La trappola del senso di colpa
Il senso di colpa è un sentimento di disistima nei confronti di se stessi, alimentato dalla convinzione di aver fatto, pensato o provato qualcosa che invece, secondo un modello ideale, non si sarebbe dovuto fare, pensare o provare. Si basa quindi su una forma di giudizio. Marshall Rosenberg, psicologo e padre della Comunicazione non violenta, definisce l’approccio basato su giudizi moralistici come una forma di comunicazione che “aliena dalla vita”,
…un linguaggio pieno di parole che classificano e creano dicotomie fra le persone e le loro azioni. Quando parliamo questo linguaggio, giudichiamo gli altri e il loro comportamento, e ci preoccupiamo di decidere chi è buono, chi è cattivo, chi normale, chi anormale, chi responsabile, chi irresponsabile, chi sveglio, chi ignorante, eccetera11.
Sebbene l’intento di questo modo di comunicare sia quello di “aggiustare” ciò che non va bene, l’effetto ottenuto è generalmente l’opposto di quello voluto. Un linguaggio giudicante, che sia diretto al prossimo oppure verso se stessi, risulta sempre alienante, nel senso che divide e allontana da ogni slancio sincero dell’anima, spinge alla difensività e all’opposizione, mortifica e svilisce la fiducia nelle capacità di migliorare. Sempre dallo stesso autore:
Paghiamo un caro prezzo quando le persone rispondono ai nostri valori e bisogni non perché desiderano dare dal cuore, ma perché hanno paura, si sentono in colpa o provano vergogna. Prima o poi, subiremo le conseguenze della minor simpatia proveniente da coloro che si conformano ai nostri valori perché si sentono internamente o esternamente costretti a farlo. Anch’essi, poi, pagheranno un prezzo emotivo, perché probabilmente proveranno risentimento e minor autostima quando si adeguano alla nostra volontà per paura, per senso di colpa o per vergogna12.
Il senso di colpa quindi è una trappola che paralizza l’individuo fra il “dover essere” in un certo modo e il sentirsi “incapace di essere” in quel modo, proprio a causa del giudizio negativo ricevuto. Quando il senso di colpa viene poi indotto sulla base dei sentimenti “buoni o cattivi”, diventa un vero e proprio ricatto morale e una forma di manipolazione particolarmente potente e subdola. Molti manuali per genitori sono imperniati su idee moralistiche e suggeriscono modi per far pressione sui bambini attraverso approcci giudicanti (prediche, rimproveri, punizioni), con l’intento di farli sentire in colpa e con la speranza di indurli a cambiare comportamento e persino modo di sentire.
Prenderò alcuni esempi tratti da uno di questi libri, sottolineando che si tratta solo di uno fra numerosi simili, di cui alcuni anche recenti. In questo libro, scritto da uno psicoterapeuta e un’insegnante, si parte dal presupposto, tipico della pedagogia nera, che l’indole dei bambini sia fondamentalmente cattiva e abbia bisogno di essere corretta e indirizzata per non prendere “una brutta piega”.
Prima dei quattro o cinque anni non aspettatevi alcun senso morale; tra i cinque e i sette il bambino guarderà con sospetto le varie regole di comportamento che gli metterete davanti; dopo gli otto, avendo acquisito una maggiore esperienza della vita, avrà sempre meno dubbi. (...) Tutti i bambini si comportano male di tanto in tanto: è perché sono inesperti ed egoisti; è naturale che sia così13.
Il metodo principale suggerito ai genitori per orientare il bambino verso il “giusto” modo di vedere le cose, è la colpevolizzazione attuata responsabilizzando pesantemente il bambino riguardo ai sentimenti degli altri. In quest’altro brano si descrive una situazione in cui il bambino chiede alla mamma un giocattolo che lei non ha intenzione di comprargli:
Mamma: La tua insistenza mi dà un grosso dispiacere. Non vorresti invece fare qualcosa che mi renderebbe felice? Bene, allora rimetti l’automobile dove l’hai presa.
Alfredo: Ma se la riporto sarò io a star male.
Mamma: È vero, ti dispiacerà di non averla, ma sarai contento di aver fatto qualcosa di tanto gentile per me.
Gli autori commentano:
La mamma, gentilmente ma senza cedimenti, riesce a far capire ad Alfredo come si sente e lo aiuta ad accettare l’ingiustizia intrinseca nel fatto di imporre ad altri sentimenti che non vorrebbero provare. Senza perdere d’occhio il punto di vista di entrambi, offre in cambio al figlio una gratificazione diversa: quella di esercitare il suo potere sui sentimenti materni14.
Questo esempio mi “piace” in modo particolare perché gli autori, con una sorta di ingenuo entusiasmo, non si vergognano di elogiare i pregi della manipolazione affettiva, sia per la sua efficacia nell’ottenere dagli altri ciò che si vuole attraverso il ricatto emotivo, sia per la gratificazione secondaria che offre, di sentirsi “bravo” agli occhi delle persone care. Un dettaglio fa però crollare il castello di carte su cui si regge questa ipotesi educativa: nessuno è responsabile dei sentimenti degli altri! I sentimenti sono generati da noi stessi e si originano dai nostri bisogni e dalle nostre aspettative, in base alle quali reagiamo con emozioni diverse nei confronti di ciò che succede intorno a noi. A pensarci bene, in effetti, il potere della colpevolizzazione si regge proprio sull’ignoranza di questo principio, e su una percezione distorta della responsabilità, dove chi colpevolizza tende a caricare sulle spalle degli altri la propria infelicità, mentre chi si sente in colpa può reagire mortificandosi (letteralmente: allontanandosi dal nucleo vitale di sé) oppure dando a sua volta la colpa agli altri e cercando fuori di sé la responsabilità della propria sofferenza, in un processo che perpetua la manipolazione emotiva.