PARTE terza - La salute del bambino

Il Maternage interiore

Se porterete alla luce quello che è dentro di voi, quello che porterete alla luce vi salverà. Se non porterete alla luce quello che è dentro di voi, quello che non porterete alla luce vi distruggerà

Vangelo di Tommaso

È impossibile essere un buon genitore se si è ancora schiavi del passato, che è il caso della maggior parte di noi

A. Janov

Mi sono sempre portata dietro per tutta la vita la sensazione di essere “orfana di madre”… eppure io una mamma l’ho avuta eccome! È stato solo dopo le esperienze di cranio-sacrale biodinamico che ho capito da dove nascesse questo strano vissuto: quando una madre è avviluppata dai suoi problemi, depressa e bloccata in un lutto irrisolto come lo era la mia, inconsciamente desiderosa di andarsene anche lei, per il bambino è come se fosse emotivamente morta. In più io non l’ho incontrata e trovata alla mia nascita, visto che mi hanno chiuso dentro ad un’incubatrice per un mese e mezzo, e anche al ritorno a casa le mie cure sono state affidate ad un’infermiera specializzata: evidentemente mia mamma non si sentiva all’altezza della situazione, era costantemente preoccupata per la mia salute temendo che potessi morire da un momento all’altro e così preferì delegare quanto più possibile il mio accudimento ad un’“esperta” (nei confronti della quale ho scoperto, ritrovandola dopo cinquant’anni, di nutrire un profondo affetto di figlia, una “fille e anima” come dicono in Sardegna).


Non è che mia madre non mi amasse, al contrario, ma non riusciva a darmi ciò che io desideravo più di ogni altra cosa al mondo: il suo tocco. Il problema è che per un bambino l’amore non può essere disgiunto dal contatto fisico!


Sta di fatto che sebbene abbia le foto che mi ritraggono in braccio a mia mamma io il suo tocco non riesco a ricordarlo. E quel tocco mancato l’ho poi cercato per il resto della mia vita, chiedendolo anche a chi non era affatto tenuto a darmelo… Mi ci sono voluti anni e anni di lavoro interiore per comprendere che la mancanza di contatto di mia madre era dovuta semplicemente alla sua grande paura di perdermi: molto probabilmente inconsciamente temeva di attaccarsi troppo a me e dover poi soffrire di nuovo se, come mio fratello, anch’io me ne fossi andata…

Scrive Leboyer nella prefazione al bellissimo libro di Janov L’amour et l’enfant: “In fatto di educazione, il primo dovere è un dovere verso se stessi. Se si vuole evitare a un bambino di soffrire a causa dell’influenza, la cosa migliore è cominciare col non prenderla. O se la si è presa di curarsi e guarire. Al pari delle malattie infettive, lo stesso vale per il mal d’amore. I genitori fanno pagare ai bambini per tutto l’amore che non hanno ricevuto. E che quindi non sanno dare. Perché non si può dare che ciò che si è ricevuto.”1

È proprio così… Tutto ciò che noi adulti non abbiamo risolto relativamente alle questioni della nostra vita prenatale, della nostra nascita e della nostra infanzia lo passiamo inconsapevolmente ai nostri figli, che si ritrovano con pesanti fardelli da portare che non appartengono a loro, come abbiamo già avuto modo di accennare nel precedente capitolo.


Ecco perché è di fondamentale importanza che i genitori, oltre all’esomaternage nei confronti dei loro figli, compiano anche quello che io chiamo un “maternage interiore”, ovverossia un “endomaternage” rivolto al proprio bambino interiore.


Dentro ognuno di noi infatti alberga un bambino emozionalmente ferito e bisognoso di cure, che spesso grida e piange per anni e anni prima che noi siamo in grado di udirne la voce.


In genere noi lo trattiamo come siamo stati trattati dai nostri genitori: c’è chi lo ignora totalmente, chi rimane indifferente ai suoi richiami, chi lo nutre rimpinzandolo di cibo o chi lo cura imbottendolo di medicine. Pochi coloro che sanno ascoltarlo con pazienza ed umiltà cercando di capire quali sono i suoi veri bisogni, le sue reali necessità.


Perché l’ascolto necessita di silenzio e il silenzio spesso spaventa e mette in crisi.


Eppure, come dice Jung “Non c’è presa di coscienza senza dolore. In tutto il mondo la gente arriva ai limiti dell’assurdo per evitare di confrontarsi con la propria anima.”


Preferisce correre freneticamente, buttarsi nel lavoro e giustificare il proprio atteggiamento con la mancanza di tempo adeguato per fermarsi e per riflettere.


Ma la vita richiama ai propri compiti ed ecco che prima o poi una malattia improvvisa, una situazione difficile o addirittura drammatica, arriva a sconvolgere tutti i programmi: allora fermarsi diventa una scelta obbligata, non si può più fare altrimenti.


La sosta forzata induce a interrogarsi, a porsi delle domande, a cercare delle risposte, delle soluzioni ai problemi, a chiedere aiuto esterno. È allora che il viaggio comincia, che inizia la grande avventura alla scoperta di sé.

Attaccamento e ciò che ne consegue...

Cigno, appiccica! E la serva fu catturata

L. Bechstein

Tutto parte dall’attaccamento.

Dai mass media e dalla maggior parte dei terapeuti, diciamo istituzionali, si sente sempre parlare della necessità di staccare i bambini dal seno, dalla mamma, dai genitori, ma non si dice quasi mai che per poter arrivare a una buona separazione occorre prima aver creato un buon attaccamento.


La separazione è il principale problema nella vita della maggior parte delle persone: quand’è che anche noi adulti andiamo in crisi? Quando veniamo lasciati da un compagno o una compagna, quando perdiamo una persona cara (un genitore, un amico o ancor peggio un figlio). Ma a volte ci risulta difficile anche a staccarci da un luogo, da una casa o da oggetti materiali. Perché facciamo così fatica a separarci?


Perché non abbiamo potuto godere di una base sicura, di un attaccamento ottimale nel momento esatto in cui ne avevamo bisogno ovverossia appena ci siamo affacciati su questo pianeta terra.


Un bambino quando viene al mondo ha bisogno di trovare due braccia amorevoli che lo accolgono e lo contengono, uno sguardo d’amore che lo fa sentire desiderato e atteso, ha bisogno di protezione, gentilezza, contatto e amore, di sentire da parte dei genitori interesse nei suoi confronti e disponibilità a prendersi cura di lui. Quando tutto ciò si realizza si parla di “attaccamento sicuro”: quando crescerà questo bambino avrà fiducia negli altri e saprà a sua volta donare ai figli l’amore che ha ricevuto.


Ma purtroppo non sempre questo accade: l’attaccamento può essere disfunzionale e condizionare negativamente il resto della vita se non se ne diventa consapevoli e si agisce di conseguenza per curare le ferite che esso ha lasciato aperte. Perché chiunque è stato privato di un buon attaccamento, come ci ricorda Alice Miller, “aspirerà, per tutta la sua vita, ad appagare i suoi primi bisogni vitali, e cercherà di soddisfarli con altre persone. Inoltre, meno un bambino ha ricevuto amore, meno è stato rispettato come persona, più, quando sarà adulto, si aggrapperà ai suoi genitori o a dei sostituti, aspettandosi da essi tutto ciò che gli è stato rifiutato nel periodo decisivo. Si tratta di una reazione normale del corpo. Lui sa cosa gli manca e non può dimenticarlo. Un buco è scavato che attende di essere colmato. …Tuttavia, più si va avanti con l’età, più diventa difficile trovare presso altri l’amore dei genitori che ci è mancato nei nostri primi anni. Eppure, le aspettative non scompariranno, al contrario: saranno semplicemente trasferite …A meno che noi non prendiamo coscienza di questi meccanismi e non cerchiamo, eliminando la repressione e abbandonando la negazione, di guardare il più esattamente possibile la realtà della nostra infanzia. È a questa condizione che possiamo allora costruire in noi l’essere capace di soddisfare i bisogni che, dalla nostra nascita e a volte anche prima, attendono di essere appagati.

È allora che possiamo accordare a noi stessi l’attenzione, il rispetto, la comprensione, la necessaria protezione e l’amore incondizionato che i nostri genitori ci hanno rifiutato. Per arrivare a questo risultato, abbiamo bisogno di vivere l’esperienza dell’amore per il bambino che fummo, altrimenti non sapremo che cosa significa la parola amare. Se cerchiamo di impararla nell’ambito di una terapia, ci occorrerà qualcuno che possa accettarci così come siamo, accompagnarci e proteggerci con rispetto e simpatia, aiutarci a capire perché siamo diventati ciò che siamo.”2

Ma cerchiamo di approfondire meglio il tema dell’attaccamento poiché – anche se nessuno ce lo spiega mai – la modalità con cui questo si realizza influisce sul tipo di relazioni che stabiliremo da adulti…


Quando una mamma risponde in modo empatico e congruente al suo bambino, soddisfando i suoi bisogni (per es. prendendolo in braccio se piange, allattandolo se ha fame o consolandolo se è addolorato) il bambino si sente al sicuro e ha la sensazione che anche il mondo sia un posto sicuro (perché il primo mondo per lui è la mamma).


Può così sviluppare fiducia in se stesso e negli altri, certo che se chiama qualcuno risponde e che se è in difficoltà o nel dolore c’è qualcuno lì con lui. Crescendo questo bambino non avrà paura a staccarsi dai genitori perché sa di poter contare su di loro in caso di necessità ma sa anche di poter contare su di sé e sulle sue risorse perché è stato lasciato libero di sperimentare quando era pronto a farlo. I suoi bisogni primari (essere visto, ascoltato, toccato e contenuto, accolto e compreso) sono stati soddisfatti e quando questo bambino sarà adulto attirerà nella sua vita persone che come lui hanno avuto un attaccamento sicuro e con cui potrà instaurare relazioni paritarie e reciprocamente appaganti.


Quando invece un bambino cresce con una figura di riferimento che non riesce per vari motivi (per esempio una madre emotivamente fragile, ansiosa, o ammalata) a fornire sicurezza e stabilità ma offre risposte imprevedibili che a volte arrivano e altre no, il bambino sviluppa un attaccamento insicuro, che in questo caso particolare viene definito “invischiante”: sente la debolezza della mamma e insieme la sua impotenza nell’aiutarla e questo gli crea una grandissima rabbia che deve però reprimere perché non è in grado di gestirla. Inoltre avverte la precarietà della situazione sempre instabile che mina la sua capacità di fidarsi. Quando sarà adulto questo bambino ricreerà la situazione dell’infanzia attirando nella sua vita persone instabili, fragili e bisognose che necessitano del suo aiuto (esattamente come la figura materna) e con cui instaura legami del tipo vittima-salvatore, in cui la forza dell’uno deriva dalla fragilità dell’altro (il pensiero inconscio è “io ti aiuto così tu finalmente potrai darmi quello di cui ho bisogno” e cioè attenzione e amore). Questo tipo di relazione si verifica frequentemente nelle persone molto sensibili e nei terapeuti ma genera di nuovo molta rabbia e alla lunga rende la relazione una grande sofferenza.


Si parla invece di attaccamento “rifiutante” quando il bambino avverte una mancanza di empatia e sostegno da parte della figura di riferimento: la madre o chi per lei non è in grado di accogliere e sostenere il bambino perché per esempio non ha elaborato un lutto o a sua volta non è stata accolta e sostenuta. In questi casi il bambino viene responsabilizzato fin da piccolo e impara prestissimo che non può e non deve chiedere nulla: deve essere forte, cavarsela da solo e disturbare il meno possibile. Quando diventerà adulto non sarà in grado di chiedere aiuto in caso di bisogno, eviterà il coinvolgimento emotivo e i legami profondi perché nel suo inconscio alberga la credenza “non merito di essere amato”. In questa persona la razionalità prenderà il posto del sentimento come meccanismo di difesa per non risentire l’antica sofferenza. La ferita del rifiuto lascia un vuoto estremo e un desiderio fortissimo di amore e tenerezza, che paradossalmente però chi ne è portatore non riesce a riconoscere ed accogliere in quanto prevale la paura di essere nuovamente respinti e di contattare emozioni troppo dolorose.


L’attaccamento definito “ambivalente” invece è quello in cui il bambino avverte una non coerenza tra il dire e il fare della madre, percepisce le sue emozioni più oscure e profonde che però vengono esteriormente negate o rimangono occulte (è il caso dei segreti di famiglia) per cui producono nel piccolo una sfiducia nel proprio intuito e nella propria capacità di sentire. Per esempio la mamma dice al bambino che gli vuole bene ma non lo tocca: questo è un doppio messaggio che confonde il piccolo per il quale l’amore non è un concetto astratto e non può non passare attraverso il contatto fisico. In questo tipo di attaccamento prevalgono in genere dinamiche di potere, di controllo e di manipolazione, e si sviluppano gelosia e risentimento. Gli stessi temi si ritroveranno nelle relazioni adulte, portatrici di grande sofferenza e a volte di una notevole carica distruttiva.


Vi siete identificati in alcune di queste dinamiche? Io sì…

Ma non avviliamoci, tutto ha un senso se lo guardiamo con gli occhi dell’Anima: se abbiamo vissuto determinate esperienze è perché ci servivano per diventare ciò che siamo chiamati ad essere.


Se io per esempio non avessi vissuto tutti i miei traumi prenatali e neonatali, che tanto mi hanno fatto soffrire, e quindi spinto ad elaborarli per uscire dal tunnel della sofferenza, non avrei scritto i libri che ho scritto e oggi voi non stareste leggendo queste pagine…


Se vi parlo di tutto ciò quindi non è certo per fare del terrorismo psicologico ma piuttosto per ricordarvi e sottolineare una volta di più l’importanza di un buon attaccamento, di una buona relazione mamma-bambino: questa è la pietra angolare su cui costruire la cattedrale! Questa è la vera medicina preventiva: offrire al bambino le migliori basi di partenza possibili, attraverso una buona gravidanza, un buon parto, una buona accoglienza alla nascita, un buon allattamento e un buon maternage. Ricordiamoci però che al bambino non basta un accudimento tecnicamente perfetto, un bambino per crescere bene ha bisogno di una mamma e di un papà amorevoli e il più possibile felici, disponibili a guardarsi dentro ed eventualmente anche a sciogliere alcuni dei nodi che più li attorcigliano. Perché – e questa è la buona notizia – liberarsi dalle pastoie dei condizionamenti del passato è sempre possibile! Anche se richiede molto impegno e dedizione… Senza ombra di dubbio però ne vale la pena.


Un bambino felice e sicuro sarà un adulto felice e sicuro che attirerà a sé altre persone felici e sicure e creerà relazioni paritarie e appaganti: quanti di noi possono dire di esserci riusciti? Ma come dice Erikson “Non è mai troppo tardi per avere un’infanzia felice” e di conseguenza anche relazioni felici… Se vogliamo far finire la nostra storia, come nelle favole, con un “e vissero tutti felici e contenti” bisogna mettersi in cammino.


Non è un sogno impossibile. Partire dal saperne un po’ di più sul funzionamento delle dinamiche inconsce che sono alla base della nostra sofferenza è il primo passo indispensabile. Ecco perché adesso affronteremo lo stesso tema trattato finora osservandolo da un’altra prospettiva…

Il bambino emozionale ferito

Se vai in profondità al tuo interno troverai sempre il bambino innocente… e contattare questo bambino innocente è terapeutico

Osho

Quando ho riletto dopo anni il libro di Lise Bourbeau Le 5 ferite, ho sentito immediatamente di aver trovato quello che stavo cercando e mi sono chiesta come mai quel volume non mi avesse parlato al momento dell’acquisto, ma evidentemente allora non ero pronta a recepirne il messaggio… Adesso invece quel libro, e la sua continuazione3, si è rivelato provvidenziale per la stesura di questo capitolo e da entrambi i volumi ho attinto a piene mani nel tentativo di offrirvi una sintesi semplice, ma al contempo quanto più possibile esauriente, di un materiale di per sé sicuramente di non facile digestione.


“Tutti noi veniamo al mondo con delle ferite che dobbiamo imparare ad accettare”4. La terapeuta quebecchese ne ha individuate cinque principali che ognuno si porta dentro in misura maggiore o minore:

  1. RIFIUTO

  2. INGIUSTIZIA

  3. ABBANDONO

  4. TRADIMENTO

  5. UMILIAZIONE

Esaminiamole una per una e sentiremo immediatamente con quale di esse risuoniamo maggiormente… La ferita da rifiuto è la più precoce (concepimento-1 anno di età) e in assoluto la più devastante: riguarda il bambino che si è sentito non voluto e/o accettato dal genitore dello stesso sesso (che magari preferiva un altro figlio) e quindi di conseguenza non crede di avere il diritto di esistere, pensa di non valere nulla e ha una bassissima autostima. Si sente diverso dagli altri, solo e incompreso. A volte si chiede cosa sia venuto a fare su questo pianeta e se non fosse stato meglio rimanere dov’era… Per difendersi indossa la maschera del fuggitivo: nega la realtà e scappa sempre dalle situazioni che gli creano disagio e si rifugia nel mondo dell’immaginazione (o dell’alcol o della droga). Ha interessi intellettuali e spirituali e tende a isolarsi. Ha paura di disturbare e cerca di occupare il minor posto possibile (ecco perché è in genere magro e mangia poco, quel tanto da sopravvivere). Rifiuta l’aiuto degli altri perché accettandolo si riterrebbe una nullità. È inquieto e perfezionista e sente di esistere solo quando è molto occupato: ciò lo rende un grande lavoratore anche se a volte rischia di diventare ossessivo. Ha tendenza ad andare nel panico e questa è la sua più grande paura. La guarigione di questa ferita avviene concedendosi il diritto di esistere e accettandosi così come si è. Va ricordato che la ferita da rifiuto (così come quella da ingiustizia), anche se collegata in origine al genitore dello stesso sesso, può essere riattivata da un’altra persona di sesso opposto se il genitore di questo stesso sesso non è intervenuto a sostegno del figlio. E anche che a volte per crearla basta semplicemente che un bambino abbia avuto la sensazione di non essere accettato (come può succedere per esempio ai piccoli prematuri chiusi per tanto tempo in incubatrice e che hanno la sensazione di non esistere perché nessuno li tocca e li guarda con amore).


La ferita da abbandono viene subito al secondo posto per intensità emotiva: riguarda il bambino (1-3 anni) che non si è sentito sostenuto dal genitore del sesso opposto, il quale non ha soddisfatto le sue aspettative dal punto di vista affettivo (magari anche solo in certi momenti della sua vita). Non occorre avere realmente vissuto un abbandono per svilupparla, ma è sufficiente averne provato la sensazione. Questa ferita porta come reazione a sviluppare l’atteggiamento del dipendente: chi ne è toccato ha paura a stare da solo e cerca sempre l’attenzione e il sostegno di chi gli sta attorno. Facilmente si aggrappa agli altri, a cui chiede consigli e opinioni che poi magari non segue… Ha sbalzi d’umore, è spesso triste e piange con facilità. Tende a stabilire rapporti fusionali con le persone che ama, vorrebbe essere compreso per telepatia e fa fatica a chiudere le relazioni per paura di rimanere solo. Teme l’aggressività altrui e di fronte ad una persona arrabbiata si fa piccolo piccolo come un bimbo impaurito. È tipico di chi soffre di dipendenza accettare relazioni non soddisfacenti e a volte anche violente. Il dipendente è in genere una persona esile con parti del corpo cadenti o flaccide e predilige abiti larghi. Secondo la Bourbeau, se ci si giudica vivendo soprattutto un sentimento di paura si sta reagendo alla ferita da rifiuto e/o da abbandono. La strategia per guarire la ferita di abbandono è amarsi, cioè riconoscere la propria forza e non avere aspettative sugli altri, sapendo che non abbiamo bisogno di loro per provare a noi stessi di essere amabili.

La ferita da ingiustizia (4-6 anni di età) nasconde sempre dietro di sé una ferita di rifiuto: riguarda un “bambino che ha sofferto per la freddezza del genitore dello stesso sesso e che non ha potuto esprimersi ed essere se stesso con lui”5. Questo bambino per proteggersi ha sviluppato la maschera del rigido, imponendosi di essere perfetto e dare sempre ottime prestazioni. È il prototipo del “bravo bambino” che si controlla per corrispondere alle aspettative altrui e all’idea che si è fatto di sé. Spesso reprime la collera e anche i sentimenti perché ha paura di perdere il controllo e mostrarsi vulnerabile (ma può anche esprimerla e assumere la maschera del ribelle che sfida il genitore o qualsiasi persona risvegli in lui il dolore vissuto inizialmente con quel genitore). Il rigido è molto esigente con se stesso e con gli altri da cui si sente criticato e che critica facilmente. Se viene colto in fallo si giustifica immediatamente. È uno specialista dell’autosabotaggio. Usa spesso espressioni come “nessun problema” e superlativi come “fantastico” “super – ultra – mega “. La sua rigidità si manifesta anche nel corpo che, pur essendo ben proporzionato e curato, è spesso teso in molte sue parti. Secondo Bourbeau “La ferita da ingiustizia ci aiuta a non sentire quella da rifiuto”6 e se si accusa se stessi o una persona del proprio sesso con rabbia è la ferita da ingiustizia a entrare in gioco. La ferita da ingiustizia guarisce quando ci si concede di mostrare la propria sensibilità e di avere dei limiti, ricordandosi che la perfezione non esiste in questo mondo anche perché significherebbe stasi e quindi morte…


La ferita da tradimento (2-4 anni di età) nasconde sempre dietro di sé una ferita di abbandono e insieme ad essa una grande disperazione. Ha a che fare con “un bambino deluso che ha sofferto nel non vedere soddisfatte le sue aspettative di attenzione da parte del genitore di sesso opposto e che si è sentito tradito o manipolato nell’amore-sessualità. Ha perso fiducia in questo genitore poiché è stato testimone di promesse non mantenute, di bugie o segni di debolezza. Ciò lo ha indotto a giudicare questo genitore un individuo incapace di assumersi le proprie responsabilità.”7 Questa ferita provoca la paura della separazione e induce a indossare la maschera del controllore: chi ne è portatore fa di tutto per mostrarsi forte agli occhi degli altri e per essere speciale e importante. Si sente amato solo quando l’altro risponde alle sue aspettative. Si crede indispensabile e tende a controllare tutto e, quando delega, a pretendere che gli altri facciano le cose a modo suo, secondo le sue indicazioni. Ha difficoltà ad accettare gli imprevisti. Critica le persone dipendenti e “cerca di mostrarsi molto indipendente per non affrontare la sua paura della separazione, dunque dell’abbandono”8. Usa spesso espressioni come “Avevo ragione io!” “Hai capito?” Fisicamente, se uomo, è il classico “macho”, forte e muscoloso che tende a metter su pancia con l’età. Secondo Bourbeau, “ogni volta che un rapporto affettivo viene sgretolato dalla collera, è sistematicamente presente una grave ferita da tradimento”9. La strategia per guarire la ferita di tradimento è concedersi di essere vulnerabili, ammettere le proprie paure e lasciarsi andare nel flusso della vita senza più avere bisogno di controllare ogni cosa. Anche perché in realtà, a pensarci bene, non possiamo controllare proprio nulla…

La ferita da umiliazione (1-3 anni) riguarda un bambino che ha subito un’umiliazione da un genitore o vissuto una situazione di vergogna. È legata anche a un atteggiamento repressivo e sprezzante o abusante da parte di un genitore nei confronti di un piacere del corpo o di un aspetto riguardante la sfera fisica o sessuale (senza arrivare agli abusi veri e propri, basti pensare alle scenate e alle punizioni nei confronti dei bambini che fanno la pipì a letto o addosso, che un tempo erano la norma ma a cui mi è capitato di assistere ahimè anche ai nostri giorni…). Chi è portatore di questa ferita sviluppa l’atteggiamento del masochista: si fa in quattro per coloro che ama, anteponendo il loro benessere al proprio e scusandoli anche quando non sarebbe necessario; si autopunisce inconsciamente quando ha l’impressione di godere troppo; reprime le pulsioni associate ai sensi; ha paura di essere giudicato e anche di essere libero perché “per lui essere libero significa essere senza limiti e provare troppo piacere”10… Queste persone ingrassano facilmente, sono rotonde e cicciottelle e devono quindi mettersi a dieta così da procurarsi inconsciamente un motivo per non godere dei sensi… Spesso usano nel loro vocabolario espressioni come “indegno”, “sporcaccione” “vergognati!” e sottolineano l’elemento “puzza” anche con i loro bambini quando gli cambiano il pannolino o scherzano sui piedini che sudano (queste ultime sono osservazioni personali). Secondo Bourbeau se ci si giudica provando vergogna si sta reagendo alla ferita da umiliazione. La guarigione della ferita da umiliazione avviene concedendosi di godere (non prima però di aver lavorato sui sensi di colpa che impediscono di farlo, pena il peggioramento dei sintomi…).


Come abbiamo visto, ognuno di noi si porta dietro, in misura maggiore o minore, quasi tutte queste ferite senza saperlo. Perché c’è una parte di noi (quella che di solito si definisce Ego) che fa di tutto per non farcele vedere e sentire in quanto è terrorizzata dal doverle rivivere. Ma negare la ferita non fa altro che aggravarla: proprio come una piaga aperta non curata rischia di infettarsi e provocare una setticemia… Ogni volta che le nostre ferite vengono riattivate da circostanze esterne ecco che tornano a dolere e a sanguinare facendoci soffrire. Se osserviamo con attenzione, ci renderemo conto che noi “attiriamo determinati comportamenti o atteggiamenti da parte degli altri in funzione delle nostre ferite11, cioè incontriamo per esempio persone che del tutto inconsapevolmente ce le riattivano, dandoci un’opportunità di guarirle una volta per tutte (se ne prendiamo coscienza). Ecco ora qualche spunto per provare a comprendere le esigenze e i meccanismi dei nostri bambini interiori feriti che, come ci ricorda Thich Nhat Hanh, “sono presenti in ogni cellula del nostro corpo, non c’è cellula che non li contenga”12 e che quindi continuano a condizionarci l’esistenza anche quando siamo diventati ormai più che adulti… Qui di seguito elencherò alcune caratteristiche che ci permettono di riconoscerli e di diventare consapevoli delle loro dinamiche. Come ci ricorda Krishnananda, psichiatra americano diventato poi discepolo di Osho, possiamo stare certi che si è riattivata una ferita ed è in azione il nostro bambino interiore quando per esempio:

  • Reagiamo in modo automatico agli eventi della vita, scattando per un nonnulla o vivendo situazioni “normali” come se fossero questioni di vita o di morte.

  • Abbiamo aspettative sugli altri che desideriamo vengano appagate.

  • Idealizziamo cose e persone o pensiamo di cambiarle come per magia.

  • Viviamo nell’attesa e nella speranza che magicamente arrivi un “salvatore”, cioè una persona in grado di liberarci dalle nostre paure, dalla nostra solitudine e dal nostro dolore.

In particolare per quanto riguarda le aspettative, va ricordato che è normale averne: esse derivano dal desiderio di colmare i nostri buchi, di ricevere ciò che non ci è mai stato dato.


Le aspettative “riflettono in modo accurato i modi in cui ci siamo sentiti traditi o invasi nel passato: ci aspettiamo che la gente non ci tratti in un modo che risvegli quelle ferite”13.


Chi tende a minimizzare i suoi bisogni spesso le nega, ovvero afferma di non averne e le nasconde anche a se stesso, magari dietro ad una immagine di elevata spiritualità: le aspettative non sono sempre facili da riconoscere ed ammettere, proprio perché sono molto profonde, ma in genere ognuno di noi ne possiede una quota…


Per esempio “gli antidipendenti si aspettano che l’altro sia sensibile e rispettoso dei loro bisogni e dei loro sentimenti e che dia loro molto “spazio”. I dipendenti si aspettano che l’altro sia presente, e che dia loro molto “amore e attenzione”14. In entrambi i casi è in azione il rispettivo bambino interiore, che nel primo esempio è stato in genere soffocato da una madre (o altra figura genitoriale) divoratrice e manipolatrice e quindi reclama libertà, mentre nel secondo è stato lasciato solo da una madre (o altra figura genitoriale) fredda e distante o per altri motivi si è ritrovato in una situazione di abbandono e quindi chiede disperatamente amore e contatto.

Ciò che cambia è il tipo di trauma che le sottende e la modalità di manifestazione ma le aspettative sono presenti in entrambe le situazioni (che possono anche coesistere in una stessa persona sebbene una in misura maggiore dell’altra).


Il problema e la causa della nostra sofferenza sta nel fatto che noi proiettiamo le nostre aspettative sugli altri, i quali però non possono appagarle, esattamente come non lo avevano fatto a suo tempo le figure genitoriali. Perché ciò che cerchiamo all’esterno dobbiamo prima trovarlo dentro di noi: un’espressione molto bella, che ritroviamo in tutti i testi di crescita personale o di spiritualità, ma alquanto criptica, in quanto nessuno spiega mai come si fa… Personalmente ho trovato una risposta e soprattutto uno strumento utile e veramente efficace per coltivare l’Amore e la Gioia dentro di sé nel volume dello psicologo Loyd Il codice dell’amore: provate, sfidando lo scetticismo, a dargli un’occhiata e forse risuonerete con le sue parole come ho fatto io…


In ogni caso, qualsiasi sia lo strumento che scegliamo, l’unica strada percorribile rimane il lavorare su di sé, per diventare consapevoli delle dinamiche in cui ci troviamo imprigionati e sciogliere un po’ alla volta i nodi emozionali che ci portiamo dentro da tempo immemorabile.


Un’altra strategia adottata dal bambino ferito riguarda l’utilizzo del pensiero magico. Esso fa sì che mettiamo sul piedistallo le persone che più amiamo e ammiriamo, proprio come abbiamo fatto da piccoli con i nostri genitori: allora si trattava di un meccanismo di sopravvivenza, necessario per poter affrontare la vita, ma ora non lo è più, eppure noi continuiamo a mantenerlo perché smantellarlo significa accettare la realtà e con essa la delusione che comporta. L’atterraggio infatti può essere molto doloroso…

Una delle convinzioni del bambino emozionale, come abbiamo già avuto modo di dire riguardo alle aspettative, è poi che i suoi buchi possano essere riempiti soltanto all’esterno, da qualcuno che arriva per colmarli e così renderlo felice. È la sindrome del salvatore...15 Ma la realtà è un’altra: solo osservandoli e comprendendoli – che cosa sono, da dove vengono e come possiamo noi stessi prendercene cura – riusciremo a guarirli una volta per tutte.


Scrive Krishnananda, usando una bellissima ed efficacissima immagine, “Quando siamo nello stato mentale del bambino e ne siamo sopraffatti, è come se vivessimo in una bolla. Il bambino ferito è dentro questa bolla, intrappolato nelle sue credenze e aspettative. Da dentro questa bolla non possiamo vedere il mondo esterno così com’è, possiamo vederlo soltanto attraverso il filtro delle nostre credenze e aspettative”16. Cioè, come abbiamo detto nel capitolo sulla malattia, osserviamo il mondo con il nostro peculiare tipo di lenti…


Ognuno di noi ha la sua bolla e ogni bambino ferito ha il suo trauma: può essere una ferita da rifiuto o da abbandono, da ingiustizia o tradimento o da vergogna e umiliazione.


Fra tutte comunque la paura del rifiuto e dell’abbandono è la più profonda e terrificante. “Nasce da una profonda sensazione di non essere voluti, accuditi, sostenuti e riconosciuti. Per ognuno questa esperienza è differente, ma a tutti lascia una fame, un grande bisogno d’amore che a volte compensiamo diventando dipendenti o pieni di pretese, cercando di farci salvare da qualcuno o ritirandoci e isolandoci nel nostro proprio mondo e sviluppando un falso senso di autosufficienza.”17


Non c’è bisogno di essere, come i protagonisti dei romanzi dell’800, dei “senza famiglia” per portare dentro di sé i segni di queste due ferite…

Personalmente ho scoperto che a un bambino basta molto poco per sentirsi abbandonato e tradito: una situazione che per un adulto è del tutto banale a un bambino piccolo può invece lasciare il segno. Io ho impiegato cinquant’anni della mia vita per esempio per rendermi conto che mi sono sentita abbandonata e tradita da mio papà (con cui ho sempre avuto un rapporto meraviglioso) semplicemente perché molto spesso quando ero piccola lui rimaneva a Cagliari a lavorare e io invece ero “costretta” ad andare con mia mamma dai nonni “in continente”. Non avrei mai scoperto questa inconscia ferita se non avessi per mia somma fortuna ereditato una scatola di lettere che i miei genitori si scrivevano in quel periodo e in cui mia madre raccontava a mio padre che io non mangiavo, non dormivo, ero sempre ammalata, piangevo e lo cercavo in continuazione chiedendogli di tornare presto… Avevo all’incirca uno-due anni ma senza il mio papà vicino – da cui mi sentivo capita – non mi sentivo in grado di affrontare il mondo. Come scrive la Bourbeau, una bambina “nei momenti in cui ha problemi con la madre, desidera che il padre si schieri dalla sua parte e, se lui non lo fa, non solo si sente rifiutata dalla madre ma anche abbandonata dal padre… L’attivazione della ferita da tradimento avviene quando la bambina comincia a esprimere collera in pensieri o a parole “Come può un papà che dice di volermi bene comportarsi così? Perché mi chiama “il mio tesoro” se non ha mai tempo per me? Non si rende conto di quanto gli voglio bene?” Non capisce perché lui non le dia maggiore attenzione quando lei fa di tutto per essere gentile e amabile; soprattutto non riesce a spiegarsi il divario tra ciò che il papà dice e ciò che fa; si sente tradita da lui”.18 Da adulta questa bambina proietterà questa dinamica sul partner in assenza del quale si sentirà persa ma di cui farà fatica a fidarsi e verso il quale proverà esattamente la stessa rabbia provata da piccola nei confronti del padre e la stessa paura di essere tradita (naturalmente attirerà una persona che le attiverà proprio questa ferita).


Secondo Bourbeau “ogni volta che ce la prendiamo con una persona di sesso opposto entra in gioco la ferita da tradimento”.19


Per Krishnananda la ferita da fagocitazione è l’ombra della ferita da tradimento: anziché sentirci traditi perché l’altro non è presente per noi, ci sentiamo traditi perché pretende o si aspetta troppo da noi o perché pone i suoi bisogni al di sopra dei nostri. Ci sentiamo soffocati, controllati o manipolati invece che amati. Così anziché aggrapparci ci allontaniamo, ma la nostra fame d’amore è ugualmente grande.


I drammi nelle nostre storie d’amore e nelle nostre amicizie solitamente hanno la loro radice nell’incontro tra fagocitazione e abbandono. Abbiamo dentro di noi entrambe queste ferite ma ne proiettiamo una sull’altra persona che dovrà quindi assumersene il ruolo. Tutto questo fornisce un’interessante materia teatrale”20.

Come vedremo nel prossimo paragrafo.

Comunque, al di là del tipo di trauma, ciò che conta è che quando siamo dentro alla nostra bolla siamo totalmente identificati con il nostro bambino emozionale e agiamo e ci comportiamo come se fossimo lui o lei. Per esempio ci sentiamo sbagliati e indegni di essere amati, incapaci di dire di no e di farci rispettare, deboli e indifesi, soli e spaventati ecc. e non ci rendiamo conto che noi ora non siamo più quei bambini traumatizzati e congelati ma degli adulti che possono far scoppiare la bolla e uscirne fuori ogni volta che vogliono.

Tutto ciò che avreste voluto sapere sulle relazioni e che nessuno vi ha mai detto…

Quello che nessuno ci racconta mai è che anche le nostre relazioni sono condizionate dalle nostre bolle… Perché da là dentro noi mandiamo messaggi al mondo del tipo “Scusate se esisto”, “Ti prego, salvami!” oppure “Non ti avvicinare!” E il mondo risponde rispecchiando il nostro messaggio e rinforzando la nostra credenza: che siamo destinati a non avere il diritto di esistere, a venire abbandonati, ad essere usati o invasi… Così le donne continuano a essere rifiutate dagli uomini e gli uomini dalle donne, le mamme continuano a non essere ascoltate dai figli e sul lavoro c’è chi continua a non essere rispettato dal capo… Noi però, anziché indagare cosa si nasconde dietro a tutto ciò, ci arrabbiamo, ci sentiamo vittime trattate ingiustamente e ci stupiamo di ottenere sempre la stessa risposta ai nostri atteggiamenti senza accorgerci che ciò avviene perché noi mandiamo sempre lo stesso messaggio.

Perché una relazione, di qualunque tipo si tratti, funzioni occorre che ci si incontri con l’altro a partire dal proprio centro. In quel campo di cui parla il mistico Rumi “Al di là del bene e del male esiste un campo. Ci incontreremo lì”.

Nella maggior parte dei casi invece ciò non avviene: l’incontro accade tra i rispettivi bambini feriti, ognuno portatore del suo specifico trauma, che inevitabilmente cominciano a litigare e a soffrire perché proiettano l’uno sull’altro le proprie aspettative. Ma, come abbiamo detto, “dietro ogni aspettativa c’è una ferita o un buco”21 di cui però raramente siamo consapevoli. “Dietro ogni aspettativa insoddisfatta c’è la ferita dell’essere stati frustrati in qualche importante bisogno. Le aspettative sono il pensiero magico di un bambino ferito”22 che vorrebbe che gli altri e la vita fossero come lui desidera che siano…


Facciamo un esempio per capire meglio come funziona questa dinamica: una persona che chiameremo A soffre di un trauma di abbandono e cerca disperatamente il contatto che non ha mai avuto. Incontra una persona, che chiameremo B, che ha una sindrome da invasione e si sente facilmente braccata e soffocata: cosa accadrà? Che più la persona A si avvicinerà alla persona B più quest’ultima cercherà di svicolare e scapperà a gambe levate… Così la persona A avrà modo di rivivere il suo trauma di abbandono (“che cos’ho che non va che nessuno mi vuole?”) e la persona B potrà sperimentare nuovamente l’esperienza dolorosa del sentirsi minacciata nella sua integrità personale e della violazione dei suoi confini che l’ha fatta soffrire in passato e che le fa scattare un inconscio meccanismo di difesa (“Non ti avvicinare troppo!”).


Tutto ciò avviene dunque perché nell’incontro vero e profondo (ancora di più in quello intimo e sessuale) ognuno riapre all’altro le proprie ferite più antiche: è una modalità dell’anima per aiutarsi a guarire. Ma se ciò non viene compreso ecco che scatta il conflitto, la rabbia e a volte la rottura della relazione.


Dovremmo invece ricordare che ci attiriamo partners, figli, amici, colleghi di lavoro o eventi che fanno riaffiorare proprio i traumi che vorremmo dimenticare e seppellire, affinché riusciamo a superarli una volta per tutte e che quindi

l’altro provoca in qualche modo la ferita, la stimola, ma non ne è l’origine, non è la ragione per cui ci sentiamo inghiottiti, controllati, manipolati o posseduti, ha solo provocato una ferita che era già presente e aspettava solo di venire provocata23

per poter guarire. Insomma “Nelle relazioni consapevoli il problema non è l’altro”24 “e non lo è nemmeno la relazione, il vero problema è avere chiaro chi sta guardando chi”25. Il vero problema siamo noi o meglio i nostri bambini emozionali feriti. Se riuscissimo a ricordarcene eviteremmo tanti litigi e incomprensioni…

In particolare la relazione che abbiamo avuto con i nostri genitori si riflette in tutte le altre relazioni che incontriamo mano a mano nella vita: ne cerchiamo di simili per riprodurre gli aspetti positivi che possedevano ma anche e soprattutto per rivivere gli aspetti difficili che presentavano e tentare finalmente di trasformarli. Cerchiamo cioè in tutti i modi di darci un’altra possibilità…


Così per esempio chi ha avuto un padre o una madre emotivamente distante più facilmente si attirerà un partner emotivamente chiuso e non disponibile per cercare una volta per tutte di scongelare il cubetto di ghiaccio con cui ha dovuto convivere per tanto tempo… Chi ha subìto l’abbandono attrarrà più probabilmente persone che lo lasceranno, chi ha vissuto l’abuso persone che lo useranno, fino a quando non diventerà consapevole del meccanismo e, stanco di soffrire, deciderà di spezzare il circuito della ripetizione senza fine lavorando su di sé e sul suo passato.


Se osserviamo le situazioni che ci capitano dalla prospettiva dell’osservatore consapevole, proprio come degli attenti spettatori, che assistono ad uno spettacolo cinematografico con degli occhiali a 3D, e non con le lenti deformate del proprio bambino interiore, ecco che tutto può iniziare magicamente a cambiare e si può evitare di cadere nella trappola dell’annaffiarsi a vicenda, nelle relazioni, i propri rispettivi semi della rabbia.


Per tornare all’esempio precedente, la persona A comprenderà che se va verso l’altro come un mendicante, chiedendo l’approvazione e l’amore incondizionato che non ha ricevuto da bambino dalla madre o dal padre, continuerà a soffrire e a sentirsi rifiutato (perché l’altro non vuole assumersi questo ruolo nei suoi confronti, ne ha già abbastanza del suo…) fino a quando non avrà il coraggio di esplorare la sua ferita di abbandono e tradimento; mentre la persona B capirà che se non si lascia coinvolgere ma scappa di fronte ad ogni approccio che prevede una forma di intimità perché la vede come una minaccia alla sua libertà e una violazione dei suoi confini come quella vissuta nell’infanzia, continuerà a soffrire e a sentirsi rifiutato (perché l’altro si stancherà prima o poi delle sue fughe o del suo tira e molla) fino a quando non troverà il coraggio di guardare in faccia la sua ferita di rifiuto, invasione e/o abuso.


Così, a partire da questa nuova consapevolezza ognuno potrà fare dei passi per andare verso l’altro con un atteggiamento di fiducia e di apertura, pronto al dialogo ma anche al rispetto delle reciproche esigenze (per esempio di attenzione e contatto nel caso A e di spazio e privacy nel caso B) e all’eventuale attesa, che a volte è necessaria perché le ferite hanno bisogno di tempo per cicatrizzarsi e non sanguinare più.

Guarigione

Un giorno mi perdonerò
del male che mi sono fatta
del male che mi sono fatta fare
E mi stringerò così forte, da non lasciarmi più

E. Dickinson

Per poter guarire le ferite bisogna innanzitutto sapere di averle. La prima tappa del processo di guarigione, per interrompere la coazione a ripetere, consiste dunque nel riconoscere il proprio bambino interiore ferito, che potrebbe essere anche molto impaurito e arrabbiato, dopo essere stato confinato “in cantina” per tanto tempo… Dobbiamo comprendere che ci siamo identificati con lui e continuiamo ad agire secondo degli schemi ripetitivi che affondano le loro radici nelle nostre esperienze infantili. Una volta identificate le ferite, in base al comportamento adottato come reazione ad esse, il passo successivo è accettarle, perché si può trasformare solo ciò che si accetta. E solo quando si accettano le proprie ferite si possono accettare anche quelle altrui. La seconda tappa quindi consiste nell’accogliere e nell’abbracciare il nostro bambino interiore così com’è, senza giudizio alcuno. Il bambino ferito ha bisogno di essere coccolato, rassicurato e compreso. Nessun altro può farlo se non noi. Molto spesso è un orfanello bisognoso di attenzioni, affamato di dolcezza e tenerezza, che reclama a gran voce contatto, contenimento, sguardi, parole e tocco. E le reclamerà fino a quando non le avrà ottenute. Ecco perché dobbiamo occuparci di lui offrendogli quanto non ha potuto avere nella vita reale attraverso un processo vero e proprio di “maternage”. Potremmo parlare per esempio al nostro bambino o alla nostra bambina e dirgli, come ci suggerisce Thich Nhat Hanh, “Mia cara so che sei lì. Sei ferita, lo so. Hai dovuto attraversare molta sofferenza. So che è vero perché ero te. Ma ora ti parlo come l’adulto che siamo e voglio dirti che la vita è meravigliosa, così ricca di elementi che ci curano e ci ristorano. Non lasciamoci sommergere dal passato, non riviviamo ogni volta l’esperienza di dolore trascorsa. Se hai qualcosa da dirmi, per favore, dimmela.”26


E così può iniziare un dialogo con il nostro bambino interiore che ha in genere tanta voglia di esprimersi e dire ciò che a suo tempo non ha potuto dire… Potremmo rimanere stupiti dalle sue risposte: a volte per esempio ci implorerà con occhi terrorizzati “Stai qui con me, non mi lasciare!”; altre volte invece pesterà i piedi per terra urlando “Sono arrabbiato!” oppure ci svelerà con stupore il suo senso di colpa “Ma io sono una brava bambina, non ho fatto niente di male, perché sono stata abbandonata?” In molti casi scopriremo che ha un gran bisogno di piangere, perché non ha potuto farlo quando avrebbe dovuto… Come ha detto qualcuno “quando uno piange non piange mai per ciò per cui piange ma per tutte le cose per le quali non ha pianto quando avrebbe dovuto farlo”. Le lacrime represse si sono cristallizzate dentro e proprio come aghi di ghiaccio chiedono di potersi finalmente sciogliere. “Niente è più potente sul piano terapeutico – scrive Janov – che versare delle lacrime di bambino. Esse portano con sé i nostri analgesici interni – le endorfine – e dissolvono la repressione distruggendo le barriere della coscienza. Calmano la nostra irritabilità e ci rasserenano. I pianti non sono soltanto un di più in psicoterapia: essi sono la conditio sine qua non della guarigione. Una terapia senza lacrime non è una terapia ma un esercizio intellettuale che utilizza un cervello sprovvisto di sentimento. Le nostre ricerche hanno provato che più il paziente piange abbondantemente, più i cambiamenti che si operano sono profondi”.27


Parole queste che dovrebbero confortare coloro che sono stati accusati di debolezza per aver versato lacrime profuse nei momenti di dolore… Purtroppo nella nostra cultura il pianto è stato sempre malgiudicato e considerato un affare da “femminucce”. I nativi americani invece sostengono che “gli occhi che non hanno pianto non potranno vedere l’arcobaleno”. E lo stesso sostiene Osho, di cui vi riporto alcune parole bellissime sul tema delle lacrime: “Non abbiate mai paura delle lacrime. La cosiddetta civilizzazione vi rende estremamente timorosi delle lacrime, ha creato in voi una sorta di senso di colpa. Quando vi spuntano le lacrime, vi sentite imbarazzati. Cominciate a pensare: ‘Cosa penseranno gli altri? Sono un uomo e sto piangendo! Sembrerò una femminuccia, infantile. Non dovrebbe accadere.” Smettete di piangere – e ucciderete qualcosa che stava crescendo in voi. Le lacrime sono la cosa più bella che abbiate, perché sono lo straripare del vostro essere; e le lacrime non sono necessariamente frutto della tristezza. A volte sgorgano da una grande gioia, a volte da una grande pace, e a volte sgorgano dall’estasi e dall’amore. Qualsiasi cosa emozioni troppo il tuo cuore, qualsiasi cosa prenda possesso di te, qualsiasi cosa sia troppo grande, al punto che non riesci a contenerla e inizia a straripare… tutto ciò porta con sé le lacrime. Accettale con grande gioia, liberale, nutrile, accoglile e attraverso le lacrime saprai come pregare. Attraverso le lacrime saprai come vedere. Gli occhi pieni di lacrime sono capaci di vedere la verità. Gli occhi pieni di lacrime sono capaci di vedere la bellezza della vita e la sua benedizione.”28 Una volta che ci siamo alleati con il nostro bambino interiore ferito e gli abbiamo offerto delle risorse, ecco che possiamo sostenerlo nel processo dell’“immersione”, cioè nell’esperienza del calarsi dentro l’emozione sepolta e riviverla, sentendola totalmente senza tentare di cambiarla ma nemmeno facendosene sommergere. Questa è la fase più difficile che in genere richiede l’aiuto di un accompagnatore esterno esperto, in grado di reggere quel dolore che noi facciamo così fatica a sostenere.

Quello che ci è tanto mancato da piccoli non possiamo chiederlo a un partner o a un amico ma dobbiamo cercarlo nell’ambito di una terapia: a volte sarà sufficiente il tocco di una mano che non interrompe il contatto (per esempio durante una sessione di cranio-sacrale o di Jin Shin Do) ad aiutarci a comprendere che esiste un’altra possibilità oltre a quella della rottura e della separazione e che adesso, nel qui e ora, possiamo sperimentare un contatto ininterrotto… La tappa finale del processo di guarigione, che ci permetterà di uscire definitivamente dalla bolla, disidentificandoci dal nostro bambino interiore e prendendo le distanze da lui, sarà quella di correre qualche rischio, perché “rischiare di fare qualcosa di nuovo e di diverso significa cominciare a rendersi conto che non siamo ciò che abbiamo sempre creduto di essere”29 e possiamo quindi uscire una volta per tutte dal comportamento automatico che ci condiziona la vita. Non dobbiamo dimenticare che la guarigione può avvenire solo attraverso il riconoscimento e l’assunzione delle nostre responsabilità nei confronti del problema che ci affligge.


L’Ego vuole farci credere che siano gli altri e le circostanze esterne le cause delle nostre sofferenze, perché è molto più facile assumere il ruolo di vittima, ma non è così che funzionano le cose: solo noi possiamo farci carico dei nostri problemi, affrontarli e trovare una soluzione creativa per risolverli. Questa è la dura lezione di Saturno: “Essere responsabili significa riconoscere che siamo noi a creare costantemente la nostra vita e che dobbiamo assumerci tutte le conseguenze delle nostre decisioni, azioni e reazioni. Inoltre occorre riconoscere che lo stesso vale per le persone che ci circondano, e che quindi noi non siamo responsabili delle loro decisioni.”30 Non c’è altra via per crescere e diventare pienamente adulti. All’inizio non sarà facile, avremo sovente delle ricadute, specie se le ferite hanno radici profonde (se sono per esempio transgenerazionali), ma ogni volta che succederà potremo, come suggerisce Lise Bourbeau, rivolgerci al nostro piccolo Io, attribuendogli un soprannome, e dirgli con molta calma che riconosciamo le sue buone intenzioni e lo ringraziamo per l’aiuto che vuole darci ma che ora non ci serve più e quindi può ritirarsi ed andare a riposarsi. Il nostro Ego infatti ha paura che noi non possiamo sopravvivere senza il suo intervento e fa di tutto per non farci rivivere le nostre antiche ferite, in quanto è convinto che non saremmo in grado di sopportarne la sofferenza che ne deriva. In realtà non è così: scopriremo che sono molto più dolorose le conseguenze nate dall’evitarle – che ci rovinano a poco a poco la vita – piuttosto che quelle originate dall’affrontarle! Se teniamo duro nel nostro processo di guarigione, un po’ alla volta riusciremo anche a costruire relazioni profonde e appaganti e soprattutto fonte di continua crescita ed arricchimento reciproco. E non scaricheremo più sui nostri figli ciò che non appartiene loro ma anzi saremo in grado di accompagnarli alla scoperta delle loro emozioni, così che possano connettersi ad esse in uno stato di presenza mentale, scegliendo di volta in volta se esprimerle o meno in totale libertà.


Tappe nel processo di guarigione delle ferite

  • Riconoscerle, cioè sapere di averle…
  • Accettarle senza giudicarle.
  • Darsi il tempo necessario a guarirle senza forzature.
  • Procedere con ordine, senza saltare le tappe, seguendo ciò che ci dice il cuore e il corpo e non tabelle di marcia prestabilite.
  • Individuare quali sono gli strumenti più congeniali a noi per curare le ferite.
  • Quando le ferite si riattivano riconoscere immediatamente la maschera che adottiamo, credendo di soffrire di meno, e lasciarla cadere senza permetterle di prendere il sopravvento. Poi ringraziare il nostro piccolo Io perché sta cercando di difenderci (ma rassicurarlo che non abbiamo bisogno di lui e sappiamo cavarcela da soli…).
  • Non mollare nei momenti di scoraggiamento, andare avanti con tenacia nella certezza della vittoria finale.



…e pronto soccorso
in caso di riattivazione di una ferita:

Quando una condizione esterna ci riattiva una ferita ecco cosa possiamo fare:

“Dopo qualche attimo di reazione al dolore causato dalla ferita, possiamo fare un bel respiro e dire: “Mi rendo conto che questa situazione o questa persona ha appena risvegliato la mia ferita da…(per esempio abbandono e/o tradimento). Mi concedo di essere umano e di avere ancora ferite da guarire. Per il momento mi sento abbandonato o tradito, un giorno riuscirò a fare in modo che questo genere di situazione mi faccia sempre meno male.”31 Poi, se la conosciamo, possiamo applicare la tecnica della logosintesi per cominciare a sciogliere qualcuno dei nostri nodi.
Oppure, nelle relazioni con gli altri, possiamo applicare “Le tre frasi della riconciliazione” suggerite da Thich Nhat Hanh:

“Quando siamo contrariati nei confronti di qualcuno, a Plum Village utilizziamo tre frasi che si possono scrivere su un foglio di carta da tenere a portata di mano come promemoria.

La prima espressione è “Caro/a, sono in collera. Soffro e voglio che tu lo sappia.” Con una comunicazione amorevole diciamo a lui o a lei la verità: soffriamo, siamo arrabbiati.

Se volete potete anche aggiungere “Non capisco perché mi hai detto questo, perché mi hai fatto questo. Soffro davvero molto.” Questo è il contenuto della prima frase.

La seconda frase è: “Sto facendo del mio meglio” e significa che sto praticando.
Significa che ogni volta che sono in collera, non devo dire né fare nulla se non tornare a casa nel mio respiro. Pratico con consapevolezza, abbraccio la mia rabbia e la osservo in profondità per vedere le sue radici dentro di me. Sto facendo del mio meglio.

La terza frase è: “Per favore, aiutami!”, perché forse da solo non riesco a trasformare questo dolore e questo risentimento. Solo scrivere questa frase ci aiuterà a soffrire meno. “Soffro. Voglio condividere con te la mia sofferenza e ho bisogno del tuo sostegno”. Se riuscite a scrivere queste parole, è segno che avete già superato l’orgoglio. Molto spesso siamo così feriti che preferiamo ritirarci nella nostra stanza, piangere in solitudine e rifiutare ogni aiuto dall’altra persona. È l’orgoglio che ci spinge a punirla, mostrandole che possiamo sopravvivere molto bene anche senza di lei.

…Ogni volta che sale l’energia della rabbia, saprete cosa fare: tirate fuori il biglietto e leggetelo.
…Non limitiamoci a reagire meccanicamente e non permettiamo alla nostra rabbia e alla nostra violenza di causare ulteriore sofferenza.”32


Compagni di viaggio
Compagni di viaggio
Elena Balsamo
Come adulti e bambini insieme possono aiutarsi a guarire.Una panoramica chiara ed esauriente dei diversi strumenti terapeutici alternativi a disposizione della famiglia e in particolare della coppia mamma-bambino. Compagni di viaggio volge l’attenzione alla salute emotiva della famiglia.Basandosi sulla sua personale esperienza di medico e di paziente, Elena Balsamo offre al lettore una panoramica chiara ed esauriente dei diversi strumenti terapeutici alternativi a disposizione della famiglia (e in particolare della coppia mamma-bambino), nonché numerosi spunti di riflessione sul significato della malattia e sul messaggio contenuto nei sintomi, per trasformare la sofferenza in un’occasione preziosa di apprendimento ed evoluzione. Conosci l’autore Elena Balsamo, specialista in puericultura, si occupa di pratiche di maternage e lavora a sostegno della coppia madre-bambino nei periodi della gravidanza, del parto e dell'allattamento.Esperta di pedagogia Montessori, svolge attività di formazione per genitori e operatori in ambito educativo e sanitario.