Prima parte - III

La ricetta del dottore

di Costantino Panza

Un caloroso saluto a te, caro lettore. Sono un pediatra, e che cosa ci fa un pediatra in un libro di canti e danze per bambini? Sembrerebbe fuori posto, non ci sono malattie e nemmeno terapie in queste pagine. Hai ragione, caro lettore, ma mi propongo di spiegarti perché, dal punto di vista del medico che cura i bambini, cantare, danzare e parlare fa bene alla loro salute.

I bambini hanno sempre fame. I lattanti ancora di più

Quello di crescere è il mestiere di ogni bambino. E il latte della mamma serve proprio per una brillante crescita. Il latte umano è fatto apposta per essere digerito velocemente: 8-12 poppate al giorno (ma in realtà non c’è limite) sono la norma per ogni cucciolo d’uomo. E appena sentono fame, anche ogni due ore, iniziano a chiamare la mamma per dirle che hanno bisogno di sentire il pancino ancora pieno di latte. Come chiamano la mamma se ancora non parlano? In realtà i lattanti parlano, già appena nati: qualcuno lo chiama pianto. Noi preferiamo parlare di vocalizzi, più o meno intensi, sussurrati o urlati, gorgoglii o bisbigli che escono dalla bocca, talvolta in modo a noi inaspettato. La natura ci ha costruito proprio così: lattanti a cui piace vocalizzare sempre, nel bene e nel male, e per qualsiasi cosa, dalla fame al bagnato, dal caldo al rumore. Vocalizzano in continuazione e richiedono la nostra attenzione. Non è facile fare il genitore perché ci vuole pazienza ed essere sempre disponibili. E nessuno in verità lo ha mai detto. Non è facile ogni volta dare soddisfazione a un bambino piccolo, che ancora non parla la lingua degli adulti e non può spiegare quello che vuole o quello che non vuole. Un modo tuttavia per comunicare con il nostro cucciolo c’è, solo che non lo sfruttiamo abbastanza ovvero, sfortunatamente, nemmeno sappiamo di poterlo utilizzare: la melodia del canto e della danza.


Non passa giornata in ambulatorio che non senta una mamma o un papà che si lamenta: «Perché non fa delle pause di almeno 3-4 ore tra una poppata e l’altra?», «Non vuole dormire di giorno, non so cosa fare!» domandano angosciati. La preoccupazione nasce dalla stanchezza e dall’impegno senza fine nel prendersi cura del piccolo. Paura di non farcela, la stanchezza per mille cose da fare, pochi aiuti intorno a sé e così via. Ma il mestiere del bambino, soprattutto nei primi giorni, nei primi mesi, nei primi anni di vita è proprio questo: stare il più possibile vicino al proprio genitore, instaurare continue conversazioni fatte di latte, di cibo, di vocalizzi, di sorrisi, di richieste e di molti, molti giochi. Come pediatra, invece, sono io a preoccuparmi quando la mamma racconta con un bel sorriso: «Mangia e dorme, è come se non ci fosse», oppure: «È così bravo, non ci accorgiamo che c’è». Ahimè, c’è qualcosa che non va in queste famiglie dove l’assenza di conversazioni, interpretata come buon segno di salute, può essere invece la spia di una relazione tra mamma, papà e bambino che fatica a costruirsi. Anche in questo caso la cura per iniziare a conoscersi e chiacchierare insieme passa per la melodia, il suono, il movimento di una danza.

Fame di melodie

Canti, danze, suoni, musiche, armonie, parole: i bambini hanno fame di queste attività. Iniziano ad averne già molto prima della nascita, come se ci fosse un’urgenza a iniziare la vita in compagnia della musica. Chi studia la biologia dell’uomo sa che questo è vero. Infatti, nei nove mesi in cui il bambino cresce nella pancia della mamma, uno dei primi organi a maturare e funzionare in modo completo è quello dell’udito. Il cervello, che continua la sua maturazione anche oltre i vent’anni di età, completa lo sviluppo dei neuroni deputati alla ricezione e all’elaborazione dello stimolo sonoro entro il sesto mese di gravidanza. La selezione naturale ha deciso che questa modalità di sviluppo era quella che favoriva la miglior sopravvivenza dell’individuo, scegliendo di far compiere la maturazione completa dell’organo dell’udito prima di iniziare a far maturare le aree destinate alle capacità di pensiero. Quando si nasce, l’udito, l’odorato, la vista, il gusto e il tatto funzionano perfettamente e sono in grado di sostenere le nostre necessità di rimanere in contatto e di comunicare con il mondo. Alla nascita i sensi della percezione sono quindi pienamente operanti e permettono al neonato di assolvere a una necessità fondamentale, quella di comunicare con il mondo circostante e non rimanere isolati in quella che un tempo era descritta come asocialità del lattante, ovvero l’incapacità a mettersi in relazione con le persone intorno a sé. Addirittura già tre mesi prima della nascita il bambino ascolta.


Ascolta i movimenti della pancia, il pulsare del cuore, e percepisce la mamma attraverso le sue parole. Ascoltare la mamma, il suo particolare timbro di voce, la melodia con cui parla, gli scambi di parole con le persone vicino a lei sono una fonte preziosa di apprendimento. Ma cosa può apprendere un bambino così piccolo, non ancora nato? Oggi sappiamo che il bambino inizia in questo periodo a far conoscenza con l’alfabeto e con le prime parole. Ci sono studi recenti che hanno riconosciuto un’attività cerebrale tipica dell’apprendimento delle sillabe – il primo passo per il riconoscimento delle parole – in zone del cervello che addirittura devono ancora completare la loro maturazione durante la vita fetale. Un sorprendente esempio di una funzione che connette un organo di senso completamente maturo ad aree cerebrali ancora molto immature ma perfettamente funzionanti, che insieme permettono una sofisticata attività del cervello: l’apprendimento del linguaggio. I neonati memorizzano le parole basandosi più sulle vocali rispetto alle consonanti, sottolineando in questo modo l’importanza della melodia per il riconoscimento della parola e la conquista dell’apprendimento.

La voce della mamma

Ancor prima di nascere il bambino individua non solo i diversi suoni dell’alfabeto, ma distingue il timbro di voce, una preziosa opportunità che gli permetterà di riconoscere, dopo la nascita, con più facilità e quindi di affezionarsi alla persona che gli ha sempre parlato, la mamma. Guidato dalla voce materna, nei primi giorni di vita, il bambino identificherà, tra i tanti volti che gli si avvicineranno, il volto materno e lo distinguerà come un volto privilegiato da osservare e con cui dialogare.


Ma non basta il timbro della voce per riconoscerla. Il neonato ha necessità di ravvisare la musicalità della lingua con cui ci rivolgiamo a lui. Questa caratteristica, che tecnicamente è definita come prosodia, ossia l’insieme del ritmo, l’accento e l’intonazione del linguaggio parlato, è così importante che, se manca, viene a perdersi la capacità di riconoscere l’interlocutore. Se la voce della mamma viene fatta ascoltare attraverso un nastro registrato all’inverso, quindi perdendo la tipica musicalità, il bambino non la riconosce e, soprattutto, non le presta attenzione. Maggiore è la musicalità della voce, maggiore è l’attenzione del bambino, fin dai primi mesi. Non è affare da poco. Parlare a mio figlio, tenendolo in braccio, fissandolo negli occhi, ascoltando nel contempo le sue risposte, dalle smorfie del volto ai movimenti del corpo fino ai brevi vocalizzi che possono apparire come piccoli soffi o sbuffi di aria è già una buona cosa. Ma se canto, l’attenzione del bambino sarà più elevata e di più lunga durata, un vantaggio per la relazione. Siamo nati per comunicare con il canto, almeno questo io ho imparato studiando come nasce e come cresce il cucciolo d’uomo.

Fame di parole

Federico II, stupor mundi, monarca illuminato vissuto mille anni fa, parlava almeno sei lingue. Volendo conoscere con quale lingua naturalmente venissero al mondo i bambini, senza essere influenzati dal luogo di nascita, diede ordine a balie e nutrici di allevare un gruppo di neonati senza parlare o vezzeggiare i bambini in alcun modo. I bambini, nutriti con generoso latte di balia, ben puliti, accuditi e vestiti, uno alla volta morirono tutti, senza aver pronunciato alcuna parola. Così il re di Sicilia, imperatore del Sacro Romano Impero e fanciullo di Puglia non poté sapere se la lingua naturale con cui si viene al mondo fosse l’ebraico o il greco o il latino oppure l’arabo. Fra’ Salimbene da Parma, che documenta questa drammatica vicenda, commenta nelle sua Chronica che i bimbi “non potrebbero vivere senza quel batter le mani, e senza quegli altri gesti, e senza l’espressione sorridente del volto, e senza le carezze delle loro balie e nutrici… e le cantilene che la donna dice movendo le culle, per addormentare il bambino, senza le quali il bambino non potrebbe addormentarsi e avere quiete”9.

Senza una presenza affettuosa, piena di parole e melodie, i bambini muoiono o impazziscono. Purtroppo, anche alcuni recenti episodi di cronaca hanno confermato questo antico sapere: il corpo può sì crescere con il latte, ma la sua mente ha fame, oltre che di tante calorie, del calore di un abbraccio, di parole, melodie, e di essere cullata. Il cervello del neonato è pronto già prima della nascita a questa grammatica di affetti. Se mancano, non si sviluppa.

Quando inizia l’apprendimento

Il neonato inizia ad imparare le parole già prima della nascita e continua ad apprendere nei primi mesi di vita al punto che, già all’età di sei-nove mesi è in grado di fissare lo sguardo su un oggetto se la mamma glielo chiede in “maternese”: «Amore mio, dov’è la mano?», e il piccolo fissa nel monitor posto di fronte a lui, tra le diverse figure, l’immagine di una mano.


Ancor prima del primo compleanno il bambino ha già appreso un ricco vocabolario di parole, anche se ancora non è in grado di pronunciarne nemmeno una. Esprimere una parola, articolando le complesse strutture muscolari dalla laringe al palato, controllando contemporaneamente il respiro e la glottide è una faccenda complicata che richiede una maturazione che arriva verso l’anno di età. Tuttavia, l’impegno per farsi ascoltare e per imitare la prosodia del linguaggio in cui vive è presente anche se è appena nato. Un gruppo di ricercatrici tedesche ha misurato l’arco melodico del canto neonatale (permettetemi di declinare in canto quello che si descrive abitualmente come pianto neonatale: una forma di vocalizzazione che ritengo più corretta) in bambini di pochi giorni di vita di diverse nazionalità. Si è osservato che i neonati francesi cantano con un arco melodico francese, con una frequenza e ampiezza in crescendo, mentre i neonati tedeschi intonano i loro vocalizzi in decrescendo, come è tipico della lingua germanica, mentre i neonati cinesi cantano, o piangono, con un loro particolare arco melodico. Già appena nati, quindi, ci impegniamo a imitare il linguaggio in cui siamo stati avvolti durante la nostra permanenza nel grembo materno. Un vero e proprio apprendimento culturale.


Se il re e imperatore Federico II avesse avuto accesso a queste conoscenze, avrebbe placato la sua curiosità senza la necessità di procedere al crudele esperimento.

Professionisti dell’ascolto

Sappiamo che il bambino ama ascoltare le parole e cerca di imitare la musicalità del linguaggio con cui i genitori gli parlano, ma ama anche la musica. Il bambino piccolo ha una formidabile memoria musicale; a un anno di età ricorda una musica che ha ascoltato ripetutamente durante il terzo trimestre di gravidanza. Oggi sappiamo anche che il neonato è un raffinato intenditore di musica e attiva le stesse strutture cerebrali dell’adulto, quando ne ascolta un brano. Se lo stesso brano è suonato con piccole differenze del suono (i tecnici parlano di spostamento di un semitono o di brevi intervalli dissonanti), il neonato si accorge di questa variazione e la memorizza.


In più, se ascolta la stessa melodia suonata in una diversa tonalità, lo fa con molta attenzione, attivando anche le aree cerebrali legate al linguaggio. Infine, è accertato che l’ascolto della musica attiva anche alla nascita le aree cerebrali deputate a elaborare le emozioni. Detto in altre parole, il neonato percepisce e riconosce il contenuto emotivo della comunicazione musicale.


Ora, si potrebbe raccontare di altre raffinate capacità musicali del neonato, come il riconoscimento delle variazioni di velocità e delle variazioni di timbro, nonché il riconoscimento delle relazioni tra le note, ma la domanda alla quale vorrei dare una risposta è questa: perché la natura ha deciso che la capacità di ascoltare musicalmente, alla nascita, era più importante della capacità di camminare o di mangiare da soli? Infatti, nel corso di milioni di anni la selezione naturale ci ha portato ad essere dei grandi intenditori di musica, sia in ascolto sia come produzione vocale, e ha considerato meno importante per la nostra sopravvivenza altre abilità come quella della difesa o che permettessero l’autosufficienza fin da piccoli.


La natura ci ha dotato già alla nascita di una spiccata sensibilità musicale perché questa era una delle armi migliori per favorire la sopravvivenza di un bambino piccolo ed estremamente vulnerabile, ossia per costruire una comunicazione efficace con il proprio genitore.

Come parlare a un bambino piccolo

Il bambino, fin dalla più tenera età, ha grandi abilità di ascolto musicale e si impegna con tanti tipi di vocalizzi per instaurare una relazione con chi lo accudisce. E noi adulti, siamo capaci di metterci in relazione con lui? In effetti la natura ha dotato anche gli adulti di una speciale capacità per comunicare con i cuccioli d’uomo: il maternese. Sia papà che mamme, ma anche qualsiasi adulto che ha a che fare con un bambino, parlano con un linguaggio spontaneo, cantilenato, fatto di molte ripetizioni, un ritmo lento, una tonalità acuta e con molte variazioni di volume sonoro in modo da offrire una speciale espressività alla voce. Un’altra caratteristica di questo linguaggio è che, sempre in modo istintivo, il volto dell’adulto si arricchisce di molte smorfie buffe e simpatiche così come il corpo e le braccia si muovono in una mimica tutta speciale. Il bambino ama ascoltare questo linguaggio, fatto di voce e di corpo, molto ricco di sfumature emotive e ne resta affascinato. È proprio il contenuto emotivo, sempre positivo, che attira la sua attenzione e favorisce la direzione del suo sguardo su chi gli parla. In tutto il mondo e in tutte le culture si parla in maternese, dalla Groenlandia al Sudafrica, passando dalle più sperdute tribù di ogni deserto fino alla più solitaria comunità della foresta amazzonica.


Un altro fenomeno da ricordare è che anche i bambini nati da genitori sordomuti sono predisposti ad amare il maternese parlato e sono sensibili a quello dei gesti (le smorfie del volto o la mimica del corpo) dei loro genitori. Questi esempi non provano affatto la presenza di un particolare gene che ci predispone a questo tipo di linguaggio, ma sembra che sia universale e codificato in ognuno di noi. Una lingua davvero fondamentale perché veicola speciali contenuti emotivi che contribuiscono alla messa a punto delle abilità emozionali del bambino, base necessaria per la maturazione della capacità di costruire delle buone relazioni e per la crescita di ogni altra capacità cognitiva.

Quindi non vergogniamoci di parlare in maternese, anche se siamo maschi. La nostra virilità si esprimerà al meglio con questo tipo di comunicazione, che assicurerà nel contempo la costruzione di una buona relazione con nostro figlio.

Imparare le parole, dal maternese alle filastrocche

La spiccata qualità melodica del maternese, associata all’accentuazione di sillabe e vocali, favorisce nel bambino l’apprendimento delle parole. Infatti la scomposizione delle parole in questo parlato melodico, dove spiccano le sillabe e dove il ritmo è lento e la tonalità emotiva è sempre positiva, oltre a favorire la fissazione dello sguardo su chi parla, migliora il riconoscimento della struttura dei suoni che compongono ogni singola parola. Un enorme vantaggio per l’acquisizione della competenza del linguaggio parlato. Il gioco della melodia associata alle parole ci porta a riflettere sulla potenziale capacità delle filastrocche a insegnare il linguaggio. Giocare con le parole attraverso allitterazioni, assonanze, rime e ripetizioni, ossia raccontare le filastrocche, insegna a essere consapevoli dei suoni che costruiscono i vocaboli. Cantiamo, balliamo e recitiamo insieme le filastrocche o le rime come: “Filo filerai / Sul filo filo filo filo / Filo filerai / Se filar potrai” ripetendole spesso. A tre, quattro anni un bambino che gioca con le filastrocche insieme a un adulto, avrà elevate abilità di riconoscimento delle parole e migliori capacità di lettura quando inizierà le scuole elementari. Queste sono le basi di un buon successo scolastico. Ecco che allora giocare con rime, poesia e musica è sì, un gioco infantile, ma un gioco molto serio del quale il bambino è consapevole, a differenza di noi adulti che tendiamo ad esserlo molto meno.

Come apprende un bambino

La triste conseguenza è che, spesso, al bambino si offre un disco con musiche da ascoltare passivamente o lo si piazza davanti alla Tv a vedere un programma di canti e filastrocche o, ancora più probabile, gli si dà un tablet con programmi di gioco-apprendimento di musica e parole. Ahimè, speranze deluse, così non funziona, se ci affidiamo a video o schermi elettronici non c’è gioco né apprendimento. Affinché un bambino possa apprendere la lingua è indispensabile l’interazione da persona a persona. Non c’è dispositivo elettronico, Tv o altro paragonabile alla relazione umana. Sono stati eseguiti molti studi che confermano, almeno fino ai trenta mesi di età, l’inefficacia delle registrazioni video dedicate all’apprendimento: proprio all’opposto, guardare la televisione riduce l’apprendimento del linguaggio, nonostante la presenza di un adulto.


Perché il bambino impari è necessario che sia di fronte a una persona che lo guarda e che interagisca con lui, giocando in un continuo di ripetizioni e imitazioni reciproche, con qualche variazione della melodia o della parola che compone la filastrocca. Il bambino deve fissare negli occhi la persona che ha di fronte, guardare i movimenti della sua bocca così da impegnarsi a imitare osservando nel contempo la risposta dell’adulto al suo tentativo di imitazione. Poi, quando l’adulto propone una variazione, l’attenzione aumenta e il bambino è pronto a cogliere ogni sfumatura per ripeterla a sua volta. L’aumento dell’attenzione, l’impegno attivo, l’osservazione della risposta dell’adulto ai movimenti e ai vocalizzi sono i pilastri dell’apprendimento. Attraverso il gioco, divertente e spontaneo, esercitiamo una delle più preziose abilità del nostro bambino, la capacità di apprendere, un dono che gli servirà per tutta la vita, da quella scolastica fino all’ingresso nel mondo del lavoro. Che cos’altro vogliamo in più?

Competenza emotiva

Emozioni, emozioni, emozioni, non si sente parlare d’altro che di emozioni. In Tv, sui giornali, nei dibatti e nelle pubblicità l’emozione è sempre al primo posto. Ormai siamo completamente sommersi da una sorta di mercificazione a 360 gradi dell’emotività. «Se mi sento emozionato, allora quella cosa va bene»: ma è giusto continuare a predicare idee di questo tipo?


Se il suono nasce per comunicare e quindi la musica è l’arte della condivisione e dell’ascolto dell’altro, è anche vero che quello che la maggior parte di noi cerca nella musica è un’esperienza emozionale. Quando ascoltiamo un brano musicale o lo cantiamo, percepiamo dentro il nostro corpo delle sensazioni emotive che sono all’origine del benessere che l’esperienza musicale ci offre.


La scienza ha mostrato che l’emozione suscitata dall’ascolto di una musica può stimolare gli stessi circuiti cerebrali coinvolti nei meccanismi di motivazione e ricompensa attivi durante le attività di sopravvivenza dell’individuo. La musica agisce proprio nel ‘cuore’ di ogni persona. E la musica, in effetti, contiene tutto l’alfabeto delle emozioni. Diversi studi scientifici hanno evidenziato come il riconoscimento della componente emozionale si basi su caratteristiche come l’altezza del suono, il timbro e il ritmo, caratteristiche molto simili a quelle utilizzate per la misurazione del linguaggio. Altri studi hanno comprovato come l’esperienza emotiva durante l’ascolto di un brano musicale sia la medesima anche se si appartiene a culture diverse e anche se si ascoltano componimenti caratteristici di una particolare cultura. Come se, anche attraverso linguaggi musicali differenti, riuscissimo a comunicare gli stati d’animo peculiari dell’uomo. Ad esempio, chi scrive la colonna sonora dei film conosce bene questo linguaggio universale, con particolari sonorità adatte a rappresentare alcuni tipi di emozioni negative o positive.


Ma soprattutto, che cosa è un’emozione? E perché l’emozione è così importante per la mente e il corpo di una persona?

L’emozione

L’emozione, in termini tecnici, è una attivazione di circuiti neurologici che porta a una modificazione fisiologica del corpo, a una espressione del comportamento e alla costruzione di un’esperienza soggettiva. Detto in altre parole, ad ogni esperienza percettiva alla quale siamo sottoposti e che arriva alla nostra coscienza la nostra mente produce una risposta del corpo (ad esempio sudore, tremore), un comportamento (dalla mimica del volto che può esprimere paura all’atteggiamento del corpo per prepararsi a una fuga), e un’esperienza mentale di ciò che sta accadendo.


Per ogni esperienza che stiamo vivendo, produciamo un’emozione che ci dice quanto quella esperienza è importante per noi, se dobbiamo prestargli attenzione oppure se possiamo ignorarla. Oltre a questa prima valutazione, l’emozione dà un valore a questa situazione attraverso un sentimento positivo o negativo. Quindi, in sostanza, l’emozione, qualsiasi emozione prodotta dalla nostra mente e dal nostro corpo, è uno strumento di conoscenza fondamentale per la persona. Ogni apprendimento, ogni conoscenza, ogni nostro ragionamento ha una base emozionale. Facciamo un esempio: il papà è seduto sul lettino, piegato in avanti, guarda la sua bambina di 4 mesi, cantandole delle sillabe «ba, la, la, là». La bambina è sveglia, tranquilla: fissa gli occhi e vede la mimica del volto paterno, ascolta questo motivetto che esce dalle sue labbra. La sua mente raccoglie tutte queste percezioni ed elabora un’emozione positiva di curiosità e gioia: il battito del cuore è calmo, il corpo è rilassato, i muscoli delle piccole braccia si preparano a tendersi in avanti e quelli delle gambe si preparano a sgambettare. La bambina, mediante la sua risposta emotiva, ha definito uno stato fisiologico, ha predisposto il suo comportamento, ha iniziato a comunicare con il papà facendogli vedere l’espressione emozionale attraverso il corpo e l’espressione del volto e, soprattutto, ha dato un senso a questa esperienza soggettiva. Quante cose importanti in un semplice scambio di sguardi e di sillabe cantate!


A questa tenera età, poi, succede anche qualcos’altro di molto importante: lo scambio di emozioni e affetti costituisce non solo il mezzo ma anche il contenuto delle prime forme di comunicazione. In altre parole: se non c’è una componente emotiva il lattante non riesce a mettersi in comunicazione.

La misura dell’amore

Forse non sappiamo ancora cos’è l’amore, pur nelle mille e mille definizioni che ne hanno dato scienziati e poeti, ma una cosa posso raccontarti, caro lettore: come i ricercatori misurano l’amore di mamma e papà. Nelle ricerche che si fanno per comprendere la qualità della comunicazione tra i neonati, i lattanti e i loro genitori si misurano alcuni ormoni, il coinvolgimento del bambino, la coordinazione degli stati emotivi e così via. Nel genitore, invece, si controlla se rivolge lo sguardo verso il volto del bambino, se parla rivolgendosi a lui, e se è presente il contatto fisico, ossia se accarezza o abbraccia il bambino: la misura di queste semplici attività del genitore è la misura dell’amore. Facile? No, possiamo dire che è semplice, ma non sempre facile. Talvolta il nostro stato emotivo è così sofferente o quello del bambino ci indispettisce a tal punto che non riusciamo ad esprimere il nostro amore.

La regolazione degli stati affettivi

Facciamo un altro esempio. Il papà si avvicina alla bambina con l’intento di giocare ancora, si avvicina con il volto e inizia il suo canto ritmato, dondolandosi con il corpo. La bambina questa volta è agitata, irritata, forse per la stanchezza o perché fino a poco tempo prima in casa c’era molto rumore o perché un noioso raffreddore le impedisce di respirare bene. La mente della bambina registra la disponibilità del papà ma esprime un sentimento negativo: la schiena si inarca, il suo sguardo evita quello del padre e il volto si gira da un’altra parte: non riesce ad essere disponibile al gioco. Il papà riconosce questo stato emotivo e si allontana, non cerca lo sguardo della sua bambina ma sussurra una lenta e sommessa ninna nanna, per tranquillizzare la sua piccola. Anche in questo caso l’emozione è stata il mezzo e anche il contenuto della comunicazione; infatti il papà ha ascoltato l’emozione attraverso il comportamento e il corpo della piccina e ha risposto in modo musicale. Anche questa comunicazione, in cui da principio gli stati emotivi non erano coordinati, ha funzionato. Come mai?


Il canto provoca uno speciale riverbero nel corpo del nostro bimbo. Riesce a calmarlo se lui è agitato, oppure, se è sveglio e in quiete, riesce a stimolarne l’attenzione. Questo è definito dagli addetti ai lavori come effetto modulatore sull’attività di pre-eccitazione. Raccontato in parole più semplici, se il bambino è agitato, il canto del genitore rivolto verso di lui ha l’effetto di ridurne lo stress abbassando il suo livello di cortisolo. Se invece è in quiete, il canto aumenta la sua attenzione e la sua disponibilità alla comunicazione attiva. Non sembra incredibile? Il canto, che vola nell’aria, ha un effetto negli ormoni all’interno del corpo. Questo si chiama regolazione degli stati affettivi, ossia la capacità del bambino di mantenere la propria organizzazione comportamentale di fronte a bruschi cambiamenti di stati di tensione. Il canto, potente come e più di una medicina e di una puntura: bellissimo.


Tuttavia, perché questo sia possibile, il canto deve essere offerto da una persona e non da un registratore, che lo moduli in base allo stato emotivo espresso dal bambino, cioè da una persona affettivamente interessata a quel bambino. Se è la mamma, poi, con quella voce inconfondibile per ogni figlio, l’effetto è assicurato.

Il tatto

Abbiamo prima ricordato come il contatto fisico, cioè l’abbraccio, la carezza, il prendersi per mano, sia a tal punto importante che gli studiosi lo mettono tra le espressioni dell’amore del genitore verso il proprio figlio. Ora, è chiaro che non dobbiamo iniziare a misurare i centimetri di abbraccio o i secondi di lunghezza di una carezza, ma almeno non vergogniamoci di prendere in braccio il nostro bimbo quando siamo a fare la spesa o durante una passeggiata, oppure se si mette a piangere dentro la carrozzina o il passeggino. Di sicuro non gli daremo un vizio e il nostro comportamento esprimerà e comunicherà semplicemente amore.


La carezza può addirittura sostituire lo sguardo quando questo manca nella comunicazione. Ci sono alcuni genitori che non riescono a fissare lo sguardo del proprio bimbo e a stabilire una comunicazione a causa di una profonda tristezza che li ha colti dopo la sua nascita. In questi casi, in cui la relazione tra genitore è figlio è molto fragile e a rischio, insegnare ad accarezzare e massaggiare il suo corpo migliora la comunicazione e rende il bambino meno vulnerabile. Di recente la scienza ha scoperto che abbiamo nella pelle dei particolari neuroni, sensibili alle carezze. Proprio così, sensibili alle carezze e non ai pizzicotti o agli schiaffi. Questi neuroni portano queste informazioni sensoriali in quella parte del cervello deputata a riconoscere il significato relazionale ed emotivo di questo contatto. Potremmo affermare con sicurezza che la pelle è, a tutti gli effetti, un organo sociale che riconosce abbracci e carezze come momenti di comunicazione affettiva. Pensiamo ora a quanto è bello e ricco di significati danzare e cantare abbracciati al nostro bambino.

Il movimento

Camminare abbracciati è uno dei più antichi modelli di danza che l’uomo conosca. In verità lo fanno molte specie di mammiferi con la prole, come il cane, il gatto, il topo, il leone, la scimmia, e così via. La mamma afferra con la bocca il cucciolo per la collottola e se lo porta a passeggio. L’essere preso per il collo e il movimento ritmico causato dal trotto di mamma ha il potere di calmare e rilassare ogni cucciolo. Gli scienziati hanno capito che così si curano anche le più temibili coliche dei bambini piccoli, ossia tenendoli in braccio e camminando. Il bambino si calma fintanto che sentirà il ritmo dei passi che lo fanno piacevolmente oscillare tra le braccia del suo genitore. Ritmo e movimento sono da sempre amati dai bambini di ogni età, ma ora iniziamo a comprendere il motivo biologico di tale evidenza.


Un altro strano effetto dell’abbraccio del genitore è che il bambino, portato ad esempio con la fascia, vive con il proprio corpo gli stessi movimenti e oscillazioni del genitore. Questa sensazione di movimento corporeo, legata a quello dell’adulto, lo aiuta negli esercizi di equilibrio e nella capacità di controllo dei muscoli preposti a questo scopo. I bambini portati in fascia sono quelli che inizieranno a stare seduti, ad acquisire la stazione eretta e a camminare prima degli altri.


Insomma, danzare abbracciati e cantando fa bene a tutto il corpo e permette il miglior sviluppo al nostro bambino.

Giochi molto seri

Ecco, caro lettore, il motivo della presenza del pediatra in questo libro. Oggi sappiamo che il canto, la danza, la parola sono toccasana che fanno crescere i nostri bambini. Molti genitori lo sanno per istinto, anche se non hanno mai studiato la questione. Lo sanno e basta, è un sapere inconsapevole che esce spontaneamente come il normale modo di interagire con il proprio figlio. Lo hanno vissuto con i loro genitori o i loro nonni e lo ripropongono con i propri figli. Ci sono genitori, però, che non hanno mai fatto questa esperienza, oppure sono giovani, o in difficoltà a causa di una grande tensione che devono sostenere. Allora, ricordare loro che esistono queste medicine è una buona cosa. Il pediatra, insieme alla vitamina, dovrebbe sempre prescrivere qualche abbraccio, alcuni canti e qualche danza, da eseguire ogni giorno, prima, durante o dopo i pasti: è una medicina che non influisce con la digestione.


Ma in verità è una medicina strana: non si compra in negozio, e nemmeno viene dispensata dal servizio sanitario. Nasce da dentro e nessuno è mai riuscito a darle un prezzo. Ma è una delle medicine più serie che io conosca.

Caro lettore

Tutto quello che ti ho scritto, caro lettore, non arriva dal mio cuore ma da studi scientifici effettuati con rigore e metodo. Non ti ho raccontato opinioni e nemmeno ti voglio affascinare con una speciale teoria di accudimento dei bambini, mia personale e infallibile ricetta, perché io non ne ho e nemmeno vorrei averne. Non sono interessato ad allevare il bambino perfetto, il miglior bambino possibile, ma più semplicemente aiutare mamma, papà, figlio o figlia a incontrarsi e crescere insieme. Questa è la base per favorire l’espressione del potenziale di quel bambino. Ed è quello che ogni genitore e pediatra desidera.

Dopo che avrai letto questo libro, caro lettore, abbandonalo e non prenderlo più in mano e inizia a danzare e cantare con tuo figlio. Se farai così, abbiamo avuto successo e saremo riusciti nel nostro intento. Però… un’altra cosa non mi dispiacerebbe chiederti. Racconta ai tuoi amici dell’importanza della danza e del canto in famiglia e, se ti capita, accennalo anche al tuo pediatra, se ancora non è stato informato.

Cantami ancora!
Cantami ancora!
Manuela Filippa, Elena Malaguti, Costantino Panza, Manuel Staropoli
Antiche melodie e giochi per crescere con la musica.Una raccolta di melodie antiche e giochi musicali per piccoli ascoltatori, per condividere con loro la magia della musica e del canto. Una raccolta di melodie antiche, cantate e suonate da secoli, che risuonano in noi e nei nostri bambini come il profumo dei fiori di campagna, dei sentieri conosciuti, già percorsi.Una raccolta di giochi, da fare con i propri figli, in coppia o insieme a più persone, che i nonni ci hanno tramandato.Canti e giochi con storie lontane, che il tempo ha custodito, commentati da genitori ed esperti di musica, pedagogia e pediatria, che possono aiutare i bambini e i genitori di oggi a trovare e mettere radici in questo nuovo mondo, radici vitali, gioiose, musicali.Questo e molto altro è Cantami ancora!, libro con CD allegato. Conosci l’autore Manuela Filippa, ricercatrice in psicologia e pedagogia musicale, si occupa di studi e progetti sperimentali sull’origine dell’esperienza musicale. Tiene regolarmente corsi di formazione musicale per insegnanti, educatori, operatori sanitari, genitori e bambini. È autrice di contributi, articoli, testi sulla musica e la prima infanzia. Elena Malaguti è pedagogista, psicologa e psicoterapeuta, esperta in sostegno e cura di eventi di natura traumatica, processi di resilienza e inclusione scolastica e sociale. Insegna Didattica e Pedagogia Speciale presso la Scuola di Psicologia e Scienze della Formazione dell'Università di Bologna e svolge attività di consulenza e supervisione a genitori, educatori, psicologi. Costantino Panza, specialista in pediatria e neonatologia, è pediatra di famiglia, marito e padre di tre figli. Collabora con l’Associazione culturale pediatri, Nati per la Musica e UPPA. È inoltre autore di diversi articoli scientifici e di divulgazione. Manuel Staropoli si occupa principalmente di Musica Antica eseguita su originali o copie di strumenti risalenti a Rinascimento e Barocco. Ha al suo attivo una notevole attività concertistica e tiene numerosi seminari e masterclass. Attualmente è docente di Flauto Dolce presso il Conservatorio “N. Piccinni” di Bari, e di Flauto Traversiere presso il Conservatorio “A. Pedrollo” di Vicenza.