L’analisi dei cambiamenti epocali verificatisi dopo la seconda guerra mondiale ci porterebbe lontano e non è questa la sede. Possiamo appena constatare come, insieme al mutare dei fenomeni legati al parto e alla nascita, ci siamo ritrovati con i frantumi della beata sicurezza che i genitori avevano prima della guerra, quella che mostrava pochi dubbi sui Sì e sui No. Si è come volatilizzata: “Come faccio a proibirglielo? E se poi piange?”. I genitori sono diventati incerti nelle abitudini quotidiane, viste come oppressive; siamo arrivati a giornate dominate dalla fretta e da esigenze di mercato, per cui non c’è più tempo per fermarsi ad ascoltare che cosa ci dice un bambino – appena nato o più grande – a osservare che cosa ci suggerisce la sua sola presenza. Siamo ormai adulti in fuga che non vogliono vedere e che alla fine diventano ciechi per davvero: il tempo con il nostro bambino, che intanto passa per molte mani, è ridotto in briciole a causa di questo stritolante ingranaggio, ma allora è lui a protestare perché è un cucciolo che ha bisogno di contatto, di sguardi, del latte della sua mamma – e non per tre mesi appena! – di quiete, di abitudini regolari.
Appena nato, gli occorre tempo per assestarsi e forse in principio le cose procedono, c’è tranquillità e il legame fra lui e la mamma comincia a formarsi. Ma la madre non è altrettanto contenta, assediata da mille interferenze, e il suo compagno con lei. “Non vorrai mica allattarlo per tanti mesi!”, “Il mio l’ho sempre preso in braccio quando piangeva perché non volevo traumatizzarlo”, “Quando piange, lascialo perdere: cominciano presto con i capricci!”, “Io ti cantavo la ninna nanna per farti dormire”, “Io la mettevo giù e si addormentava subito”.
Quella mamma che è appena tornata dall’ospedale, dove l’esperienza del parto è stata forse durissima a causa dei continui interventi medici e senza avere accanto per tutta la durata del travaglio una persona rassicurante, si ritrova in casa come vuota, incerta: è il primo neonato che incontra da nutrire, da lavare. Con tanti film visti, un abitante della luna le sembrerebbe più familiare. La nonna che potrebbe dirle qualcosa non c’è più e la madre vive in una città lontana; si è fermata qualche giorno, ma è dovuta ripartire… e il piccolo piange, piange, piange…
Anche lei piange, immersa in un senso di terribile solitudine, di palude depressiva in cui rischia di perdersi.
Oppure non è andata male in principio, ma lentamente le sirene del lavoro fuori, il desiderio di tornare ad essere “come prima”, la fatica dello stare sempre con un piccolino che non dice nulla, la convincono che è ora di cambiare: al terzo mese (con la complicità del medico) inizia lo svezzamento, al quarto è già il tempo delle pappe e del nido, al quinto siamo ormai agli omogeneizzati di carne e frutta… “In linea di massima è sempre meglio anticipare, no?”. Cominciano le intolleranze alimentari, ma si rimedia (forse) con qualche farmaco… È diventato un po’ nervoso, dorme meno, saranno i denti, compare un’allergia… Somiglia a suo padre… E anch’io da piccola… Succede a tanti, sarà l’aria!
I genitori intuiscono ciò che non funziona, eppure non ce la fanno ad ascoltarsi e a seguire il bambino: non si fidano del loro istintivo buon senso. Gli impongono cose lontanissime dalle sue esigenze e soprattutto lo tengono lontano da loro, dal loro corpo: preferiscono metterlo nella culla, nell’ovetto, in carrozzina e, più tardi, nel girello. Oppure lo infilano nel marsupio, ma sono sempre in giro, indaffarati e inquieti. Lo affidano ad altre persone – troppe e troppo diverse le une dalle altre – e lui, così sensibile alle differenze minime dell’odore, del tono di voce di chi lo prende tra le braccia, del gesto, dell’essere portato qua e là, è facile che sia ben presto “stressato”, lamentoso…
Ma c’è anche chi in casa lo tiene sempre in braccio, mentre al nido (dove può entrare anche a tre mesi) è costretto a fare i conti con l’educatrice che deve occuparsi di almeno altri quattro o cinque bimbi e che quindi non può fare altrettanto per lui.
Il bambino piange: è un prepotente? Un cattivo? O dà segnali di suoi malesseri, cui in principio sarebbe facile rimediare, ma che nella continua disattenzione si aggravano e mettono radici?
Le madri che seguono con equilibrio il loro piccolo sanno che, quando sta bene, chiama con piccole voci, diverse dai vagiti, da interpretare ogni volta con sfumature differenti: fame, stanchezza, bisogno di coccole, troppa luce, troppo chiasso, un ruttino, freddo, caldo, sonnolenza, voglia di vedere altro… Piccoli pianti di richiamo: in qualche modo il bambino “sa” che mamma arriva presto a consolare. La calma del piccolo la gratifica e lei, a sua volta, impara. Il neonato insegna al genitore e lo rassicura con messaggi del tutto personali.
Si instaura così tra loro due un bel cerchio di vita, di nuovo segnato dalla diversità: ogni bambino invia propri segnali differenti che solo una persona che lo curi in modo stabile riesce a interpretare. L’amore della madre e del padre si evidenzia nella lettura affettuosa e obiettiva delle richieste mute del figlio. Nella sua pace e nei frequenti sorrisi c’è la risposta: “Avete capito come mi sento io!”