PARTE terza - La salute del bambino

Curare la famiglia:
come genitori e bambini
possono aiutarsi a guarire

Questo è il nostro compito nei confronti del bambino:gettare un raggio di luce e proseguire il nostro cammino

M. Montessori

I padri han mangiato uva acerba e i denti dei figli si sono allegati

Geremia, 31 Bibbia

In ogni famiglia c’è sempre uno che paga il proprio tributo perché l’equilibrio fra ordine e disordine sia rispettato e il mondo non si fermi

M. Angus

Le sofferenze familiari, come gli anelli di una catena, si ripetono di generazione in generazione finché un discendente acquista consapevolezza e trasforma la sua maledizione in benedizione

A. Jodorowsky

A volte mi capita di dire alla bimba o al bimbo arrivato nel mio studio “Ah, sei venuto per portare la tua mamma e il tuo papà?” perché il piccolo sta benissimo e sono invece i genitori ad avere dei problemi…


Dopo tanti anni di lavoro come pediatra, sono arrivata alla conclusione che per curare efficacemente un bambino occorre curare tutta la famiglia. Perché la salute dipende anche e soprattutto dal contesto sociofamiliare in cui il bambino è inserito. Oggi noi sappiamo, grazie anche all’epigenetica, che il cervello con la sua rete neuronale viene plasmato dall’ambiente, che quindi risulta un elemento fondamentale, ancora più importante del corredo genetico, per determinare il livello di benessere psicofisico di un individuo.


Ecco perché quando qualcosa non va per il verso giusto bisogna agire in modo sinergico su due fronti: sia sul bambino che sul genitore. A quest’ultimo occorre offrire informazioni e conoscenze aggiornate e approfondite sulla salute intesa in senso globale e spunti di riflessione affinché sviluppi una sempre maggiore consapevolezza di sé. Perché curare significa innanzitutto “prendersi cura” e quindi prevenire.


Le giovani coppie che vengono da me se ne rendono conto e infatti è sempre meno raro che mi capiti di fare consulenze anche ai papà, oltre che alle mamme. Più frequentemente però mi si richiede un rimedio che elimini il sintomo, un po’ come potrebbe fare una bacchetta magica… Allora io cerco di spiegare che ciò che più conta è andare a cercare le radici del problema, della situazione. E comincio a indagare, un po’ come un detective, nella storia di quella coppia mamma-bambino o di quel nucleo familiare. Perlopiù trovo le cause del sintomo nel racconto della gravidanza o del parto: molto spesso sono storie di guerra quelle che mi portano e che non possono non lasciare cicatrici, anche molto dolorose.


Ma a volte tutto questo non basta, occorre andare ancora più in profondità. Per fare un lavoro veramente proficuo si rende necessario che i genitori si mettano in discussione e vadano a indagare sui loro traumi e le loro ferite, che i figli, come specchi, mostrano in modo implacabile e fedele.


Molto spesso infatti i sintomi del bambino sono espressione di un disagio del genitore e scompaiono quando questi ha affrontato la questione e l’ha guardata in faccia una volta per tutte.


Esemplare a questo proposito il caso di un bambino affetto da ricorrenti ascessi ai denti, scomparsi quando la madre ha lavorato sulla sua rabbia repressa che le faceva così tanta paura: il piccolo con il suo sintomo fisico, legato alla rabbia, stava cercando di far capire alla mamma che aveva bisogno di lavorare sulla sua…


Prendiamo poi l’esempio dell’eczema, una patologia molto comune, legata simbolicamente ad un problema di separazione. Quante volte l’ho riscontrato anche in bambini che erano sempre stati attaccati alla madre dalla nascita e avevano avuto una buona vita prenatale: dove ricercare allora la causa? In una tematica familiare: per esempio un lutto non elaborato dalla mamma o dal papà o in un senso di abbandono non del piccolo ma della sua genitrice…


Per dirla con parole semplici: la sofferenza che nostra madre o nostro padre o nostro nonno non sono stati capaci di trasformare ci viene trasmessa.

“Anche i nostri genitori hanno sofferto da piccoli e per questo motivo da adulti, a loro volta, ci hanno fatto patire, poiché non sapevano come gestire la loro sofferenza. Vittime del proprio dolore, ne hanno reso vittime anche i loro figli. Se non siamo in grado di trasformare la sofferenza in noi, la trasmetteremo ai nostri discendenti.”1


Altre volte invece i genitori proiettano sui figli dei loro bisogni mai appagati o dei desideri irrealizzati: è il caso per esempio di quei papà che impongono ai loro bambini un certo tipo di sport – o da grandi un certo tipo di lavoro – che è esattamente quello che avrebbero voluto fare loro se avessero potuto scegliere…


Anche quando tutto va troppo bene bisognerebbe interrogarsi: quante volte per esempio la bambina sempre buona, quasi perfetta, sta cercando inconsciamente di non disturbare una mamma che sente triste e sofferente, per non aggiungere un ulteriore carico alla sua sofferenza? Ma a che prezzo? Quali parti di sé dovrà amputare (proprio come la Sirenetta nella fiaba di Andersen) per ottemperare a questo arduo compito?


Gli adulti pensano sempre che i bambini si divertano a far loro i dispetti e non si rendono conto invece che i piccoli amano così tanto i loro genitori da essere pronti a tutto, perfino al sacrificio di sé pur di aiutarli, nella speranza di vederli finalmente felici…


“I bambini sono coloro che amano di più e che, di nascosto e con infinito amore, tengono insieme i sistemi familiari. Il loro cuore è aperto a ognuno e per ognuno hanno un sì. Sono capaci di accogliere tutti, di amare tutti così come sono e di percepire soprattutto chi ha bisogno e chi vive nel dolore e nelle difficoltà”.2


Eh sì, anche se difficilmente lo riconosciamo, spesso e volentieri i bambini “amano troppo”3. Cerchiamo di capire il perché.


Come ci ricorda Norwood, i bambini che vivono in una famiglia “disturbata” (e con questo termine non si intende solo una famiglia disfunzionale con gravi problemi per esempio di alcolismo o di violenza, ma anche semplicemente un ambiente nel quale i bisogni emotivi dei bambini non sono stati riconosciuti e le loro percezioni ignorate o non convalidate e accettate) e non ricevono dai genitori l’amore e le attenzioni che desiderano e di cui hanno bisogno, “si sentono responsabili dei problemi familiari e anche della loro soluzione.”4 “Questo accade perché con la loro fantasia di onnipotenza credono sia di essere la causa della situazione familiare, sia di avere il potere di cambiarla”5 e fanno di tutto per riuscirci. “I modi in cui questi bambini cercano di “salvare” le loro famiglie – ci ricorda la Norwood – sono fondamentalmente tre: rendersi invisibili, diventare “cattivi” o essere bravi”6.

Nel primo caso cercano di non disturbare e di occupare il minor posto possibile (come la bambina che non chiede nulla, parla poco e non dà fastidio per non gravare ulteriormente la madre stressata); nel secondo caso, più frequente nei maschi, si ribellano, esternando la loro rabbia e sfogandola con un comportamento collerico, distruttivo e litigioso; nel terzo caso infine fanno i “bravi bambini” cercando di essere perfetti e di avere successo nel mondo esterno, per esempio studiando o lavorando tantissimo per mostrare il loro valore e sperare così di essere amati. Naturalmente ci possono essere combinazioni di queste tre modalità e atteggiamenti.


Quando un bambino si fa carico della sofferenza di un genitore, perché questi non sembra in grado di portarla da solo, è come se gli dicesse “Ti aiuto io!”… Egli si assume un ruolo e un carico che non è suo, che non gli appartiene e sviluppa il complesso del “salvatore”, che continuerà a svolgere da adulto nel corso della sua vita, scegliendo per esempio professioni di assistenza e di servizio o attirando partner problematici (non disponibili, freddi, egoisti, a volte violenti, oppure con problemi economici o di salute) proprio perché essi gli permettono di rivivere il tormento vissuto con i genitori e gli danno l’impressione (ma si tratta solo di un’illusione) di poter finalmente “cambiare” gli oggetti del suo amore e, grazie alle proprie cure e al proprio intervento compassionevole, ottenerne l’affetto e la considerazione che non era stato possibile avere da piccoli.


Alcuni bambini amano talmente i loro genitori che sono pronti a farsi carico del loro dolore e ad assumersene il destino, anche a costo della vita, fino cioè a sacrificare la propria esistenza per loro, nell’illusione di poterli salvare. Ma così facendo si attirano inevitabilmente una grande sofferenza, fatta di problemi di salute, insoddisfazione, solitudine e fallimenti. Il loro gesto “eroico”, che li spinge per esempio a prendere il posto di qualcuno che non c’è più, non serve in realtà a mettere in ordine il sistema: è come se semplicemente ne tamponasse la falla per un po’… Ma alla lunga crea un “irretimento” cioè un imbroglio e la vittima sacrificale rimane impigliata nella rete come un pesciolino…

L’irretimento lo blocca in una strada senza uscita dove non può che continuare a fare ciò che il sistema gli impone di fare. Perché, come ci ricorda Osho “Nessuno può vivere la vita di un altro; nessuno può morire al posto di un altro”.7


Ecco secondo Bert Hellinger le tre principali dinamiche di irretimento:

  1. “Ti seguo nel tuo destino”: come a dire “Voglio seguirti” e facendo così volto le spalle alla vita.

  2. “Prendo il tuo posto”: ovverossia faccio io per te quello che tu non sei riuscito a fare (per esempio elaborare un lutto). È il caso frequente di chi sceglie una professione d’aiuto: cerca di fare per gli altri quello che non è riuscito a fare per un genitore nei confronti del quale si è sentito impotente.

  3. “Voglio espiare la colpa”: non sempre però si tratta di una colpa propria (per es. una donna con una storia di numerosi aborti provocati che si ammala di tumore all’utero), più spesso è la colpa di qualche altro membro del sistema familiare che per ciò che ha commesso non è stato punito e un discendente se ne assume il carico al suo posto.


Secondo Alba Sali, il “patto infantile” – che non è altro che un movimento di fedeltà del bambino nei confronti del genitore – può assumere forme diverse che possono essere espresse nelle seguenti affermazioni inconsce:

  • “Chiunque tu abbia visto morire e ti manchi, io ne prenderò il posto: sarò il tuo sposo/a, il figlio che non è vissuto, il fratello che ti lasciò troppo presto, il tuo primo amore…”

  • “Qualunque cosa tu abbia perso io te la riporterò oppure non l’avrò neanch’io” (da cui deriva “Se la mamma o il papà non è felice non posso esserlo neanch’io”)

  • “Se gli altri ti hanno deluso io diventerò tutto quello che vuoi tu”

  • “Se ti vedo sempre triste e ti sento tanto solo, rinuncio alla mia vita per farti compagnia, accudirti, farti ridere ecc..”8

Si tratta purtroppo di situazioni estremamente comuni, molto più di quanto si possa immaginare… Ecco perché consiglio ai genitori di trovare il tempo e il coraggio di guardarsi dentro: più riusciranno a risolvere le loro problematiche e ad essere felici e più lo saranno i loro bambini.

Donne che amano troppo

Anche le donne, come i bambini, in genere amano troppo…

A loro, spesso vittime di questa perversa strategia, Norwood ha dedicato un bellissimo volume che consiglio vivamente a chi si trova intrappolato nelle maglie della dipendenza affettiva.9 Ecco cosa scrive la psicoterapeuta americana: “Quando essere innamorate significa soffrire, stiamo amando troppo”10. Sì, perché l’amore deve dare gioia e non sofferenza e non può basarsi sull’esigenza di colmare un bisogno insoddisfatto. Altrimenti si trasforma in una pericolosa dipendenza.


Porre fine a una relazione basata sulla reciproca dipendenza (perché bisogna ricordarsi che è sempre bilaterale!) è però molto difficile, “tanto più difficile quanto più ci ricorda i nostri struggimenti infantili. Se si ama troppo vuol dire che si sta cercando di superare le vecchie paure, le rabbie, le frustrazioni e le sofferenze dell’infanzia, e smettere significa rinunciare a un’occasione preziosa di trovare sollievo e di rimediare ai torti che ci sono stati fatti.”11


La soluzione per uscire dal labirinto di una relazione che crea così tanta sofferenza è innanzitutto prendere coscienza delle sue dinamiche malate e poi mettersi al lavoro per avviare un processo di guarigione che deve diventare la priorità della propria vita. Si tratta di affrontare coraggiosamente i propri problemi, guardarli in faccia e cercare l’aiuto necessario per superarli (attraverso un terapeuta, un gruppo di sostegno o una rete di amiche/amici). Ricordando a se stessi che nessuno al mondo potrà mai renderci felici se noi per primi non riusciamo a farlo… “Se vuoi cambiare il modo in cui gli altri ti trattano, devi prima cambiare il modo in cui tratti te stesso. Se non impari ad amare te stesso, in modo completo e sincero, non potrai mai essere amato.”12 Ancora una volta è dentro di noi, e non all’esterno, che dobbiamo cercare la soluzione, perché solo lì e in nessun altro luogo possiamo trovare la guarigione vera.


Tana libera tutti!

Ci sono poi anche altre dinamiche che si mettono in atto all’interno di un sistema familiare per preservarne l’esistenza e garantire la continuazione della specie: si tratta di strategie inconsce che disciplinano le relazioni al fine di permettere l’equilibrio e la sopravvivenza del sistema stesso. Una di queste è la “lealtà familiare”. Prendiamo il caso di un bambino che con la sua nascita rischia di provocare la morte della madre: il medico chiede a questa di scegliere tra la sua vita e quella del figlio – “O lei o il bambino” le dice – e la donna sceglie di far nascere il suo bambino.


Da grande questo individuo non potrà, per lealtà nei confronti della madre verso la quale si sente debitore della vita, godere pienamente della sua esistenza e ostacolerà in tutti i modi la sua autorealizzazione. Potrà anche inconsciamente autosabotarsi fino al punto di rischiare la vita per esempio alla stessa età in cui la madre ha rischiato la sua per metterlo al mondo.


Naturalmente l’adesione al principio della lealtà familiare è inconsapevole e involontaria. Ciò che spinge inconsciamente il soggetto a sacrificarsi per il sistema è quello che Hellinger chiama “un amore malato”, che pensa, immolandosi per qualcun altro e condividendone le sorti, di renderlo felice mentre in realtà è solo realizzando il proprio personale destino che si può contribuire alla salute dell’intero sistema.


Quando poi all’interno di una famiglia alcuni membri vengono dimenticati (per esempio perché dispersi in guerra o morti prematuramente) o esclusi (perché dati in adozione o costretti ad emigrare o banditi e allontanati per motivi religiosi e sociali) si crea una sorta di falla energetica all’interno del sistema familiare che i discendenti saranno chiamati a ripristinare – reintegrando simbolicamente la persona esclusa – se non vogliono pagarne essi stessi il prezzo rivivendo spesso il destino degli antenati privati del diritto di appartenenza.


Un ruolo molto importante a questo proposito è ricoperto dai bambini abortiti che sono stati anche se per poco tempo esseri viventi e membri del sistema familiare ma che vengono invece ignorati come tali e dimenticati: spesso non si parla di loro agli altri figli per un malcelato senso di colpa e di vergogna. E così questi piccoli esseri senza nome e senza sepoltura restano dei “militi ignoti”…


Ma, come afferma la Schützenberger, “un aborto è come una bomba atomica messa sotto il divano del soggiorno” e se è ignorato e “non detto” diventa ancora più dannoso per tutto il sistema familiare. Pensiamo per esempio quale dramma può rappresentare per un feto la scomparsa di un gemello in utero: un lutto così precoce e devastante, destinato a passare quasi sempre inosservato e a rimanere quindi un trauma inconscio, impossibile da rivelare e conseguentemente da elaborare. Lo stesso vale per morti precoci di bambini.


Se è vero che gli esuli e gli esclusi vanno reintegrati nel sistema è anche vero però che i morti vanno lasciati andare… Molto spesso invece chi resta fa fatica a separarsi dai propri cari deceduti e tende a trattenerli rendendo più difficile il loro passaggio e la loro integrazione a un’altra dimensione dell’esistenza.


I defunti sono ancora presenti e attivi nel sistema familiare anche se in modo diverso: non posseggono più un corpo fisico ma la loro energia è tangibile e il loro ruolo ancora conservato. Anzi, a volte i nostri cari che ci hanno lasciato ci sostengono e ci aiutano ancora di più dai piani alti che hanno raggiunto…


Questo ciclo diabolico di irretimenti familiari di cui abbiamo parlato si spezza soltanto quando l’adulto prende coscienza della situazione, restituisce il fardello di cui si è fatto carico da bambino al suo legittimo proprietario (con tutte le conseguenze che questo atto può comportare per quest’ultimo) e rimette pazientemente, e molto “montessorianamente”, ogni cosa e ognuno al suo posto, ristabilendo gli equilibri che sono andati perduti o creandone di nuovi.


Solo dopo che questo è avvenuto sarà possibile “perdonare”, ovverossia staccarsi dal passato e regalare a se stessi una nuova possibilità. E allora si ringrazierà chi ci ha preceduto per il dono della vita che ci ha fatto e si onoreranno i nostri antenati riconoscendo in loro non più un peso da portare ma una forza a cui attingere per proseguire il cammino.


Ci sono tanti strumenti per lavorare con le famiglie e che consentono di “disinquinare” l’ecosistema familiare così che il bambino, proprio come un germoglio, possa trovare le condizioni ottimali per crescere e fiorire.


Qui ve ne presenterò due – la Logosintesi e lo Jin Shin Do – tra quelli che ho sperimentato e che ritengo maggiormente utili, a cui ricorro inviando i genitori collaborativi e desiderosi di compiere un lavoro su di sé a terapisti con cui ho instaurato una proficua collaborazione.


Ma al di là di tutte le tecniche che si può scegliere di utilizzare per il lavoro interiore di crescita personale, penso che sia fondamentale iniziare intanto a riflettere sul tema complesso del “maternage interiore”, presupposto a mio avviso indispensabile per realizzare un maternage ottimale nei confronti dei propri figli. Vediamo quindi di esplorarlo insieme nel prossimo capitolo così da cominciare a fare un po’ di chiarezza e dissipare qualche nube… La consapevolezza infatti è il presupposto di ogni azione terapeutica. Anzi, per meglio dire, è essa stessa il primo atto terapeutico che possiamo mettere in moto ed innescare. Ed è esattamente ciò che voglio offrirvi con le prossime pagine.


L'albero genealogico:
una proposta per i bambini

Per dare ai bambini l’idea della struttura familiare e trasmettere il messaggio che siamo tutti collegati si può costruire insieme a loro un albero genealogico: per esempio ritagliando un grande albero di cartoncino, sul cui tronco possono trovare posto le foto dei bambini mentre sulla chioma quelle dei genitori e poi più in alto tra le fronde quelle dei nonni. Per i piccoli può già essere sufficiente, per i più grandicelli si possono aggiungere zii e cugini. Per i bambini è molto rassicurante sapere che ognuno ha il suo posto all’interno della famiglia…

Per maggiori istruzioni tecniche potete consultare il sito www.cosepercrescere.it alla voce “albero genealogico”.


Compagni di viaggio
Compagni di viaggio
Elena Balsamo
Come adulti e bambini insieme possono aiutarsi a guarire.Una panoramica chiara ed esauriente dei diversi strumenti terapeutici alternativi a disposizione della famiglia e in particolare della coppia mamma-bambino. Compagni di viaggio volge l’attenzione alla salute emotiva della famiglia.Basandosi sulla sua personale esperienza di medico e di paziente, Elena Balsamo offre al lettore una panoramica chiara ed esauriente dei diversi strumenti terapeutici alternativi a disposizione della famiglia (e in particolare della coppia mamma-bambino), nonché numerosi spunti di riflessione sul significato della malattia e sul messaggio contenuto nei sintomi, per trasformare la sofferenza in un’occasione preziosa di apprendimento ed evoluzione. Conosci l’autore Elena Balsamo, specialista in puericultura, si occupa di pratiche di maternage e lavora a sostegno della coppia madre-bambino nei periodi della gravidanza, del parto e dell'allattamento.Esperta di pedagogia Montessori, svolge attività di formazione per genitori e operatori in ambito educativo e sanitario.