PARTE SECONDA - IN VIAGGIO VERSO LA SALUTE

Una guida per procedere:
quale terapeuta?

Il Guaritore non è veramente un Guaritore, poiché non è colui che agisce. La Guarigione accade attraverso di lui: egli deve semplicemente annullare se stesso. Essere un guaritore in verità significa non essere. Meno ci sei e migliore sarà la guarigione: più ci sei e più il passaggio è bloccato. Dio o l’Energia o in qualunque altro modo tu voglia chiamarla, è il Guaritore: il Tutto è il Guaritore, perché vive nello Spazio Sacro 

Osho

Non è il medico che cura bensì l’Angelo che lo accompagna

detto della tradizione chassidica

Essere un buon medicine-man significa trovarsi nel mezzo di una tormenta e non mettersi al riparo. Significa sperimentare la vita in tutte le sue espressioni. Significa fare il pazzo ogni tanto. Anche questo è sacro.

See-Yahtlh, Capriolo Zoppo

Quando avevo due anni il pediatra che mi aveva in cura comunicò a mia madre, semplicemente guardandomi una mano, che ero “mongoloide”, senza curarsi minimamente della sua reazione di spavento che la portò ad appoggiarsi al muro per la paura di svenire…


E anche la morte di mio padre sono convinta sia avvenuta fondamentalmente per la notizia datagli da un eminente professore, il quale gli annunciò molto sbrigativamente che il suo aneurisma addominale poteva scoppiare da un momento all’altro causando la sua fine. Mio papà non si riprese più dall’infausto annuncio e da quel giorno iniziò il suo inesorabile declino che io non riuscii, ahimè, a fermare nemmeno con tutte le mie più appassionate rassicurazioni. Del resto anche suo padre se ne era andato così, per un verdetto del medico che gli aveva predetto che sarebbe morto a quarant’anni, cosa che realmente avvenne, facendo avverare inesorabilmente la malaugurata profezia…


Di episodi di questo genere nella storia della mia famiglia ce ne sono stati tanti e hanno lasciato la loro traccia nella mia memoria cellulare: io non ho mai avuto un buon rapporto con i medici e forse è anche per questo che sono diventata una di loro… Per trasformare i traumi in dono e dare a me stessa e a chi mi circonda un’altra possibilità.


Personalmente ho impiegato un bel po’ di anni per trovare il mio medico di fiducia ma quando, in un momento di crisi e grande scoraggiamento, il Dott. Stegagno è arrivato come per magia sul mio cammino io ho sentito immediatamente che era di lui che avevo bisogno per riabilitare il ruolo del medico e sperimentare che esiste anche chi lo vive a 360°… Solo un terapeuta con una visione così simile alla mia poteva accompagnarmi nelle penultime tappe del mio percorso di guarigione.


Quando si è malati si ha bisogno di qualcuno che si prenda cura di noi. Questa è essenzialmente ed anche etimologicamente la funzione del terapeuta, dal greco “mi prendo cura di”, “mi metto a servizio di”, “accompagno” ovvero prendo per mano.

Scrive Giorgio Donini: “Il medico con la mano giunge all’intimità direttamente, senza intermediazioni. E da una posizione di intimità, propria delle relazioni affettive, cura. Anzi, la stessa affettuosa intimità è già cura”1.


Ecco, questo è ciò che per me dovrebbe essere innanzitutto un terapeuta: un accompagnatore, un fedele alleato della persona che si rivolge a lui in cerca di aiuto, competente ma non neutro, che ci rende possibile trovare la nostra verità. Qualcuno che ci assiste nel faticoso lavoro di decifrare il nostro linguaggio corporeo, di rispondere ai nostri bisogni e prenderci cura del nostro bambino interiore ferito. Qualcuno che rende sopportabile ciò che altrimenti a volte non lo sarebbe.

Purtroppo di accompagnatori così ce ne sono pochi, ma esistono e vale comunque la pena mettersi a cercarli.


Se il primo passo – non sempre così scontato – per intraprendere una terapia è acquisire la consapevolezza di averne bisogno, il secondo passo è appunto la scelta di un buon terapeuta.


Non è facile, vista anche la vastità dell’offerta. A volte ci si basa sul passaparola, sul consiglio di un amico, ma non sempre poi i risultati corrispondono alle aspettative.


La scelta di un terapeuta secondo me è soprattutto questione di “feeling”. Requisito essenziale perché una terapia funzioni è infatti che il paziente si fidi del medico che gliela propone. Senza la fiducia reciproca nulla può accadere. “La tua fede ti ha salvato” diceva Gesù e fede significa fiducia.


La fiducia è un elemento essenziale e decisivo del processo terapeutico: esattamente quello che fa la differenza.


La competenza professionale è sicuramente un elemento basilare nella scelta del terapeuta (e oggi più che mai va tenuta in gran conto!) ma da sola non è sufficiente. La tecnica ha bisogno dell’energia dell’amore per divenire una forza di guarigione.


Quali sono quindi le qualità di un buon terapeuta?

A mio avviso innanzitutto accoglienza, gentilezza, delicatezza, empatia, capacità di ascolto, rispetto e umiltà.


Con i bambini queste doti si rivelano assolutamente indispensabili per poter stabilire un contatto. I più piccini hanno bisogno di sentirsi al sicuro nello studio del dottore, sapere di essere in un luogo protetto e accogliente con una persona di cui possono fidarsi, che è lì per comprenderli ed aiutarli, che li ama così come sono e li tratta con delicatezza.


Loro se ne accorgono subito e rispondono calmandosi immediatamente se piangono o sfoggiando un meraviglioso sorriso.


La mia più grande soddisfazione è proprio quando visito un neonato e riesco a stabilire un contatto diretto con lui che mi guarda diritto negli occhi e mi sorride come per dirmi “Tu sì, mi capisci…” O quando una bimba come Sara, mia giovane paziente, mi scrive come dedica a un disegno fatto apposta per me che sono la sua “dottoressa preferita”… O un ragazzino come Federico chiede alla mamma di portarlo da me per parlare un po’ prima di andare al funerale della nonna…


A volte arrivano da me bambini traumatizzati da terapeuti che li hanno visitati in modo brusco e sbrigativo, strappandoli dalle braccia dei genitori e tenendoli fermi a forza, provocando in questo modo le loro urla e il loro pianto più disperato. Non è facile riuscire a far superare loro questa memoria di violenza che risuona spesso, per esempio, con i ricordi legati a un parto difficile, dove avevano vissuto quella stessa esperienza di essere manipolati e maneggiati senza riguardo. Ci vuole tempo, molta pazienza e dolcezza – e anche spesso l’aiuto di qualche fiore – per far capire loro che adesso hanno un’altra possibilità e che non tutti gli adulti che incontrano sono così brutali…

Ma anche semplicemente l’indifferenza di un adulto in camice bianco che nemmeno li saluta o chiede loro come stanno rende difficile stabilire una relazione di fiducia: i bambini sono persone e non automobili che vanno dal meccanico per fare il tagliando o essere riaggiustate!


Quindi innanzitutto il rispetto, in tutti i sensi e su tutti i piani.

Un buon terapeuta per esempio sa che “c’è un tempo per ogni cosa”, che non vanno forzati i ritmi del paziente che si affida a lui, che bisogna aspettare che sia pronto a vivere determinate esperienze o anche accettare che non sia disponibile a farlo.


Questo mi è apparso in modo incredibilmente chiaro quando per la prima volta ho assistito a una dimostrazione di Matthew Appleton che al suo corso ci ha portato diversi “casi clinici” mostrandoci dal vivo come lui tratta i suoi piccoli pazienti durante le sedute di cranio-sacrale.


Guardandolo avevo le lacrime agli occhi: mai avevo potuto osservare un rispetto così grande nei confronti di un bambino. Matthew si metteva seduto a terra vicino al bimbo e semplicemente lo osservava. Il piccolo si muoveva nello spazio e prima o poi si sentiva magneticamente attratto da quell’uomo alla sua altezza, sdraiato vicino a lui e lentamente gli si avvicinava. Poi stendeva una manina per toccarlo e solo allora Matthew rispondeva al suo gesto con grande delicatezza. A volte invece il piccolo gli allontanava la mano facendogli capire che non voleva essere toccato e allora il terapeuta rispettava il suo rifiuto retraendola. La sessione iniziava sempre e solo quando il bambino mostrava di essere pronto ad affrontarla. Un approccio veramente “montessoriano”!


Che si tratti di bambini o di adulti un buon terapeuta non dovrebbe mai forzare la mano e imporre misure o consigli che il paziente non è in grado di seguire o di reggere: sarebbe come togliere la stampella ad uno zoppo mentre ciò che bisogna fare è curargli la gamba perché possa riprendere a camminare da solo…


Eppure quante volte mi è capitato di sentire persone in preda alla paura rimproverate perché non trovavano la forza per esempio di venire via da situazioni familiari a loro non favorevoli quando il primo passo per aiutarle sarebbe stato quello di curarle dal loro stato di timore e dai loro inconsci sensi di colpa. Oppure quanto spesso a un piccolino con tematiche di abbandono e problemi di separazione dalla mamma viene tolto forzatamente il ciuccio perché “deve crescere”? Mentre la vera soluzione sarebbe cercare di rafforzarlo e riparare la sua ferita e il suo buco nero…


La domanda più importante che un bravo medico dovrebbe fare al suo paziente è: “Di cosa hai bisogno?” Ci sono persone che non se lo sono mai sentito chiedere da nessuno…


Un buon terapeuta deve possedere una grande capacità di osservazione e di ascolto.

L’osservazione è fondamentale per cogliere i segnali non verbali, i gesti del corpo, le espressioni del volto che dicono ciò che non può essere detto. E così pure l’ascolto, virtù sempre più rara ai giorni nostri… A questo proposito riporto le parole di un cardiologo pediatra bolognese, Gabriele Bronzetti, una vera mosca bianca, che durante gli esami parla con i suoi piccoli pazienti di Pollicino e Peter Pan, di Pinocchio e Pegga Pig e spiega loro che l’ECG è una lettera mandata dal cuore… Ecco cosa scrive in occasione della Giornata del malato (11 febbraio 2016): “Mostrarsi a un malato e ascoltarlo è già un miracolo. I malati non chiedono altro che essere ascoltati. Ogni malato lo è a modo suo e vuole raccontarti la sua storia, anche e soprattutto quando l’epilogo è vicino e infausto. La medicina moderna – ebbra di velocità e assordata dal clangore delle risonanze – crede di poter fare a meno di questo tempo d’ascolto, convinta di dover curare un corpo e una malattia nota e non invece un’anima e un malato irripetibile. Non si deve per forza inventare una medicina nuova ogni giorno ma riscoprire quella sempre esistita. Il medico dovrebbe mutare in un mostro con enormi orecchie e una bocca piccolissima per dire: “Non ti prometto di guarirti, ma mi prenderò cura di te cominciando con l’ascoltarti”. Soprattutto oggi che si sente con la pancia, si mangia con gli occhi e si fa l’amore con la testa i medici dovrebbero sapere che si ascolta con il cuore, l’unico organo che ha due orecchiette”2.

Me ne rendo conto ogni giorno di più quando incontro mamme e papà che vengono nel mio studio per portarmi i loro bambini: oggi più che mai i genitori si sentono soli e hanno bisogno di parlare, di esprimere e condividere le loro preoccupazioni, di raccontare i loro crucci e i loro problemi, che spesso hanno tenuto sepolti per tanto tempo in mancanza di un ascoltatore attento e disponibile. E così a volte le visite si prolungano, magari si indugia sulla porta, perché un ricordo affiora o semplicemente emerge la voglia di condividere un pensiero, un dolore o una conquista…


Un buon terapeuta poi dev’essere flessibile e aperto: sa che ci sono mille approcci terapeutici diversi, tutti validi, ma che per quella persona in quel preciso momento uno è meglio di un altro.


Ci sono tante strade per arrivare in cima a una montagna e gli alpinisti lo sanno bene: si può fare un trekking o arrampicarsi su di una parete di sesto grado. C’è chi sceglie una via dura e difficile ma più breve e chi invece preferisce una strada lunga, faticosa ed estenuante ma meno ripida.


Ci sono 80.000 porte – diceva Buddha – per arrivare al Nirvana: ognuno può scegliere quella più adatta a lui. Inutile giudicare qual’è la migliore: non esiste una strada preferenziale ma solo la strada più idonea per ognuno di noi in quel preciso momento, più adatta alle nostre caratteristiche, alla nostra storia e al nostro progetto personale. Come diceva Jung “La scarpa che va bene a una persona sta stretta ad un’altra: non c’è una ricetta di vita che vada bene a tutti.” Perché ognuno di noi è un mondo a sé (come ci insegna l’astrologia).


C’è chi ama l’agopuntura e chi preferisce il massaggio, chi chiede rimedi e chi vuole più che altro un contatto umano… Per alcuni un buon libro o una chiacchierata con un amico è un’ottima medicina nei momenti di crisi, per altri è più utile una passeggiata o qualche momento di meditazione in un luogo sacro.


Occorre poi ricordarsi che chi è impaurito ha bisogno soprattutto di rassicurazioni, chi si sente solo cerca prima di tutto la presenza amorevole, chi è stato traumatizzato necessita innanzitutto di dolcezza e gradualità e questi elementi costituiscono spesso già più di metà della terapia.


Inoltre un buon terapeuta dev’essere umile (una virtù ahimè sempre più rara!) e accettare i suoi limiti sapendo di non essere onnipotente ma solo uno strumento del potere di guarigione del Divino. Perché è solo connettendosi alla Fonte che si può aiutare gli altri a guarire.


Il terapeuta deve farsi canale dell’energia d’amore, essere così pulito e vuoto da farla scorrere attraverso di sé in modo tale che il paziente possa attingere a questa fonte. Questo è il miracolo della guarigione: quando un terapeuta riesce a farsi strumento, il Divino entra in lui e guarisce.

Non per nulla il grande Paracelso scriveva nel suo testo “Il labirinto dei medici. Ossia ciò che dovrà imparare e sapere il vero medico e quel che dovrà fare se vorrà curare bene” che “il primo insegnamento e la prima indagine consistono nel cercare innanzitutto il Regno di Dio”3.


Ma l’umiltà e l’empatia nascono dall’esperienza del dolore… Solo dopo aver vissuto sulla propria pelle la sofferenza è possibile avvicinarsi agli altri con un atteggiamento comprensivo e non giudicante. “Un medico senza ferita non è terapeutico” perché “per fare terapia occorre sentire la sofferenza incorporata in quel paziente”4 che ci sta dinnanzi. “Devo sapere cos’è il dolore e provarlo per sapere veramente come soffrono gli altri” era solito dire Bach.5 “Dal medico che volontariamente accetta la malattia nasce il vero terapeuta, perché nella sofferenza egli diventa simile all’ammalato” scrive Dethlefsen.6

Ecco perché l’archetipo del terapeuta è Chirone, il guaritore ferito, che nella sua estenuante ricerca di una cura per sé, che non trova mai, impara a curare il suo prossimo.


Nella storia di terapeuti chironiani ce ne sono moltissimi esempi: uno tra i tanti è quello dello psicoterapeuta Erikson, affetto fin da bambino da alcuni deficit sensoriali come la dislessia e un grave daltonismo e ammalatosi giovanissimo di poliomielite. Sopravvissuto al coma e ad una infausta prognosi che lo vedeva paralizzato, Erikson passò la sua vita zoppicando con bastoni e stampelle (che non gli impedirono peraltro di fare canottaggio ed escursioni in montagna) e poi su una sedia a rotelle. La sua personale sofferenza, che non lo abbandonò mai fino alla fine, lo portò a diventare uno dei più importanti psichiatri e psicoterapeuti del novecento.


“Penso che la nostra prima responsabilità come professionisti sia quella di osservare noi stessi”7 dice il Dalai Lama. Come ci ricorda Jung infatti “Conoscere la propria oscurità è il metodo migliore per affrontare le tenebre degli altri.” Anche perché “i terapeuti devono aver risentito la loro propria sofferenza affinché essa non interferisca con il loro lavoro”8, devono aver curato i loro buchi e le loro ferite per poter essere “lucidi testimoni”, per usare una bella espressione di Alice Miller, e non farsi travolgere dal dolore dei loro pazienti. In caso contrario non potrebbero essere di alcun aiuto.

In tutte le culture tradizionali del mondo si diventa uomo o donna – medicina solo dopo aver forgiato l’oro nel fuoco della sofferenza. Non si sceglie di esserlo, si è scelti.


La strada dei terapeuti è una lunga strada, impervia e accidentata. Una strada in salita, piena di sassi aguzzi, che fiacca le membra e fa sanguinare i piedi. Che fa corto il fiato e imperla la fronte. “Fischia il vento, urla la bufera, scarpe rotte eppur bisogna andar”: questo è il cammino dei guaritori. Non ci si può fermare perché la strada chiama e trascina. Con forza magnetica attrae e spinge.


“Il potere è un dono e non si può rifiutare”: questo è il messaggio che mi arrivò una volta in sogno dai miei Antenati…

La maggior parte dei medici invece purtroppo non sono dei guaritori ma dei tecnici che usano delle medicine. E non importa che si tratti di farmaci chimici o rimedi naturali, ciò che fa la differenza è l’atteggiamento del terapeuta.

Molti terapeuti della cosiddetta medicina alternativa altro non sono che copie di medici allopatici che seguono solo una diversa dottrina. Ne ho incontrati e conosciuti tanti lungo il mio cammino e vi assicuro che molte volte sono rimasta strabiliata dalla violenza e dall’invasività dimostrata da persone che si professavano adepti della medicina naturale, olistica e via dicendo; persone che si definivano spirituali e che imponevano il loro credo con durezza, con rabbia a volte, scatenando nei pazienti sensi di colpa e di inferiorità; terapeuti che si atteggiavano a guru consumati, individui settari, dogmatici, con un ego smisurato e un inconfessato desiderio di manipolazione e di potere, che tenevano i pazienti all’oscuro della terapia per poterli rendere dipendenti, che sembravano voler essere più maghi che medici. Ma, come ricorda Cogan, “la magia è per quelli che vogliono accumulare potere. La medicina invece è per le persone che usano il potere per aiutare gli altri a vivere come esseri umani”.9


Poi ne ho incontrati altri, sconosciuti ai più, che non si nascondevano dietro a nessuna etichetta e che erano un vero dono all’umanità: un reale esempio di umiltà, dedizione, delicatezza, rispetto e presenza amorevole. Perché come scriveva Bach, “Il potere e la capacità di aiutare posseduti da un medico saranno proporzionali all’intensità del suo desiderio e della sua volontà di mettersi al servizio degli altri”.10 Noi terapeuti dovremmo secondo le sue parole “sforzarci di essere così delicati, così discreti, così pazientemente d’aiuto da comportarci con i nostri fratelli come se fossimo un soffio di vento o un raggio di sole; dovremmo anche essere pronti ad aiutarli quando ce lo chiedono, senza mai imporre loro le nostre idee.”11


Il fatto purtroppo è che al mondo esistono migliaia di bravissimi “tecnici” della salute ma ci sono pochissimi guaritori… O per dirla con Osho “ci sono migliaia di semi ma pochi diventano fiori”.


Inoltre non possiamo dimenticare che, come diceva Maimonide, “Il medico cura, non solo facendo riferimento alla medicina ma, ulteriormente, comprendendo l’importanza di liberare il paziente dalle forze spirituali e psicologiche che causano la malattia”12. Si tratta cioè di riuscire a risalire al problema originario che ha poi causato tutti gli altri squilibri energetici: e questo è sempre un problema che appartiene alla sfera psicologica e spirituale.


Il compito di un vero terapeuta non è quello di somministrare farmaci ma di aiutare la persona che si rivolge a lui a “snodare i nodi dell’Anima”, come direbbe Ouaknin, che ostacolano la Vita e a dare un senso alla sua sofferenza, a ritrovare il suo senso, ovvero il suo progetto originale, il suo sogno nel cassetto. Non esiste vera e duratura guarigione senza il compimento di questo processo. “La guarigione nasce soltanto da una malattia trasmutata e mai da un sintomo vinto. Guarigione significa, sempre, un avvicinamento a quell’integrità della coscienza che si può anche chiamare illuminazione” affermano Dalkhe e Dethlefsen nel loro libro Malattia e destino13.

In francese nascere – naissance – suona come “naître à son sens” cioè “nascere al proprio senso” come ci ricorda Brébion.

Una volta mio figlio Luis rispose a un omeopata che gli aveva chiesto quale fosse per lui la cosa più importante nella vita: “avere un senso”. Rispose senza esitare, senza pensarci su neanche un attimo e io rimasi sbalordita della sua profonda saggezza: aveva solo nove anni.


“Chi sono? Perché sono qui?” Questa è la grande domanda che dovremmo porci insistentemente. È su questa domanda che si gioca l’intera nostra vita. È per rispondere a questa domanda che compiamo il viaggio: per ricordarci chi siamo.


Per i Sufi il vero lavoro, l’unico che valga la pena di compiere, è proprio questo: ricordarsi di sé.


Il significato etimologico della parola “medico” è connesso alla funzione dell’insegnare, del consigliare, dell’imparare a conoscere. Sostanzialmente la parola “medico” vuol dire “maestro”.


E il compito del vero Maestro è proprio quello di aiutare l’altro a riconoscersi, a ricordare chi è e a diventare ciò che già è, a trovare il suo sentiero, la sua vocazione, a rimembrare il suo progetto originario e tirar fuori tutte le sue potenzialità per realizzarlo. A porsi la domanda delle domande: “Perché siamo qui?” La risposta arriva da sola durante il cammino e in un certo senso è molto semplice, anche se può volerci una vita intera per scoprirla… Volete sapere la mia? Personalmente credo che tutti noi veniamo al mondo con una doppia finalità: da un lato apprendere una serie di lezioni per raggiungere un livello maggiore di consapevolezza (“Siamo esseri immortali caduti nelle tenebre fino a completa guarigione” dice una bellissima canzone di Battiato); dall’altro offrire il nostro contributo unico e speciale al mondo. Tutto qui. Abbiamo voglia di imparare? Siamo disponibili a interrogarci e metterci in discussione? O preferiamo lasciarci vivere senza porci domanda alcuna? Vogliamo impegnarci o preferiamo essere rimandati a settembre e ripetere la classe? A noi la scelta. “Se lo capisci, le cose sono così come sono. Se non lo capisci, le cose sono così come sono” recita un famoso detto zen.

Il Medico-Maestro dovrebbe quindi accompagnare in questa impegnativa ricerca la persona che si rivolge a lui offrendole innanzitutto “nuove prospettive e nuovi angoli da cui guardare”14 e nello stesso tempo dandole fiducia, incoraggiandola nei momenti di difficoltà: “Dài che ce la fai! Sei sulla strada giusta. Guarda quanto hai fatto… Sono qui con te. Non arrenderti, non mollare!”


Scriveva Bach: “Mostrate alle persone che, in quanto figli del Creatore, la Divina individualità che è in loro è capace di vincere tutte le prove e le difficoltà; aiutateli a guidare la loro nave lungo l’oceano della vita, mantenendo la loro rotta senza badare agli altri; insegnate loro a guardare avanti. …Non importa la gravità della malattia, non importa ciò che di cattivo o sbagliato si è verificato in passato: è la speranza del futuro, la speranza di tempi a venire migliori e splendidi che spronerà il malato a combattere per la vittoria”15.


Fatto sta che, a mio avviso, da uno studio medico bisognerebbe sempre uscire sollevati, rassicurati, di miglior umore, più ottimisti e fiduciosi nelle proprie capacità innate di guarigione di quando vi si è entrati. “Le persone dopo averci incontrato hanno più fiducia, più fede nella vita e negli altri? Questa è la domanda decisiva da porsi”16 scrive Enzo Bianchi, il priore di Bose, e io penso sia una domanda che ogni terapeuta dovrebbe porsi.


Diceva ancora Bach ai suoi colleghi medici “non dobbiamo mai pronunciare parole che scoraggino”17 e invece quante volte ricevo madri spaventate dalle parole di pediatri che hanno elargito loro sentenze inappellabili: “Non ha latte, deve dare l’aggiunta”, “Se lei lo tiene ancora nel letto con sé ne farà un drogato”, “Se non gli dà l’antibiotico rischia una polmonite” e via dicendo, frasi che non fanno altro che suscitare insulsi e dannosi sensi di colpa nelle mamme, già di per sé in ansia per la salute dei propri bambini.


Ciò che la maggior parte dei medici non comprende è che chi sta male ha bisogno più di ogni altra cosa di qualcuno che regga il suo dolore, che non scappi ma che stia lì, pronto a tendergli la mano e a dirgli parole di conforto e di speranza, restituendogli la fiducia nelle proprie naturali capacità di ripresa e guarigione. Chi soffre ha bisogno soprattutto di una rassicurante presenza d’amore. Ma anche qui attenzione ai fraintendimenti: non si tratta di mostrare un atteggiamento “seduttivo”, che a volte in certi terapisti, soprattutto New Age, si esprime in gesti o parole inopportune, ma di offrire un amore incondizionato che nasce dal Centro ed è diretto ad ogni essere vivente o anche inanimato sulla Terra. C’è una grande differenza…


Maimonide, medico spagnolo del gran visir dell’Egitto in epoca medioevale, sosteneva inoltre che il medico non dovrebbe mai dimenticare di rafforzare la vitalità del paziente con cibi nutrienti e la sua forza spirituale con odori, musica, raccontandogli storie che rallegrano il suo cuore e distraendo, lui e i suoi familiari, da pensieri e preoccupazioni anche con barzellette.18 E in questo modo anticipava di molti secoli la terapia della risata…


E Salomone nei proverbi affermava “L’ansia toglie le forze e deprime il cuore ma una buona parola lo rende gioioso. Parole piacevoli sono dolci per l’anima e salutari per le ossa… Vita e morte sono in mano alla lingua.”19

Come chiedeva una signora anziana alla figlia, insofferente di fronte ai suoi problemi, “Dimmi una parola buona…” A volte basterebbe proprio poco per alleviare la sofferenza di chi ci sta vicino.


I nativi americani posseggono una sola parola per indicare la medicina e il potere perché per loro medicina è potere.


Ognuno deve trovare la sua medicina, ovverossia il suo potere perché la meta finale del lungo cammino che ci aspetta è diventare terapeuti di se stessi: “Siate una luce a voi stessi” diceva il Buddha. Ma per poterlo fare a volte occorre prima essere stati accompagnati da un bravo maestro.


Ognuno di noi sa in cuor suo qual è il tipo di terapeuta di cui ha bisogno e da cui si sente istintivamente attratto.

A volte può essere più indicata una figura maschile, a volte una femminile: c’è chi è alla disperata ricerca di un padre e chi di una madre…

Può succedere che all’inizio della nostra ricerca siamo portati a cambiare spesso medico e terapia, questo è in parte dovuto al fatto che il nostro Io è frammentato in tanti pezzetti: ci imbattiamo così in tanti personaggi diversi che risuonano con le nostre problematiche e i nostri bisogni di quel particolare momento. Ci sono persone per esempio che si attirano sempre terapeuti autoritari perché ricordano loro inconsciamente le figure genitoriali. Come scrive Dethlefsen “Ogni ammalato finisce in mano dei terapeuti per i quali è maturo”20.


Man mano che il nostro Io si integra il numero di terapeuti a cui ricorriamo si restringe così da ridursi a uno, fino al giorno in cui non si avrà più bisogno di un terapeuta esterno perché si sarà diventati “terapeuti di se stessi” e la Vita sarà diventata il nostro vero Maestro.


“Ritengo che sia dovere e privilegio di ogni medico insegnare ai malati e a tutte le persone come curare se stessi”21 diceva il grande Bach e io concordo pienamente con lui: il vero terapeuta per me è innanzitutto qualcuno che condivide ciò che sa con chi soffre e si rivolge a lui in cerca di aiuto diventandone un fedele compagno di viaggio.


Maimonide sosteneva che “Il medico non può sperare di curare un paziente solo attraverso le sue conoscenze mediche. L’unico modo per poterlo fare, è diventando una guida spirituale e insegnando ai pazienti un modo diverso di vivere.”22


E lo stesso affermava Bach molti secoli dopo quando scriveva che è fondamentale spiegare ai pazienti il perché della loro malattia: “È perfettamente inutile limitarsi a dire loro “Non avere paura”, “Non stare male”. Occorre spiegare loro perché hanno paura, perché si sentono male, e dar loro l’antidoto. …E indicare i rimedi che essi stessi possiedono per vincere la paura”23. Ricordando che molto spesso “la nostra paura è per il bene altrui”, e i nostri timori possono in realtà aiutare gli altri a preservare la loro salute, come nel caso, citato da Bach, dell’uomo che aveva paura a viaggiare e controllava ogni cosa quando saliva sul treno per assicurarsi che tutti i sistemi di sicurezza fossero funzionanti, nell’interesse di tutti i passeggeri, ma anche, mi verrebbe da dire, del medico che attraversa la “buia notte dell’anima” per potervi poi accompagnare i suoi pazienti…


“Tutte le guarigioni sono nelle mani di Dio – è scritto nello Zohar – Talvolta esse sono favorite da un messaggero, un dottore, ma anche se sembrano efficaci la malattia può tornare. Ma la malattia che Dio stesso cura non torna mai più.”24 Quindi in certi momenti non si può far altro che affidarsi al sommo terapeuta, all’unico vero Medico che esista, in grado di curare tutti i mali del mondo, come ci ricordano i versetti dell’Esodo: “Ani Hashèm rofeha: Io sono Dio, il tuo guaritore”. E, nelle situazioni più difficili, abbandonarsi a Lui e credere anche nei miracoli…


10 buoni motivi per non scegliere un terapeuta:

In genere conviene dubitare di chi:

  • Vi genera sensi di colpa (“Se non prosegui la terapia a vent’anni i tuoi figli avranno attacchi di panico”).
  • Si dichiara esperto in centomila attività diverse.
  • Vi illude promettendovi rapide guarigioni che non richiedono un personale e costante impegno quotidiano.
  • Fa tutto il lavoro al posto vostro (“Ti apro i chakra…” ecc.).
  • Genera dipendenza atteggiandosi a “guru”.
  • Non vi dice quale terapia vi sta somministrando.
  • “a pelle” non vi ispira fiducia.
  • Vi predice con esattezza matematica la durata della terapia.
  • È difficilmente reperibile, opera in modo saltuario, non vi può seguire con continuità.
  • Ha un atteggiamento non rispettoso e poco delicato.


Il Maestro interiore

Ecco un esercizio di visualizzazione proposto da Piero Ferrucci che ho trovato efficacissimo per contattare il proprio Maestro interiore (come lo chiamava Maria Montessori) o la nostra “parte che sa” (come amo chiamarla io):


“Immaginate di trovarvi in una valle in una mattina d’estate. Gradualmente, diventate coscienti del paesaggio circostante: l’aria è pulita e il cielo azzurro, tutto intorno a voi ci sono erba e fiori; sentite sul volto la brezza del mattino; diventate consapevoli dei vestiti che indossate. Guardandovi intorno, vedete una montagna che si erge vicino a voi. Ora decidete di scalare la montagna. Salendo entrate in una foresta; percepite l’aroma dei pini e l’atmosfera fresca e ombreggiata.


Quando lasciate la foresta, trovate un sentiero piuttosto ripido; camminando in salita sentite lo sforzo muscolare e l’energia che anima piacevolmente tutto quanto il vostro corpo.


Il sentiero ora finisce e c’è solo roccia. L’ascesa diventa sempre più ardua e dovete aiutarvi con le mani. Sentite un senso di elevazione, l’aria diventa più fresca e più rarefatta, e tutt’attorno a voi c’è silenzio. Ora entrate in una nuvola e potete vedere solo la nebbia che vi avviluppa. Andate avanti molto lentamente e cautamente, e siete appena in grado di scorgere le vostre mani aggrapparsi alla roccia. Ora la nuvola si dissolve e potete vedere di nuovo il cielo. Qua su tutto è più luminoso. L’atmosfera è straordinariamente pulita, i coloro sono assai vivi e il sole splende in tutto il suo fulgore. Ora arrampicarsi è più facile; vi sembra di pesare di meno, e quasi sentite l’attrazione della cima.


Quando vi avvicinate alla cima della montagna provate l’intensa sensazione dell’altezza a cui vi trovate. Vi fermate e vi guardate attorno: potete vedere altri picchi vicini e lontani, valli, laghi di montagna, e anche qualche villaggio in lontananza.


Sulla cima trovate un altipiano. C’è un silenzio profondo. Vedete qualcuno, lontano: è una persona saggia e amorevole, pronta ad ascoltare ciò che avete da dire e dirvi ciò che volete sapere.


Vi siete visti. Vi state andando incontro. Sentite la sua presenza che si avvicina gradualmente a voi, dandovi gioia e forza. Vedete la faccia di questa persona saggia e il suo sorriso, ne sentite il calore. Ora siete uno di fronte all’altro e vi guardate negli occhi. Potete parlare con lui/lei di qualsiasi problema, dire e domandare qualsiasi cosa vogliate. Poi, in silenzio e con attenzione, ascoltate cosa ha da dire.”

Tratto da P. Ferrucci, Crescere, p.141-142


Compagni di viaggio
Compagni di viaggio
Elena Balsamo
Come adulti e bambini insieme possono aiutarsi a guarire.Una panoramica chiara ed esauriente dei diversi strumenti terapeutici alternativi a disposizione della famiglia e in particolare della coppia mamma-bambino. Compagni di viaggio volge l’attenzione alla salute emotiva della famiglia.Basandosi sulla sua personale esperienza di medico e di paziente, Elena Balsamo offre al lettore una panoramica chiara ed esauriente dei diversi strumenti terapeutici alternativi a disposizione della famiglia (e in particolare della coppia mamma-bambino), nonché numerosi spunti di riflessione sul significato della malattia e sul messaggio contenuto nei sintomi, per trasformare la sofferenza in un’occasione preziosa di apprendimento ed evoluzione. Conosci l’autore Elena Balsamo, specialista in puericultura, si occupa di pratiche di maternage e lavora a sostegno della coppia madre-bambino nei periodi della gravidanza, del parto e dell'allattamento.Esperta di pedagogia Montessori, svolge attività di formazione per genitori e operatori in ambito educativo e sanitario.