Svalutazione
Quante volte è sufficiente aggiungere l’avverbio “soltanto” per svalutare e minimizzare qualcosa di unico ed importante? La pedagogia nera si avvale di forme di squalifica per indebolire l’autostima del bambino e renderlo più malleabile. Tutto ciò che è caratteristico della natura infantile viene guardato con sufficienza e considerato futile: si pensi anche solo al termine puerile, che ha una funzione sminuente per qualunque cosa a cui venga accostato. Si pensi soltanto alla presenza massiccia in rete di video di bimbi arrabbiati o in lacrime, esposti solo per strappare un sorriso o una risata! E per gli adulti e i loro sentimenti non va meglio.
Per il momento hai soltanto il colostro, non c’è ancora il latte. È solo un capriccio. Sei solo un po’ stanca (alla mamma che magari è in preda alla depressione post partum). È soltanto un biberon. Ha pianto solo dieci minuti (provate ad ascoltare, in silenzio, la registrazione di dieci minuti di pianto di un neonato, e poi ne riparliamo).
Un altro esempio eclatante: la declassazione dell’allattamento da funzione di cura a funzione alimentare. Si tratta di una delle operazioni riduttive meglio riuscite (e più deleterie) della storia, la rimozione dall’allattamento al seno di tutta la parte relativa al nurturing (il nutrimento emotivo), riducendolo a una mera funzione alimentare. In inglese la cosa è ancora più evidente, perché allattare al seno è breastfeeding, cioè nutrire al seno). Questo ha permesso di proporre l’alimentazione artificiale come equivalente dell’allattamento, come si trattasse di due opzioni alternative, fra le quali la scelta sarebbe legittima e dettata solo da aspetti pratici o ideologici oppure dallo stile di vita. Ha inoltre fatto sì che anche le madri che allattano al seno si vedano proporre il cibo solido non come integrazione, ma in sostituzione delle poppate, con il pretesto secondo cui poppate e latte materno diverrebbero inutili quando il bambino ha imparato a mangiare.
Questa operazione squalificante viene operata dalla società adulta che ha imparato a distinguere fra le attività cosiddette produttive e quelle improduttive, e a disprezzare tutto ciò che sfugge a una quantificazione, non solo in termini utilitaristici di valore monetario, ma anche in termini emotivi. A causa di questa prospettiva, molto del “lavoro” delle madri non solo è invisibile agli occhi, ma manca anche di parole per essere descritto. Il lavoro produttivo, come viene definito, si svolge fuori dalle mura di casa, e ha come risultato oggetti o servizi comunque misurabili, quantificabili e finiti. Un oggetto, una volta fabbricato, ha un suo peso, una dimensione, una sua esistenza definita nel tempo e nello spazio; può essere venduto, comprato ed esibito come prova del lavoro fatto. Persino una cosa immateriale come un servizio (un programma, una consulenza, un seminario) può essere comunque monetizzato, misurato e verificato. Un lavoro che ha a che fare con prodotti ottiene, almeno in certa misura, un riconoscimento.
Ma i genitori, e le madri in particolare, non creano prodotti, ma avviano e accompagnano processi: fenomeni evolutivi, in continuo divenire e sviluppo. Elementi impalpabili, difficili da misurare e persino da notare, che sfuggono alle quantificazioni, delimitazioni e persino alla semplice consapevolezza. Alla fine di una giornata una madre di un bimbo ai primi passi si sentirà probabilmente esausta, eppure sa di non aver fatto nemmeno un quarto di ciò che faceva prima della nascita di suo figlio. Verso sera può assalirla il pensiero di tutto ciò che non è riuscita a fare, che siano lavori di casa o telelavoro o anche quella telefonata a sua madre che deve fare da giorni. Eppure, mentre ad esempio cucinava, questa madre ha seguito suo figlio senza perderlo di vista, interrompendosi infinite volte per interagire con lui, coinvolgendolo in quello che stava facendo, parlandogli, cambiandolo, offrendogli un mestolo e una ciotola di cucina con cui giocare, correndo a recuperare i giocattoli che stava gettando nel WC, dandogli da bere, consolandolo per una caduta, cantandogli una canzone. Tutto questo solo in un’ora! E in questo fare ha davvero attivato nel bambino processi di apprendimento, ha gestito emozioni, ha accudito il bambino nel senso più ampio. Eppure se dovesse dire cosa ha fatto, direbbe “ho cucinato”, e forse si biasimerebbe per averci messo il doppio del tempo. Oppure, molto spesso, dirà o si dirà addirittura “Oggi non ho combinato niente”.
Naomi Stadlen, psicoterapeuta, descrive molto bene queste situazioni di svalutazione dell’opera materna:
Per tutto questo tempo è stata con lui ed è questa relazione invisibile che somiglia a un concludere niente. Si frena dall’affrettarsi a compiere una lunga lista di compiti per rallentare la sua vita e mettersi al passo con il bambino. Per le persone abituate al ritmo frenetico della vita di città, il contrasto è enorme. Lei deve quasi allentare il suo stile attivamente consapevole per affondare in qualcosa di più antico e semplice in modo da avvicinarsi al mondo del bambino. Non è una cosa facile: eppure è proprio qui che si trova la sorgente della relazione così importante tra di loro. Ben lontana dal fare nulla, lei sta facendo tutto4.
La scarsa attenzione della nostra cultura ai processi, alle attività non produttive, ricade sulle donne e sui bambini, squalificandoli. Quest’opera di minimizzazione, volta a rendere invisibili o non importanti aspetti fondamentali della relazione genitoriale e filiale, si accanisce in modo speciale nei confronti delle madri, mostrandole come futili nelle loro attività, oppure poco organizzate, emotivamente instabili e non autonome. Nello stesso tempo, la cultura narcisistica della nostra epoca offre alle madri una narrazione sostitutiva, in cui tale debolezza indotta e mistificata diviene una virtù femminile e la fonte di vantaggi secondari.
Osserva il filosofo Matteo Meschiari,
Inventarsi una donna dipendente, fragile, invalida, perennemente bisognosa di una guida significa costruire un immaginario di controllo che agisce su entrambi i sessi, fino a convincere le donne stesse a collaborare alla sua costruzione (…). Sepolte da manuali di istruzioni, controllate a vista da medici e compagni insonni, affiancate da professionisti più o meno alternativi, arenate nei mille blog in rete, le donne incinte vengono sistematicamente spaventate e per questo rinunciano all’autonomia e alla percezione di sé (…): dall’esperienza corporea, perturbante, selvatica, a una sbiadita allegoria narrativa, assecondando il flusso di una propaganda falsamente adulatoria5.
La cultura consumistica e consumante, che investe emotivamente sugli oggetti mentre disinveste sulle persone, reificandole, svuotandole di vita e di potere intrinseco, procede sempre in questo modo: sottrae forza, energia e gratificazione ai genitori, indebolendo la loro autostima, negando loro il soddisfacimento dei bisogni fondamentali del loro essere padri e madri; e poi propone in sostituzione elementi compensatori, gratificazioni fasulle, benefici elargiti dall’esterno e che creano dipendenza. Svalutazione, sostituzione: un processo di colonizzazione dell’anima in due passaggi. Clarissa Pinkola Estés, psicoterapeuta junghiana e cantastorie, ci parla di questo processo di perdita e sostituzione con simulacri ingannevoli attraverso la metafora della nota fiaba Scarpette rosse:
La donna-fera è quella che si trovava un tempo in uno stato psichico naturale e fu poi catturata da un qualche intrecciarsi di eventi, diventando pertanto eccessivamente addomesticata, e con gli istinti affievoliti. Quando le si presenta un’occasione per tornare alla sua natura selvaggia originaria, con estrema facilità è vittima di trappole e veleni6.
Riconoscere l’esistenza della trappola, della gabbia, per noi genitori fa parte di un processo di individuazione e di riappropriazione del nostro valore, potere e unicità, un recupero della nostra integrità che ci permetta di riconnetterci alle parti vitali di noi stessi e dei nostri figli.