PRIMA PARTE - Estivill, ovvero la negazione del bambino come persona - CAPITOLO I 

Il bello della diversità

Il Sole ogni giorno è diverso.
Eraclito, V secolo a.C.

Al mondo attuale che, in nome del profitto, tende a omologare ogni cosa – i cibi come gli abiti, le case come le feste, i modelli scolastici e quelli televisivi – la natura oppone sempre la sua inesauribile molteplicità, la varietà delle forme viventi e non viventi.


In ognuno degli innumerevoli miliardi di cristalli di neve che cadono ogni anno da millenni, gli atomi si dispongono su una base esagonale in modi sempre diversi, creando disegni meravigliosi e unici.


Allo stesso modo non esiste in un albero una foglia identica a un’altra (figurarsi in una foresta!) e nemmeno in uno sciame di moscerini o di api un insetto è in tutto uguale a un altro.


Somiglianza non è uguaglianza.


Nelle grandi comunità di animali ogni individuo ha un proprio odore caratteristico: dalle formiche che così si identificano tra loro alle femmine di gnu che, emigrando in mandrie di centinaia di capi attraverso vastissimi territori, grazie all’olfatto non confondono mai i propri figli e questi, pena la vita, ritrovano con lo stesso mezzo le loro madri. E come non vedere differenze di comportamento negli animali domestici che ci sono più vicini, anche in quelli di razza doc, nati in una stessa cucciolata?

Il massimo della complessità e dell’originalità si riscontra negli esseri umani per i quali alle indubbie differenze genetiche – DNA, impronte digitali, iride e altre ancora – si aggiungono quelle che provengono dall’adattamento agli ambienti e ai climi più diversi, dalla varietà di culture, tradizioni, storie familiari ed etniche… L’originalità di ogni individuo che nasce sul nostro pianeta è la più grande delle risorse (ma anche il rischio maggiore se nei gruppi sociali non ci si forma alla libertà di pensiero e a un senso vero di democrazia!).

Essere “sei miliardi di pezzi unici”1 come ha scritto Walter Kostner in un suo fumetto, complica non poco tanti aspetti del nostro vivere: non a caso ad esempio la medicina, malgrado tutti i suoi sforzi, non potrà mai essere scienza esatta e così altri settori di “cura” come l’ostetricia, la psicologia o la pedagogia in senso lato, dalla nascita alla vecchiaia, proprio in quanto si occupano di esseri umani.

La stessa “cura” è in sé qualcosa di molto vario, dato che è in primo luogo un rapporto tra individui, aperto a moltissime incognite. A queste rimediamo tanto meglio quanto più siamo aperti al nuovo, alla curiosità, all’attesa.

Di conseguenza ogni famiglia è diversa, ogni bambino che nasce è portatore di una sua unicità e di novità misteriose. Non sappiamo nulla del suo futuro sviluppo: chi diventerà, che cosa vorrà fare. Solo col tempo rivelerà questo o quell’aspetto del suo modo di essere, della sua vita mentale, ma il segreto che è al centro della persona comunque non potrà mai svelarsi del tutto agli altri (e in parte nemmeno a sé: non a caso i Greci antichi con quel loro celebre “Conosci te stesso” suggerivano di partire dal proprio interno per capire il mondo!).

Considerazioni banali? Non lo sono di certo se entriamo nel concreto delle relazioni umane: un bambino – unico nella storia dell’umanità per l’infinita combinazione di geni, tutto nuovo e originale – non può essere visto e trattato come tanti altri bambini simili a lui: simili, ma non uguali e infatti ciascuno ha fin dalla nascita propri bisogni, desideri e personalissimi modi di comunicarli senza parole. Sono quindi gli adulti che ne hanno cura a doversi mettere sulla loro lunghezza d’onda per assecondarne i ritmi vitali.

Possiamo invece ignorarli, ritenere che siano i bambini a doversi adattare a noi, al nostro ritmo di vita: così sarebbe lecito trattare i neonati come tanti bambolotti usciti da uno stesso stampo per scoprire, magari anni dopo, che bel disastro abbiamo combinato ignorandone sistematicamente le ricchezze interiori.

Chiariamo subito che questa sintonia è essenziale, a partire dal periodo non verbale che segna più o meno i primi diciotto mesi di vita, quando è l’adulto a dover leggere i segnali muti del bambino. (Siamo molto bravi a capire le esigenze di un cucciolo di animale domestico, ma non altrettanto quelle di un figlio da cui pretendiamo subito ragionevolezza, rispetto per le nostre esigenze, obbedienza…). Capire le sue è il nostro compito, anche se a piccoli passi metteremo confini di buon senso agli spazi di libertà che il nostro bambino, come ogni essere umano, ha diritto di avere.

Passi avanti e indietro

Agli inizi degli anni Sessanta, in pieno boom economico – quando diventammo di colpo ricchi e dimentichi di antiche sapienze – vennero introdotti su larga scala la nursery e quindi la separazione del neonato dalla madre, il latte artificiale a partire dal terzo giorno (il colostro, secondo i pregiudizi di allora, era un latte “cattivo” e si dava nel frattempo acqua e zucchero), l’orario rigido per le poppate, l’ossessione della bilancia e del “tutto disinfettato”. Nel decennio seguente si è aggiunto il regalo del latte in scatola all’uscita dalle cliniche.


Sul finire degli anni Settanta è cominciato un certo percorso a ritroso, tanto da riscoprire l’allattamento a richiesta, secondo il ritmo nato dall’intesa tra mamma e bambino. Pian piano – mentre un’anestesia ben poco discriminata trionfava nelle sale parto come “diritto” fino all’epidurale di oggi – molte donne (ma sempre una minoranza) sono tornate al parto in casa, per ritrovare una situazione intima, di attesa paziente, di ascolto di sé e del neonato. Nei tempi lunghi del parto fisiologico, liberato da paure e da interventi medici superflui, la donna scopre il significato del lento aprirsi del suo corpo per mettere al mondo e anche dei dolori, che accompagnano lo sforzo del bambino per nascere: non inutili e del tutto sopportabili, a poche ore dal parto li avrà completamente dimenticati. (In effetti il parto senza anestesia, sostenibile in una situazione di grande calma e protezione, rende più forte la madre e assicura al piccolo una nascita naturale: eppure è un quadro che alle soglie del 2016 appare quasi un segno di inciviltà!)2.

L’analisi dei cambiamenti epocali verificatisi dopo la seconda guerra mondiale ci porterebbe lontano e non è questa la sede. Possiamo appena constatare come, insieme al mutare dei fenomeni legati al parto e alla nascita, ci siamo ritrovati con i frantumi della beata sicurezza che i genitori avevano prima della guerra, quella che mostrava pochi dubbi sui Sì e sui No. Si è come volatilizzata: “Come faccio a proibirglielo? E se poi piange?”. I genitori sono diventati incerti nelle abitudini quotidiane, viste come oppressive; siamo arrivati a giornate dominate dalla fretta e da esigenze di mercato, per cui non c’è più tempo per fermarsi ad ascoltare che cosa ci dice un bambino – appena nato o più grande – a osservare che cosa ci suggerisce la sua sola presenza. Siamo ormai adulti in fuga che non vogliono vedere e che alla fine diventano ciechi per davvero: il tempo con il nostro bambino, che intanto passa per molte mani, è ridotto in briciole a causa di questo stritolante ingranaggio, ma allora è lui a protestare perché è un cucciolo che ha bisogno di contatto, di sguardi, del latte della sua mamma – e non per tre mesi appena! – di quiete, di abitudini regolari.


Appena nato, gli occorre tempo per assestarsi e forse in principio le cose procedono, c’è tranquillità e il legame fra lui e la mamma comincia a formarsi. Ma la madre non è altrettanto contenta, assediata da mille interferenze, e il suo compagno con lei. “Non vorrai mica allattarlo per tanti mesi!”, “Il mio l’ho sempre preso in braccio quando piangeva perché non volevo traumatizzarlo”, “Quando piange, lascialo perdere: cominciano presto con i capricci!”, “Io ti cantavo la ninna nanna per farti dormire”, “Io la mettevo giù e si addormentava subito”.


Quella mamma che è appena tornata dall’ospedale, dove l’esperienza del parto è stata forse durissima a causa dei continui interventi medici e senza avere accanto per tutta la durata del travaglio una persona rassicurante, si ritrova in casa come vuota, incerta: è il primo neonato che incontra da nutrire, da lavare. Con tanti film visti, un abitante della luna le sembrerebbe più familiare. La nonna che potrebbe dirle qualcosa non c’è più e la madre vive in una città lontana; si è fermata qualche giorno, ma è dovuta ripartire… e il piccolo piange, piange, piange…


Anche lei piange, immersa in un senso di terribile solitudine, di palude depressiva in cui rischia di perdersi.


Oppure non è andata male in principio, ma lentamente le sirene del lavoro fuori, il desiderio di tornare ad essere “come prima”, la fatica dello stare sempre con un piccolino che non dice nulla, la convincono che è ora di cambiare: al terzo mese (con la complicità del medico) inizia lo svezzamento, al quarto è già il tempo delle pappe e del nido, al quinto siamo ormai agli omogeneizzati di carne e frutta… “In linea di massima è sempre meglio anticipare, no?”. Cominciano le intolleranze alimentari, ma si rimedia (forse) con qualche farmaco… È diventato un po’ nervoso, dorme meno, saranno i denti, compare un’allergia… Somiglia a suo padre… E anch’io da piccola… Succede a tanti, sarà l’aria!


I genitori intuiscono ciò che non funziona, eppure non ce la fanno ad ascoltarsi e a seguire il bambino: non si fidano del loro istintivo buon senso. Gli impongono cose lontanissime dalle sue esigenze e soprattutto lo tengono lontano da loro, dal loro corpo: preferiscono metterlo nella culla, nell’ovetto, in carrozzina e, più tardi, nel girello. Oppure lo infilano nel marsupio, ma sono sempre in giro, indaffarati e inquieti. Lo affidano ad altre persone – troppe e troppo diverse le une dalle altre – e lui, così sensibile alle differenze minime dell’odore, del tono di voce di chi lo prende tra le braccia, del gesto, dell’essere portato qua e là, è facile che sia ben presto “stressato”, lamentoso…


Ma c’è anche chi in casa lo tiene sempre in braccio, mentre al nido (dove può entrare anche a tre mesi) è costretto a fare i conti con l’educatrice che deve occuparsi di almeno altri quattro o cinque bimbi e che quindi non può fare altrettanto per lui.


Il bambino piange: è un prepotente? Un cattivo? O dà segnali di suoi malesseri, cui in principio sarebbe facile rimediare, ma che nella continua disattenzione si aggravano e mettono radici?


Le madri che seguono con equilibrio il loro piccolo sanno che, quando sta bene, chiama con piccole voci, diverse dai vagiti, da interpretare ogni volta con sfumature differenti: fame, stanchezza, bisogno di coccole, troppa luce, troppo chiasso, un ruttino, freddo, caldo, sonnolenza, voglia di vedere altro… Piccoli pianti di richiamo: in qualche modo il bambino “sa” che mamma arriva presto a consolare. La calma del piccolo la gratifica e lei, a sua volta, impara. Il neonato insegna al genitore e lo rassicura con messaggi del tutto personali.

Si instaura così tra loro due un bel cerchio di vita, di nuovo segnato dalla diversità: ogni bambino invia propri segnali differenti che solo una persona che lo curi in modo stabile riesce a interpretare. L’amore della madre e del padre si evidenzia nella lettura affettuosa e obiettiva delle richieste mute del figlio. Nella sua pace e nei frequenti sorrisi c’è la risposta: “Avete capito come mi sento io!”

Ascoltare la madre favorisce in lei l’ascolto del neonato

Perché a certe coppie le cose vanno bene e per altre è tutto così difficile? Le ragioni possono essere tante. Di sicuro non va colpevolizzato alcuno, né giova farlo sentire incapace: ognuno fa come può. Tuttavia se la mamma – e la coppia – nei corsi pre-parto venisse informata di come potrà essere il “dopo”, di come sia possibile ascoltare e seguire un neonato; se durante il travaglio trovasse un ambiente accogliente all’insegna dell’attenzione individualizzata, qualcuno che, come un genitore affettuoso, le mostrasse i modi più confortevoli per cominciare ad allattare, che in una parola si mettesse in ascolto delle mille domande di quella donna di fronte all’evento miracoloso e travolgente che ha appena vissuto, allora lei stessa, pur stanchissima, proprio sull’onda di tanta emozione si metterebbe in ascolto del suo neonato.


Perché questa felicità deve essere oggi limitata e come rubata alle esperienze medicalizzate, che ormai per oltre il 90% costituiscono l’accoglienza alla nascita? E quanto nuoce ai neogenitori questo inizio della nuova vita a tre, quanto sminuisce il loro senso di sicurezza e il coraggio di dire no? Di sicuro nuoce al bambino appena giunto, negato nella propria identità di persona sensibile e in grado di comunicare, sapiente nella ricerca del legame con la madre – l’odore di lei, il calore del suo corpo – già abile nell’autoregolazione dei ritmi di veglia e sonno, di suzione e sazietà, subito pronto a cercarne lo sguardo, i movimenti del viso. Questo neonato umano non è certo “prole inetta” al pari di un gattino cieco o di un cangurino subito nascosto nel marsupio, che pure trovano da soli il confortante capezzolo. Anche lui lo sa fare3, ma noi non lo vediamo perché da troppo tempo lo prendiamo per i piedi (sì, ancora oggi in certi ospedali!), lo sculacciamo, lo laviamo, lo vestiamo… “Che diamine, non siamo dei selvaggi!”. Infine lo mostriamo alla madre per poco e poi glielo portiamo via, con la scusa del riposo, ma in realtà per esercitare controllo e dominio su entrambi.

Eppure, proprio a causa di questa interferenza – una delle prime a confondere le competenze neonatali – non riusciamo più a vedere come sia subito pronto a entrare in relazione con la madre e a esprimere le sue necessità più urgenti.

Dice l’ostetrica Paola Scavello dello Studio “La Lunanuova” di Milano: “Dopo la fatica del parto (se favorito e rispettato nella sua fisiologia) c’è una madre aperta, ricettiva, sensibile e un bambino attivo, che si muove verso di lei: due sguardi che si incontrano e si riconoscono.


Un ormone lavora in questa direzione, la prolattina. Presente in minima parte durante la gravidanza, aumenta durante il parto e subito dopo la nascita, all’espulsione della placenta. È l’ormone per eccellenza delle cure materne, quello che in tutte le specie animali induce a costruire un nido.

Questi primi momenti non andrebbero mai disturbati. Favorire l’incontro tra madre e neonato nel loro “periodo sensibile” significa promuovere salute fisica, emotiva e psicologica. È realmente prevenzione di patologie4.”


Da millenni le madri si sono messe in ascolto dei loro neonati per non perderli, per averli sani: in questo è sempre stato il loro amore. Oggi c’è la presunzione (o l’illusione?) di avere, grazie all’intervento medico, un figlio come un prodotto perfetto, il meno disturbante possibile. Sono in forte aumento le donne con gravidanza fisiologica che chiedono il cesareo “per non soffrire” o per decidere in anticipo il giorno e l’ora di nascita, e l’ottengono malgrado l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) affermi che i cesarei non dovrebbero superare il 10-15%. L’Italia, invece, che è il Paese dell’unione europea con il più alto numero di parti con taglio cesareo, secondo l’Istat nel 2013 ha avuto una media nazionale del 36,3% e in alcune regioni (Campania) si è arrivati a punte del 56,6%, che negli anni precedenti erano salite oltre il 65%. Tutto questo, a esclusivo vantaggio economico degli ospedali, ma non altrettanto di madri e bambini che, se escono vitali dall’esperienza, lo sono a prezzo del legame fra loro, dei sentimenti e delle emozioni più profonde, dell’allattamento materno ancora più ostacolato. Al contrario, il sostegno alle donne nel corso del travaglio e la naturalità del parto – sottratti alla prassi dei farmaci e dei ferri chirurgici5 – rientrano in una logica di rispetto della vita che costituisce a priori il miglior antidoto allo straniamento attuale che si osserva nei rapporti familiari6.


Oltre a questo, nella gravidanza e nel parto si aggiungono l’interferenza e la delega a una certa impostazione sanitaria che anestetizza ogni gesto, ogni pensiero: il bambino che nasce, nuovo a tutto come cento o mille anni addietro, è solo un numero, un esito. A modo suo lo avverte ed è subito costretto a protestare, a difendersi dall’allontanamento dalla madre, dalla poca stabilità di contatti per lui vitali, dalla minaccia di abbandono che percepisce attraverso le tante mani e i cambiamenti frequenti e casuali.

Facciamo la nanna - Seconda edizione
Facciamo la nanna - Seconda edizione
Grazia Honegger Fresco
Quel che conviene sapere sui metodi per far dormire il vostro bambino.Consigli, idee e suggerimenti per affrontare i problemi di sonno dei neonati, con un approccio dolce e rispettoso del bambino. Siamo sicuri che il bambino debba dormire quando lo decidiamo noi?Siamo certi che il suo pianto notturno sia un lamento?Dorme troppo? Dorme poco?A volte vorremmo la bacchetta magica per farlo addormentare?Ancora peggio, c’è chi ricorre a medicinali.Siamo fuori strada!Grazia Honegger Fresco, nel suo Facciamo la nanna, chiarisce le motivazioni che dovrebbero spingere a rigettare tutti i metodi “facili e veloci” per far dormire i bambini piccoli (come quello tristemente famoso di Eduard Estivill, noto agli specialisti per la violenza dell’impostazione e la potenziale dannosità nei confronti del bambino) e delinea al contrario quali siano gli approcci più dolci e rispettosi per affrontare i problemi del sonno. Conosci l’autore Grazia Honegger Fresco (Roma, 6 Gennaio 1929 - Castellanza, 30 Settembre 2020), allieva di Maria Montessori, ha sperimentato a lungo la forza innovativa delle sue proposte nelle maternità, nei nidi, nelle Case dei Bambini e nelle Scuole elementari. Sulla base delle esperienze realizzate con i bambini e i loro genitori, ha dedicato molte delle sue energie alla formazione degli educatori in Italia e all'estero.È stata presidente del Centro Nascita Montessori di Roma dal 1981 al 2003 e ne è stata Presidente onorario. È stata consulente pedagogica di AMITE (Associazioni Montessori Italia Europa) e nel 2008 ha ricevuto il premio UNICEF-dalla parte dei bambini.Ha pubblicato numerosi testi di carattere divulgativo.