CAPITOLO I

La pedagogia nera e i suoi corollari

“E questo – aggiunse il Direttore sentenziosamente – questo è il segreto della felicità e della virtù: amare ciò che si deve amare.”1

Andrea è a tavola con la mamma e il papà. Oggi c’è pesce. Lui odia il pesce e sta fissando quello nel suo piatto, e guardando di sottecchi il padre. Poi guarda la madre, la quale guarda il padre e poi di nuovo suo figlio, sollevando le sopracciglia. Non c’è bisogno di dire nulla: Andrea sa che se provasse a dire qualcosa verrebbe obbligato e anche punito severamente, così manda giù con sforzo un boccone dopo l’altro, in silenzio.


Eleonora è a tavola con i suoi genitori. “Non mi va il pesce”, dice. “Il pesce contiene fosforo e rende intelligenti. Tu vuoi essere stupida?” dice il padre. “Ma a te piace sempre il pesce”, dice la mamma “se non ti andasse davvero potresti lasciarlo, ma per un capriccio no, mi daresti davvero un dispiacere”. E allunga la forchetta con il boccone di pesce verso la bocca di Eleonora.


Queste due scenette ipotetiche e del tutto semplificate rappresentano, senza esaurire le innumerevoli situazioni che possono verificarsi attorno a un tavolo da pranzo, due diversi approcci educativi, rispetto a una situazione di disaccordo fra le richieste del bambino e quelle dei genitori: il primo con approccio autoritario impone le scelte dei genitori, e il secondo ugualmente cerca di costringere, ma attraverso la manipolazione e l’induzione al consenso. Ci occupiamo qui soprattutto del secondo scenario.


La pedagogia nera si distingue dal semplice autoritarismo perché richiede che il bambino soggetto a questo tipo di educazione non sia consapevole di essere stato forzato dentro un sistema di norme e di credenze, e opera in modo che l’imposizione delle regole non sia percepita come tale ma sia assorbita acriticamente e fatta propria. Infatti il bambino è indotto a pensare che verrà accettato e giudicato “bravo” solo se rinnegherà i suoi sentimenti e si atterrà ai modi di sentire e di comportarsi che rispondono alle aspettative dei genitori. Quel bambino, una volta diventato adulto, replicherà inconsapevolmente sui figli lo stesso tipo di manipolazione che aveva subìto da bambino. Ma non sarà solo a causa del retaggio del passato. Lo stesso tipo di pressione e manipolazione subite dai genitori nella propria infanzia viene infatti replicato dalla cultura dominante anche nel presente, facendo intendere loro che per essere accettati e riconosciuti dalla comunità come “bravi genitori” si dovranno attenere a certi comportamenti, e che i sentimenti di compassione che provano verso i loro figli (per esempio, quando piangono la notte e vogliono essere presi in braccio) sono sbagliati e riprovevoli.


In questo capitolo passeremo in rassegna alcuni metodi di manipolazione, osservandone le conseguenze non solo sui bambini che li subiscono, ma anche sui genitori che li mettono in atto.

Il dominio sui sentimenti altrui

Uno degli aspetti della pedagogia nera è quello di operare in modo che il bambino non soltanto accetti le imposizioni degli adulti, ma si convinca di essere lui a desiderarle e trovarle giuste. Insomma non solo deve obbedire, ma anche essere contento di farlo.


Scavando nelle cause, nelle origini della violenza educativa emerge il concetto di vuoto affettivo, di scollegamento da ciò che è amorevole e vitale. È per riempire questo vuoto che il bambino si costruisce un falso sé, una nuova identità, rinunciando ad essere accolto nella sua unicità e vitalità, rimodellandosi in modo conforme alle aspettative dei genitori, e convincendosi di essere proprio ciò che gli adulti pensano che sia.


Il falso sé viene riconfermato tutte le volte che non si accetta incondizionatamente il bambino per quello che è e che sente, e l’adulto pretende, in cambio del proprio affetto e approvazione, che egli si senta e sia qualcosa di diverso.


Una volta adulto, l’individuo ferito interiormente si ritrova frammentato, ampie parti di sé sono state rinnegate e nascoste alla coscienza perché non conformi alle aspettative dei genitori, i sentimenti negativi di rabbia e disperazione sono stati sepolti nell’inconscio e nella mente coesistono le incongruenze e le contraddizioni assorbite nell’infanzia, senza che alcun discorso razionale possa scioglierle. Un ‘Io’ diviso è funzionale a mantenere in piedi le rimozioni e le distorsioni che hanno permesso al bambino di sopravvivere al dilemma dei genitori, che concedevano il loro amore solo a prezzo della rinuncia dell’autenticità del sé.


Quando al bambino di un tempo non è stato consentito di esprimere la sua essenza, i suoi sentimenti e bisogni, ed è stato sottoposto a un amore condizionato (“ti voglio bene solo se tu fai, pensi e desideri ciò che voglio io”), succede poi che da adulto quei sentimenti negati agiscano ancora reclamando ascolto, e che in un rovesciamento delle parti si pretenda dal proprio piccolo quell’accettazione e quell’amore incondizionati che non si sono ricevuti durante l’infanzia. Così non è sufficiente per l’adulto fragile essere obbedito, perché vedere il bambino arrabbiato o piangente per le proprie richieste diventa una ferita narcisistica insopportabile. Si vuole che obbedisca con il sorriso sulle labbra, in modo non solo da legittimare le proprie richieste, ma anche la propria autorità e valore personale. E quando il bambino non collabora nell’obbedienza, la cosa diventa non solo un problema educativo, ma anche un problema di identità, una minaccia per la propria autostima e stabilità emotiva.


“Gli ho detto di non farlo, ma non mi ascolta!” “Le ho spiegato mille volte perché non deve farlo, ma ogni volta protesta e non capisce!” Queste frasi ricorrono spesso sui social e nelle richieste di aiuto di genitori frustrati. Ma se un bambino non “obbedisce” all’adulto, non è per una questione di potere. Non sta sfidando l’autorità e non ambisce al controllo dell’adulto. Ci sono spiegazioni più semplici. Se non vuole alzarsi, è perché preferisce restare a letto. Se non vuole andare a dormire, è perché desidera ancora stare alzato.

Può essere sgradevole per l’adulto dover prendere atto del disaccordo con il figlio; ma non è un atto di guerra.


È difficile, per chi non è stato a suo tempo accolto nelle proprie emozioni, capire e accettare il fatto che i bambini ci sentono bene, e capiscono benissimo quello che chiediamo loro, soltanto che a volte non sono d’accordo! Non c’è metodo che possa cambiare i desideri di un bambino e farlo diventare felice per richieste che non gli piacciono. Possiamo forzare i suoi comportamenti, ma non i suoi pensieri ed emozioni. Si può costringerlo con gentilezza, cioè senza urlare o strattonare, ma se si deve uscire non c’è che vestirlo nonostante le proteste, dicendogli che capiamo quanto gli dispiaccia; anche se resterà il suo dispiacere… con il quale, volendo, si può empatizzare.


Tuttavia la pedagogia nera ci suggerisce un modo subdolo per fare sì che le emozioni e i bisogni del bambino non vengano più da lui percepiti correttamente. Possiamo manipolare la sua mente, confonderlo, svalutare le sue emozioni, ridefinirle e disconfermarle, finché il bambino non si convincerà davvero di essere lui sbagliato e non degno di amore. Il suo bisogno di essere accettato è così assoluto e disperato, che sarà pronto a sacrificare quelle parti di sé che non rispondono alle aspettative dei genitori, pur di ricevere il loro amore e la loro benevolenza.


“Non è vero che non ti piace andare a scuola. Poi ti diverti!” “Non puoi avere caldo. Guarda che freddo fa, anche tu hai il naso gelato!” “Non vuoi veramente questo, sei solo stanco”. “Adesso le prendi, così hai un buon motivo per piangere”. In altre parole, invece di dominare un altro dall’esterno, possiamo condizionarlo in modo che egli venga dominato dall’interno, facendo proprie le ingiunzioni che riceve dalle figure significative della sua vita. Se il lavoro è ben fatto, non avrà presto nemmeno più memoria di questo intervento di “innesto” dei pensieri altrui.


Ronald Laing, psichiatra che negli anni ’70 ha fatto parte della corrente di pensiero dell’antipsichiatria, la quale ha rivoluzionato il modo usuale di intendere la malattia mentale (specie le psicosi) e le dinamiche familiari, si è occupato estesamente di queste modalità manipolative presenti nel sistema di relazioni di tante famiglie. Egli osserva che, per imporre a un altro la propria volontà, è molto più efficace, invece di ordinargli qualche cosa, definirlo in un certo modo.


…non gli si dice cosa deve essere, ma che cosa è. Tali suggestioni, nel contesto, sono spesso più efficaci degli ordini (…). Un ordine non deve necessariamente essere definito come tale. A mio avviso noi riceviamo la maggior parte delle nostre prime e più durevoli istruzioni sotto forma di attribuzioni. Ci viene detto: le cose stanno così e così2.


Questo condizionamento risulta particolarmente efficace e penetrante quando è accompagnato dall’ulteriore regola, non scritta e non detta (veicolata solo dalle espressioni, comportamenti, toni della voce), che non bisogna essere consapevoli di queste proiezioni. Laing paragona questa forma di manipolazione a una suggestione ipnotica. In una seduta ipnotica,


Si può dire ad una persona di avere una certa sensazione e ingiungerle di non ricordare che glielo hanno detto. Basta dirgli semplicemente che avverte tale sensazione. (…) In quale misura le nostre sensazioni ordinarie sono il prodotto di un processo ipnotico? In quale misura siamo stati indotti ad essere ciò che siamo attraverso un processo ipnotico? (…) Il rapporto tra due persone può avere un potere tale per cui l’una diventa ciò che l’altra sceglie che ella sia3.


E chi non si è mai trovato, da bambino, in questo scenario? A chi non è mai capitato di sentire i suoi genitori parlare di lui ad altri adulti sentendosi definire sensibile/coraggioso/pigra/ribelle /vanitosa/capriccioso o quant’altro? Etichette da allora scolpite a fuoco nella percezione di se stessi.


A questo punto ci si può ben aspettare un coro di proteste: i genitori non sono individui malvagi che vogliono manipolare i figli per averli in loro potere! Certo che no; e almeno nella maggioranza dei casi non è quello il loro scopo. Il fatto è che gli stessi genitori, a loro volta, sono stati ugualmente “ipnotizzati” nella loro infanzia. Come prosegue Laing, anche loro seguono inconsapevolmente le istruzioni ricevute su come “si allevano i figli”. Il meccanismo principale della pedagogia nera, “Non devi accorgerti del male che ti si fa”, è qui sviscerato in tutta la sua devastante efficacia.

Svalutazione

Quante volte è sufficiente aggiungere l’avverbio “soltanto” per svalutare e minimizzare qualcosa di unico ed importante? La pedagogia nera si avvale di forme di squalifica per indebolire l’autostima del bambino e renderlo più malleabile. Tutto ciò che è caratteristico della natura infantile viene guardato con sufficienza e considerato futile: si pensi anche solo al termine puerile, che ha una funzione sminuente per qualunque cosa a cui venga accostato. Si pensi soltanto alla presenza massiccia in rete di video di bimbi arrabbiati o in lacrime, esposti solo per strappare un sorriso o una risata! E per gli adulti e i loro sentimenti non va meglio.


Per il momento hai soltanto il colostro, non c’è ancora il latte. È solo un capriccio. Sei solo un po’ stanca (alla mamma che magari è in preda alla depressione post partum). È soltanto un biberon. Ha pianto solo dieci minuti (provate ad ascoltare, in silenzio, la registrazione di dieci minuti di pianto di un neonato, e poi ne riparliamo).


Un altro esempio eclatante: la declassazione dell’allattamento da funzione di cura a funzione alimentare. Si tratta di una delle operazioni riduttive meglio riuscite (e più deleterie) della storia, la rimozione dall’allattamento al seno di tutta la parte relativa al nurturing (il nutrimento emotivo), riducendolo a una mera funzione alimentare. In inglese la cosa è ancora più evidente, perché allattare al seno è breastfeeding, cioè nutrire al seno). Questo ha permesso di proporre l’alimentazione artificiale come equivalente dell’allattamento, come si trattasse di due opzioni alternative, fra le quali la scelta sarebbe legittima e dettata solo da aspetti pratici o ideologici oppure dallo stile di vita. Ha inoltre fatto sì che anche le madri che allattano al seno si vedano proporre il cibo solido non come integrazione, ma in sostituzione delle poppate, con il pretesto secondo cui poppate e latte materno diverrebbero inutili quando il bambino ha imparato a mangiare.


Questa operazione squalificante viene operata dalla società adulta che ha imparato a distinguere fra le attività cosiddette produttive e quelle improduttive, e a disprezzare tutto ciò che sfugge a una quantificazione, non solo in termini utilitaristici di valore monetario, ma anche in termini emotivi. A causa di questa prospettiva, molto del “lavoro” delle madri non solo è invisibile agli occhi, ma manca anche di parole per essere descritto. Il lavoro produttivo, come viene definito, si svolge fuori dalle mura di casa, e ha come risultato oggetti o servizi comunque misurabili, quantificabili e finiti. Un oggetto, una volta fabbricato, ha un suo peso, una dimensione, una sua esistenza definita nel tempo e nello spazio; può essere venduto, comprato ed esibito come prova del lavoro fatto. Persino una cosa immateriale come un servizio (un programma, una consulenza, un seminario) può essere comunque monetizzato, misurato e verificato. Un lavoro che ha a che fare con prodotti ottiene, almeno in certa misura, un riconoscimento.


Ma i genitori, e le madri in particolare, non creano prodotti, ma avviano e accompagnano processi: fenomeni evolutivi, in continuo divenire e sviluppo. Elementi impalpabili, difficili da misurare e persino da notare, che sfuggono alle quantificazioni, delimitazioni e persino alla semplice consapevolezza. Alla fine di una giornata una madre di un bimbo ai primi passi si sentirà probabilmente esausta, eppure sa di non aver fatto nemmeno un quarto di ciò che faceva prima della nascita di suo figlio. Verso sera può assalirla il pensiero di tutto ciò che non è riuscita a fare, che siano lavori di casa o telelavoro o anche quella telefonata a sua madre che deve fare da giorni. Eppure, mentre ad esempio cucinava, questa madre ha seguito suo figlio senza perderlo di vista, interrompendosi infinite volte per interagire con lui, coinvolgendolo in quello che stava facendo, parlandogli, cambiandolo, offrendogli un mestolo e una ciotola di cucina con cui giocare, correndo a recuperare i giocattoli che stava gettando nel WC, dandogli da bere, consolandolo per una caduta, cantandogli una canzone. Tutto questo solo in un’ora! E in questo fare ha davvero attivato nel bambino processi di apprendimento, ha gestito emozioni, ha accudito il bambino nel senso più ampio. Eppure se dovesse dire cosa ha fatto, direbbe “ho cucinato”, e forse si biasimerebbe per averci messo il doppio del tempo. Oppure, molto spesso, dirà o si dirà addirittura “Oggi non ho combinato niente”.


Naomi Stadlen, psicoterapeuta, descrive molto bene queste situazioni di svalutazione dell’opera materna:


Per tutto questo tempo è stata con lui ed è questa relazione invisibile che somiglia a un concludere niente. Si frena dall’affrettarsi a compiere una lunga lista di compiti per rallentare la sua vita e mettersi al passo con il bambino. Per le persone abituate al ritmo frenetico della vita di città, il contrasto è enorme. Lei deve quasi allentare il suo stile attivamente consapevole per affondare in qualcosa di più antico e semplice in modo da avvicinarsi al mondo del bambino. Non è una cosa facile: eppure è proprio qui che si trova la sorgente della relazione così importante tra di loro. Ben lontana dal fare nulla, lei sta facendo tutto4.


La scarsa attenzione della nostra cultura ai processi, alle attività non produttive, ricade sulle donne e sui bambini, squalificandoli. Quest’opera di minimizzazione, volta a rendere invisibili o non importanti aspetti fondamentali della relazione genitoriale e filiale, si accanisce in modo speciale nei confronti delle madri, mostrandole come futili nelle loro attività, oppure poco organizzate, emotivamente instabili e non autonome. Nello stesso tempo, la cultura narcisistica della nostra epoca offre alle madri una narrazione sostitutiva, in cui tale debolezza indotta e mistificata diviene una virtù femminile e la fonte di vantaggi secondari.

Osserva il filosofo Matteo Meschiari,


Inventarsi una donna dipendente, fragile, invalida, perennemente bisognosa di una guida significa costruire un immaginario di controllo che agisce su entrambi i sessi, fino a convincere le donne stesse a collaborare alla sua costruzione (…). Sepolte da manuali di istruzioni, controllate a vista da medici e compagni insonni, affiancate da professionisti più o meno alternativi, arenate nei mille blog in rete, le donne incinte vengono sistematicamente spaventate e per questo rinunciano all’autonomia e alla percezione di sé (…): dall’esperienza corporea, perturbante, selvatica, a una sbiadita allegoria narrativa, assecondando il flusso di una propaganda falsamente adulatoria5.


La cultura consumistica e consumante, che investe emotivamente sugli oggetti mentre disinveste sulle persone, reificandole, svuotandole di vita e di potere intrinseco, procede sempre in questo modo: sottrae forza, energia e gratificazione ai genitori, indebolendo la loro autostima, negando loro il soddisfacimento dei bisogni fondamentali del loro essere padri e madri; e poi propone in sostituzione elementi compensatori, gratificazioni fasulle, benefici elargiti dall’esterno e che creano dipendenza. Svalutazione, sostituzione: un processo di colonizzazione dell’anima in due passaggi. Clarissa Pinkola Estés, psicoterapeuta junghiana e cantastorie, ci parla di questo processo di perdita e sostituzione con simulacri ingannevoli attraverso la metafora della nota fiaba Scarpette rosse:


La donna-fera è quella che si trovava un tempo in uno stato psichico naturale e fu poi catturata da un qualche intrecciarsi di eventi, diventando pertanto eccessivamente addomesticata, e con gli istinti affievoliti. Quando le si presenta un’occasione per tornare alla sua natura selvaggia originaria, con estrema facilità è vittima di trappole e veleni6.


Riconoscere l’esistenza della trappola, della gabbia, per noi genitori fa parte di un processo di individuazione e di riappropriazione del nostro valore, potere e unicità, un recupero della nostra integrità che ci permetta di riconnetterci alle parti vitali di noi stessi e dei nostri figli.

La delega agli esperti

La cultura basata sulle relazioni di potere non ha fiducia nella competenza dei genitori e considera che questi ultimi non sappiano cosa sia meglio fare per educare i figli; pertanto ritiene che essi debbano rivolgersi a esperti che li guidino.


Purtroppo il paradosso della nostra società è che, a conti fatti, questi esperti di rado si sono formati su questi temi, e meno che mai con informazioni basate sulle evidenze scientifiche. Sono solo figure autorevoli che ruotano intorno ai genitori, investite di aspettative e che si fanno carico e responsabilità di dare indicazioni, ma il più delle volte si basano solo sulla loro esperienza personale, o su pregiudizi diffusi e buon senso comune. Pediatri, psicologi, insegnanti possono essere preparati sui temi dell’educazione, ma non è garantito: dipende dal loro percorso formativo, dal loro ambiente culturale e dalla loro esperienza di vita.


Una visione ingenua della realtà porta a credere che chi è esperto in una data area del sapere lo sia anche in generale, e abbia anche autorevolezza quando si pronuncia su questioni specifiche. Ad esempio si pensa che un medico possa dare consigli clinici a prescindere dalla sua specializzazione; o che possa anche consigliare in aree contigue come quella della pedagogia o della psicologia. Per converso, non si chiede al carrozziere consigli sull’impianto elettrico, anche se sono due questioni che hanno a che fare con le auto… né gli si chiede spiegazioni sulle regole del codice della strada. Ma per quanto riguarda le discipline che hanno a che fare con la salute o le relazioni umane, si tende a chiedere o ad offrire consigli proprio secondo questa logica.


Tuttavia il problema è oltre: è proprio il concetto di “dare consigli” che andrebbe messo in discussione. Un professionista, un esperto in una certa materia, può mettere a disposizione il suo sapere, può ascoltare con attenzione ed empatia per aiutare il cliente a focalizzare meglio i suoi dubbi e i suoi bisogni, e può suggerire varie opzioni. Ma non può dire ad altri cosa devono fare, perché la decisione spetta al diretto interessato (o, nel caso di bambini piccoli, ai loro genitori). I genitori dovrebbero essere consapevoli del fatto che la responsabilità delle decisioni è sempre a loro carico, inclusa la decisione di seguire i consigli del più esperto fra gli esperti.

Sotto tutela: l’infantilizzazione degli adulti

I genitori hanno bisogno di essere protetti e guidati?

Molto spesso la relazione con il professionista diviene una brutta copia di certe relazioni parentali fortemente asimmetriche; e i genitori finiscono per subire dall’esperto atteggiamenti paternalistici ed essere quindi infantilizzati.


È storia comune la “sgridata” del pediatra, del ginecologo, o di altri professionisti alla mamma che allatta oltre i primi mesi: “Cosa? Ancora dorme con te? Ma non pensi ai danni che stai facendo a te e a tuo figlio? Vuoi rovinargli la vita e farne un disadattato? Ti rendi conto che stai nuocendo anche alla tua salute? E poi che vuoi allattare ormai, è solo acqua” (e via una strizzata al seno per mostrare che “non c’è niente”).


Tali affermazioni non sono frutto di evidenze scientifiche ma solo l’espressione di una cultura dominante, di cui si fa portavoce il professionista come l’uomo della strada. Ma anche nei casi ipotetici in cui dovesse avere ragione il medico, o il consulente, o l’insegnante, i modi paternalistici con cui queste osservazioni vengono formulate rafforzano una relazione in cui il sapere e l’autorevolezza sono sbilanciate, e non si aiutano le madri e i padri a esprimere le loro capacità e a sviluppare le loro competenze costruendo un proprio stile genitoriale. Vediamo così donne che aspettano con angoscia la successiva visita di controllo per paura di essere rimproverate; ultimatum “Fra due settimane o cresce tot o gli togliamo il latte”; e rimproveri diretti anche al bambino: “Ma non ti vergogni alla tua età?”.


Questo atteggiamento paternalistico e squalificante degli esperti è talmente radicato nella nostra cultura da passare spesso inosservato. Ma proviamo a trasferire questo tipo di interazione asimmetrica in un ambito totalmente diverso. Poniamo che andiate dal fornaio a comprare un chilo di pane e un po’ di ciambelle al vino. Il fornaio vi squadra e: “Ma scusa, che vai a comprare pane e ciambelle, ma hai visto quanto sei sovrappeso?” e allunga una mano dando una strizzata al vostro braccio. “Dovresti vergognarti, sei un’incosciente, il tuo corpo ha bisogno di fare moto e di comprare solo pane senza glutine, il tuo intestino sicuramente è pieno di colla di glutine. E sì che hai anche tre figli! Non vuoi il loro bene? Vuoi rovinarti la salute, non pensi a loro? Vuoi fare anche di loro degli obesi?”


Ecco, cosa fareste in un tale frangente, uscireste dal negozio a testa china e in lacrime, pieni di dubbi se continuare o no a comprare pane, con sensi di colpa per le ciambelline, oppure mandereste quella maleducata persona a quel paese, chiedendole come si permette di rivolgersi a voi in quel modo? Parlereste ai vostri amici del vostro “fornaio di fiducia” dicendo che è “un po’ burbero ma molto competente”? O cambiereste fornaio sconsigliandolo agli altri?


Eppure, succede di continuo che una donna che segua semplicemente la fisiologia, che accolga i bisogni del bambino e della famiglia secondo la linea di maggior benessere, applicando un approccio ad alto contatto (allattamento, sonno condiviso, uso della fascia per portare) venga apostrofata con toni molto simili. E che accusi il colpo mortificata, a capo chino.


Il paternalismo sanitario distribuisce generosamente rimproveri e rassicurazioni, facendosi carico del processo decisionale che spetterebbe ai genitori, e assumendosi la responsabilità di proteggerli dalle delusioni e dai dubbi. Pertanto ci si affanna, ad esempio, a consolare chi ha fallito il suo progetto di parto o di allattamento, cercando di minimizzare gli aspetti negativi e di rassicurare: “L’importante è che stiate bene”; “Sei comunque una buona madre”. Questo approccio in apparenza consolatorio in realtà non riconosce i sentimenti di perdita e di rammarico della donna. Ed è proprio la mamma che più ha sofferto, nei suoi sforzi di proteggere la fisiologia senza riuscirci, colei che ha più bisogno di essere compresa, e non “tirata su”.


La stessa cultura che non esita a colpevolizzare senza motivo i genitori che hanno scelto uno stile prossimale di cura dei loro bambini, diventa poi improvvisamente protettiva verso i genitori che attuano approcci più distaccati, e gli operatori e i divulgatori che si occupano di salute perinatale vengono esortati a non insistere troppo nella promozione di scelte fisiologiche (che sono un investimento importante per la salute e il benessere), in quanto ciò farebbe “sentire in colpa” i genitori che per qualche motivo, e spesso loro malgrado, hanno seguito una strada diversa. Si tratta di una posizione di falsa tutela di quei genitori che hanno fatto scelte educative più convenzionali, e che non sono certo immuni anche loro dalle critiche, dato che l’impronta giudicante è comunque ben radicata nella nostra cultura e nello stile sociale con il quale ci si relaziona in ogni ambito e ad ogni età; ma che non per questo hanno bisogno di essere infantilizzati e protetti dall’alto.

Scienza e scientismo

Parte integrante del processo di infantilizzazione dell’adulto è l’utilizzo del “parere autorevole” per rafforzare la narrazione dominante, generalmente in contrasto con ciò che il genitore, in base al suo istinto, buon senso ed esperienza personale riterrebbe più appropriato nella cura ed educazione dei suoi figli. Questa tecnica di manipolazione viene usata a piene mani dai mezzi di comunicazione, che avvalorano spesso le teorie più in voga con l’avallo di fantomatiche comunità scientifiche mondiali che non esistono né in senso assoluto né in senso relativo: “I pediatri raccomandano…”, “È noto agli psicologi che…” Sarebbe bene diffidare di chiunque tiri in ballo in questo modo un’intera categoria di professionisti per rafforzare una data teoria: sta cercando di vendere qualcosa, proprio come le pubblicità dei dentifrici “raccomandati dai dentisti”.


Non esiste mai una posizione univoca all’interno di una categoria professionale. E comunque, al di là di eventuali opinioni, anche autorevoli, sono le evidenze scientifiche, e non le persone, ad avvalorare una teoria. In caso contrario, essa rimane appunto soltanto una teoria, cioè qualcosa ancora da dimostrare… o peggio, qualcosa di già smentito dalle ricerche, e quindi da cestinare. Cerchiamo di chiarire molto bene questo punto, perché è qui che si instaura una grandissima confusione, nata da ingenuità ma anche spesso coltivata intenzionalmente da chi dovrebbe invece divulgare conoscenze e competenze. Per la maggior parte delle persone, una verità scientifica è semplicemente l’opinione di esperti autorevoli che, proprio per la loro indiscussa competenza, esprimono concetti che non possono essere messi in discussione. Chi fa propria questa credenza non gradisce un contraddittorio, e si esprime spesso con affermazioni e polemiche ricorrenti come quelle che seguono.

  • Credi nella Scienza? Pensare che un’affermazione sia tanto più vera quanto più autorevole sia lo scienziato che la esprime significa affidarsi a chi per definizione ne sa più di noi, credere nella sua competenza ed evitare di metterla in discussione. Affidarsi a qualcuno delegandogli decisioni vitali è una scelta legittima (anche se potrebbe rivelarsi pericolosa quando la fiducia viene riposta nelle mani sbagliate); tuttavia questa condotta non dovrebbe portare a confondere la scienza con i suoi portavoce. La scienza è verifica obiettiva dei fatti e non una questione di credere o non credere: quella è fede ed ha a che fare con la religione, la quale certo non ha bisogno di prove scientifiche per legittimarsi perché si pone su un piano totalmente differente.
  • Scusa, ma tu che titoli hai? Sta prendendo sempre più piede l’idea che solo chi ha titoli professionali su un certo argomento possa esprimere opinioni in materia. Idea pericolosa e offensiva, perché presume da un lato che chi ha più titoli di studio sia infallibile, e dall’altro che chi non ha titoli di studio su un certo argomento non possa esprimere pensieri razionali e degni di considerazione. Entrambe queste convinzioni sono errate. Fornisce inoltre la base e l’alibi per chi, millantando affermazioni “scientifiche” dall’alto di una posizione illustre, respinge argomentazioni contrarie squalificando l’interlocutore, invece di accettare di confrontarsi sul terreno dei dati e della loro interpretazione scientifica.
  • Ognuno ha la sua verità. Se “scientifico” fosse ciò che è affermato da uno scienziato, ne deriverebbe che non esisterebbe un’unica verità, in quanto gli scienziati sono spesso in contrasto fra loro, ovvero può succedere che con il tempo la comunità scientifica cambi idea su una data “verità”. Questo alimenta sfiducia nei dati della ricerca e crea una sorta di qualunquismo scientifico in cui “la mia opinione vale quanto la tua”, dato che è sempre una questione di punti di vista.

Ma se non si può fare affidamento sull’autorevolezza degli esperti, come si può allora capire cosa è “scientificamente provato” e cosa non lo è? Una volta in una discussione, in cui sottolineavo che non tutte le affermazioni sono basate sullo stesso livello di certezza scientifica, mi è stato obiettato: “Ma se ci mettiamo qui a etichettare le ricerche come di serie A o di serie B o di serie C, magari anche con le sfumature, non credo che arriveremo lontano!”. Ma è proprio etichettando le ricerche come di serie A, B o C che si arriva lontano... non siamo noi ad etichettare arbitrariamente, ci sono criteri rigorosi sui quali concorda l’intera comunità scientifica mondiale, avendoli stilati di comune accordo. Si chiamano livelli di evidenza e determinano proprio quanto un’affermazione sia basata solidamente su dati scientifici oppure no7.


Esistono studi viziati da pregiudizi o poco rigorosi nel modo in cui i soggetti sono selezionati e i dati raccolti ed elaborati, e altri che invece sono condotti in modo impeccabile e su un numero molto elevato di casi. Infine c’è un elemento assolutamente essenziale: l’indipendenza dello studio, e cioè il fatto che la ricerca o i suoi autori non siano finanziati, né direttamente né indirettamente, da soggetti (ad esempio aziende) che hanno interesse a conseguire dallo studio certi risultati. Cominciamo dunque a comprendere che a volte ciò che ci viene presentato come scientifico è invece l’espressione di una posizione o di una teoria che deve però essere verificata alla luce di criteri rigorosi. Con buona pace di chi afferma che ciascuno ha la sua verità, questa al contrario è un dato obiettivo, univoco, concreto; mentre le opinioni a riguardo saranno variegate a seconda del punto di vista dell’osservatore. Anche se a volte è arduo definirla, questo non significa che la verità non esista. Purtroppo se da un lato vi è la scienza, dall’altro vi è lo scientismo, ovvero l’uso che si fa dei suoi dati come “certezza assoluta”, per fare affermazioni dogmatiche e indiscutibili, allo scopo di esercitare pressione sulle persone e convincerle delle proprie tesi. Ci si riempie la bocca di consenso scientifico, che è un modo per dire “le cose stanno così, non le puoi mettere in dubbio, tutti gli scienziati ne sono convinti, è provato oltre ogni dubbio”.


L’idea di consenso scientifico è di per sé aberrante. La scienza si basa sulla dialettica, sul confronto di idee, teorie e interpretazioni differenti. Nella scienza certezze assolute non esistono, ma solo un maggiore o minore grado di probabilità rispetto a certe conclusioni. È inevitabile che ciò che sappiamo oggi venga rivoluzionato domani, non perché le ricerche non erano ben fatte, ma perché nel tempo si sviluppano strumenti migliori per osservare e per interpretare i dati della realtà. La ricerca scientifica si basa sul dubbio e non sulle certezze; è umile; è paziente; ha sempre più domande che risposte. Quando la scienza abbandona questo approccio e diviene tirannica, indiscutibile, uno strumento per imporre certezze, non è più scienza ma una forma mascherata di culto religioso, e i governi che utilizzano “la scienza” come autorità suprema esercitano una forma particolarmente vile di manipolazione delle coscienze. I genitori farebbero bene a diffidare ogni volta che una teoria viene presentata come convinzione assoluta di una determinata categoria professionale (i pediatri, gli psichiatri, gli psicologi, i virologi, gli educatori o qualsiasi altro); soprattutto quando quella teoria viene utilizzata per convincerli a fare scelte lontane dai loro cuori oppure ad abbandonare pratiche di accudimento ed educazione che sono vicine al loro modo di sentire, e che fino a quel momento hanno funzionato bene per loro e per i loro figli.

Il mito della “normalità”

Il senso di inadeguatezza dei genitori è mantenuto e alimentato tenacemente con la continua riproposta di standard irraggiungibili che spingono a paragonare se stessi e i propri figli a modelli fittizi di “normalità”; si perde così quel sentimento di connessione così importante per consolidare il senso di competenza materno e paterno.


Quando un figlio nasce, il bimbo fino ad allora solo vagamente immaginato si trasforma in un individuo reale, che bisogna imparare a conoscere. Per quanto le pratiche che evitano la separazione alla nascita aiutino moltissimo i genitori e in particolare la madre a non perdere la connessione biologica e psicologica con il figlio, la società odierna, basata su famiglie nucleari e su una separazione delle attività lavorative e sociali da quelle di accudimento della prole, lascia le madri isolate proprio nel momento in cui avrebbero maggior bisogno del sostegno del gruppo dei pari; e non aiuta gli adulti a sintonizzarsi sul linguaggio non verbale del neonato, che spesso è il primo bambino piccolo di cui hanno esperienza. Lo stereotipo del bambino “normale” avvelena il processo di graduale conoscenza dell’infante e la scoperta della sua unicità, alimentando una serie di miti, inconciliabili con la fisiologia e con la natura del neonato.

  • La regolarità: si afferma che il neonato dovrebbe rapidamente “prendere un ritmo”, cioè avere cicli prevedibili di sonno, veglia e poppate. Il metodo EASY di Tracy Hogg (da Eat = mangiare, Activity = attività, Sleep = dormire, You = tempo per te) rappresenta in pieno questa posizione, e sostiene l’illusoria certezza che tutti i bambini vivano un semplice avvicendarsi di queste fasi, nell’esatta successione e modalità e con durate standardizzate e uniformi, lasciando anche alla madre una doverosa pausa periodica per ricaricarsi. Purtroppo si afferma anche che i genitori avranno parte attiva nel guidare il bambino a “raggiungere” questi ritmi, che vanno incoraggiati e consolidati creando una routine, che permetta di rendere la giornata dei genitori prevedibile e di mantenere il controllo delle loro vite. Si sostiene che il neonato senza tali abitudini vada nel caos e ne soffra.
  • La felicità: si presume che se il bimbo viene accudito correttamente (secondo una routine e soddisfacendo le sue necessità biologiche fondamentali come essere nutrito, pulito e portato a spasso), sarà sereno e soddisfatto senza momenti di agitazione, contrarietà, insoddisfazione. Ne consegue che, se invece manifesta questi stati, il genitore debba aver sbagliato qualcosa, oppure “si stia stressando troppo” e quindi trasmetta al bambino il suo nervosismo.
  • Il paradiso perduto: si considera la crescita come un’inevitabile e progressiva rinuncia a una beatitudine originaria, e si dà per scontato che il bambino sia riluttante ad abbandonarla, che non sappia evolversi da solo con i suoi tempi, e vada quindi forzato. Poiché la vita è dura e impietosa, però, conviene “abituarlo” subito alla privazione. È la visione di chi ha sofferto per la mancanza di risposta ai suoi bisogni quando era piccolo, e quindi è tuttora preso da un desiderio bruciante di attenzioni e tenerezza, un bisogno che sente come inestinguibile... e pensa che sia così per tutti.
  • L’autosufficienza: ci si aspetta che il bambino sia presto in grado di “bastare a se stesso” autoconsolandosi, e trovi il suo equilibrio emotivo in modo del tutto indipendente, senza bisogno di avere un adulto che lo affianchi e lo accudisca.
  • L’incompletezza: è l’idea che il bambino sia una sorta di adulto incompleto, con carenze da colmare, incapacità da compensare, angoli da smussare. L’adulto sarebbe una sorta di scultore che modella la creta grezza, oppure un giardiniere che pota, innaffia, mette tutori per indirizzare la crescita, strappa le erbacce.
  • La furbizia: si presume che ciò che il bambino fa sia frutto di un suo “progetto” volto a sortire un effetto emotivo negli adulti che si prendono cura di lui. Si attribuiscono quindi al bambino abilità che invece padroneggerà solo diversi anni più tardi con la capacità di mentalizzare, cioè comprendere che i pensieri degli altri sono distinti e diversi dai suoi; abilità come compiacere, manipolare, fingere, vendicarsi, provocare, sfidare, ricattare, lusingare. Le manifestazioni emotive del bambino, come piangere o sorridere, vengono sottoposte a un giudizio morale e viste come modi per assumere e mantenere il controllo dell’adulto, facendo leva sulle sue emozioni. Avviene così che la mamma o il papà siano spinti a diffidare e a sospettare nel loro figlio dei fini nascosti, e prendano le reazioni del bambino su un piano personale, vivendole come qualcosa che lui fa a loro o contro di loro.

Dietro il mito del bambino normale, in fondo, si cela quello dei genitori “normali”: sempre calmi, sicuri di sé, capaci di vedere le cose con obiettivo distacco, sempre sereni e amorevoli ma anche coerenti, capaci di fermezza e autorevolezza… aspettative irrealistiche che non fanno che minare alla radice il senso di autoefficacia dei genitori, allontanandoli dall’accettazione di se stessi come madri e padri “sufficientemente buoni”. Questa sensazione di essere sempre sotto esame, e con l’obbligo di dimostrarsi “all’altezza”, logora i genitori ostacolando la loro competenza innata a sintonizzarsi sul proprio bambino e a imparare facendo.

Il mito delle abitudini

Il vecchio modello comportamentista, in particolare nell’ambito della pedagogia, da due secoli e più fa da supporto teorico a metodi educativi coercitivi o manipolatori, che causano danni profondi, ostacolano una sana relazione affettiva fra genitori e figli, e non consentono al meraviglioso potenziale degli individui di dispiegarsi in tutta la sua vitalità, creatività e amorevolezza.


La teoria dell’abitudine attribuisce la responsabilità di ogni comportamento o condizione del bambino ai suoi genitori: al fatto che abbiano o no applicato certi metodi, che siano stati sufficientemente severi nel dare regole e limiti, oppure che abbiano o no aderito senza eccezioni a una routine nella vita dei loro figli. L’importanza della routine è enormemente sopravvalutata, in particolare per il dormire. Se si ha piacere di seguire una routine gradevole, per esempio leggere un libro la sera, non c’è nulla di sbagliato; ma questo non ha nulla a che fare con concetti come “igiene del sonno” e non serve per “regolarizzare” il bambino. Il sonno non è un comportamento ma uno stato neurologico incondizionato, di conseguenza non può essere modellato da un’abitudine. Tutti i bambini, crescendo, assumono ritmi sonno-veglia più vicini a quelli degli adulti, per il semplice fatto che matura il loro sistema nervoso.


La mancanza di una routine prestabilita non significa vivere nel caos e neppure trascurare i bisogni fisici del bambino o degli adulti. Se un bambino è a corto di sonno comincia a segnalarlo molto prima di andare in crisi; di solito cerca il seno oppure mostra segni di stress o stanchezza, e allora è giusto ricavarsi un momento di coccole, relax o proporre un sonnellino. Tutte cose che si possono fare quando ce n’è bisogno, senza ritardare, e senza bisogno di consultare l’orologio o qualche manuale che ti dica che le “fasi” (sonno, attività, pasti eccetera) debbano avvenire sempre nella stessa successione e condizioni. I bambini si sviluppano con tale rapidità che i loro ritmi e bisogni cambiano molto spesso, per cui è molto meglio seguire i segnali del bambino anziché affidarsi a una routine che, se in un dato momento può funzionare, va poi cambiata via via che il bambino cresce. Quando saranno più grandi e verranno inseriti in una situazione più organizzata e strutturata, come ad esempio la scuola, si adegueranno, che siano stati o meno sottoposti a routine di qualsiasi tipo.


I fautori della routine sostengono che senza solide abitudini i bambini si trovano nel caos, cresceranno incontrollabili e non sapranno poi adattarsi al mondo esterno e abituarsi all’autocontrollo e all’autodisciplina. Chi teme che i bambini non forzati a stare e a fare da soli “non lo faranno mai”, o cresceranno “incontrollati”, non ha forse avuto occasione di conoscere i figli di genitori che praticano un accudimento ad alto contatto, e di osservare bambini e ragazzi più grandi che sono stati accuditi in questo modo, senza le catastrofiche conseguenze di cui tanto si parla. I sostenitori delle abitudini hanno fatto proprie certe convinzioni che sentono intorno a sé, rappresentate in programmi televisivi “per genitori”, che propongono modelli di tate tuttofare che planano nelle case dove bambini “ingestibili” hanno ridotto alla disperazione genitori esauriti, e con tocco esperto “aggiustano” la situazione. Sono programmi spesso molto ben confezionati, accattivanti, che mischiano ad arte concetti ovvi e condivisibili con affermazioni del tutto prive di fondamento, e fanno leva sul timore dei genitori di “viziare” i propri figli.


Questa cultura è veramente terribile quando instilla l’idea che tutto si faccia per abitudine o imposizione, e che non ci sia negli esseri umani, e soprattutto nei bambini, il desiderio di evolversi, acquisire competenze, dare e ricevere amore, essere parte della vita degli altri ed essere capaci di empatia e rispetto!

Il perché delle regole

A volte chi teorizza l’educazione come metodo per modellare il bambino si spinge a suggerire ai genitori di proibire al bambino, anche dentro casa, comportamenti che sono un problema soltanto a scuola o in casa d’altri, allo scopo di allenarlo al rispetto assoluto delle regole in quanto tali. Secondo queste persone una regola, per essere efficace e credibile, deve essere assoluta, vale a dire applicata in ogni situazione e in ogni contesto. Ma le situazioni cambiano, e anche i modi per soddisfare le necessità collettive e individuali differiscono da un individuo all’altro e da un periodo all’altro della vita. In fondo le regole sono strategie condivise che servono a soddisfare bisogni. Allora una regola è coerente quando si mantiene aderente al suo scopo, che dovrebbe essere quello di soddisfare i bisogni condivisi; questo rende necessaria la sua flessibilità, quando cambia il contesto in cui si applica. Quando cambia il contesto anche il comportamento deve cambiare.


Si fa fatica a credere che un bambino sia capace di modificare il suo comportamento rispetto al contesto; eppure il bambino è in grado di apprendere una lingua viva, in cui le parole significano cose diverse a seconda di quello che succede intorno e di chi le pronuncia… allo stesso modo è perfettamente capace di contestualizzare le regole. Spesso sono gli adulti ad essere incapaci di contestualizzare: hanno perso questa abilità perché da bambini sono stati condizionati a rifarsi a regole rigide, a uniformarsi e mettere in atto sempre lo stesso comportamento, senza modularlo... Ora quei bambini, diventati genitori, applicano lo stesso approccio con i loro figli, perpetuando una pedagogia che produce individui omologati, che assorbono e ripetono meccanicamente gli slogan e i concetti semplificati offerti dai media, che sono facili prede della demagogia, che sanno obbedire senza discutere; oppure produce ribelli che si oppongono a ogni regola, per affermare la loro individualità.


Consentire eccezioni alle regole, quindi, non è da parte degli adulti un errore di coerenza: quando le regole vengono assorbite assieme al contesto, questo dà loro un senso più profondo, che ne trasmette anche la motivazione, cioè la norma morale che le sottende. Può sembrare un compito difficile per il genitore insegnare confini e regole in questo modo, ma se queste vengono vissute e praticate, non ci sarà bisogno di imporle con la paura, cioè con punizioni o prediche, perché verranno trasmesse con l’esempio, con la pazienza e la comprensione durante il percorso di apprendimento, che ha i suoi tempi. E se l’educazione è guidare il bambino verso la comprensione e l’adesione a princìpi morali e integrarlo nel tessuto sociale, allora favorire e sviluppare in lui la capacità di essere empatico e nutrire rispetto per i bisogni degli altri è un metodo eccellente per ottenere questo risultato: non solo il rispetto delle regole sociali, ma anche la capacità di improvvisare e rispondere in modo adeguato, oltre le regole spicciole, capendo le situazioni e il contesto in cui si trova.


Vogliamo che nostro figlio rispetti le regole o che rispetti le persone? Vogliamo che i bambini seguano le nostre norme morali perché le ritengono valide, perché ne comprendono il senso etico, perché si preoccupano del benessere degli altri, oppure vogliamo che le seguano perché sanno che altrimenti subiranno la violenza e il rifiuto degli adulti che amano?


In una parola, vogliamo che i bambini si comportino “bene” per motivi altruistici o per egoismo?


Proprio lavorando con il bambino a trovare soluzioni rispettose di tutti (lui compreso) gli si insegna a seguire le regole per amore e non per paura.

Il mito del controllo

Una cosa che i genitori devono imparare a gestire, alla nascita del loro primo bambino, è lo stravolgimento della vita, la sensazione di non avere più il controllo della loro esistenza.


In un certo senso, se ci si riflette, l’idea stessa che noi possiamo controllare le nostre vite è un’illusione. Ci organizziamo, tracciamo confini, predisponiamo le cose in modo da poter avere tutto in pugno, ma la verità è che siamo barchette sulle onde della vita e non sappiamo mai quando arriverà la tempesta o la bonaccia. I bambini irrompono nelle nostre esistenze per far crollare questa illusione, per insegnarci a essere un po’ più “filosofi” e accettare le situazioni della vita che non possiamo controllare, cercando di sfruttarne le potenzialità piuttosto che recriminare sugli ostacoli: cosa difficile in una società che onora l’organizzazione, la prevedibilità, la pianificazione di ogni dettaglio quotidiano. Ed è qui che le varie proposte di tecniche o metodi educativi paiono venire in soccorso dei genitori, con la seduzione di stili pedagogici che non solo forniranno loro il controllo del comportamento dei loro figli, ma anche dei loro pensieri e sentimenti, conquistando la loro “spontanea” collaborazione. Queste proposte alimentano il mito che sia davvero possibile gestire tutto secondo i propri progetti… purché si applichi il “metodo” giusto. Ciò alla fine si traduce in una prova di forza fra gli obiettivi degli adulti, che si erano prefigurati certi risultati con determinati tempi e modalità, e il bambino che, ignaro di tutto questo, piomba nella loro vita con i suoi bisogni, fiducioso che verranno accolti e soddisfatti; e non certo con l’obiettivo di far dispetto ai suoi genitori! Si tratta di una lettura che trasforma i genitori in vittime e i bambini in piccoli tiranni, in un rovesciamento paradossale di ruoli e posizioni di potere. Tante volte si ammoniscono i genitori di non essere “alla mercé” dei figli. Ma che significa? L’adulto, che è più forte, più esperto, più abile, ha il controllo della sua vita e di quella del bambino, si chieda onestamente se e quanto è alla mercé di suo figlio. Perché vedere sempre i contrasti o i disaccordi fra genitori e figli nei termini di una lotta per il potere? È quanto di più lontano dalla mente e dal cuore di un bambino, che del potere se ne infischia (anzi non sa nemmeno cos’è), e agisce sulla base dei suoi bisogni e delle sue emozioni. Tanti articoli, libri, manuali, consigli suggeriscono ai genitori come gestire il comportamento dei bambini, come “dare limiti”, come dire di no, e anche, più sottilmente, come “educare i bambini a gestire i propri sentimenti”, come “insegnare al bambino a riconoscere e controllare la rabbia o la frustrazione”. Quest’ultimo è proprio un bell’enunciato, ma è poco più di un pio desiderio: avere un figlio che accetta la volontà degli adulti di buon grado. Spesso questi metodi ripropongono in modo subdolo vecchi concetti, basati su prove di forza o di potere, mettendo la questione nei termini del “chi deve decidere”. L’enfasi, il focus è nel punto sbagliato. Il fatto è che qui non sono in gioco i limiti dei bambini ma quelli dei genitori, cioè essere consapevoli dei propri limiti, sentimenti e bisogni, in modo da distinguerli da quelli dei bambini senza proiettarli su di loro; e anche in modo da porsi nei loro confronti con onestà, spiegando anche le proprie necessità e trovando insieme soluzioni rispettose che vadano incontro ai bisogni di tutta la famiglia. Questo è molto diverso dal considerare i bambini come persone incapaci di comprendere il prossimo e quindi da controllare e indirizzare.

Autonomia o narcisismo?

La pedagogia del controllo attribuisce un enorme valore alla capacità di “farcela da soli”, senza dipendere dall’aiuto degli altri. Si loda, in effetti, l’isolamento e l’autarchia, ma questa realtà viene mistificata parlando di indipendenza e autonomia, usando i termini come fossero sinonimi. Se però l’indipendenza è non avere bisogno degli altri, l’autonomia è uno stato di fiducia in sé e di competenza, che si regge su una base emotiva sicura. Quindi l’autonomia si può nutrire, ma non insegnare. La stessa frase “educazione progressiva all’autonomia” è un’offesa all’intelligenza. Tradotta in parole oneste suonerebbe piuttosto così: abituare progressivamente il bambino a sopportare la solitudine senza importunare gli adulti.


La pedagogia dell’amore condizionato si impernia nella convinzione che ogni felicità vada meritata e che l’educazione debba preparare al mondo di fuori, che è duro e competitivo, mettendo alla prova il bambino e sottoponendolo a frustrazioni in modo da spingerlo a sviluppare la capacità di cavarsela da solo. L’amore dei genitori viene concesso solo quando il bambino corrisponde alle aspettative dei genitori. Questa visione tragica è alla radice della nevrosi narcisistica, che sostituisce alla capacità di instaurare relazioni amorevoli una fantasia di “bastare a se stessi”, di autarchia affettiva. Secondo questa pedagogia senza cuore, il gesto d’amore della mamma, il contenimento, il conforto indebolirebbero il bambino e lo “confermerebbero” debole (cioè vulnerabile, insicuro), mentre la durezza lo renderebbe forte. Ai genitori arrivano messaggi rassicuranti nei quali si assicura che negare il sostegno al bambino equivalga a donargli il coraggio di farcela da solo, rafforzandolo e preparandolo a far fronte alle difficoltà della vita. Nonostante le evidenze scientifiche, i dati dell’antropologia e l’esperienza concreta dei genitori, si continua ad alimentare questo mito, perché la società narcisistica e consumistica in cui viviamo ne ha bisogno.


I genitori che scelgono un approccio attento ai bisogni dei loro figli, cercando soluzioni condivise ai problemi invece che l’imposizione di una soluzione calata dall’alto, vengono tacciati di lassismo. Eppure io non vedo affatto tutto questo lassismo fra i genitori di oggi, anzi vedo i princìpi di una pedagogia autoritaria ben radicati nella maggioranza. Ciò che molti bambini al giorno d’oggi ricevono è mancanza di contenimento affettivo, unita alla pretesa che si sappiano arrangiare da soli. La nostra cultura, che ostacola la tenerezza, i gesti di affetto, l’empatia, spaccia tutto questo per “educazione all’autonomia”. Sta a noi genitori prendere forza da noi stessi e non farci sedurre da queste idee, accattivanti e “amichevoli” in apparenza, ma proprio per questo molto più sottilmente distruttive.


I genitori devono guardarsi da suggerimenti che fanno leva sulle lusinghe e che cercano di trasformare profonde devianze dalla fisiologia in pratiche “normali”, insistendo perché ci si sforzi di condizionarvi i propri figli; soprattutto se si dichiara che questa forzatura viene fatta per il bene di chi la subisce. È una strategia pericolosa che può arrivare a ottundere il senso critico della gente, con risultati aberranti, come mostrano anche le recentissime esperienze in cui si è tentato, con lo slogan della “nuova normalità”, di rendere scontate e addirittura rassicuranti modalità e comportamenti che stravolgono profondamente la nostra natura di individui sociali, bisognosi di contatto e di interazioni affettuose.

Il bambino autentico
Il bambino autentico
Antonella Sagone
Riconoscere ed evitare la manipolazione nell’educazione dei figli. Accrescere la consapevolezza dei processi di mistificazione: un cammino difficile e sofferto per essere un genitore migliore, giorno dopo giorno. Nonostante sempre più spesso venga ribadita l’importanza del rispetto e dell’ascolto delle emozioni e dei bisogni dei bambini, nella nostra cultura prevale ancora uno stile educativo fatto di lusinghe e ricatti, premi e punizioni.Nel suo libro, Il bambino autentico, l’autrice Antonella Sagone descrive i meccanismi di condizionamento dei bambini e dei loro genitori: leggendolo, molti si rispecchieranno in certe situazioni di cui sono stati vittime nella loro infanzia oppure, ancora più dolorosamente, si renderanno conto di aver riprodotto le stesse dinamiche sui propri figli.L’educazione manipolatrice non solo spezza l’integrità degli individui e li priva dell’amore incondizionato che spetta loro di diritto, ma li rende anche molto più vulnerabili a ulteriori operazioni manipolatorie in età adulta.La consapevolezza di questi processi di mistificazione è un cammino difficile e sofferto, ma è importante sapere che quel bambino autentico, integro, luminoso è ancora nascosto nell’intimo di ogni adulto, e che ciascuno di noi può essere un genitore migliore, giorno dopo giorno. L’ebook di questo libro è certificato dalla Fondazione Libri Italiani Accessibili (LIA) come accessibili da parte di persone cieche e ipovedenti.