Purtroppo di accompagnatori così ce ne sono pochi, ma esistono e vale comunque la pena mettersi a cercarli.
Se il primo passo – non sempre così scontato – per intraprendere una terapia è acquisire la consapevolezza di averne bisogno, il secondo passo è appunto la scelta di un buon terapeuta.
Non è facile, vista anche la vastità dell’offerta. A volte ci si basa sul passaparola, sul consiglio di un amico, ma non sempre poi i risultati corrispondono alle aspettative.
La scelta di un terapeuta secondo me è soprattutto questione di “feeling”. Requisito essenziale perché una terapia funzioni è infatti che il paziente si fidi del medico che gliela propone. Senza la fiducia reciproca nulla può accadere. “La tua fede ti ha salvato” diceva Gesù e fede significa fiducia.
La fiducia è un elemento essenziale e decisivo del processo terapeutico: esattamente quello che fa la differenza.
La competenza professionale è sicuramente un elemento basilare nella scelta del terapeuta (e oggi più che mai va tenuta in gran conto!) ma da sola non è sufficiente. La tecnica ha bisogno dell’energia dell’amore per divenire una forza di guarigione.
Quali sono quindi le qualità di un buon terapeuta?
A mio avviso innanzitutto accoglienza, gentilezza, delicatezza, empatia, capacità di ascolto, rispetto e umiltà.
Con i bambini queste doti si rivelano assolutamente indispensabili per poter stabilire un contatto. I più piccini hanno bisogno di sentirsi al sicuro nello studio del dottore, sapere di essere in un luogo protetto e accogliente con una persona di cui possono fidarsi, che è lì per comprenderli ed aiutarli, che li ama così come sono e li tratta con delicatezza.
Loro se ne accorgono subito e rispondono calmandosi immediatamente se piangono o sfoggiando un meraviglioso sorriso.
La mia più grande soddisfazione è proprio quando visito un neonato e riesco a stabilire un contatto diretto con lui che mi guarda diritto negli occhi e mi sorride come per dirmi “Tu sì, mi capisci…” O quando una bimba come Sara, mia giovane paziente, mi scrive come dedica a un disegno fatto apposta per me che sono la sua “dottoressa preferita”… O un ragazzino come Federico chiede alla mamma di portarlo da me per parlare un po’ prima di andare al funerale della nonna…
A volte arrivano da me bambini traumatizzati da terapeuti che li hanno visitati in modo brusco e sbrigativo, strappandoli dalle braccia dei genitori e tenendoli fermi a forza, provocando in questo modo le loro urla e il loro pianto più disperato. Non è facile riuscire a far superare loro questa memoria di violenza che risuona spesso, per esempio, con i ricordi legati a un parto difficile, dove avevano vissuto quella stessa esperienza di essere manipolati e maneggiati senza riguardo. Ci vuole tempo, molta pazienza e dolcezza – e anche spesso l’aiuto di qualche fiore – per far capire loro che adesso hanno un’altra possibilità e che non tutti gli adulti che incontrano sono così brutali…
Ma anche semplicemente l’indifferenza di un adulto in camice bianco che nemmeno li saluta o chiede loro come stanno rende difficile stabilire una relazione di fiducia: i bambini sono persone e non automobili che vanno dal meccanico per fare il tagliando o essere riaggiustate!
Quindi innanzitutto il rispetto, in tutti i sensi e su tutti i piani.
Un buon terapeuta per esempio sa che “c’è un tempo per ogni cosa”, che non vanno forzati i ritmi del paziente che si affida a lui, che bisogna aspettare che sia pronto a vivere determinate esperienze o anche accettare che non sia disponibile a farlo.
Questo mi è apparso in modo incredibilmente chiaro quando per la prima volta ho assistito a una dimostrazione di Matthew Appleton che al suo corso ci ha portato diversi “casi clinici” mostrandoci dal vivo come lui tratta i suoi piccoli pazienti durante le sedute di cranio-sacrale.
Guardandolo avevo le lacrime agli occhi: mai avevo potuto osservare un rispetto così grande nei confronti di un bambino. Matthew si metteva seduto a terra vicino al bimbo e semplicemente lo osservava. Il piccolo si muoveva nello spazio e prima o poi si sentiva magneticamente attratto da quell’uomo alla sua altezza, sdraiato vicino a lui e lentamente gli si avvicinava. Poi stendeva una manina per toccarlo e solo allora Matthew rispondeva al suo gesto con grande delicatezza. A volte invece il piccolo gli allontanava la mano facendogli capire che non voleva essere toccato e allora il terapeuta rispettava il suo rifiuto retraendola. La sessione iniziava sempre e solo quando il bambino mostrava di essere pronto ad affrontarla. Un approccio veramente “montessoriano”!
Che si tratti di bambini o di adulti un buon terapeuta non dovrebbe mai forzare la mano e imporre misure o consigli che il paziente non è in grado di seguire o di reggere: sarebbe come togliere la stampella ad uno zoppo mentre ciò che bisogna fare è curargli la gamba perché possa riprendere a camminare da solo…
Eppure quante volte mi è capitato di sentire persone in preda alla paura rimproverate perché non trovavano la forza per esempio di venire via da situazioni familiari a loro non favorevoli quando il primo passo per aiutarle sarebbe stato quello di curarle dal loro stato di timore e dai loro inconsci sensi di colpa. Oppure quanto spesso a un piccolino con tematiche di abbandono e problemi di separazione dalla mamma viene tolto forzatamente il ciuccio perché “deve crescere”? Mentre la vera soluzione sarebbe cercare di rafforzarlo e riparare la sua ferita e il suo buco nero…
La domanda più importante che un bravo medico dovrebbe fare al suo paziente è: “Di cosa hai bisogno?” Ci sono persone che non se lo sono mai sentito chiedere da nessuno…
Un buon terapeuta deve possedere una grande capacità di osservazione e di ascolto.