CAPITOLO V

Aiutare i bambini ad apprendere

Coltivare la naturale curiosità dei bambini

Avendo sperimentato la scuola familiare (homeschooling), mi sono sempre chiesta chi imparasse di più in famiglia: se il genitore o il figlio. La materia che ho imparato più di qualunque altra è la natura dell’apprendimento in sé. In effetti i princìpi di apprendimento della scuola familiare, per la maggior parte, sono l’opposto di quelli applicati nelle scuole convenzionali.


La componente fondamentale per il successo della scuola familiare è la fiducia: abbiamo fiducia che i bambini imparino ciò che sono pronti e interessati a imparare. Confidiamo che sappiano come progredire nel loro apprendimento. Se questo modo di vedere i bambini vi stupisce, considerate come i genitori applichino già questo stesso metodo di apprendimento nei primi due anni di vita dei bambini, quando imparano a stare in piedi, a camminare, a parlare e a fare molte altre cose importanti e complesse con un minimo aiuto da parte di altri.


Nessuno penserebbe che un bambino sia troppo pigro e abbia poca voglia di impegnarsi e di imparare a camminare; semplicemente diamo per scontato che ogni bambino abbia l’innata voglia di imparare quelle cose di cui sente il bisogno per conoscere, capire e partecipare al mondo che lo circonda. Gli esperti della prima infanzia ci illustrano alcuni princìpi dell’apprendimento:

  • I bambini sono curiosi per natura e hanno il desiderio innato di scoprire di persona com’è fatto il mondo che li circonda. John Holt, nel libro Come imparano i bambini, descrive il metodo di apprendimento dei bambini piccoli:
    “Il bambino è curioso. Vuole capire il significato delle cose, come funzionano, acquisire il controllo e la conoscenza di sé e dell’ambiente circostante e fare quello che vede che fanno gli altri. È aperto, osserva e sperimenta. Non si limita a osservare il mondo intorno a lui, non rifugge dal complicato, strano mondo che lo circonda, ma lo tocca, lo assaggia, lo solleva, lo piega, lo rompe. Per scoprire com’è fatto, lo disfa. È spontaneo. Non ha paura di sbagliare. E ha pazienza. È capace di sostenere una straordinaria mole di dubbi, confusione, mistero e suspense… La scuola è un posto che non offre molto tempo, opportunità o gratificazioni per questa forma di pensiero e di apprendimento”.1
  • I bambini sanno più di chiunque altro come procedere nell’apprendimento. Se lasciati fare, i bambini sanno istintivamente quale sia il metodo migliore per loro. I genitori più attenti e osservatori imparano presto quanto sia concreta e sicura questa forma di sapere. Sono genitori che dicono ai loro bimbi che vanno carponi: “Oh, che bravo! Stai imparando a scendere le scale all’indietro!” E non: “Stai andando al contrario!” Sono genitori attenti e consapevoli del fatto che ci sono molti e vari modi di imparare a fare la medesima cosa, e si fidano che i bambini siano in grado di capire quale sia il modo migliore per loro.
  • I bambini hanno bisogno di molto tempo per riflettere. Alcune ricerche hanno dimostrato che i bambini dotati di fantasia imparano meglio e superano più facilmente le frustrazioni rispetto a chi ha perduto quella capacità. Ma la fantasia ha bisogno di tempo e il tempo è il bene più a rischio al giorno d’oggi. Programmi di studio e attività extrascolastiche lasciano poco tempo ai bambini per pensare, sognare, scoprire soluzioni ai problemi, superare periodi stressanti o anche solo per rispettare la necessità universale di intimità e raccoglimento.
  • I bambini non hanno paura di fare errori e ammmettere che non sanno. Quando John Holt invitava i bambini a suonare col suo violoncello, ad alcuni di loro piaceva provare; i bambini che frequentavano la scuola e gli adulti invece si rifiutavano sempre. I bambini che frequentano la scuola familiare sono liberi dall’imbarazzo di trovarsi davanti a degli spettatori, sono immuni dalla paura dei brutti voti e conservano la loro apertura verso le nuove scoperte. Imparano facendo molte domande, non rispondendo a quelle di un insegnante. I bambini piccoli fanno molte domande e così i ragazzini più o meno fino alla terza elementare. A questo punto del loro iter scolastico, però, molti avranno preso atto che a scuola, per la propria autodifesa, è meglio nascondere la propria ignoranza piuttosto che voler sapere di più su una materia, e questo indipendentemente dalla loro curiosità.
  • I bambini gioiscono del valore intrinseco di ogni cosa che imparano. Non c’è bisogno di motivare i bambini con ricompense, voti o premi, che suggeriscono l’idea che un’attività sia difficile o sgradevole – altrimenti perché ti darebbero un premio che non c’entra un bel niente con quello che stai facendo? Il genitore saggio dice: “Ti piace proprio quel libro!” E non: “Se leggi questo libro, ti darò un biscotto…”

  • I bambini imparano a relazionarsi con gli altri interagendo con persone di qualunque età. Nessun genitore direbbe al figlioletto di un anno: “Puoi frequentare solo bambini i cui compleanni ricadono entro 6 mesi prima o dopo il tuo compleanno. Questo bimbo ha 2 anni, quindi potete guardarvi ma non parlarvi!” John Taylor Gatto, insegnante dell’anno dello stato di New York, ribadisce: “Il confinamento delle persone con altre esclusivamente della loro età o classe sociale è una cosa assurda e contro natura. È un sistema che di fatto li esclude dall’immensa varietà della vita”.2
  • Un bambino impara come funziona il mondo dalle esperienze che fa in prima persona. Nessun genitore direbbe: “Lascia stare il camioncino e torna a leggere il libro sui camion”. Chi studia in famiglia impara personalmente da esperienze reali. È il termine “scuola familiare” a essere equivoco. I bambini che la seguono non passano tutto il tempo in casa, e nemmeno si pratica l’insegnamento come avviene a scuola. Mio figlio una volta ha descritto la scuola familiare come “imparare facendo, senza che qualcuno ti insegni”. Per ironia, l’obiezione più frequente contro la scuola familiare è che i bambini vengano tenuti “fuori dal mondo”.
  • I bambini hanno bisogno e meritano di trascorrere molto tempo con la propria famiglia. John Gatto avvisa: “Tutto il tempo a disposizione dei bambini è letteralmente divorato tra la scuola e la televisione. È questo che ha distrutto la famiglia americana”.3 Molti homeschooler si accorgono che il beneficio più grande proveniente dalla loro esperienza di scuola familiare è una famiglia più unita. Ritengo di aver avuto l’onore e il privilegio di condividere il mondo di mio figlio e i suoi pensieri. Nel corso degli anni ho scoperto più cose grazie a lui sulla vita, l’amore e l’apprendimento che da qualsiasi altra fonte. La scuola familiare non è mai una strada a senso unico.
  • Lo stress interferisce con l’apprendimento. Einstein scriveva: “È un gravissimo errore pensare che la gioia di conoscere e scoprire si possa promuovere attraverso mezzi di coercizione”.4 Se un bambino di un anno cade mentre sta imparando a camminare diciamo: “Bravissimo! Vedrai che presto ce la farai!” Nessun genitore che abbia rispetto per il figlio direbbe: “Tutti i bambini della tua età sanno già camminare. Sarà meglio che ti sbrighi a farlo entro venerdì!” La maggioranza dei genitori comprende quanto sia difficile apprendere qualcosa se si è costretti, minacciati o se si prendono brutti voti. Holt mette in guardia: “quando si è ansiosi o preoccupati si pensa male e si capisce poco o nulla… se spaventiamo un bambino fermiamo di colpo il suo apprendimento”.5

Se da una parte lattanti e bambini piccoli ci insegnano molti princìpi dell’apprendimento, le scuole ne hanno adottati altri in funzione della necessità di insegnare a un gran numero di scolari nell’ambito di una frequentazione obbligatoria. La struttura stessa della scuola (obbligo di presenza, scelta delle materie scolastiche e dei libri, costante valutazione dei progressi dell’alunno) parte dal presupposto che i bambini non siano capaci di imparare spontaneamente, ma debbano essere costretti a farlo attraverso la spinta di altri.


L’apprendimento naturale non ha bisogno di tale struttura. Il successo dell’apprendimento autogestito (i bambini di scuola familiare superano regolarmente i compagni che vanno a scuola in quanto a titoli di studio, socializzazione, fiducia in se stessi e autostima) rivela chiaramente come i metodi strutturati inibiscano sia l’apprendimento che lo sviluppo individuale.

La scuola familiare segue i princìpi dell’apprendimento naturale, per preservare la curiosità, l’entusiasmo e l’amore per il sapere, innati in ogni bambino. John Holt scriveva che la scuola familiare è un atto di fede:


“È la fede che gli esseri umani sono animali che imparano per natura. Gli uccelli volano, i pesci nuotano, gli esseri umani pensano e imparano. Di conseguenza non c’è bisogno di motivare i bambini a imparare per mezzo di lusinghe, premi o minacce. Non è necessario continuare a scrutare le loro menti per accertarci che stanno imparando. Quello che dobbiamo fare, l’unica cosa che dobbiamo fare, è dare ai nostri figli tutto l’aiuto e la guida che ci chiedono e di cui hanno bisogno, ascoltarli con attenzione quando ci parlano, e poi lasciarli fare a modo loro. Ci possiamo fidare che sapranno fare il resto”.6

Quando la guida diventa manipolazione?

Molti genitori che fanno scuola familiare si interrogano sulla distinzione tra “guida” e “manipolazione”. Essendo sostenitrice della “descolarizzazione” (intesa come scuola familiare regolata da chi apprende), con mio figlio Jason a volte mi sono chiesta se non avrei dovuto incoraggiarlo in alcune attività verso cui non aveva interesse, o almeno ricordargli che da tempo trascurava alcune materie. Di solito succedeva dopo aver letto o sentito di un bambino che si era dedicato con risultati strabilianti a una materia o attività particolare, per esempio la musica. In quei momenti sono stati i libri di John Holt a darmi l’ispirazione e ricordarmi quanto la fiducia sia l’ingrediente fondamentale in un programma di scuola familiare.


I bambini sono circondati da informazioni di ogni genere: conversazioni, libri, televisione, film, internet, negozi, la natura. Un giorno, quando aveva cinque anni, Jason mi chiese cos’è l’opera. La cosa mi sorprese perché non avevamo mai parlato di questo argomento. Gli chiesi cosa l’avesse spinto a farmi quella domanda e lui mi rispose che era stato un cartone di Bugs Bunny. Mi ha fatto molte domande sui tipi di opera e ne abbiamo parlato per un po’. Nonostante il mio scarso interesse per la materia, ero certa del fatto che Jason sapeva se o quando avrebbe voluto maggiori informazioni. Sapeva che la nostra enciclopedia conteneva voci riguardanti l’opera e poteva trovare ulteriori informazioni presso la nostra biblioteca e altre persone che se ne intendevano. (Oggi su internet si trova praticamente tutto su qualsiasi argomento).


Avere a disposizione una guida nel genitore è d’aiuto, ma se l’interesse che il genitore ha per un certo argomento non è sincero questa guida varrà poco. Non avrei mai voluto fingere interesse per l’opera o altro. Negli anni ho visto molte volte Jason studiare e approfondire materie che non suscitavano alcun interesse per me, e mi fido del suo modo di impostare un curriculum di conoscenze.


Una materia può “far scattare” qualcosa in lui, oppure no, chi può dire il perché? Inizialmente l’arte, l’astronomia, la matematica e la fisica lo appassionavano molto; negli anni successivi invece si è dedicato ad altre materie. Cosa avrei ottenuto pretendendo che studiasse quelle materie prima? Molto probabilmente avrei suscitato risentimenti, frustrazione e ancor meno interesse. Se mi fido del fatto che lui sappia quello che ha bisogno di imparare, e quando sarà il momento, un giorno potrebbe interessarsi ad altre materie che aveva “perso”, e con quella motivazione interiore sarà capace di impararle più velocemente. E se anche dovesse “perdere” un’intera materia per tutta la vita, non ci sarebbe molto da preoccuparsi. In fondo nessuno ha interesse per tutto e non tutti i campi di studio sono essenziali per vivere una vita appagante.

In alcune situazioni tocca a noi suggerire o spiegare concetti importanti che i bambini potrebbero non essere pronti a imparare del tutto da soli, per esempio come evitare i pericoli, esprimere la rabbia in modi costruttivi, risolvere pacificamente i conflitti, la compassione per gli altri e così via. Ma c’entra proprio Shakespeare in questa categoria? Io credo di no, e comunque che fretta c’è? Sembra ci sia un tacito assioma nella società in cui viviamo, secondo cui se un bambino non padroneggia tutte, ma proprio tutte, le materie entro l’età di dieci anni, la scuola familiare ha fallito. Ma un bambino ha tutta la vita davanti a sé per imparare; John Holt, fermo sostenitore della scuola familiare, lo ha dimostrato imparando a suonare il violoncello dopo i 50 anni.


I bambini sono esperti nel cogliere i messaggi nascosti. Per quanto soppesiamo le nostre parole, se diciamo loro che è necessario che svolgano una certa attività, questo implica che quell’attività è talmente spiacevole o difficile che non la farebbero mai di loro spontanea volontà.


Se pretendiamo che un bambino faccia una cosa, questo implica un potenziale castigo. Se chiediamo di fare qualcosa che non sa o che si rifiuta di fare, che cosa succede? Ci mettiamo nella condizione o di lasciar perdere la nostra richiesta o di punirlo. Se non gli facciamo niente vuol dire che non gli chiedevamo davvero di farla. Una punizione, come spiegato in precedenza, comunica solo messaggi dannosi. Susanna Sheffer, redattrice della newsletter di scuola familiare “Growing Without Schooling”, considera un errore il forzare a imparare di più, perché “è irrispettoso, probabilmente non funzionerà e i rischi sono molto grandi”7. Forse la risposta alla domanda: “quando la guida diventa manipolazione?” è: “quando diventa ricatto”.


L’obiettivo della scuola familiare sta nell’aiutare i bambini a imparare come si impara. Contemporaneamente, noi genitori non dovremmo dettar legge su come e quando l’apprendimento debba verificarsi. Come ci ricorda tante volte John Holt, la pura e semplice verità è che possiamo e dobbiamo fidarci dei bambini.

I voti a scuola: utili o controproducenti?

Il segreto dell’insegnamento sta nel rispettare l’allievo.
Non siete voi a stabilire cosa debba sapere.
È predestinato, solamente lui possiede la chiave del suo segreto.
Ralph Waldo Emerson

Una scuola della mia città ha proposto alle famiglie di scegliere se i voti dovessero essere comunicati ai soli genitori o a nessuno. I ragazzi non sarebbero venuti a conoscenza dei propri voti. Penso che questo sia un passo nella direzione giusta. Tuttavia, un editoriale di un giornale locale accusava i genitori che sceglievano questa opzione di essere “iperprotettivi” verso i figli, impedendo loro di affrontare le importanti conseguenze della loro condotta scolastica.


Se nascondere alcune verità ai figli può essere “iperprotettivo”, i brutti voti non sono delle “verità”: i voti bassi possono dipendere da molti fattori che vanno al di là del potere dell’alunno, come le impressioni negative dell’insegnante, l’incapacità della scuola di adeguarsi alle differenze individuali, le situazioni familiari che distraggono, test con domande equivoche e pregiudizi su cosa costituisca l’importanza delle materie di studio. Inoltre se, come suggeriva l’autore dello stesso articolo, “i bambini sanno quando vanno bene e quando hanno difficoltà”, non hanno bisogno di voti. La sola funzione che dovrebbe avere un voto è quella di informare, e l’informazione più utile è se il metodo didattico usato dall’insegnante sia idoneo a un particolare studente, tenendo conto del suo metodo di studio e degli interessi che sta coltivando in quel momento.


L’autostima di un bambino è una risorsa molto preziosa. Quei genitori che cercano di conservare l’autostima dei figli evitando i potenziali rischi di un sistema basato sui voti, intrinsecamente dannoso, impreciso e fuorviante, andrebbero lodati, non criticati. Minacciare un bambino con la punizione dei brutti voti è pericoloso, non solo per la sua autostima e buona volontà, ma anche per l’instaurarsi di un clima che stimoli l’apprendimento. È tragico come la vergogna dei brutti voti, notoriamente soggettivi, riesca a bloccare l’apprendimento di un bambino e a distruggere ogni motivazione e fiducia nei propri meriti e capacità. Il vandalismo scolastico è spesso collegato alla rabbia e all’umiliazione che uno studente prova per aver preso brutti voti. Ma anche i bei voti trasmettono un falso messaggio di gratifica esteriore più importante del valore intrinseco di quello che si impara. Come faceva notare Albert Einstein: “il valore di un’impresa sta nell’impresa stessa”.


Ogni situazione didattica coinvolge la scuola, l’insegnante, i genitori, lo studente e la sua situazione personale assieme ad altri fattori; non è obiettivo o leale pensare che i voti bassi siano l’unico metro di valutazione del comportamento dello studente. Le scuole cercano sempre di aver ragione, vantando crediti quando le cose vanno bene e biasimando l’alunno o i genitori quando vanno male.


In ultima analisi è diritto dei genitori decidere se i voti siano utili o dannosi per i loro figli; dopotutto la scuola familiare è un’opzione legale in tutti gli stati e le province del nord America, come in molti altri Paesi, per imparare a casa propria evitando i voti. Ai genitori che vogliono prendere in considerazione questa alternativa, e a chiunque sia interessato alla natura dell’apprendimento, consiglio vivamente di leggere l’affascinante libro di John Holt: How Children Learn.


Stando agli storici, Einstein teneva appesa alla parete del suo laboratorio una targa che riportava: “Non tutto ciò che conta può essere contato e non tutto ciò che può essere contato conta”. Riflettiamo su queste frasi:

  • Non tutto ciò che conta può essere contato. Ho un’amica che possiede più saggezza, sensibilità, comprensione e creatività di chiunque altro io conosca. Riesce a intravvedere soluzioni a problemi quando nessuno ci riesce e sa come comunicarle con delicatezza e calore umano. È un esempio di gioia di vivere che ispira molte persone. Malgrado sia di gran lunga la miglior psicologa che io conosca, non ha titoli accademici. Se volesse lavorare come psicologa dovrebbe affrontare un lungo corso di studi.
  • Non tutto ciò che può essere contato conta. Ho conosciuto medici incompetenti e menefreghisti che non sarebbero degni di pulire le scarpe alla mia amica, ma i loro titoli professionali ispirano una falsa fiducia nei loro pazienti. Avranno pure un diploma appeso alla parete, ma non sanno rispondere col cuore. La vera saggezza non proviene dai libri e non si può misurare con esami, voti e titoli. Proviene, sempre, dall’amore che si ha ricevuto da bambini e dall’apertura verso gli insegnamenti della vita.

Nulla interferisce di più con l’apprendimento della paura: paura dei brutti voti, paura della delusione o della rabbia dei genitori e paura di fallire. Niente incoraggia di più a imparare che non la libertà di inseguire i propri interessi. Ma come possiamo dare questa libertà ai figli minacciandoli con interrogazioni e voti, trascurando i loro interessi, disprezzando il loro approccio individuale nell’apprendere e ignorando i loro tempi di progressione? Continuiamo a etichettarli come “promossi” o “bocciati” sulla base di esami che riescono poco più che a misurare la memoria a breve termine, mentre ignoriamo quanto di veramente valido e prezioso ci sia in ognuno di loro. Questa situazione sfortunata dura ormai da troppi anni e necessita di essere affrontata dai direttori scolastici, insegnanti e chiunque altro si impegni a difendere il benessere dei bambini nel mondo.

Se la natura competitiva del sistema dei voti scolastici verrà riconosciuta come nociva e si attueranno cambiamenti reali al riguardo nelle scuole, ciascun bambino potrà essere apprezzato e valutato in base ai suoi veri meriti. Iniziamo a contare su ciò che conta davvero.

Bisogna sottoporre a esami chi fa scuola familiare?

L’opinione secondo la quale i genitori che praticano la scuola familiare siano in qualche modo limitati nel giudicare i progressi dei figli, e di conseguenza si renda necessario esaminare i loro progressi, dipende dal fatto che l’apprendimento in casa avviene al di là del confine scolastico, e la sua filosofia e i suoi metodi non sono sempre ben compresi. Due domande, implicite nella volontà del legislatore, riguardano i genitori che praticano la scuola familiare:


1. Come fanno a sapere se i figli imparano?


La risposta, in parole povere, è l’osservazione diretta. Ho un figlio unico. Se un insegnante con un solo studente nella classe non riuscisse a valutare il suo livello di lettura non ci crederemmo: come fa un insegnante che passa tutti i giorni a fianco di un solo allievo a non capire una cosa così evidente? Eppure molti che non hanno dimestichezza con la scuola familiare pensano che i genitori, che sono in contatto continuo con i loro figli, abbiano necessità di esami esterni per stabilire tali progressi. Per i genitori che fanno scuola familiare è inconcepibile immaginare che possa sfuggirgli una cosa tanto interessante come la natura dell’apprendimento dei loro bambini.


Nessun genitore ha 25 bambini da seguire, quindi possiamo concentrarci sui miglioramenti dell’apprendimento dei figli che abbiamo senza le continue inevitabili interferenze presenti in una classe scolastica con varie situazioni e perdite di tempo non legate all’insegnamento stesso. Questa libertà da interferenze è una componente primaria per un clima che permetta un apprendimento vivo, felice e creativo.


Quasi tutti i genitori che mandano i figli all’asilo sanno fino a che cifra sa contare il loro bambino o quanti colori conosce, non certo attraverso esami e test, ma grazie a tutto il tempo trascorso ad ascoltare i discorsi e le domande del bambino e osservando come si comporta. Nella scuola familiare questo tipo di osservazione prosegue fino alla maggiore età e all’apprendimento delle nozioni più complesse.


Può succedere anche molte volte al giorno che un bambino ragionevolmente curioso chieda che cosa significhino certe parole che ha letto sui libri, sui giornali, al computer o alla televisione, nelle istruzioni dei giocattoli, sulle etichette dei prodotti, nella posta appena arrivata e così via. Se l’autostima del bambino è intatta, non esiterà a chiederci il significato di tutte quelle parole. Man mano che le domande di questo tipo diminuiscono e quando inizierà a leggere a voce alta certe parole (“Papà guarda, questo pacco è per te!”) è ragionevole desumere che l’alfabetizzazione stia progredendo. A un osservatore esterno potrà sembrare un po’ impreciso, ma i genitori che fanno scuola familiare imparano con l’esperienza come una valutazione più specifica e intrusiva sia inutile e dannosa.


Se lo stato volesse imporre esami obbligatori per determinare se tutti i bambini fanno progressi nell’imparare a camminare, secondo un preciso programma, tutti penseremmo che è una cosa assurda. Si sa che tutti i bambini in buona salute alla fine imparano a camminare e sarebbe inutile e frustrante cercare di accelerare questo processo. Sarebbe folle tanto quanto cercare di accelerare la fioritura di una rosa. Tutte le rose in buona salute fioriscono quando è il loro momento, e così tutti i bambini in buona salute cammineranno quando saranno pronti a farlo, e tutti i bambini di una famiglia in cui si legge prima o poi saranno capaci di leggere, dovesse anche succedere più tardi della media. Non c’è bisogno di accelerare o misurare questo progresso.


Il progresso di un bambino non è sempre costante; ci possono essere salti improvvisi da un livello al successivo. Una valutazione formale fatta appena prima di un tale salto fornirebbe un’informazione scorretta e fuorviante. Una sera, quando già sapevo che mio figlio Jason progrediva nella lettura (dalla diminuzione delle domande che mi faceva sulle insegne, le etichette, ecc.), che però non era ancora molto fluida, gli dissi che non potevo leggergli una storia perché non mi sentivo bene. Lui mi rispose: “Allora riposati, ti leggerò io un libro”, e iniziò a leggere, molto bene, un libro con un livello di difficoltà superiore a quanto mi aspettassi.


Così accade nel corso della vita di ottenere informazioni dirette e precise sui progressi dei figli. Fa parte integrante del modo naturale di “favorire” l’apprendimento del bambino ed è quasi sempre controproducente richiedere una prova. Se avessi chiesto a Jason di leggermi quel libro avrebbe potuto rifiutarsi, sentirsi in ansia come chiunque venga interrogato. Ma dal momento che lui stesso aveva scelto di leggere e la sua capacità non era sotto esame, non c’è stato alcun fattore ansiogeno negativo.


I genitori che fanno scuola familiare si fanno una buona idea di massima dei progressi del bambino nella lettura o in altre materie. Senza esami specifici per valutare l’apprendimento si possono sottostimare le capacità che il bambino ha sviluppato fino a un certo punto, ma quello che più conta sono le straordinarie scoperte che si faranno lungo il loro percorso.


2. Se i genitori che praticano la scuola familiare non misurano, non esaminano e non sorvegliano i progressi dell’apprendimento, come fa il bambino a sapere quando può passare a un livello successivo?


Se chiedessimo a un floricoltore come fa una rosa a sapere quando sboccerà, non saprebbe rispondere; diamo per scontato che questo miracolo sia racchiuso nel progetto di vita contenuto nel seme. Il processo della crescita intellettuale di un bambino è come lo sbocciare di una rosa; sarà anche un processo misterioso, tuttavia esiste in forma innata in ogni bambino fin dalla nascita. Non c’è ragione di imporre un programma estraneo a tale processo con cui nessuno, tranne il bambino, è in contatto diretto. Ogni imposizione di qualsiasi struttura artificiale sarà meno fruttuosa del permettere l’autodeterminazione al bambino. Ogni tentativo di imporre scelte dall’esterno rappresenta solo una presunzione che è poco probabile che coincida con l’autentico dischiudersi degli interessi e delle capacità nel bambino.


Come notava John Holt, i bambini non sono treni. Se un treno non arriva in orario a tutte le stazioni sarà in ritardo sulla destinazione finale. Ma un bambino può essere in ritardo a ogni “stazione” e può anche cambiare l’intero percorso del suo apprendimento e riuscire a raggiungere la piena padronanza di tutte le materie che studia in tempo utile per la sua vita.


Il bambino che studia in famiglia non solo sa cosa imparare, ma anche il modo migliore per farlo. Jason ha sempre escogitato metodi ingegnosi per apprendere quello che lo interessava di più. Il suo metodo per imparare le potenze e radici quadrate ad esempio, con righe e colonne di punti su un foglio, non mi sarebbe mai venuto in mente, nemmeno se avessi pensato che il mio bambino poteva essere pronto a imparare quei concetti in così tenera età. Verso i sei anni, quando già osservava il mappamondo, ha inventato un gioco che consisteva nell’accoppiare i Paesi e cercare di indovinare qual era il più grande, quale il più popoloso ecc. Ha giocato a lungo in questo modo; la sua creatività nel progettare modi curiosi per apprendere aveva di gran lunga sorpassato la mia e non ho mai dovuto dirgli una sola parola di incoraggiamento. Mio figlio non è un caso isolato; molti genitori che fanno scuola familiare possono confermare questo tipo di creatività e la gioia di conoscere dei loro bambini.


Jason non ha mai preso lezioni, nel senso convenzionale del termine. Ha imparato da solo a leggere e a scrivere, la matematica e le scienze tramite l’aiuto che chiedeva e di cui aveva bisogno. Tuttavia queste materie non sono state affrontate come categorie separate ma come parte dell’argomento che lo interessava sul momento. Il mio ruolo è stato più di agevolare che di insegnare, pur non essendo stata solo un’osservatrice passiva. Quando mi faceva domande, cosa che accadeva molte volte al giorno, gli rispondevo come meglio sapevo. Se non conoscevo le risposte facevo io stessa le ricerche: telefonavo, lo aiutavo a consultare un’enciclopedia, lo accompagnavo in biblioteca o cercavo qualcuno che fosse abbastanza esperto e potesse aiutarlo a cercare le risposte o a imparare una certa materia. In questo modo non solo rispondevo alle sue domande più specifiche, ma gli mostravo vari modi in cui poteva cercare informazioni. Di qualunque materia si trattasse, il nostro curriculum migliore consisteva nel “come imparare” e “come ottenere informazioni”.


Nell’era dell’informazione, poi, non ha neanche più senso ed è completamente fuori dalla realtà pretendere un meccanico nozionismo. Non solo è insignificante per un bambino, a meno che non coincida con i suoi attuali interessi, ma le nozioni sono troppo numerose e molte saranno obsolete quando sarà adulto. Se invece impara come cercare le informazioni, potrà applicare questa capacità di ricercare e aggiornarsi per tutta la vita.


Noi non pratichiamo la scuola familiare per motivi religiosi, eppure abbiamo sempre apprezzato la possibilità di porci domande di etica personale e di incoraggiare qualità umane come la gentilezza, l’onestà, la fiducia, la collaborazione, la creatività (soprattutto quando serve a risolvere problemi) e la compassione per gli altri. Questa è una parte significativa del nostro curriculum. Abbiamo apprezzato le mattine trascorse a parlare dei sogni che avevamo fatto di notte e a pianificare la giornata che avevamo davanti, invece di preoccuparci di aiutare Jason a prepararsi per andare a scuola. La vita moderna è già abbastanza frenetica senza che dobbiamo rinunciare a trascorrere più tempo possibile, serenamente, in famiglia.


Quella che ho appena descritto viene anche chiamata “descolarizzazione”, nel senso che sono gli interessi attuali del bambino a determinare il corso degli studi e i genitori non agiscono come insegnanti ma come assistenti e bibliotecari. Tra i vari metodi di scuola familiare questo è spesso incompreso, perché ha premesse molto diverse da quelle che implica la scolarizzazione convenzionale. Ci vedono più per quello che non facciamo che per ciò che facciamo con i nostri figli:

  • Non “insegniamo”.
  • Non imponiamo nessun arbitrario e artificiale programma di studi.
  • Non strutturiamo gli orari dei “giorni di scuola”.

Quello che invece facciamo:

  • Rispondiamo alle loro domande. Molti di noi pensano che questo sia l’aspetto più critico ed essenziale di un valido programma di scuola familiare.
  • Incoraggiamo le soluzioni creative e collaborative dei problemi che insorgono.
  • Andiamo alla ricerca di tutte le risorse e le informazioni utili per andare incontro a qualsiasi interesse che il bambino stia esplorando in un certo momento.
  • Cerchiamo di mostrare, attraverso le scelte familiari quotidiane, i benefici delle qualità morali individuali come l’amicizia, l’onestà e la responsabilità.
  • Coltiviamo la gioia di imparare attraverso gli esempi che nascono dalle nostre conversazioni, letture e ricerche.

Sebbene non sia impossibile seguire il percorso che ho descritto anche nelle famiglie che mandano i figli a scuola, è molto difficile farlo se genitori e figli hanno meno tempo per stare insieme e se le ore successive alla scuola sono occupate da progetti, compiti a casa e altre incombenze poste dalla scuola. In più i bambini scolarizzati si abituano a cercare un sostegno emotivo prevalentemente tra i loro compagni, e questa propensione difficilmente cambia quando non sono a scuola.


Piuttosto che guardare con sospetto gli studenti descolarizzati o che fanno scuola familiare, insegnanti ed educatori farebbero bene a considerarci come colleghi e possibili fonti di informazione sulla natura dell’apprendimento e della motivazione. In fondo trascorriamo quasi tutto il giorno a osservare, studiare e partecipare a questa straordinaria impresa. Inoltre, a differenza degli insegnanti tradizionali, abbiamo il lusso della continuità: osserviamo lo stesso bambino per molti anni, e assistiamo al fiorire del suo apprendimento anno dopo anno. Questo ci permette di capire la natura dello sviluppo intellettivo individuale a lungo termine.


Scuola familiare, descolarizzazione e insegnanti delle scuole pubbliche o private condividono gli stessi obiettivi. Il fatto di intraprendere percorsi diversi verso i medesimi obiettivi non andrebbe visto in modo conflittuale, ma come un’opportunità di esplorare, con spirito di collaborazione, le scoperte uniche che ciascun percorso è in grado di offrire.

“Disabilità dell’apprendimento”: chiamare una rosa con un altro nome

Immaginate di trovarvi in un vivaio: sentite discutere e andate a vedere che cosa succede. Trovate un giovane vivaista alle prese con un cespuglio di rose. Stizzito, cerca di aprire con forza i petali di una rosa. Gli chiedete che cosa sta facendo e lui spiega: “Il capo vuole che tutte queste rose fioriscano questa settimana, così la settimana scorsa ho avvolto con il nastro tutti i boccioli precoci e ora sto cercando di aprire quelli in ritardo”. Voi protestate dicendo che ogni rosa ha il suo tempo di fioritura; è assurdo cercare di rimandare o precorrere i suoi tempi: una rosa fiorirà sempre nel suo momento giusto. A quel punto vi accorgete che la rosa sta appassendo. Ma non appena glielo fate notare il vivaista replica: “Oh maledizione, ha una ‘disfioria’ genetica. Dovrò chiamare un esperto”. “Ma è lei il responsabile!” dite, “Tutto ciò che bisognava fare era soddisfare il fabbisogno d’acqua e sole della rosa e lasciar fare il resto alla natura!”


A una scena simile non si assisterebbe mai in un vivaio, ovviamente, eppure capita tutti i giorni nelle nostre scuole. Gli insegnanti, sotto la spinta dei presidi e dei programmi ufficiali, pretendono che tutti gli studenti imparino con la stessa rapidità e nello stesso modo. Ma i bambini non sono diversi dalle rose nel loro sviluppo intellettivo: nascono con la capacità e il desiderio di imparare e imparano con diversi ritmi e modalità. Come le rose, i bambini sbocceranno nel momento migliore se sappiamo andare incontro ai loro bisogni e offrire un ambiente educativo sicuro evitando di imporre loro i nostri dubbi, le nostre ansietà e tempistiche arbitrarie.

Mi si spezza il cuore quando penso ai bambini che vengono “diagnosticati” con ADHD (attention-deficit and hyperactivity disorder), la più recente delle “disabilità dell’apprendimento”. Molti ricercatori ed educatori ritengono che questi bambini e le loro famiglie siano stati crudelmente ingannati dall’uso di queste etichette. Il dottor Thomas Armstrong, specialista in disabilità dell’apprendimento, cambiò professione quando, dice, “ho iniziato ad accorgermi come la nozione di disabilità dell’apprendimento di fatto rendeva handicappati tutti i nostri bambini, colpevolizzandoli dei loro insuccessi e imputando loro misteriosi deficit nel cervello, invece di fare le riforme indispensabili al nostro sistema scolastico”.8 Armstrong insiste sul concetto delle differenze nell’apprendimento. Ha scritto un libro intitolato A modo loro, un affascinante e pratico manuale con sette stili di apprendimento già indicati dallo psicologo di Harvard Howard Gardner. Armstrong ci esorta ad abbandonare facili quanto dannose etichette come “dislessia” e a concentrarci invece sul vero problema della “dis-maestria”. Avverte che “le scuole liquidano milioni di bambini come limitati quando in realtà sono trasformati in disabili solo da metodi di insegnamento scadenti”.9 E aggiunge: “Ai bambini si addossano termini diagnostici quali dislessia, disgrafia, discalculia e affini, che suonano come affezioni di malattie esotiche e molto rare. Ma la parola dislessia è solo un latinismo retorico e altisonante per “difficoltà di parola”… Centinaia di test e programmi pretendono di identificare e rimediare a tali “disfunzioni neurologiche”. Ma i medici devono ancora stabilire con chiarezza un qualsiasi danno cerebrale che sia identificabile nella stragrande maggioranza dei bambini con tali cosiddetti sintomi. A me sembra chiaro, dopo quindici anni di ricerca e pratica nel campo dell’apprendimento, che si debbano incolpare le nostre scuole per i fallimenti e la noia che devono affrontare milioni di bambini…”10


Sono forse le disabilità dell’apprendimento i “vestiti nuovi dell’imperatore” del sistema scolastico? I filosofi fanno spesso uso di un interessante concetto chiamato “rasoio di Occam”, uno strumento utile per dare un taglio ai teoremi ridicoli e assurdi. Il rasoio di Occam dice che tra varie teorie che cercano di spiegare un dato fenomeno o un problema, in genere la più semplice è quella che deve essere accolta.


Allora vediamo, quali sono i fatti? È un fatto che molti scolari, per lo più maschi, abbiano difficoltà di apprendimento. Ma è anche un fatto che ci siano centinaia di migliaia di bambini al mondo, maschi e femmine, tra i quali questo difetto genetico è assente: quelli che fanno scuola familiare. In questo gruppo le difficoltà di apprendimento sono rare, eccetto per quei bambini che hanno lasciato da poco la scuola convenzionale.


Se i “disturbi dell’apprendimento” sono presenti soprattutto tra i ragazzi che vanno a scuola, allora il problema deve risiedere nell’ambiente educativo scolastico, non in qualche misterioso e non quantificabile “disordine neurologico”, altrimenti quel disordine sarebbe presente anche tra gli studenti della scuola familiare.

Etichette come “iperattività”, “fobia scolare” e “disturbi dell’apprendimento” sono cortine fumogene per nascondere il fallimento della scuola nel capire e conformarsi a quello che è il vero processo dell’apprendimento? Dopotutto non è un mistero che le scuole stiano fallendo nel loro compito: in molte zone i livelli dell’alfabetizzazione sono in declino e non hanno mai raggiunto il livello che avevano prima dell’introduzione delle scuole pubbliche. Quando l’Insegnante dell’Anno dello stato di New York, John Gatto, definisce la scuola dell’obbligo come “una condanna a dodici anni di prigione”11, capiamo che c’è qualcosa di terribilmente sbagliato e che il torto non sta dalla parte dei bambini.


In Teach Your Own, l’educatore John Holt scrive che il presidente della principale associazione per disabili dell’apprendimento ammette che esiste “scarsa evidenza scientifica per convalidare le etichette di disabilità”. Holt esorta i genitori a “essere estremamente scettici verso qualunque affermazione proveniente dalle scuole e dagli esperti riguardo ai loro figli e alle loro situazioni e necessità. Soprattutto devono sapere che quasi certamente è la scuola stessa con tutte le sue tensioni e ansietà a creare le difficoltà che i bambini sperimentano, e che la migliore terapia per loro sarebbe ritirarli dalla scuola”.12


Le famiglie che l’hanno fatto sono sollevate nello scoprire che il figlio sta riacquistando il piacere di imparare che aveva nei primi anni di vita. A differenza degli insegnanti della scuola convenzionale, che spesso cambiano alunni ogni anno, i genitori che fanno scuola familiare seguono per molti anni lo stesso bambino e imparano a rispettare il suo stile unico di apprendimento, a confidare nel suo programma personalizzato e ad ammettere che gli errori sono normali e temporanei dal momento che fanno parte del processo di apprendimento di ognuno di noi. Non c’è fretta dopotutto, e molti bambini che durante la scuola familiare hanno imparato tardi a leggere (10-12 anni) sono andati bene alle scuole superiori.13 Questo atteggiamento rilassato da parte dei genitori conserva l’autostima nel bambino e fa sì che le etichette siano irrilevanti, consentendo che l’apprendimento si produca quando il bambino è pronto, proprio come è successo per imparare: gli studenti di scuola familiare superano regolarmente i loro compagni di scuola convenzionale per quel che riguarda risultati scolastici, socializzazione, sicurezza e autostima. John Gatto sostiene che “i bambini che studiano a casa sembrano cinque se non addirittura dieci anni più avanti dei loro compagni ufficialmente istruiti, come capacità di ragionamento”.14


Per molti anni John Holt ha sfidato le scuole chiedendo loro di dimostrare quale sia la differenza tra la difficoltà di apprendimento (che sperimentiamo tutti ogni tanto) e la disabilità dell’apprendimento. Ha chiesto agli insegnanti come facciano a distinguere tra le cause che risiedono nel sistema nervoso di chi studia e i fattori esterni: ambiente di studio, metodi dell’insegnante, l’insegnante stesso o il materiale di studio a disposizione. La sua conclusione non stupisce: “non ho mai ottenuto una risposta coerente a queste domande…[tuttavia] questa distinzione è talmente critica che non vedo come si possa parlare a ragion veduta di problemi dell’apprendimento dei bambini se non riusciamo a dimostrarla”.

Per quale motivo gli insegnanti sono così sicuri che esistano diffusi disordini neurologici? Forse perché scambiano le cause con gli effetti. Come sottolinea John Holt: “L’insegnante dice: ‘leggere dev’essere per forza una cosa difficile, altrimenti molti bambini non avrebbero difficoltà a farlo’”. Poi aggiunge: “è perché presumiamo che leggere sia così difficile che molti bambini hanno difficoltà a leggere… tutto quello che otteniamo con le nostre preoccupazioni, ‘semplificazioni’ e metodi di insegnamento è di far diventare la lettura cento volte più difficile di come dovrebbe essere… si pensa male, si capisce male o niente, se siamo ansiosi e intimiditi”.15


Molti ricercatori hanno scoperto che le aspettative degli insegnanti sulle capacità di apprendimento di un alunno influenzano pesantemente le sue prestazioni scolastiche. Sempre la ricerca ha evidenziato una forte correlazione tra le preoccupazioni del bambino e gli handicap percettivi, e ha dimostrato come evitando l’ansietà (e trattando allergie alimentari se presenti) diminuiscano molto le difficoltà. Ma non abbiamo bisogno degli esperti e dei ricercatori per farci dire quello che è sbagliato. Dobbiamo solo ascoltare i nostri figli che per anni ci hanno trasmesso la loro sofferenza, frustrazione, confusione e rabbia. Quando i figli sono spinti all’assunzione di droghe, all’autolesionismo o al suicidio, è evidente che stanno cercando di comunicarci qualcosa di vitale importanza.


Le difficoltà dell’apprendimento sono in realtà la comprensibile risposta di ragazzi normali costretti a conformarsi alle condizioni anormali delle classi scolastiche convenzionali? Le scuole hanno fallito nel distinguere la differenza cruciale tra i veri problemi fisici e neurologici e i più comuni e temporanei errori dell’apprendimento, aggravati dallo stress? Mentre le presunte anomalie neurologiche non sono mai state identificate, non è difficile scoprire diverse condizioni anomale nell’ambiente educativo scolastico: competizione forzata, inattività fisica (penosa soprattutto per i maschi); frammentazione tematica e argomenti che hanno poca relazione con gli interessi e le esperienze personali dello studente; esami continui e inquisitori dei progressi; insufficiente tempo trascorso in famiglia; poche opportunità di incontrare persone di età diversa; mancanza di tempo e riposo per la propria intimità e raccoglimento; brusca rotazione delle materie (che ostacola la sedimentazione dell’apprendimento); poca possibilità di avere attenzione a tu per tu da parte di un insegnante; poche possibilità di fare i compiti e condividere idee insieme ai compagni (occasione d’oro perduta); scherno da parte di compagni frustrati; demoralizzazione indotta da sedicenti etichette; e soprattutto l’indegnità di ridursi a una “non-persona” impotente i cui legittimi bisogni e i tentativi di comunicare vengono soffocati in difesa delle istituzioni. Tutti problemi che si possono evitare con la scuola familiare, a patto che le leggi che regolamentano questa forma di scuola permettano sufficiente autonomia.

“Etichettare è disabilitare”, perché i bambini credono a quello che diciamo loro. Se proprio dobbiamo etichettare qualcosa, che sia l’ambiente scolastico, non lo studente. Invece dei “bambini iperattivi” dobbiamo preoccuparci delle scuole “passivo-coercitive”; invece degli “studenti con deficit dell’attenzione” dobbiamo preoccuparci delle aule “creativo-deficitarie” e di programmi di studio “gravemente deficitari”; invece di parlare di bambini con “fobia scolare” dovremmo usare termini sinceri come “ansiosi” o “intimoriti” (e cercare con estrema attenzione le cause di quell’ansietà). Facciamo ancora riferimento al rasoio di Occam e guardiamo qual è la teoria più semplice che coincide con la realtà dei fatti, non la più oscura e complicata! Un ambiente stressante, minaccioso e punitivo è una spiegazione ampiamente sufficiente per i problemi dell’apprendimento. Non abbiamo bisogno di confonderci le idee con tecnicismi scolastici, teorie indimostrate e capri espiatori che servono solo a proteggere un’istituzione sociale che boccia i nostri figli.


Cosa bisognerebbe fare invece? Norman Henchey, professore della McGill University, consiglia di “ripensare completamente la nozione di scolarizzazione obbligatoria”.16 Henchey difende il ritorno alla scuola familiare e ad altri “percorsi di maturazione… [come] corsi di formazione, servizi ufficiali e non per l’insegnamento, e servizio pubblico. Si potrebbe offrire ai giovani una gran varietà di iniziative”. Forse a quel punto potremo rispettare lo stile di apprendimento di ogni bambino e, come incitava Armstrong, dargli l’incoraggiamento di cui ha bisogno per sentirsi un essere umano capace e realizzato. I bambini sono nati per imparare. Meritano un ambiente di studio sicuro e stimolante, dove possano apprendere in un clima di tolleranza, rispetto, gentilezza e fiducia, non cinismo ed esercizio di minacce e della forza. Come ci ricordava Einstein tanti anni fa: “È un grave errore pensare che la gioia di conoscere e scoprire si possa promuovere mediante l’uso della coercizione”.

Cosa significa “educativo”?

Nel 1997 il Congresso degli Stati Uniti, con un aggiornamento di legge del Children Television Act, obbligava tutte le emittenti televisive a trasmettere almeno tre ore al giorno di programmi “educativi e di informazione”. Un articolo di “USA Today” riportava le opinioni dei lettori su cosa volesse dire per loro “programmi educativi e di informazione”.17 A questo proposito la commedia I Love Lucy18, uno dei miei programmi preferiti, suscitava varie risposte.


Un lettore di Detroit spiegava la sua opinione, condivisa da molti altri adulti: “Insegnamenti di vita possono esserci anche nei programmi di divertimento, ma ciò non significa che siano educativi. Imparare può essere divertente, ma è un’attività disciplinata. I Love Lucy non c’entra per niente”.


I lettori più giovani che scrivevano a “USA Today” sostenevano una tesi opposta. Facevano notare come I Love Lucy offrisse lezioni di vita importanti sulle conseguenze delle proprie azioni. Vedevano Lucy Ricardo e tutti i guai che combinava, e che per lo più le si ritorcevano contro, come un modello in negativo e consideravano lo show alla stregua di una commedia morale. Lo trovo un punto di vista interessante, perché nei lavori teatrali di Shakespeare comparivano spesso personaggi comici tratti dalle prime commedie morali e le sue produzioni, scritte per un pubblico di varia estrazione sociale, erano “intrattenimento popolare” quotidiano, spiega lo scrittore e storico dell’arte Frank Wadsworth nel suo World Book, alla voce Shakespeare: “La maggioranza del pubblico del Globe Theatre era composta da cittadini della classe media: commercianti e artigiani con le proprie mogli. Andavano a teatro per la stessa ragione per cui oggi andiamo al cinema, per rilassarsi un po’, per evadere dalle preoccupazioni quotidiane”.

Le commedie di Shakespeare furono scritte per divertire un pubblico variegato, lo stesso motivo per cui oggi si scrivono le sceneggiature televisive e le opere teatrali, e non erano certamente considerate “educative e di informazione” e tanto meno “attività disciplinate”. In quell’epoca Shakespeare veniva addirittura criticato quale attore divenuto autore senza una specifica istruzione. Se la televisione fosse stata inventata ai tempi della regina Elisabetta non sarebbe così difficile immaginare l’Amleto tra i primi programmi criticati per eccessiva violenza passionale. Oggi, ovviamente, le commedie di Shakespeare vengono considerate opere indispensabili in un disciplinato “programma di studio”, col risultato tuttavia sfortunato di disamorare molti studenti verso tali opere.


È evidente che i criteri per valutare se un’opera sia “educativa” o no cambiano con il cambiare dei tempi. In fondo qualunque opera di qualsiasi genere può fornire spunti “educativi e informativi” e suscitare riflessioni sulla mentalità, le tendenze, i ruoli e gli stili di vita dell’epoca in cui fu concepita. Infatti anche la prima serie di I Love Lucy è diventata materia di studio universitaria, nell’ambito della storia della letteratura americana.


Tuttavia mi chiedo anche se i lettori ritenessero I Love Lucy educativa nella comune accezione del termine. Mi colpiva il modo in cui era rappresentata la famiglia in questo show. Il piccolo Ricky veniva sempre trattato con molto affetto, dolcezza e pazienza, più che nei ritratti familiari di altre serie televisive. Dal mio punto di vista non esistono contenuti più “educativi” di quelli che promuovono valori umani e modelli genitoriali empatici, soprattuttto perché una materia di così vitale importanza è esclusa dalla maggioranza dei programmi di studio.


Per esempio, Jason mi ha detto di aver imparato molte cose tramite I Love Lucy, come:

– Un buon programma ha bisogno di buoni autori.

– Gli attori più bravi sanno improvvisare i momenti migliori di uno spettacolo.

– Molti programmi che si vedono oggi in televisione sono più violenti e di peggiore qualità di quelli vecchi.

– La tenacia (come l’insistenza di Lucille Ball di volere Desi coprotagonista) aiuta a raggiungere il successo.

– Fumare era molto comune negli anni ’50 e gli effetti dannosi sulla salute non erano ancora ben compresi.

– I ruoli coniugali sono cambiati molto nel corso degli anni.

– La vita privata di un attore è diversa da quella del personaggio che interpreta.

– Seguendo una serie televisiva negli anni, si possono individuare alcuni cambiamenti sociali che nel frattempo si sono verificati (come gli episodi in cui al piccolo Ricky è permesso dormire nel lettone dei genitori quando ha bisogno di conforto emotivo).

– Anche coppie innamorate non sempre riescono a restare insieme.


E potrei andare avanti.


Una cosa è certa: i bambini vengono al mondo con un’insaziabile curiosità. Commettiamo un grave errore se insegniamo a un bambino che solo determinate cose sono istruttive e altre no. Questo è controproducente, sempre e comunque, dato che i bambini ricevono sempre il messaggio implicito ma inevitabile in base al quale le materie educative, per loro stessa natura, sono difficili, noiose da seguire e che da soli non approfondirebbero mai. Altrimenti per quale motivo sarebbero obbligatori? La cosa più diseducativa che possiamo fare è convincere i bambini che “studio” equivale a “noia”. Infatti sanno istintivamente che imparare è divertente e avvincente. Fino a quando confidiamo in questo processo naturale, evitando di distruggere la curiosità con pregiudizi, minacce e pedanterie di ogni genere su che cosa sia “educativo” oppure no, i bambini continueranno ad apprendere attraverso tutte le proprie esperienze. Una scissione arbitraria delle esperienze giovanili tra “studio” e “divertimento” è sbagliata, fuorviante e produce solo danni all’apprendimento.


Quanti studenti avrebbero apprezzato di più Shakespeare se gli avessero detto che le sue commedie erano “divertenti”, invece di dire, come facciamo oggi, che sono “educative”. Speriamo che non succeda lo stesso a Lucy…

Genitori con il cuore
Genitori con il cuore
Jan Hunt
I bambini si comportano così come vengono trattati.L’amore senza condizioni, la gentilezza affettuosa, l’assenza di minacce e castighi, così come di ogni modalità manipolatoria nella relazione con i figli. Non esistono genitori perfetti, ma possiamo riconoscere l’importanza cruciale di come ci comportiamo nei confronti dei nostri figli.La propensione all’aggressività è legata, infatti, ai bisogni non corrisposti; dobbiamo, quindi, scegliere di accettare i bisogni umani dei nostri figli aprendoci a loro con il cuore.I bambini trattati con amore risponderanno con amore: per fare questo dobbiamo avere fiducia in loro e in noi stessi.Genitori con il cuore può indicarci la strada giusta per un’educazione più equilibrata: una guida tenera e illuminante in cui Jan Hunt, psicologa e terapeuta specializzata nel rapporto tra genitori e figli, coniuga i princìpi dell’attaccamento parentale ai diritti del bambino e alla filosofia dell’homeschooling, seguendo un approccio moderato e coerente per educare un bambino affettuoso, sicuro di sé, altruista e determinato. Conosci l’autore Jan Hunt, B.A. Psychology, M.Sc. Counseling Psychology, è direttrice del Natural Child Project e consulente editoriale del trimestrale “Empathic Parenting”, pubblicato dalla Canadian Society for the Prevention of Cruelty to Children (CSPCC).È membro della direzione del CSPCC e dell’Alliance for Transforming the Lives of Children, è presente sull’Advisory Board del The Child-Friendly Initiative and Attachment Parenting International e consulente per il Northwest Attachment Parenting.