PARTE SECONDA - IN VIAGGIO VERSO LA SALUTE

Le storie come terapia

Le storie sono medicine

C. P. Estés

Gli esseri umani hanno sempre creduto che se avessero trovato una storia e l’avessero raccontata bene, essa avrebbe contenuto il filo in grado di condurre fuori dal buio labirinto dell’umanità verso la luce e la completezza. Se ne avessero rintracciato il capo, avrebbero dedotto che esiste un modo per giungere alla guarigione.

L. Hogan

L’unico modo che abbiamo per scoprire la nostra storia è conoscere quelle degli altri, reali e inventate. Solo chi legge e ascolta storie trova la sua

A. D’Avenia

La mia infanzia è stata segnata dalle fiabe: quelle che mi raccontava mia nonna, che mi scriveva mio papà, che ascoltavo dal mangianastri o leggevo sui libri appena fui in grado di farlo.


Le fiabe mi hanno tenuto compagnia per tutta la vita, nei momenti di solitudine, nei periodi di tristezza e scoraggiamento, perché io sapevo con incrollabile certezza che anche se “questa favola breve se ne va, aspettate e un’altra ne avrete… C’era una volta, il cantastorie dirà e un’altra favola comincerà…”


Poi, da grande, ho iniziato a scriverne io…

Così oggi, oltre che un medico, mi considero anche e soprattutto una narratrice di storie. Per anni ho cercato di capire come conciliare queste due parti che mi appartengono ma poi ho compreso che non vi era alcuna contraddizione tra di esse perché le storie sono medicine e l’arte del guarire è strettamente connessa a quella della parola.

Gli uomini-medicina nativo-americani sono molto spesso anche degli story-teller, ovverossia dei “narratori di storie”. Le storie infatti sono considerate potenti strumenti terapeutici. “Le storie guariscono”1 dice Manitonquat. E sapete perché?


Perché “una storia non è semplicemente una storia. Nel suo senso più innato e consono è la vita di qualcuno. Sono il numen della sua vita e la sua familiarità di prima mano con le storie che portano a rendere la storia “una medicina”. Nei migliori narratori-guaritori che conosco – scrive Pinkola Estés – le storie nascono e crescono dalla loro vita, così come dalle radici cresce l’albero. Le storie li hanno cresciuti, cresciuti nelle persone che sono.”2


“Nelle fiabe – continua la psicanalista – sono incastonate le idee più infinitamente sagge che nel corso dei secoli si sono rifiutate di farsi potare, logorare o annientare. Le idee più imperiture e sagge sono raccolte in quelle reti intessute d’argento che chiamiamo storie.


Quando la gente ascolta le fiabe non è tanto che le “ascolti”: sarebbe meglio dire che le sta ricordando, sta ricordando delle idee innate. Quando una persona ascolta le storie delle fiabe, qualcosa le rintocca dentro.”3


È proprio così: le storie “rispecchiano tutte le nostre più angosciose paure, i nostri più tenaci desideri, le nostre più ardenti passioni, le nostre più invincibili speranze. ….Sono come piccoli generatori che ci ricordano i concetti essenziali della vita dell’anima.”4


Ecco perché mi sono sempre piaciute le fiabe: perché sono la lingua dell’Anima, quell’Anima che sopra ogni altra cosa “desidera essere libera, che ama l’essere umano in cui abita, che farà tutto il possibile per tenere al riparo colui che ama, e che vuole essere conosciuta, ascoltata, seguita, vuole che le sia dato un più vasto raggio di trasmissione, che le sia riconosciuto il suo ruolo di guida nelle ricerca dell’esperienza che porta un tale valore per il sé più alto”5.


Raccontare e ascoltare storie è per me uno dei modi più belli e piacevoli per richiamare l’Anima e recuperarne i frammenti dispersi e andati perduti nel corso del tempo e delle nostre rocambolesche e tormentate vite. E questa è terapia. Le fiabe a volte sono dei veri e propri salva-vita, permettono addirittura la sopravvivenza: per gli Indiani d’America per esempio raccontare storie è stato un modo per resistere al genocidio. Come ci ricorda ancora Pinkola Estés infatti “Uno dei primi modi per distruggere una cultura e un popolo è distruggerne le storie. Uno dei primi modi in cui una cultura che si è ammalata può essere ripristinata è restituirle le storie che sono il nutrimento per il suo popolo”6.

I griot africani – veri e propri cantastorie ambulanti – sono stati paragonati a delle biblioteche viventi perché hanno permesso di salvare la memoria degli avi, ricordandone la storia, la genealogia e le gesta.


Di solito nelle culture tradizionali di tutto il mondo le storie vengono accompagnate dal canto e dal suono del tamburo o del flauto. In genere si narrano la sera, seduti intorno al fuoco.


I nativi americani raccontavano fiabe ai loro bambini fin da quando erano nel ventre materno, perché sapevano che le fiabe aiutano a crescere. E lo fanno in quanto danno fiducia: fiducia che dopo l’inverno arriva sempre la primavera, che le virtù derise un giorno verranno premiate e che chi trova dentro di sé la forza e il coraggio per mettersi in viaggio non potrà non uscire vittorioso dalla sua ricerca. Fiducia che tutto può essere rimesso a posto, non importa quanto sia lacerato, sconquassato o smembrato: esiste sempre una fata con la bacchetta magica, una pozione miracolosa, un “abbracadabra” che consente di trasformare ogni cosa. Nel mondo delle fiabe anche l’impossibile diventa possibile. E questo è profondamente terapeutico.

Come dice Bettelheim “le fiabe suggeriscono che una vita gratificante e positiva è alla portata di ciascuno nonostante le avversità, ma soltanto se non si cerca di evitare le rischiose lotte senza le quali nessuno può mai raggiungere una vera identità. Queste storie assicurano che se un bambino ha il coraggio di affrontare questa terrificante e dura ricerca, potenze benevole interverranno in suo aiuto ed egli riuscirà.”7


La fiaba inoltre è terapeutica perché il bambino può trovarvi le sue proprie personali soluzioni. “Le fiabe non insegnano ai bambini che i draghi esistono, loro lo sanno già che esistono. Le fiabe insegnano ai bambini che i draghi si possono sconfiggere” diceva G.K. Chesterton.


Eh sì, i bambini hanno ragione: i draghi, le fate, le streghe e gli incantesimi esistono! Noi adulti gli diamo semplicemente un altro nome: li chiamiamo ombre, paure, blocchi ma anche doni e talenti… Ciascuno di noi ospita dentro di sé ognuna di queste parti ed è abitato da ognuno di questi personaggi: a volte tiriamo fuori il supereroe con i suoi straordinari poteri, a volte la fatina dalla bacchetta magica, a volte la strega cattiva e invidiosa o l’orco arrabbiato…


Perché anche la vita in fondo è una fiaba ma noi non ce ne rendiamo conto. È per questo che pensiamo che non possa finire con “E tutti vissero felici e contenti”, perché non sappiamo viverla come una fiaba, come una magnifica avventura, e soprattutto perché non abbiamo una visione a grande raggio, una visione panoramica che ci consenta di cogliere l’insieme anziché solo alcune parti di essa. È come se noi, vivendo un capitolo alla volta, non riuscissimo a cogliere il finale del romanzo per arrivare al quale può occorrere molto, molto tempo…


“Le favole finiscono dopo dieci pagine, la nostra vita no. Noi siamo una collana di parecchi volumi” – dice Pinkola Estés – “Nella nostra esistenza se un episodio è una catastrofe, pure ci aspetta un altro episodio e poi un altro ancora. Si presentano sempre altre occasioni per rimediare, per forgiare la nostra vita nel modo che ci meritiamo di viverla. …Nella vita reale si ha sempre ancora un’altra possibilità e un’altra ancora.”8 Anche se a volte per rimettere tutto a posto possono volerci secoli…

C'era una volta

Il senso dell’utopia, un giorno, verrà riconosciuto tra i sensi umani alla pari con la vista, l’udito, l’odorato. Nell’attesa di quel giorno tocca alle favole mantenerlo vivo.

G. Rodari

Tutte le fiabe iniziano con “C’era una volta…”, tutte le fiabe iniziano nel passato e anche la Vita affonda le sue radici nel passato: noi nasciamo dai nostri genitori che a loro volta sono nati dai loro e così via.


Tutto nelle favole comincia con una rottura, con una separazione (la morte della madre per Cenerentola, una cacciata di casa per Hansel e Gretel) o un trauma (come la puntura del dito col fuso della bella Addormentata nel bosco) poi da lì inizia il movimento: il protagonista si mette in cammino, incomincia il viaggio.


Il viaggio è lungo, faticoso, pieno di pericoli, bisogna affrontare prove difficili, superare sfide e ostacoli di vario genere (mostri, roveti, orchi, draghi ecc.).

Solo dimostrando virtù come la perseveranza, il coraggio, la bontà d’animo, il protagonista arriva a conquistare ciò che cercava (il tesoro o l’amore della principessa) e la fiaba può finire “E vissero tutti felici e contenti”.


Ma ci vuole il viaggio. Se si sta fermi, come quando si è sotto l’azione di un incantesimo che immobilizza il fluire del tempo, non succede niente, ci si blocca nel passato e non si può traghettare verso il futuro. Per passare dal passato al futuro ci vuole il movimento, ci vuole l’azione. Bisogna osservare i segnali (come i sassolini di Hansel e Gretel), bisogna costruirsi una casa solida a prova di lupo (come quella de I tre porcellini), a volte si ha bisogno di oggetti magici (come le scarpette di Dorothy nel mago di Oz) o di una parola speciale, una formula magica (“abracadabra”) in grado di aprire ciò che è chiuso o di trasformare un oggetto comune in un prezioso mezzo di trasporto (come la zucca di Cenerentola). Sono le nostre risorse che nei momenti del bisogno diventano per noi vere e proprie medicine.


Ma il bello di ogni fiaba che si rispetti è che gli sforzi del protagonista vengono sempre premiati. Nelle fiabe c’è sempre una via d’uscita: a volte è faticoso trovarla ma si può stare certi che c’è. L’eroe è sempre vittorioso: Cenerentola, Biancaneve e la Bella addormentata sposano il loro principe azzurro, la fanciulla terrorizzata si salva da Barbablù così come Cappuccetto rosso o i sette capretti dal lupo, Pinocchio da burattino qual era diventa un bambino vero, Giacomino conquista un tesoro accedendo attraverso la pianta di fagiolo a una dimensione superiore, il Brutto anatroccolo ritrova finalmente i suoi compagni cigni…

Quindi “Lungi dal porre richieste, la fiaba rassicura, infonde speranza nel futuro e offre la promessa di un lieto fine.9 La fiaba offre al bambino la speranza che un giorno il regno sarà suo. E poiché garantisce che il regno sarà suo, il bambino è disposto a credere al resto di quello che la fiaba gli insegna: che bisogna partire da casa per trovare il proprio regno; che esso non può essere conquistato immediatamente; che è necessario affrontare dei rischi, sostenere delle prove; che l’impresa non può essere compiuta unicamente con le proprie forze ma è necessario l’aiuto di altri; che per assicurarsi il loro aiuto è necessario soddisfare alcune delle loro richieste.”10

“La consolazione è il massimo servigio che la fiaba possa rendere a un bambino.”11


Essa gli dà “la convinzione che dopo tutte le sue fatiche un mondo meraviglioso l’attende: e soltanto questa certezza può dargli la forza di crescere bene, sicuro, con un senso di fiducia e di rispetto verso se stesso.”12

Ecco perché è così importante raccontare fiabe ai bambini!

E poi sapete cosa penso io?

Che ognuno di noi è una storia dentro alla storia di tutte le storie, ognuno di noi è un sogno dentro al grande sogno che ci ha sognato. Ognuno di noi è un dono del grande dono che è la vita stessa e quando ognuno di noi ritrova la storia che è, il sogno che è, il dono che è, allora è salvo.


Sì, perché ognuno di noi è una storia che ha bisogno di essere raccontata, di essere detta, di essere tramandata. Eppure il mondo è pieno di storie mai nate, di storie trattenute, di storie dimenticate. Perché non è facile ricordare e nemmeno narrare… I bambini ci provano ma spesso gli adulti non li sanno ascoltare. Non capiscono il loro linguaggio o semplicemente non hanno occhi per vedere. Allora le storie non dette rimangono chiuse nel cassetto e fanno soffrire perché premono, premono per venire alla luce, finché non trovano il loro posto. Le storie non onorate come vorrebbero diventano malattia.


A volte le storie sono difficili da ricostruire: bisogna raccogliere gli indizi uno ad uno, bisogna scavare sotto terra per portare in superficie i reperti invecchiati dal tempo, bisogna scrutare il cielo per scoprire le tracce di passato e futuro e ritrovare la strada perduta, bisogna ritrovare e tessere con fili di ragnatela i collegamenti mancanti.


È un lungo lavoro che richiede pazienza, tenacia, determinazione. Ci vuole cura, abilità, attenzione, ma soprattutto ci vuole cuore. Perché raccontare storie è un’arte. Non tutti lo sanno fare.


Le storie sono medicine. Le più potenti, le più sicure. Non hanno scadenza nè effetti collaterali. Si possono condividere e così facendo diventano ancora più efficaci.


Ognuno di noi è una storia, unica e speciale, irripetibile. E tutte le nostre storie unite creano il mondo.


Ecco, per esempio, quella che vi sto raccontando in queste pagine che state leggendo è la mia storia. L’ho scritta per me e la racconto a voi nella speranza che vi venga voglia di ritrovare la vostra…


In fondo la terapia non è che un percorso per ricordarci da dove veniamo e dove stiamo andando e per aiutarci a superare gli ostacoli che si frappongono sul nostro cammino.


Per restituirci la nostra essenza andata perduta durante il viaggio, ovverossia la nostra Anima, che, proprio come la bella principessa dai capelli dorati e le vesti di seta, da sempre aspetta che con un bacio la risvegliamo e la riportiamo a casa…

Raccontami la tua storia...

C’è una storia dietro ogni persona. C’è una ragione per cui loro sono quel che sono. Loro non sono così solo perché lo vogliono. Qualcosa nel passato li ha resi tali, e alcune volte è impossibile cambiarli.

S. Freud

Di recente in America hanno scoperto l’importanza della narrazione come strumento terapeutico ed è nato un nuovo approccio: “la medicina narrativa”.

La “Narrative Based Medicine” nasce come tentativo di colmare le lacune della Medicina Basata sull’Evidenza che dimentica di prendere in considerazione per la cura la storia del malato e i suoi aspetti più personali e intimi.


Quando ne ho letto la prima volta su internet mi sono resa conto che io la applicavo da sempre…


Chi viene da me in consultazione sa che io sono solita iniziare la visita ai miei piccoli pazienti facendomi raccontare dal genitore, in genere la mamma, la storia del bambino, cercando di ricostruirla insieme a lei, di vedere dove si è inceppata e raccontandogliela di nuovo perché ne possa scorgere la trama.


Le spiego che è importante cercare degli indizi, proprio come farebbe un bravo detective, per scoprire qual è il problema che sta sotto i sintomi, quale il tema critico per quel particolare bambino che continua a ripetersi nella sua vita, anche se a volte in modi diversi. Da qualche parte il disco si è rotto e continua a ripetere all’infinito lo stesso pezzo.


Ognuno di noi è segnato da un pattern individuale, che spesso ha radici molto lontane, anche di tipo transgenerazionale: può trattarsi della tematica dell’abbandono, dell’invasione, del tradimento, dell’incomunicabilità, dell’insicurezza, della dignità ferita, della gelosia, della paura e così via.


Questo schema, che è come un modello predefinito, si imprime nella nostra memoria cellulare e riemerge periodicamente in momenti di crisi e difficoltà. Spesso e volentieri la prima traccia del pattern può essere recuperata nel periodo prenatale e perinatale: fase fondamentale della vita, su cui indagare sistematicamente. È lì in genere che si nascondono le radici del problema, non sempre così evidenti altrimenti. Ecco perché mi soffermo a lungo a interrogare la mamma sull’andamento della gravidanza: i suoi vissuti emozionali, i suoi sogni, gli eventi familiari accaduti. Ed ecco che emergono traumi dimenticati: lutti importanti, separazioni, litigi, spaventi, stress e ansie significative che hanno lasciato la loro traccia anche sul bambino, che nel ventre vive la vita della madre.


Un’ansia importante e uno stato di depressione materna per esempio possono far sì che il bambino nell’utero viva l’ambiente che lo circonda come poco piacevole e anche faticoso per lui che, così piccolo, deve reggere il peso di problematiche altrui. In questo caso la vita prenatale non è certo un’esperienza idilliaca ma piuttosto una situazione da cui fuggire il prima possibile.


Questo vale anche per il parto e il post-partum: anche qui spesso raccolgo storie di grande sofferenza, di nascite avvenute in modo violento (o perlomeno vissuto come tale dalla madre), di separazioni precoci mamma-bambino, a volte di ricoveri ospedalieri, tutti eventi traumatici per un neonato. E così si spiegano tanti problemi di sonno, ma anche di pelle o di digestione del lattante che, non sapendo parlare, non ha altro modo per esprimere le sue paure o la sua rabbia ovvero le sue emozioni. E ci porta le sue cicatrici di guerra nella speranza che noi le riconosciamo e onoriamo le storie che ci stanno dietro.

Perché, come ci ricorda Karen Blixen, tutti i dolori sono sopportabili se li si inserisce in una storia o si racconta una storia su di essi. Non per niente Duccio Demetrio parla dell’autobiografia come “motore di resilienza”. E Piero Ferrucci scrive “Perché la guarigione possa avvenire bisogna fronteggiare e poi esprimere la propria sofferenza in tutto il suo orrore lancinante”13: solo dopo aver gridato il dolore con tutte le nostre lacrime ecco che possiamo essere risanati.

Un mondo di storie, storie dell'altro mondo...

Ma da dove vengono le storie che ci portiamo dietro, a volte dentro al nostro fagottino da che siam nati? Dopo anni di tormentate riflessioni, sono giunta alla conclusione che non sia poi così importante saperlo. Può trattarsi di storie che appartengono alla nostra mamma, al nostro papà, alla nonna, alla bisnonna, ai bisavoli o, per chi ci crede, a vite passate, ma mai riusciremo comunque a saperlo con esattezza e nemmeno potremmo metterci a risistemarle tutte perché ci vorrebbe un tempo infinito… E allora credo che l’importante sia ritrovare la trama di fondo, il nocciolo del problema, il tema o i temi di base che continuano a ripetersi nella storia di una persona e che, proprio come i nodi nei gomitoli, vanno pazientemente ad uno ad uno disfatti.

Non è lavoro di qualche seduta ma, se lo si vuole fare a fondo, di anni, per non dire di una vita intera… A volte però ci si può fermare a livelli più superficiali che già consentono comunque risultati interessanti e benefici.


Mi piace l’idea di poter curare con le storie, ricostruendo trame interrotte, riportando alla superficie fiabe non raccontate ma rimaste sepolte negli scantinati del Tempo. Perché la terapia per me dovrebbe consistere essenzialmente nel far emergere il mito personale di ogni paziente così da poter trasformare, attraverso il simbolo, il sintomo in senso.


Ricordo ancora lo stupore che provai quando scoprii, durante un laboratorio di story-telling con Ellika Linden, la risonanza che avvertivo con la fiaba di Andersen La Sirenetta: la storia della donna-pesce, alla ricerca di un’anima immortale e il suo sacrificio di parti di sé per ottenerla, il dolore del non riconoscimento da parte del Principe, il riscatto attraverso la rinuncia al salvare l’altro per salvare se stessa e ritrovare la sua completezza, mi toccarono profondamente aiutandomi a capire parti di me dimenticate e ancora oscure.


Ecco perché a volte consiglio alle mamme di raccontare al loro bambino la favola de Il brutto anatroccolo quando per esempio mi ritrovo a tu per tu con un piccolo Acquario che si sente diverso e ha bisogno solo di sapere che in realtà è un cigno e prima o poi ritroverà i suoi compagni d’anima… Oppure ai piccoli nati con un taglio cesareo e quindi con un’anestesia, raccomando di leggere La Bella addormentata nel bosco che ridà loro la fiducia nel risveglio da quella che sembra una morte apparente ma in verità è solo un sonno.


Alle storie affianco naturalmente anche altri strumenti, a seconda del tipo di persona che ho davanti: dall’omeopatia ai fiori di Bach, alla lettura della carta natale astrologica e così mi diverto a dire che curo con fiabe, fiori e stelle… Cosa ci può essere di più bello?

Raccontami una storia...

Quali sono le vostre storie preferite? Fatene un elenco e rifletteteci su: potranno rivelarvi molte cose di voi…


Io vi offro una delle mie:



Nonna ragno

Tanto, tanto tempo fa, quando ancora la terra era giovane, c’era una donna molto vecchia e saggia che passava le sue giornate al telaio a tessere storie. Era bravissima a intrecciare i fili di lana colorata: le sue mani rugose lavoravano svelte e con gran precisione e da sotto le sue dita prendevano forma miriadi di storie diverse. Erano racconti di animali, di piante, di acque, di pietre, di stelle ma anche storie del popolo a due gambe, di uomini, di donne e dei loro figli. Erano storie tristi, storie allegre, storie del passato e del presente, storie magiche, avventurose come cavalcate nel bosco o placide e tranquille come l’acqua del Grande Lago.

I bambini del villaggio andavano a trovarla, si sedevano vicino a lei e le chiedevano una storia: “Per favore, per favore, Nonna Ragno!” – così si chiamava la tessitrice. Ognuno, piccolo o grande che fosse, voleva la sua storia, unica e speciale e lei tesseva, tesseva fino a dar vita a un vero capolavoro, in cui le forme si mescolavano ai colori creando una bellissima armonia. C’erano splendide storie gialle e turchesi, con qua e là qualche tocco di rosa, ce n’erano altre dalle tinte più forti: rosso, blu, arancione e perfino qualche accenno di nero, altre invece erano bianche come la neve con ricami lilla e violetto. Ogni bambino si avvolgeva nella sua storia come in una calda e soffice coperta.

Ma in ogni coperta c’era un buco perché Nonna Ragno voleva che ogni storia rimanesse incompiuta: ognuno doveva completare la sua, perché solo lui poteva sapere come farla finire.

Quando Nonna Ragno ebbe tessuto tutte le sue coperte, le stese a terra e vide che erano così tante da poter coprire il mondo.

Perché non esiste nulla nella vita che non abbia la sua storia. Anche io e te – tu che leggi e io che scrivo – ne abbiamo una, in parte già tessuta, in parte da finire di tessere. Possiamo metterci le forme e i colori che vogliamo. Perché è la nostra storia. E quando viene sera e la luna splende alta nel cielo, possiamo avvolgerci in essa come in una coperta e forse, se facciamo silenzio e tendiamo l’orecchio, riusciremo a sentire il suono del telaio che scorre veloce sotto le abili dita di Nonna Ragno.


Compagni di viaggio
Compagni di viaggio
Elena Balsamo
Come adulti e bambini insieme possono aiutarsi a guarire.Una panoramica chiara ed esauriente dei diversi strumenti terapeutici alternativi a disposizione della famiglia e in particolare della coppia mamma-bambino. Compagni di viaggio volge l’attenzione alla salute emotiva della famiglia.Basandosi sulla sua personale esperienza di medico e di paziente, Elena Balsamo offre al lettore una panoramica chiara ed esauriente dei diversi strumenti terapeutici alternativi a disposizione della famiglia (e in particolare della coppia mamma-bambino), nonché numerosi spunti di riflessione sul significato della malattia e sul messaggio contenuto nei sintomi, per trasformare la sofferenza in un’occasione preziosa di apprendimento ed evoluzione. Conosci l’autore Elena Balsamo, specialista in puericultura, si occupa di pratiche di maternage e lavora a sostegno della coppia madre-bambino nei periodi della gravidanza, del parto e dell'allattamento.Esperta di pedagogia Montessori, svolge attività di formazione per genitori e operatori in ambito educativo e sanitario.