Ma cerchiamo di approfondire meglio il tema dell’attaccamento poiché – anche se nessuno ce lo spiega mai – la modalità con cui questo si realizza influisce sul tipo di relazioni che stabiliremo da adulti…
Quando una mamma risponde in modo empatico e congruente al suo bambino, soddisfando i suoi bisogni (per es. prendendolo in braccio se piange, allattandolo se ha fame o consolandolo se è addolorato) il bambino si sente al sicuro e ha la sensazione che anche il mondo sia un posto sicuro (perché il primo mondo per lui è la mamma).
Può così sviluppare fiducia in se stesso e negli altri, certo che se chiama qualcuno risponde e che se è in difficoltà o nel dolore c’è qualcuno lì con lui. Crescendo questo bambino non avrà paura a staccarsi dai genitori perché sa di poter contare su di loro in caso di necessità ma sa anche di poter contare su di sé e sulle sue risorse perché è stato lasciato libero di sperimentare quando era pronto a farlo. I suoi bisogni primari (essere visto, ascoltato, toccato e contenuto, accolto e compreso) sono stati soddisfatti e quando questo bambino
sarà adulto attirerà nella sua vita persone che come lui hanno avuto un attaccamento sicuro e con cui potrà instaurare relazioni paritarie e reciprocamente appaganti.
Quando invece un bambino cresce con una figura di riferimento che non riesce per vari motivi (per esempio una madre emotivamente fragile, ansiosa, o ammalata) a fornire sicurezza e stabilità ma offre risposte imprevedibili che a volte arrivano e altre no, il bambino sviluppa un attaccamento insicuro, che in questo caso particolare viene definito “invischiante”: sente la debolezza della mamma e insieme la sua impotenza nell’aiutarla e questo gli crea una grandissima rabbia che deve però reprimere perché non è in grado di gestirla. Inoltre avverte la precarietà della situazione sempre instabile che mina la sua capacità di fidarsi. Quando sarà adulto questo bambino ricreerà la situazione dell’infanzia attirando nella sua vita persone instabili, fragili e bisognose che necessitano del suo aiuto (esattamente come la figura materna) e con cui instaura legami del tipo vittima-salvatore, in cui la forza dell’uno deriva dalla fragilità dell’altro (il pensiero inconscio è “io ti aiuto così tu finalmente potrai darmi quello di cui ho bisogno” e cioè attenzione e amore). Questo tipo di relazione si verifica frequentemente nelle persone molto sensibili e nei terapeuti ma genera di nuovo molta rabbia e alla lunga rende la relazione una grande sofferenza.
Si parla invece di attaccamento “rifiutante” quando il bambino avverte una mancanza di empatia e sostegno da parte della figura di riferimento: la madre o chi per lei non è in grado di accogliere e sostenere il bambino perché per esempio non ha elaborato un lutto o a sua volta non è stata accolta e sostenuta. In questi casi il bambino viene responsabilizzato fin da piccolo e impara prestissimo che non può e non deve chiedere nulla: deve essere forte, cavarsela da solo e disturbare il meno possibile. Quando diventerà adulto non sarà in grado di chiedere aiuto in caso di bisogno, eviterà il coinvolgimento emotivo e i legami profondi perché nel suo inconscio alberga la credenza “non merito di essere amato”. In questa persona la razionalità prenderà il posto del sentimento come meccanismo di difesa per non risentire l’antica sofferenza. La ferita del rifiuto lascia un vuoto estremo e un desiderio fortissimo di amore e tenerezza, che paradossalmente però chi ne è portatore non riesce a riconoscere ed accogliere in quanto prevale la paura di essere nuovamente respinti e di contattare emozioni troppo dolorose.
L’attaccamento definito “ambivalente” invece è quello in cui il bambino avverte una non coerenza tra il dire e il fare della madre, percepisce le sue emozioni più oscure e profonde che però vengono esteriormente negate o rimangono occulte (è il caso dei segreti di famiglia) per cui producono nel
piccolo una sfiducia nel proprio intuito e nella propria capacità di sentire. Per esempio la mamma dice al bambino che gli vuole bene ma non lo tocca: questo è un doppio messaggio che confonde il piccolo per il quale l’amore non è un concetto astratto e non può non passare attraverso il contatto fisico. In questo tipo di attaccamento prevalgono in genere dinamiche di potere, di controllo e di manipolazione, e si sviluppano gelosia e risentimento. Gli stessi temi si ritroveranno nelle relazioni adulte, portatrici di grande sofferenza e a volte di una notevole carica distruttiva.
Vi siete identificati in alcune di queste dinamiche? Io sì…
Ma non avviliamoci, tutto ha un senso se lo guardiamo con gli occhi dell’Anima: se abbiamo vissuto determinate esperienze è perché ci servivano per diventare ciò che siamo chiamati ad essere.
Se io per esempio non avessi vissuto tutti i miei traumi prenatali e neonatali, che tanto mi hanno fatto soffrire, e quindi spinto ad elaborarli per uscire dal tunnel della sofferenza, non avrei scritto i libri che ho scritto e oggi voi non stareste leggendo queste pagine…
Se vi parlo di tutto ciò quindi non è certo per fare del terrorismo psicologico ma piuttosto per ricordarvi e sottolineare una volta di più l’importanza di un buon attaccamento, di una buona relazione mamma-bambino: questa è la pietra angolare su cui costruire la cattedrale! Questa è la vera medicina preventiva: offrire al bambino le migliori basi di partenza possibili, attraverso una buona gravidanza, un buon parto, una buona accoglienza alla nascita, un buon allattamento e un buon maternage. Ricordiamoci però che al bambino non basta un accudimento tecnicamente perfetto, un bambino per crescere bene ha bisogno di una mamma e di un papà amorevoli e il più possibile felici, disponibili a guardarsi dentro ed eventualmente anche a sciogliere alcuni dei nodi che più li attorcigliano. Perché – e questa è la buona notizia – liberarsi dalle pastoie dei condizionamenti del passato è sempre possibile! Anche se richiede molto impegno e dedizione… Senza ombra di dubbio però ne vale la pena.
Un bambino felice e sicuro sarà un adulto felice e sicuro che attirerà a sé altre persone felici e sicure e creerà relazioni paritarie e appaganti: quanti di noi possono dire di esserci riusciti? Ma come dice Erikson “Non è mai troppo tardi per avere un’infanzia felice” e di conseguenza anche relazioni felici… Se vogliamo far finire la nostra storia, come nelle favole, con un “e vissero tutti felici e contenti” bisogna mettersi in cammino.
Non è un sogno impossibile. Partire dal saperne un po’ di più sul funzionamento delle dinamiche inconsce che sono alla base della nostra sofferenza è il primo passo indispensabile. Ecco perché adesso affronteremo lo stesso tema trattato finora osservandolo da un’altra prospettiva…