrube marce.


Cosa fa il padre quando il figlio torna con la coda tra le gambe, a mangiare a sbafo? Cosa raccomanderebbero oggi pediatri, psicologi, educatori con un ragazzo che commette un errore, e non una piccolezza, come non mettere in ordine o prendere brutti voti, ma niente meno che dilapidare in droga e prostitute metà degli averi della famiglia?


Dovrebbe punirlo? Qualche bella frustata? Sei mesi senza uscire il sabato, sei anni senza uscire il sabato? Niente dolciumi? Venti minuti (uno per anno di età) sulla sedia per riflettere affinché pensi a ciò che ha fatto?


Dovrebbe fargli vedere le conseguenze delle sue azioni? “Va bene, férmati se vuoi, ma sia chiaro che la tua parte di eredità l’hai già sperperata e ciò che resta è per tuo fratello.”


Dovrebbe fargli un sermone? È un libro religioso, un sermone capiterebbe a fagiolo: “Figlio mio, non sai quanto hai fatto soffrire me e tua madre. Non posso credere che tu abbia potuto ripagare in questo modo tutti i sacrifici fatti per te. Francamente, non mi aspettavo questo comportamento, non è così che ti abbiamo educato, sono profondamente deluso. Ora hai visto che succede a dissipare il denaro in vizi e peccati; solo l’onesto lavoro e la disciplina portano alla felicità…”.


Dovrebbe ricorrere all’ironia? “Bene, bene! Dove sono adesso quegli amici tuoi? Di certo qualcuno ti inviterà a pranzo!”


O addirittura al sarcasmo? “Brutta la fame, eh?”


Nulla di tutto ciò:


Si alzò e tornò da suo padre. Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: «Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio». Ma il padre disse ai servi: «Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato». (Luca 15:20-24)


Perdono. Perdono assoluto, immediato, incondizionato, senza la minima parola di rimprovero. Si ha persino l’impressione che il figlio venga premiato per ciò che ha fatto. Questo è ciò che pensa il fratello maggiore che “si indignò, e non voleva entrare”. E ancora un volta il padre non si arrabbia con il figlio maggiore, non lo rimprovera, non gli lascia patire le conseguenze (se non vuole venire alla festa, che se ne stia senza festa). “Suo padre allora uscì a supplicarlo”. Non gli intima di entrare (e quello era il figlio obbediente!), lo supplica.


Il fatto curioso è che si tratta di una parabola. Le parabole erano semplici esempi di vita quotidiana con i quali Gesù spiegava a un pubblico ignorante complicati concetti teologici o filosofici. L’idea non è: “Io, Gesù, vi raccomando di perdonare i vostri figli”, ma piuttosto: “Non è forse vero che qualunque padre, non è forse vero che chiunque tra voi, in circostanze simili, perdonerebbe suo figlio senza il minimo rimprovero? Ebbene, così farebbe il vostro padre celeste…”


In quale libro moderno sull’educazione dei figli avete letto che si possono perdonare? Tutto quello che leggo parla di vendette,… voglio dire “punizioni”,… voglio dire conseguenze, o nel migliore dei casi, di altre tecniche per modificare il comportamento, di strategie per fare in modo che il figlio obbedisca, che non ripeta i suoi errori. Davvero modificare il comportamento di nostro figlio è più importante che amarlo immensamente?


Non sto dicendo che i bambini debbano fare ciò che vogliono. Evidentemente ci sono cose che non devono fare e cose che invece devono fare, e dobbiamo dirglielo. Ho detto fin dal principio che noi genitori abbiamo autorità e che è nostra responsabilità esercitarla. Ma non è la nostra unica responsabilità, né la nostra principale priorità; né l’unico modo di educare e guidare i nostri figli è instaurando uno stato di polizia. Non serve stare tutto il tempo a stabilire,… voglio dire concordare regole, individuando possibili infrazioni e stabilendo le relative conseguenze (che secondo i sostenitori devono essere proporzionate, immediate e senza eccezioni o possibilità di ricorso). Allo stesso modo a volte non si vuole che il coniuge, o qualche parente, vicino o collega di lavoro, faccia qualcosa. Ma di solito basta dire: “Attenzione, per favore…” e se questo non funziona, in genere si preferisce lasciar perdere. Non passiamo la giornata imponendo conseguenze sugli adulti; perché con i bambini dovrebbe essere tanto diverso?

I premi

Nel mio libro Besame Mucho avevo già osservato che i premi non mi sembrano un buon metodo educativo (anche se certo, dovendo scegliere, meglio un premio che una punizione). Non mi piacciono i premi per diversi motivi:


Innanzitutto, sovente è difficile distinguere un premio da una punizione. “Se prendi un bel voto ti porto allo zoo” non assomiglia in modo sospetto a: “Se prendi un brutto voto, non andrai allo zoo?”.


In secondo luogo, spesso il premio è una cosa intrinsecamente negativa. “Non mangiare caramelle perché fanno male ai denti. Ma se ti comporti bene ti comprerò le caramelle.” Non risulta un po’ confuso?


Terzo, altre volte il premio è intrinsecamente buono, e quindi come potremmo negarlo? Vogliamo che i figli si affezionino alla lettura, che facciano attività fisica, che abbiano amici; come possiamo dire loro che gli compreremo un libro, li porteremo al parco, gli faremo invitare amici a giocare solo se prima prendono un bel voto o mettono in ordine?


Quarto, e più importante, i premi abbassano la qualità morale delle azioni. Sia dei bambini che dei genitori.


Chi fa le cose solo per ottenere un premio, non è un calcolatore? Se diciamo al figlio: “Metti in ordine, per favore” e lo fa, potrà sentirsi orgoglioso per aver fatto una cosa buona. E se gli diciamo semplicemente: “È più bello stare in una casa ordinata, vedi, metto qui i giocattoli e qui le matite colorate”, e cominciamo a raccogliere, magari ci aiuterà spontaneamente, o un altro giorno le raccoglierà lui di sua spontanea volontà, e si potrà sentire ancora più orgoglioso. Ma se gli diciamo: “Se metti in ordine ti dò cinque euro (o ti porto al cinema)”, non rimarrà con la sensazione di averlo fatto solo per denaro? Per di più, nel momento stesso in cui facciamo la proposta, non penserà che non abbiamo fiducia in lui? Non gli stiamo dicendo, in fondo: “Lo so che sei disordinato e non metti a posto anche se te lo chiedo, per questo devo offrirti un premio”?


E come genitori possiamo sentirci orgogliosi di ciò che abbiamo fatto? Porto mia figlia al parco o le racconto una storia perché le voglio molto bene, perché mi piace farla felice e mi diverto a fare cose con lei, o semplicemente sto allestendo un programma di incentivi alla produzione? Non le racconterei una storia se non avesse preso bei voti?


È già da anni, dicevo, che non mi piacciono i premi. Quello che allora non sapevo (e avrei potuto saperlo visto che è stato dimostrato scientificamente da decenni, ma non mi ero interessato) è che i premi, oltre a essere antipatici, sono inutili e controproducenti.

Lo dimostrano numerosi studi sperimentali sia con bambini che con adulti. La psicologa Wendy Grolnik ha riassunto questi studi in un libro intitolato The psicology of parental control (La psicologia del controllo genitoriale)10. Per esempio, si chiede a due gruppi di persone di fare una determinata attività, come dipingere. Ad uno dei gruppi si offre prima un premio se dipingono molto, all’altro no. Più tardi, una volta terminata la sessione e pagato il premio a chi era dovuto, li si lascia riposare per un periodo di tempo in una sala in cui vi è, tra le altre cose, del materiale da disegno. Quelli a cui non è mai stato offerto nessun premio disegnano molto più degli altri.


Questi sono i fatti e sono stati ripetutamente confermati: i premi e gli incentivi aumentano il comportamento premiato (se lo aumentano) solo mentre è in vigore l’offerta. Quando il premio viene ritirato c’è un effetto rimbalzo e non si torna al livello precedente, ma più in basso.


La spiegazione si basa sulla distinzione tra motivazione interna e motivazione esterna. Quando percepiamo di fare una cosa perché ce l’hanno chiesta, ci hanno obbligati, ci hanno promesso un premio o fatto pressione, la facciamo poco e male. Quando abbiamo l’impressione di fare una cosa perché ci piace, ne abbiamo voglia o perché ci è venuta l’idea, la facciamo di più e meglio.


È una di quelle cose che, una volta letta, si dice: “Ma certo! Come ho fatto a non pensarci prima?”. Il fatto che i premi siano controproducenti non dovrebbe sorprendere, perché lo si vede ogni giorno.


Il premio per eccellenza, nel mondo degli adulti, è il denaro. Ci pagano per lavorare.


Molti di noi lavorano solo per denaro, svolgono un impiego che non hanno mai cercato né apprezzato, ma per mangiare qualcosa bisogna fare. Altri hanno la fortuna di fare un lavoro che amano, per cui hanno studiato per anni, che forse sognavano fin da bambini.


Ma la maggior parte della gente, persino gran parte di chi ha scelto una professione per vocazione, desidera lavorare il meno possibile. Si desidera che arrivi il sabato, il lunedì è seccante. Si sognano le vacanze. Quando è stato annunciato che il pensionamento era spostato dai sessantacinque ai sessantasette anni, tutti si sono lamentati. Se qualcuno ha detto: “Bene, mi godrò altri due anni del mio piacevole lavoro!”, io di certo non l’ho sentito. E se ci dicessero che si deve lavorare un’ora in più al giorno o che ci tolgono una settimana di vacanze, come la prenderemmo?

E delle poche persone che, ciò nonostante, continuano a svolgere con piacere il loro mestiere, desiderando lavorare di più, fermandosi più ore, portandosi il lavoro a casa, cosa si dice? “Si vede che non lo fa per soldi!” Quando qualcuno si adopera con inusitata energia sappiamo che non lo fa per il premio o gli incentivi, ma per altri motivi.


Ci danno ogni mese un premio per aver lavorato e ci promettono un premio uguale per farlo il mese successivo. Ma come risultato non ci diamo da fare sempre di più, né ci piace sempre di più il nostro mestiere; facciamo il minimo indispensabile per ottenere il premio e non alzeremmo un dito se smettono di pagarci.


D’altra parte la sera, nei fine settimana o in vacanza, si fanno altre cose. Ci si dedica a sport, lettura, escursionismo, filatelia, danze regionali o sudoku. Cose per cui nessuno ci paga; al contrario, di solito siamo noi a dover pagare. Attività che a volte richiedono più tempo e impegno del lavoro, ma che ci piacciono di più. Si dice: “Sono stanco morto” sia al ritorno dal lavoro che uscendo dalla palestra, ma non lo si dice con lo stesso tono, con lo stesso sorriso, volendo dire la stessa cosa. Ci sono fatiche “buone” e fatiche “cattive”. E si aspetta il pensionamento per poter dedicare ancora più tempo alla lettura, al canto corale o ai viaggi.


Solo in un caso concreto si è visto che il premio serve da incentivo e stimola un maggiore impegno: quando è inaspettato. Se ci viene promesso un bonus per trovare più clienti nel mese seguente, ci si sente sotto pressione e l’efficienza potrebbe non essere molto buona, magari si teme di non essere all’altezza. E in ogni caso l’impegno calerebbe nel mese in cui non sono previsti bonus. Al contrario, se il capo dice senza preavviso: “Congratulazioni, il mese passato ha trovato molti clienti, avrà una ricompensa speciale”, ci si sente capaci ed efficienti, si assapora il successo, e probabilmente si lavorerà con più entusiasmo per molti mesi.


Il fatto però che sia efficace come stimolo non significa che lo si debba applicare con i figli. Di sicuro, se facciamo una sorpresa a nostra figlia dicendo: “Visto che hai preso bei voti, andremo a fare una gita”, non svalutiamo la qualità morale del suo studio. Lei sa di non aver studiato per interesse, ma per convinzione, e che quel premio è una cosa a parte. Svalutiamo però la qualità morale del nostro premio; come se non volessimo fare cose con lei per amore, ma solo perché ha preso bei voti. Così io preferisco dire soltanto: “Visto che finalmente sei in vacanza, faremo una gita”.

Gli elogi

Gli elogi, spiega la Grolnick, in genere non sono demotivanti come i premi. Ma attenzione, dipende dal tipo di elogio.


Ci sono elogi alla persona: “Sei molto brava in matematica”; “Sono orgoglioso di te”; “Sei un bambino bravissimo”.


Elogi al processo: “Hai studiato molto”; “Si vede che hai colorato con molta attenzione”.


Ed elogi al risultato: “Che bel disegno!”; “Guarda che bel voto ha preso Sandra!”.


Gli elogi al processo, e in misura minore al risultato, di solito sono motivanti: il bambino che riceve elogi cerca di continuare a fare le cose bene. Specialmente se si mostra un interesse reale. “Che bel disegno!” può essere un elogio superficiale e monotono; nostro figlio sarà più contento se dedichiamo qualche minuto alla sua opera facendo osservazioni più concrete: “Guarda, esce persino fumo dal comignolo”, “Questo cavallo sembra stia correndo”, “Ieri hai passato molto tempo a disegnare, si vede, hai messo molti dettagli, come questi pesciolini nello stagno…”. E se ci pensate, questi non sono nemmeno elogi, non usano la parola bene, non esprimono giudizi. Sono semplicemente manifestazioni di interesse, del fatto che ci piace guardare i suoi disegni. E penso che questo non si possa né si debba fingere. Dimentichiamo che gli elogi al processo possono essere motivanti, non trasformiamo la conversazione con i figli in una strategia di manipolazione. Se vi interessa davvero quello fa vostro figlio, lui se ne accorgerà.


Al contrario, gli elogi generici alla persona possono risultare demotivanti. Nostro figlio potrebbe avere la sensazione che lo amiamo o che siamo orgogliosi di lui perché studia (cioè, che se non studiasse…), o che deve mantenere un certo livello perché altrimenti perderà la nostra stima. Si sente pressato, e le cose non si fanno bene sotto pressione. Peggio se ne approfittiamo per sollecitarlo ancora più sfacciatamente: “Continua così, potrai prendere voti sempre più belli”, “Che casa ordinata, vediamo se dura!”.


Lo stesso accade con le critiche. Quando è necessario farne una, è importante farla al processo o al risultato (“Potresti rifare questa moltiplicazione?”, “Quando rimetti in ordine, è importante che guardi sotto il letto, hai lasciato i calzini sporchi”, “Queste case ti sono venute un po’ storte”); ma nessuna critica alla persona (“Non fai attenzione”, “Sei disordinata”, “Non ci metti interesse, fai tutto così come viene”).

Il giornalista Po Bronson ha pubblicato nel 2007 un interessante articolo sull’argomento11; potete leggerlo in inglese su Internet.


Una delle maggiori ricercatrici in questo campo è la dottoressa Carol Dweck, della Columbia University, e penso che valga la pena esaminare in dettaglio uno dei suoi studi più importanti12.


Si tratta di uno studio in due parti che indaga gli effetti delle critiche e degli elogi. È stato realizzato su poco più di 60 bambini dai cinque ai sei anni che frequentavano una scuola. In entrambi i casi, un ricercatore adulto (non al corrente dei presupposti dello studio) proponeva a ciascun bambino quattro situazioni distinte, che in seguito venivano rappresentate insieme tramite un pupazzo. Il ricercatore spiegava al primo bambino il “copione” del gioco, sulla falsariga di: “Facciamo che questo pupazzo è la maestra e questo sei tu, e la maestra ti ha detto che…”.


Per esempio, in una delle quattro situazioni il pupazzo-maestra dice al pupazzo-bambino di mettere via le costruzioni con cui ha giocato.


Tu volevi farlo proprio bene, ma vedendo ciò che hai fatto, pensi: “Ahi, ahi, i mattoncini sono messi male e ammucchiati in disordine”; ma hai lavorato molto per metterli a posto, così dici alla maestra: “Signora Billington, ho messo a posto le costruzioni”. La maestra guarda e dice: “I mattoncini sono messi male e ammucchiati a caso”.

Chi conduce l’esperimento spiega questo copione al bambino, e quindi lo rappresentano, ognuno con il suo pupazzo. La scena si conclude con un commento negativo, fatto dal pupazzo-maestra al pupazzo-bambino, di un tipo precedentemente scelto a caso tra i seguenti (il tipo di commento si ripete nelle quattro situazioni per lo stesso bambino):

  • Critica alla persona: “Mi hai deluso”. È una critica moderata, ma i ricercatori hanno valutato che dire “sei cattivo” fosse una critica troppo brutale e traumatizzante per il bambino, anche in una situazione simulata con dei pupazzi.
  • Critica al risultato: “Non si fa così”, o una versione più articolata: “Non si fa così perché i mattoncini non sono in fila e continuano a essere in disordine”. Si è visto che le due risposte producevano effetti simili, perciò sono state analizzate insieme.
  • Critica al processo: “Forse si poteva fare in un altro modo”, detto in tono di critica.

In altre parole, ogni bambino sperimentava le quattro situazioni di gioco; alcuni bambini ricevevano quattro critiche al processo, altri quattro critiche al risultato e altri ancora quattro critiche alla persona. Poi si proponeva al bambino una situazione simile, ma senza finale. La maestra chiedeva al bambino di fare una casetta con le costruzioni, il pupazzo-bambino dimenticava di mettere le finestre e il pupazzo-maestra diceva: “Oh, non ci sono finestre”; subito dopo si ponevano al bambino una serie di domande per:

  • Valutare la casetta “realizzata” (virtualmente).
  • Valutare se stessi: “Quello che è successo nella storia ti fa pensare di essere un bravo bambino (o una brava bambina) o no? Gentile oppure no? Sveglio?
  • Identificare emozioni: “Come ti fa sentire quello che è successo con la casetta?” e dovevano scegliere tra varie faccine più o meno allegre o tristi.
  • Valutare la capacità di persistenza: “Ti piacerebbe rifare la casetta o preferisci fare un’altra cosa?”. Inoltre si davano al bambino i due pupazzi chiedendo come sarebbe proseguita la storia, per vedere se spontaneamente gli veniva in mente di rifare la casetta.
  • Valutare le idee generali sulla cattiveria. Al bambino veniva descritta la situazione in cui entra in classe un bambino o una bambina nuova che gli prende le matite, gli scarabocchia dei fogli e lo insulta. “Credi che si comporti sempre così?”. Un altro bambino nuovo, nella finzione, arriva in classe e sbaglia la verifica: “Vuol dire che è cattivo?”. Con queste domande si cercava di scoprire se i bambini pensano che essere “buono” o “cattivo” sia una caratteristica fissa, o se le persone possono cambiare; se pensano che la qualità morale di un individuo si misuri con il successo; e infine se le persone “buone” possono fare errori pur rimanendo buone. Concetti etici e filosofici complessi; ma i bambini piccoli hanno idee complesse, se solo ci si prende la briga di prestare loro attenzione.

I ricercatori si sono dati molto da fare per assicurarsi che i bambini non restassero con l’amaro in bocca. Dopo tutte le prove, ormai “fuori concorso”, sono state ripetute tutte le situazioni, ma con risultati positivi e commenti orientati al processo. Si è fatto in modo che tutti i bambini rimanessero con la sensazione di aver fatto un buon lavoro contribuendo a migliorare la storia. E tutto questo per non lasciare il bambino preoccupato per un “fallimento” immaginario in una situazione di gioco. Il rispetto mostrato dai ricercatori nei confronti dei bambini mi ha molto colpito. Temo che molti genitori (e maestri) non abbiano la stessa attenzione nella vita reale.


Ebbene, i bambini che avevano ricevuto critiche al processo valutavano in modo significativamente migliore la propria casetta di costruzioni immaginaria, si sentivano migliori e più allegri ed erano più disposti a riprovare a farla rispetto a chi aveva ricevuto critiche personali. Le critiche al risultato determinavano effetti intermedi.


Vediamo se risulta chiaro: è proprio chi crede di aver fatto meglio qualcosa che è più disposto a fare nuovi tentativi per ottenere risultati ancora migliori. Chi ha ricevuto critiche personali sembra pensare: “Non sono bravo a fare questa casetta, meglio che lasci perdere, non sono capace”.


Quando si offriva l’opportunità di inventare un finale per la storia, chi aveva ricevuto critiche personali tendeva a dire cose come: “Piangerà e andrà in camera” o “Dovrebbero mandarlo sulla sedia per riflettere”, mentre chi aveva ricevuto una critica al processo diceva: “Farò un’altra casetta con le finestre” o “Ritaglierò delle finestre di carta e ce le attaccherò”.


Inoltre, chi aveva ricevuto critiche personali aveva una tendenza chiaramente maggiore a pensare che un bambino “cattivo” continua a essere tale, o che chi ha sbagliato la verifica, l’ha fatto perché “cattivo”.


Certo, questo è solo ciò che il bambino pensa in quel momento, proprio quando ha appena fatto l’esperienza di ricevere, quattro volte di seguito, critiche di un tipo o dell’altro. Naturalmente quei sentimenti e quelle opinioni possono cambiare, lo studio dimostra proprio che sono cambiate dopo aver giocato un po’ con i pupazzi. Non pensate perciò sciocchezze come: “Un giorno ho detto a mia figlia che era cattiva, o stupida, e sarà rimasta traumatizzata per tutta la vita”. Niente di tutto ciò.


Però, certo, se quest’esperienza si ripete giorno dopo giorno, anno dopo anno, centinaia e migliaia di volte, in casa o a scuola o, peggio ancora, da entrambe le parti, è probabile che giungerà davvero a segnare in modo duraturo la personalità di vostra figlia. Ora che lo sapete, cercate di abolire dal vostro vocabolario frasi come: “Sei un disastro!”, “La mamma è molto arrabbiata”, “Non essere cattiva”, “Non fai mai attenzione”, “Che pazienza devo avere con te!”, e sostituitele con: “Dovresti finire di mettere via i giocattoli”, “Puoi rifare questa divisione?”, “Attenzione, le scarpe sono infangate, si sporcherà il divano”.


La seconda parte dello studio della Dweck, sugli elogi, è molto simile. Si proponevano a ciascun bambino, per mezzo dei pupazzi, le stesse quattro situazioni, ma con esito felice: i mattoncini risultavano ben disposti nella scatola e i bambini ricevevano poi uno dei seguenti elogi:

  • Alla persona: “Sono molto orgoglioso di te”, “Sei una brava bambina”, “Sei stata molto brava a farlo” (i tre commenti davano risultati simili).
  • Al risultato: “Così si fa”.
  • Al processo: “Ti sei impegnato molto”, o “Hai trovato un buon modo per farlo; ti vengono in mente anche altri modi?” (anche questi producevano effetti simili).

L’obiettivo in questo caso era scoprire se i diversi tipi di elogio influenzassero il modo in cui i bambini avrebbero affrontato un fallimento dopo i quattro successi. Prima di cominciare, e di nuovo dopo il terzo successo, si facevano al bambino le domande prima esposte riguardo alla valutazione del suo lavoro, di se stesso e delle sue emozioni. Si è riscontrato che non c’erano differenze significative prima e dopo gli elogi. Vale a dire che apparentemente non succedeva nulla.


Dopo i quattro successi, veniva presentata la storia della casetta senza finestre e si ponevano le stesse domande relative alla valutazione della casetta, di se stessi e delle proprie emozioni, e relative alla persistenza e alle idee sulla cattiveria.


Infine sono state presentate ai bambini due situazioni di fallimento (che comportavano scrivere numeri e fare un disegno) in cui il pupazzo-maestro si limitava a dire che c’era un errore, senza altri commenti. Di nuovo è stata misurata la persistenza, facendo scegliere se ripetere uno dei compiti in cui erano riusciti bene o il disegno venuto male, e tramite la domanda aperta: “Che faresti ora?”.


Di nuovo, i bambini che avevano ricevuto elogi al processo si sentivano più soddisfatti della propria casetta senza finestre e di se stessi, più felici e disposti a riprovare a farla meglio rispetto a chi aveva ricevuto elogi alla persona, e avevano anche maggior fiducia nella capacità delle persone di migliorare: i “cattivi” possono fare cose buone, e quelli che si sbagliano non per questo diventano “cattivi”. Gli elogi al risultato producevano effetti intermedi.


È solo un piccolo sforzo cercare di dire cose come: “Hai studiato molto” o “Mi piace come hai lasciato la casa”, invece di : “Come sei brava!” o “Sei molto ordinato”. Che i nostri figli imparino fin da piccoli che li valutiamo per il lavoro svolto, anche se non sempre raggiungono l’obiettivo; che i buoni risultati sono frutto del suo impegno e non di capacità innate toccate in sorte; che di fronte alle difficoltà è possibile riprovare invece di mollare.

Genitori e figli insieme
Genitori e figli insieme
Carlos González
Dall’infanzia all’adolescenza con amore e rispetto.Dall’autore di Besame mucho, un libro sull’educazione e l’accudimento di bambini che hanno già superato la prima infanzia. Essere genitori è un privilegio: ogni volta che nasce un bambino, nascono un padre e una madre con lui e da quel momento crescono insieme in saggezza e virtù.La maggior parte delle madri ha una tendenza naturale a fare le scelte migliori e lo ha fatto per millenni, così come importante è stato anche il ruolo della figura paterna, tendente a un comportamento più autorevole nei confronti dei figli. Con il tempo è cambiato l’approccio genitoriale e il modo di concepire il concetto di famiglia. È un errore, infatti, pensare che esista soltanto un modo giusto di crescere i figli: le madri di un tempo si comportavano tutte allo stesso modo poiché valori e usanze venivano tramandate da una generazione all’altra e, qualora avessero dei dubbi su come educare i propri figli, avrebbero chiesto consigli ad altre madri con esperienza. Oggi invece, il confronto con le vecchie generazioni non si presenta, soprattutto per scarsa fiducia in questi metodi, definiti e giudicati spesso obsoleti. Viviamo però in un mondo sovraesposto all’informazione, in cui chiunque può dire qualunque cosa su qualsiasi argomento e ottenere l’attenzione di un vasto pubblico. Imparare a leggere con senso critico, a chiedere riscontri, a distinguere i professionisti dai ciarlatani è ormai diventato necessario e imprescindibile. Carlos González, autore di numerosi best seller in tutto il mondo, con Genitori e figli insieme, per la prima volta si occupa dell’educazione e dell’accudimento di bambini che hanno già superato la prima infanzia. Una rassegna completa dei fantasmi che i genitori di oggi devono affrontare. Conosci l’autore Carlos González, laureato in Medicina presso l’Università Autonoma di Barcellona, si è formato come pediatra presso l'ospedale Sant Joan de Déu.Fondatore e presidente dell’Associazione Catalana per l’Allattamento Materno, tiene corsi sull’allattamento per personale sanitario e traduce libri sul tema. Dal 1996 è responsabile del consultorio sull’allattamento materno e da due anni cura la rubrica dedicata della rivista Ser Padres.È sposato, padre di tre figli e vive a Hospitalet de Llobregat, in provincia di Barcelona.