CAPITOLO II

Come ti erudisco il genitore

Si prudente nei tuoi affari; perché il mondo è pieno di inganno. Ma questo non ti renda cieco a quanto c’è di virtuoso: molte persone lottano per alti ideali, e ovunque la vita è piena di eroismo1.

Un decalogo, probabilmente apocrifo, presente da molti anni su Internet, attribuito al linguista e filosofo Noam Chomsky, descrive molte tecniche attraverso le quali una determinata cultura cerca di manipolare e di distorcere la verità, in modi spesso molto efficaci2. Fra questi viene descritta la colpevolizzazione, la distrazione, l’ignoranza e la spinta al conformismo, il linguaggio puerile, la creazione di allarmismi e di pronte soluzioni. Queste ed altre strategie di condizionamento verranno illustrate in questo capitolo. Molte di queste le possiamo riconoscere nei messaggi che vengono mandati ogni giorno ai genitori dalle pagine dei libri, dal Web e dalle trasmissioni televisive. Con un sapiente dosaggio di lusinghe e di minacce, i genitori vengono portati per mano verso un’omologazione che ne faccia dei fedeli strumenti di trasmissione dell’ideologia e della visione culturale dominante, disconnettendoli dai loro bambini e dal loro intuito per farne perfetti consumatori di quegli oggetti che vanno a compensare il legame genitoriale perduto e il sostegno di una comunità viva e attiva intorno a loro.

Sovraccarico

Quando ho iniziato a occuparmi di allattamento e di cure materne, in italiano sull’allattamento c’erano solo tre libri, di cui uno introvabile. Oggi ci sono decine e decine di pubblicazioni. Di problemi del sonno non si parlava, e oggi è l’argomento più gettonato. Guide sullo svezzamento non ce n’erano, giusto qualche libricino di ricette. Allora sul bambino “ad alta richiesta” c’era solo un libro in inglese; oggi ci sono migliaia di occorrenze sui motori di ricerca. Ma soprattutto non c’era la rete, le madri si incontravano al parco o tramite rare associazioni come La Leche League (LLL)3, e ogni mamma aspettava con impazienza quel giorno del mese per confrontarsi con altri genitori, o la rivista LLL quattro volte l’anno, perché conteneva utili informazioni, suggerimenti e soprattutto testimonianze di altre madri. Se il problema dei genitori di 30 anni fa era quello di reperire informazioni, quello dei genitori di oggi è saper discernere, nella valanga di notizie, teorie, consigli, il vero dal falso, l’utile dall’inutile, il benefico dal dannoso. Forum, blog e infine i social hanno preso il posto del passaggio di informazioni e del sostegno da mamma a mamma, e decine di manuali e trasmissioni televisive pretendono di insegnare ai genitori come comportarsi in ogni situazione, per crescere figli sereni, educati e di successo.


Purtroppo questa mole di informazioni, teorie, metodi e consigli è contraddittoria e caotica, e gli algoritmi dei social e dei motori di ricerca aggiungono altre distorsioni alla circolazione delle informazioni, seguendo le leggi del marketing piuttosto che quelle dei bisogni dei genitori e dei bambini. Le conclusioni a cui giunge il vasto pubblico, spesso sprovvisto degli strumenti critici necessari per discriminare le informazioni basate sulle evidenze scientifiche da quelle pubblicitarie o dalle opinioni personali, sono che le teorie sono tante e tutte ugualmente vere o discutibili, che ciò che è spacciato come vero oggi sarà confutato domani e che “ognuno ha la sua verità”. Quali strumenti hanno i genitori per riuscire a discernere e scremare da questo oceano le informazioni rilevanti e attendibili che servono a loro? I pregiudizi, i falsi miti, le ideologie rischiano, grazie agli algoritmi dei social, di essere semmai potenziati ed enfatizzati. Tutti hanno da dire qualcosa ai nuovi genitori, ma nessuno sembra avere il tempo e l’interesse per ascoltarli, anche se l’ascolto sarebbe il presupposto per aiutarli a crescere e focalizzarsi meglio sui propri bisogni e percezioni, ed esprimere al meglio e in modo autonomo il loro potenziale.


L’inflazione delle informazioni, fenomeno tipico della società postindustriale, ha segnato un’importante evoluzione nei metodi di manipolazione di massa. Un tempo gli eventi, per diventare notizia, come gemme rare avevano bisogno di essere “scovate” da giornalisti simili a esploratori o detective della realtà; queste notizie poi venivano verificate, rielaborate e offerte, con parsimonia, agli utenti finali, che allora erano i lettori dei giornali e gli ascoltatori televisivi. Con l’accesso all’oceanico serbatoio di notizie e di voci che è Internet, ci si è trovati piuttosto di fronte al problema di saper distinguere, nella valanga di dati, quelle informazioni degne di venire prese in considerazione. Le figure chiave di questo processo diventano dunque i selezionatori di notizie. Come descrive in modo eccellente il giornalista Claudio Fracassi,


L’idea è che il flusso degli eventi diventi processo di comunicazione attraverso l’apertura o la chiusura di una serie di cancelli (gates), controllati da guardiani (gatekeepers) con funzione di filtro. Il fatto diventa notizia quando riesce a passare, di canale in canale, attraverso gli sbarramenti successivi4.


Questa ridondanza di voci e notizie fornisce l’illusione di una risorsa illimitata di informazione, ma nei fatti non è così. Perché fra i gatekeeper dei nostri tempi vi sono le grandi corporation che possiedono i principali motori di ricerca, gestiscono i maggiori social e controllano o influenzano, direttamente o indirettamente, le principali testate e agenzie di stampa. Quando emerge la necessità di un pensiero unico è sufficiente a questo punto applicare gli appropriati algoritmi e penalizzare pesantemente, attraverso fact checker “indipendenti” (che sono in realtà ulteriori gatekeeper del sistema), le voci autonome che trasmettono fatti e narrazioni divergenti dal pensiero unico. Gli utenti del Web, frastornati dalla soverchiante e contraddittoria danza delle informazioni, accolgono con sollievo questi autorevoli “guardiani della verità” e vi si affidano:


In un orizzonte in cui tutto rischia di confondersi e sparire sotto il peso delle immagini, in cui tutto diventa “relativo”, virtuale e prospettico, per capire che cosa sia vero e cosa falso è necessario fare riferimento a un’autorità esterna per avere rassicurazioni e sapere come orientare le proprie scelte. Da qua il tentativo di creare un’informazione certificata, ossia le notizie col bollino dei “professionisti dell’informazione”5.


Questo fenomeno, così pervasivo ai nostri giorni, è in atto da moltissimi anni, e anche nel campo della pedagogia i media ripropongono all’infinito sempre le stesse posizioni ideologiche, le stesse teorie pedagogiche e psicologiche, gli stessi teoremi sul vizio e sull’abitudine, fino a dare l’impressione ai genitori disorientati che non esistano altri approcci degni di attenzione e fiducia.

Chi detiene gli spazi di informazione ha il potere di sommergere gli utenti con una valanga di messaggi tutti uguali, e sopraffarli con la forza della ripetizione. Se viene ripetuta un numero sufficiente di volte, anche l’affermazione più assurda diviene convincente e reale.

Instillare insicurezza

La competenza dei genitori è un fiore che ha bisogno dei suoi tempi per schiudersi; e ha anche bisogno del calore e del nutrimento dell’ambiente che lo circonda per poter sbocciare pienamente. Troppo spesso, invece, questo ambiente si adopera per svalutare le capacità materne e paterne o ridefinire le convinzioni e le azioni dei genitori in termini squalificanti o riduttivi. Famiglia allargata, conoscenti, sconosciuti, esperti più o meno accreditati di varie discipline, tutti sono impegnati a interferire nella relazione diadica e cercare di aumentare il prima possibile la distanza fra madre e bambino, abbellendo e giustificando questi interventi contro natura.


Di continuo salta fuori l’aggettivo “troppo”: i bambini poppano “troppo” o “troppo a lungo”, le madri sono “troppo materne” e danno “troppo amore”. Ma come fa l’amore a essere troppo? se è troppo, non è amore. E soprattutto, chi decide che cosa è troppo? E ancora, troppo per chi?


Chi giudica quando una madre è “troppo” qualcosa? In quasi 40 anni dedicati all’affiancamento di mamme e bambini ho visto molto di rado quella che viene spesso definita, con le lenti della nostra cultura del distacco, intrusività, iperprotezione, ansia materna; ho visto piuttosto madri responsive che modellavano il loro comportamento su segnali comunicativi del bambino molto sottili e poco visibili a chi era esterno alla diade o comunque non abituato a leggere questo tipo di comunicazione intensa che c’è fra madre e figlio. E avendo avuto modo di seguire queste famiglie in un lungo arco di tempo, posso dire di non aver mai visto conseguenze nefaste (come si predice) per i bambini che sono stati accuditi con amore e senza imporre distacchi precoci; anzi, sono tutti cresciuti come bambini e poi adulti sereni, emotivamente solidi, capaci di trovare la loro strada, empatici e collaborativi, insomma proprio tutto il contrario del bambino fragile, insicuro, emotivamente fuso con la mamma, o dell’adolescente egocentrico e prepotente di cui tanto ci si preoccupa.


In modo impercettibile, giorno dopo giorno, si crea così in una mamma competente e felice il turbamento interiore, il dubbio di essere morbosa, nevrotica, di rispondere alle richieste del proprio bambino non tanto perché si è in sintonia con lui e perché lo si ama, bensì invece per motivi personali e non tanto sani. Si chiede subdolamente a questa mamma: Come fai a essere certa che sia tuo figlio a voler dormire nel lettone, e non tu che inconsciamente lo vuoi? Come fai a essere sicura di non stare abusando della sua fragilità e immaturità per impedirgli di crescere? Come puoi ignorare che nella nostra cultura vedere un bambino grande che poppa crea scandalo e reazioni negative? Sei egoista a esporre tuo figlio alla pubblica derisione! Insomma, come fai a essere sicura di non creargli danni?


Dubbi orribili molto difficili da confutare, e dato che si sta diminuendo la sicurezza materna di leggere correttamente i propri sentimenti e quelli del bambino... non si può più essere certi di nulla!


Questa logica al rovescio induce disorientamento, confusione, insicurezze e corrode l’autostima della madre, che si sente sempre più debole e incerta. Si può definire una forma di “gaslighting”, cioè un’opera sistematica di violenza psicologica volta a svalutare una persona e a farla dubitare delle proprie stesse percezioni6.

Domande retoriche

Un’altra forma di manipolazione è l’uso delle domande retoriche. Una domanda retorica è un’affermazione mascherata da domanda. Esempio: “Vuoi fare il bene di tuo figlio o vuoi farti tiranneggiare da lui e crescerlo fragile e insicuro?” Chi chiede non vuole avere una risposta, perché si sottintende che nessun genitore voglia far crescere il figlio fragile e insicuro, né voglia farsi tiranneggiare da lui. Di fatto, la domanda è retorica e nasconde un’affermazione: Ti stai facendo tiranneggiare da tuo figlio e lo crescerai fragile e insicuro e un messaggio di relazione: Io so meglio di te come si educano i figli, ti sto avvisando che tu sbagli e faresti bene a seguire i miei consigli.


Rientrano in questa categoria anche le false opzioni: “Preferisci il ciuccio anatomico o quello a ciliegina?” Si suggerisce che si è liberi di scegliere, ma la necessità di dare il ciuccio, in sé, non è messa in discussione. Altri esempi: “Non sarebbe meglio comprarle una bambola, invece di un trenino?” Ecco un’affermazione mascherata: Il giocattolo che hai scelto per tua figlia è inadatto per lei. “Perché non lo mandi al nido per qualche ora al giorno, in modo che si abitui a stare con altre persone?” Traduzione: Se non lo mandi al nido non si abituerà mai a stare con altri; ti sta monopolizzando. “Quando smetterà questa bambina di dormire nel letto dei genitori?” Ovvero: È troppo grande per dormire ancora nel lettone. “Sei forse un bambino piccolo che vuoi ancora andare in braccio?” Qui ci si rivolge direttamente al bambino per sminuirne i bisogni e insinuare che non ha più l’età per farsi coccolare. “I bambini hanno tanti bisogni, è vero, ma ai bisogni della mamma chi ci pensa?” Risposta sottintesa: Nessuno ci penserà, sei tu che devi difendere il tuo benessere, anche a volte a scapito delle richieste di tuo figlio. “È meglio un bambino allattato al seno e una mamma esaurita, oppure un bambino con il biberon e una mamma serena?” Altra domanda retorica, basata su una falsa alternativa, come se per il problema non ci fossero altre soluzioni.


Tutte queste false domande o consigli sono giudizi mascherati; non implicano il desiderio di una risposta da parte dell’interlocutore. A chi fa queste domande non interessa che cosa il genitore pensa o sente, o perché sia arrivato a scegliere una strada invece che un’altra: interessa solo perorare la sua idea e convincerlo a conformarsi alla propria visione delle cose.


Per un genitore è logorante dover fare fronte a questo fuoco di fila di osservazioni e domande che sono in sostanza un sistematico giudizio, una disapprovazione e messa in dubbio delle competenze e delle scelte dei genitori. Ancora più difficile quando di fronte non hai una persona che ti dice chiaro e tondo “Stai sbagliando, il modo giusto è questo che ti dico io”, ma un individuo che apparentemente ti chiede cosa ne pensi e si mostra interessato a te e al tuo bambino.

Frasi generiche

Più un’affermazione è generica, più si presta a diventare la proiezione di ciò che l’ascoltatore vuole che sia. Ciascuno la leggerà a suo modo e a suo piacimento, e potrà rispecchiarvisi; così è facile raccogliere consensi anche da persone che, in realtà, la pensano in modi lontanissimi fra di loro.


“Tutti i genitori desiderano il meglio per i loro figli”: non c’è alcun dubbio!

“Con una guida amorevole, ogni bambino imparerà il rispetto del prossimo”: ecco, è proprio quello che voglio fare!

“Ogni genitore si trova in certi momenti nel dubbio se dire di sì o di no a suo figlio”: sono io, proprio io!


Una volta conquistato il cuore dei genitori, sarà facile portarli a seguire consigli “pratici” più dettagliati, persino quando questi vanno contro i loro princìpi, perché si saranno convinti che lo si fa per una “buona causa”.


Un popolare manualetto che promette di risolvere tutti i problemi di sonno dei bambini piccoli impiega le prime 20 pagine a descrivere, in modo umoristico ma penoso insieme, il travaglio delle notti in bianco, dei risvegli notturni del neonato, dei disperati tentativi fatti per seguire i discordanti consigli di esperti e amici. E infine, dopo aver portato i genitori sfiniti a riconoscersi in questo quadretto (e a sentirsi ancora più disperati di quando hanno iniziato a leggere), conclude con una smagliante promessa:


Quel che succede non è colpa vostra. Semplicemente, non ha ancora acquisito l’abitudine al sonno. Proprio per questo pretendiamo immodestamente di insegnarvi con il presente volume, che aspira ad assumere il ruolo di manuale delle istruzioni per il sonno infantile7.


E ricordiamo che più una spiegazione è fantasiosamente assurda, più si ha difficoltà a contestarla, per cui è più facile che la mente vada in “tilt”. Per esempio, mettiamo che si sostenga che la crisi economica sia causata dal fatto che paghiamo troppo poche tasse: facile contestare! Ma se si sostiene che è causata da un complotto di alieni che si camuffano fra noi, difficile dimostrarne scientificamente l’assurdità!


Se il messaggio è vago e astratto, oltre a “penetrare” meglio, potrà anche diventare un modo per giustificare e rafforzare persino il consiglio più insensato. “I bambini necessitano di rispetto del loro bisogno di autonomia”; “In ogni cosa ci vuole equilibro e l’estremismo va evitato”, “Tu sai cosa è meglio per il tuo bambino” (salvo far seguire queste affermazioni dal consiglio “giusto”).

Truismi e mezze verità

L’arte della retorica è sottile e potente. Si possono trascinare gli ascoltatori dove si vuole, sapendo quale “musica” suonare. Uno dei metodi più efficaci è far precedere il messaggio manipolatorio da una serie di considerazioni accattivanti e ovvie (truismi), a cui non si può, in cuor proprio, che dire di sì. Quando a una serie di affermazioni alle quali non si può che convenire si fa seguire un’altra affermazione assurda e infondata, c’è un effetto di “trascinamento” per cui l’ascoltatore tende ad accettare anche quest’ultima affermazione, avendo abbassato le difese e il senso critico.


Esempio: “Al giorno segue sempre la notte; alla primavera segue sempre l’inverno; anche la rosa più bella a un certo punto sfiorisce; e anche l’età della tenerezza prima o poi deve finire”. Una strategia simile a quella dei truismi è fare una serie di affermazioni in sé ragionevoli, collegandole con un apparente nesso logico, mentre invece si tratta di fatti del tutto scollegati fra loro. In questo modo si crea l’idea che certe cose siano “causa” o “conseguenza” di certe altre, quando non è affatto così.


Ad esempio, una rivista “illuminata” di pediatria pubblica l’ennesimo articolo sui genitori deboli che crescono figli viziati, e sulle madri che allattano a “oltranza” per loro problemi psicologici. Allattare oltre i primi mesi sarebbe insomma un’esigenza delle madri e non dei bambini. In risposta alla lettera di protesta di una madre, la rivista risponde che per fortuna nella maggior parte dei casi l’allattamento non incontra problemi; ma a volte la relazione è “disturbata” e l’allattamento “prolungato” è il campanello d’allarme e una causa (magari non la sola) del problema di relazione.


Quando in un periodo ci sono due frasi collegate, la congiunzione “MA” che introduce la seconda frase la enfatizza, cioè quello che sta dopo il “ma” è sempre l’affermazione più importante. Se proviamo ad invertire le due frasi: “A volte la relazione è disturbata, ma nella maggior parte dei casi l’allattamento non incontra problemi”, ecco che la cosa suona in modo del tutto diverso!


Un altro articolo mostra in modo esemplare come, giocando con le parole, si possa manipolare il genitore facendo leva sulle sue ansie, sensi di colpa e desiderio di far bene. In questo caso si offrono “consigli” su come gestire bambini particolarmente esigenti o insofferenti. L’articolo procede piuttosto bene finché è nella sua parte descrittiva. Vi sono una serie di truismi, cioè di affermazioni ovvie, condivisibili, apparentemente innocue, proprio perché si limitano a descrivere una situazione frequente, in cui i genitori possono riconoscersi e convenire come vera. Si ribadisce più volte l’intento di non biasimare questi bambini, definiti “con bisogni intensi”, di non connotare in maniera negativa il loro modo di essere. In questo modo si conquista il consenso e l’interesse del genitore, che spera di trovare nell’articolo le risposte che sta cercando alle sue difficoltà; in particolare, il testo risulta accattivante proprio per quei genitori che non sono inclini a un approccio coercitivo o distaccato, ma al contrario sono naturalmente empatici e solleciti a rispondere ai segnali del bambino.


Una volta “accattivato” il genitore (l’etimologia della parola significa “fatto prigioniero”), si fa però seguire alla serie di affermazioni positive la propria visone, che è tutt’altro che empatica e non giudicante, e non si discosta affatto dagli stereotipi della pedagogia nera: il bambino con bisogni intensi va modellato per conformarsi allo standard di bambino che non chiede troppo ai suoi genitori, e questi ultimi devono anche loro conformarsi allo standard del genitore che resiste all’istinto di rispondere “troppo” alle sue richieste.


Ecco quindi la caduta verticale dell’articolo nel momento in cui l’autore passa ai consigli, che altro non sono se non il solito suggerimento di lasciar piangere il bambino da solo nella sua stanza, indicazione che sarebbe risultata inaccettabile al genitore, se proposta senza l’effetto di “trascinamento” dei truismi della prima parte dello scritto.


In questo genere di articoli si prospettano a volte conseguenze angosciose, come nevrosi infantili, esaurimenti nervosi materni, patologie psichiatriche, dipendenze o comportamenti delinquenziali nell’adolescenza, se i genitori non seguiranno i consigli dati. In un subdolo crescendo, con un linguaggio dolce solo in apparenza, si ridefiniscono i comportamenti del bambino, negando però la legittimità dei suoi bisogni, svuotando di significato i chiarissimi segnali con cui li esprime, anzi insinuando che il bisogno del bambino sia proprio quello che le sue richieste vengano ignorate. Frasi come “Lasciamolo prendere dolcemente la sua paura” e “Che il bebè sia in grado di gestire le sue emozioni con autonomia”, sarebbero inaccettabili se i genitori non fossero stati sedotti in precedenza dalle affermazioni ovvie, rassicuranti e gentili che le hanno precedute. L’assenza di risposta da parte dei genitori viene a questo punto ridefinita come un atto educativo positivo, suggerendo che il bambino sia in grado di superare l’angoscia da solo (piuttosto falso) e anzi abbia bisogno di essere lasciato solo per sviluppare competenza nel gestire le sue emozioni (falso) e che da solo la sua paura possa in qualche modo essere assunta gradualmente, dolcemente, come se la presenza dei genitori potesse invece in qualche modo amplificarla (falsissimo).


Molti manuali e trasmissioni televisive utilizzano queste tecniche per rinforzare il solito paradigma della pedagogia nera, ma mascherandolo abilmente o mimetizzandolo all’interno di una serie di affermazioni esteriormente amorevoli e piene di buone intenzioni. Sono discorsi molto pericolosi, perché accostano affermazioni ovvie e condivisibili con suggerimenti terribili, privi di empatia e coercitivi, ma mascherati da “buon senso”. Queste forme retoriche estremamente manipolatorie nei confronti dei genitori li spingono a desintonizzarsi dal bambino, non ascoltare i propri istinti e sentimenti e attenersi a regole piovute dall’alto.

Normalizzare la patologia

Che cosa significa “normale”? Questa parola viene usata per esprimere due concetti che, di fatto, sono molto differenti.


Da un lato, normale può significare ciò che è naturale, fisiologico. In questo senso, che un bambino si svegli la notte nei primi anni di vita, che chieda il seno, che cerchi il contatto, è normale, non è segno di una qualche alterazione o discostamento dalla fisiologia.


Dall’altro lato, normale può significare ciò che avviene più di frequente, ciò che si ritiene sia la regola, ovvero fa riferimento a uno standard omologato al pensiero comune. In questo senso, è normale che il bambino venga svezzato dal seno al massimo a sei mesi e che ciò avvenga anticipando a qualche settimana prima l’introduzione dei cibi solidi, che dorma da solo e che non chiami il genitore la notte. Questi standard, che non sono affatto fisiologici né naturali per la specie umana, vengono insomma presentati come normali e auspicabili, solo perché sono la norma culturale; la fisiologia diventa, a questo punto, “anormale”, e seguirla è una bizzarria; si consiglia ai genitori di adoperarsi per correggere queste situazioni e riportarle alla “norma”.


I risvegli notturni del neonato, ad esempio, vengono presentati come un “difetto” che si aggiusterà con il tempo, l’effetto di un’immaturità che “guarisce” con lo sviluppo. Si propone come standard fisiologico uno schema facile e progressivo, prima 8, poi 10 e alla fine 11 ore di sonno notturno ininterrotto; modelli di progressione lineare che piacciono tanto alla nostra società, ma che sono del tutto fantasiosi. Allo stesso modo si definisce quanto un bambino “dovrebbe” crescere, oppure la quantità di latte per poppata che “dovrebbe” assumere (sempre crescenti); il numero di poppate giornaliere che “dovrebbe” fare (sempre decrescenti fino ad arrivare a 4-5 poppate a quattro mesi, da sostituire una alla volta con un pasto di pappette); la quantità di cibo che dovrebbe mangiare in un pasto solido; e così via. Che belli gli schemini, facili da ricordare, rassicuranti, semplici. Ma la biologia e la fisiologia invece sono faccende complesse, mutevoli, si manifestano in modo flessibile perché si adattano alle variazioni esterne, ambientali, e a quelle interne, dell’individuo; e richiedono una risposta altrettanto flessibile da parte di chi accudisce il bambino, con buona pace del bisogno dell’adulto di semplificarsi la vita.


Molti comportamenti del bambino definiti come “normali” sono in effetti solo reazioni di un organismo sano a una situazione avversa. Quando tale situazione diviene abituale, la reazione del bambino diviene così frequente da essere considerata normale. Un esempio tipico è quello del pianto. Le statistiche dicono che nel mondo occidentale un totale di tre ore di pianto al giorno è considerato fisiologico e normale; ma in altre culture, più improntate a un contatto e a un accudimento costante, non viene considerato normale che un bambino pianga per più di pochi minuti. Un altro esempio tipico è l’andamento del sonno del bambino. Quasi tutti gli studi sul sonno sono fatti su bambini che dormono nelle loro culle e spesso in una stanza diversa da quella dei genitori. In queste situazioni spesso il bambino si adatta a restare quieto e rifugiarsi nel sonno, soprattutto se ai suoi pianti non viene data pronta risposta perché, appunto, ai genitori viene detto che è “normale” che il bambino pianga “un po’ di tempo” prima di calmarsi. Si crea così l’aspettativa che un sonno profondo e prolungato sia la fisiologia, quando invece si tratta di una risposta di sopravvivenza del neonato che si trova nella anomala situazione di essere separato dalla madre durante la notte.


Ridefinendo ciò che è comune e frequente come “normale”, si ottiene la ridefinizione positiva di comportamenti che, di fatto, sono viceversa di potenziale negligenza e maltrattamento, come la mancata risposta ai bisogni fisici ed emotivi del bambino. Tali approcci vengono descritti come comportamenti amorevoli e di cura, effettuati “per il bene del bambino”: una frase che insinua l’idea che il bambino non sappia di cosa ha veramente bisogno, mentre l’adulto invece sì.


Si dipinge un modello di bambino normale che è idealizzato e del tutto scollato dalla realtà e dalla fisiologia, e si spinge l’adulto a incredibili forzature della natura del bambino, per comprimerlo entro questo modello, sempre per il suo bene e per la sua felicità. Si introduce in modo mistificatorio il concetto di bambino “sereno” laddove si sta descrivendo solo il bambino addomesticato e rassegnato alle imposizioni degli adulti.


Nessun genitore si troverebbe a concordare con chi affermasse: “I bambini sono piccoli mostri, che non hanno diritto all’amore e alla tenerezza ma solo a essere raddrizzati e piegati al volere degli adulti perché devono capire chi comanda e diventare dei docili soldatini; quindi non bisogna avere pietà per i loro pianti e mai consolarli nel loro dolore o paura prendendoli in braccio o allattandoli”. Un tale quadro dipinge genitori insensibili, crudeli e incompetenti a prendersi cura del bambino, e nessun adulto sano di mente vorrebbe assomigliare a loro.


Ma poniamo che il messaggio sia: “Tutti noi vogliamo che i bambini crescano sereni ed equilibrati, il mestiere di genitore è impegnativo ma fondamentale nel guidare il bambino con rispetto per i suoi ritmi e bisogni, e quindi occorre che l’adulto impari a comprendere i veri bisogni del bambino al di là dei capricci e lo aiuti a raggiungere la sua routine personale, incoraggiando ritmi fisiologici dei pasti e del dormire, senza confonderlo con risposte caotiche, sostenendolo con dei limiti chiari, e soprattutto rispettando il suo bisogno di autonomia: quindi mai prenderli in braccio o allattarli al primo pianto”. Ecco, in questo caso la reazione dell’ascoltatore sarà di identificarsi in questi buoni genitori e per trascinamento assimilerà acriticamente e farà suo anche il suggerimento finale. Eppure stiamo parlando sempre dello stesso modello di approccio, l’approccio distaccato; solo, nel secondo caso, abbiamo addolcito la pillola, abbellito i fatti, normalizzato un comportamento antifisiologico e coniato nuovi termini che evocassero cura e sollecitudine, e nello stesso tempo dipingendo un illusorio risultato di “soluzione del problema”.

Anormalizzare la fisiologia

Nonostante lo stravolgimento di prospettiva che fa diventare standard ciò che è artefatto e lontano dalla fisiologia, le pratiche più vicine al continuum biologico della specie umana, come allattare, portare addosso i propri figli, essere costantemente in contatto, dormire insieme, partorire naturalmente, sono in aumento in tutti i Paesi industrializzati. Stanno insomma lentamente riguadagnando popolarità, e vengono quanto meno considerate una possibile opzione. Questo processo di recupero della norma fisiologica viene però osteggiato dalla cultura del distacco, che regolarmente ignora tutti i genitori sani che praticano un accudimento prossimale, e di questi approcci va a ricercare solo i casi più estremi, eccessivi o bizzarri, per metterli in ridicolo.


La nostra società ha barattato il naturale con il normale. Mentre il bambino naturale è quello che segue la fisiologia, le sue aspettative biologiche e psicologiche, quello normale è un’astrazione basata su un modello teorico che nella migliore delle ipotesi ha a che fare con la statistica, e nella peggiore con ideologie lontanissime dai bisogni di mamme e bambini, lontanissime dai bisogni umani. E così, paradossalmente, a chi segue l’ideologia dominante, la fisiologica quotidianità della mamma e del neonato appare strana, sconosciuta, sbagliata. Le normali cure del cucciolo umano, ad esempio, vengono dette “prossimali” perché comportano la vicinanza e il contatto continuo. Ma portare addosso, allattare a richiesta, condividere il sonno, tutto questo dovrebbe essere definito “normale contatto” e non, come avviene, “alto” contatto. Dovrebbe essere l’approccio distaccato, che tende a separare, dividere, controllare, a essere definito “a basso contatto”!


In particolare, grande è la responsabilità dei media nel mantenere vivi i pregiudizi e crearne di nuovi, tacendo sulla stragrande maggioranza delle famiglie felicemente e normalmente ad “alto contatto”, e mettendo invece sotto i riflettori i casi limite, reali o creati ad arte. Ed ecco una “ricetta” su come “anormalizzare” la fisiologia per difendere la cultura omologata (e ricavarne anche dei vantaggi):

  1. prendere una pratica che rispetta la fisiologia (ad esempio: parto attivo; allattamento al seno a richiesta e/o a termine; alimentazione complementare a richiesta; sonno condiviso; portare i bambini in fascia);
  2. associarla a comportamenti bizzarri o estremamente insoliti (anche se non necessariamente nocivi o disfunzionali) o riportare il caso più estremo della gamma fisiologica (ad esempio il record di durata di allattamento a termine, il lettone più grande al mondo, la donna che porta in fascia contemporaneamente tre gemelli e un gatto, il bambino che a un anno non mangia ancora nulla a parte il latte materno, il parto non assistito in cima all’Himalaya);
  3. riportare il parere di un “esperto” appartenente alla cultura omologata, che associa tali comportamenti a condizioni o conseguenze disfunzionali o patologiche;
  4. generalizzare questi comportamenti “di nicchia” come fossero lo standard della relativa pratica fisiologica;
  5. scriverne con toni derisori o allarmistici su una pagina “giornalistica” online dotata di congrui spazi pubblicitari;
  6. linkare tale pagina sui social, istigando i commenti;
  7. lasciare che si scateni l’inferno; raggranellare le condivisioni e i click.

I genitori che si prendono cura del loro bambino rispettando i suoi tempi, che allattano un bambino non più neonato e che mangia felicemente a tavola con tutta la famiglia, che hanno partorito a casa con assistenza ostetrica o che condividono il letto in sicurezza con i loro bambini, senza fare nulla di bizzarro o fuori dai canoni, protesteranno invano sui social: da quel momento in poi verranno associati ai terrapiattisti o ai seguaci di qualche setta new age.


Contro questo processo diffamatorio c’è un solo antidoto:

  • non cliccare sulla pagina
  • non condividere la pagina
  • non commentare
  • ignorare l’articolo
  • ignorare l’intera faccenda.

Madri, padri e bambini ve ne saranno grati!

Disease Mongering

Un processo cardine nelle società postindustriali è la creazione di prodotti e servizi sempre nuovi che possano essere commercializzati. Nel vasto campo dell’infanzia, e in quello della salute in generale, questo si attua attraverso la trasformazione in “problemi” di semplici processi fisiologici, tappe di crescita, normali comportamenti del bambino. Problemi che richiedono soluzioni. In ambito sanitario, questo fenomeno viene chiamato disease mongering8, che potrebbe essere tradotto all’incirca come “mercificazione della malattia”. Esso consiste nel creare definizioni di nuove malattie, in modo che fra i potenziali consumatori, ridefiniti come ammalati o a rischio, nasca il desiderio dei nuovi trattamenti che si ha bisogno di commercializzare.


L’idea che a ogni sfida nel percorso dei genitori si possa rispondere con una soluzione facile è attraente; a tutti noi piacerebbe avere una strategia semplice e veloce per risolvere ogni cosa che più o meno ci preoccupa! E se il prodotto offerto è utile e facilita la vita dei genitori, si potrebbe dire, tanto meglio! Ma che dire di una soluzione che viene creata prima della definizione del problema che dovrebbe risolvere?


Il disease mongering realizza il sogno di Henry Gadsen, direttore della casa farmaceutica Merck: produrre farmaci per le persone sane. Questo obiettivo si raggiunge con un processo capillare di influenzamento delle masse che segue i seguenti passaggi:

  1. inventare la malattia: è il processo già descritto di anormalizzare la fisiologia. Fenomeni normali del nostro corpo, oppure patologie blande e irrilevanti, vengono portate all’attenzione descrivendole come una patologia da curare, suscitando in persone sane la percezione o il timore di essere affette dalla “malattia”;
  2. instillare la paura: dipingere la “malattia” in modo angosciante, ingigantendone i sintomi e suggerendo che possa originare gravi e permanenti conseguenze per la salute;
  3. fornire dati allarmanti: descrivere il sintomo o la condizione ingigantendone la frequenza o la diffusione;
  4. inflazionare la diagnosi, promuovendo campagne “di prevenzione” che spingano, o anche obblighino, la popolazione a ricercare pareri di specialisti ed esami diagnostici: questo inserisce i soggetti-bersaglio della campagna in un processo che porta prima o poi a medicalizzare anche chi è in perfetta salute;
  5. offrire la salvezza quando il panico è dilagato, prospettando una soluzione miracolosa, una terapia in grado di risolvere in modo semplice e definitivo ogni problema, laddove ogni altro rimedio ha fallito.

Fanno parte ad esempio del processo di disease mongering gli infiniti controlli diagnostici, visite specialistiche e screening preventivi del periodo perinatale, ormai diventati routine e che, presentati come prevenzione di innumerevoli patologie, non fanno altro che accrescere a dismisura la percezione del rischio e aumentare ansie e insicurezze dei genitori.


Nel mondo della puericultura questo schema è stato usato più e più volte nel tempo, trasformando fenomeni normali e fisiologici in problemi e proponendo poi prodotti o metodi per “risolverli”. Si pensi, fra i tanti esempi, a:

  • prodotti e metodi per “far dormire il bambino” (ricordiamo che nei primi anni in realtà i risvegli notturni sono del tutto fisiologici);
  • integratori per far produrre alla mamma “più latte” (superflui, inefficaci, costosi e più volte condannati dal garante per la pubblicità);
  • cibi per la “prima infanzia” (inutili e costosi) concepiti per supplire a ipotetiche carenze e rischi del cibo preparato in casa;
  • prodotti “igienizzanti” concepiti per dare l’illusione di sterilizzare tutto ciò che viene a contatto con il bambino, per scongiurare i presunti pericoli dei batteri ambientali;
  • alcuni approcci di certi corsi a pagamento, nonché costosissimi frullatori e omogeneizzatori, per esorcizzare la paura che il bambino in fase di svezzamento si soffochi mangiando.

Si inserisce in questo processo di mercificazione di malattie inventate anche tutto l’armamentario di oggetti nati per supplire a un mancato accudimento collettivo del bambino. La mamma, non più parte di una famiglia estesa ma rinchiusa da sola in un appartamento, non ce la fa a essere disponibile 24 ore al giorno sette giorni su sette, e questa umana impossibilità viene presentata come inadeguatezza personale o richiesta eccessiva del bambino, insomma come un “problema” individuale da risolvere. Ed ecco apparire ciucci, girelli, tappeti attrezzati come “centri attività” per il bebè, baby citofoni, lettini autocullanti, applicazioni e video musicali per bambini che a stento sanno stare seduti da soli.


Negli ultimi due anni abbiamo assistito a un’applicazione del processo di disease mongering su scala planetaria. Con un martellamento mediatico senza precedenti, per due anni ci sono state snocciolate più volte al giorno cifre, simili a un bollettino di guerra e totalmente avulse dal contesto, di positivi, ricoverati e morti.


I cinque passi del disease mongering sono stati tutti abbondantemente rappresentati:

  1. la creazione della malattia, equiparando arbitrariamente la risposta positiva a un tampone con uno stato di “malato asintomatico”, da sottoporre a misure radicali. Questo slittamento nella percezione ha trasformato individui sani in malati pericolosi9.
  2. la diffusione della paura, con l’enfasi quotidiana sulle storie più drammatiche e la minimizzazione dei dati positivi delle terapie precoci messe in atto sul territorio;
  3. l’allarmismo statistico, con il bollettino quotidiano di cifre di tamponi, casi, guarigioni, ricoveri e morti;
  4. l’epidemia di diagnosi, trasformata in obbligo costante di test e di certificati per poter condurre una vita tutt’altro che normale;
  5. il rimedio salvifico, incarnato dalla monocorde campagna vaccinale, proposta come soluzione unica, semplice e finale, laddove un reale approccio per fronteggiare una pandemia non può che essere complesso e variegato, basandosi su un potenziamento della medicina territoriale, dei presidi ospedalieri, della formazione medica continua, della ricerca sul campo e in laboratorio, della promozione delle pratiche di salute di base dei cittadini, della messa a punto di soluzioni multiple di prevenzione e cura.

Conformare i genitori

Il biasimo e i giudizi moraleggianti sono una potente spinta verso il conformismo, uno strumento per mantenere nel tempo, da una generazione all’altra, il sistema di valori di una certa cultura. Nella nostra società, così spesso ostile alla gentilezza e all’intimità, avviene paradossalmente che i genitori vengano biasimati proprio nei loro naturali slanci di tenerezza e di amore incondizionato, perché questi gesti e questi impulsi, che sono in linea con i processi naturali, si scontrano con i costrutti che, come si è già descritto, anormalizzano la fisiologia.


Soluzioni gradevoli, che semplificano la vita, che rendono tutti felici, sembrano essere particolarmente in odio a una certa cultura della sofferenza, che vede invece nella frustrazione e nella lotta il percorso migliore per “temprare” il carattere. I genitori vengono esortati ad andare contro i loro istinti, a “resistere alla tentazione di essere troppo” buoni, comprensivi, amorevoli, solleciti, teneri o qualsiasi altra qualità che, per una certa ideologia militaresca, suona come segno di debolezza o di fragilità. È il caso dei genitori di bambini piccolissimi che hanno trovato, anzi costruito insieme, un equilibrio notturno fatto di vicinanza, coccole, sicurezza, benessere, comodità, nutrimento e amore, in cui tutto funziona a meraviglia, eppure vengono rimproverati da persone ben intenzionate o incontrano reazioni perplesse ed esortazioni a cambiare, per “prevenire” presunte conseguenze negative del loro stile di accudimento. Questi falsi consiglieri irrompono sulla scena come guastatori, cercando di riparare ciò che invece sta funzionando bene. I genitori vengono rimproverati per un gesto di cura o di tenerezza, si predicono loro disastri psicologici, mentre senza remore e senza tremare vengono consigliate loro azioni, quelle sì, davvero traumatiche, come lasciar piangere il bambino o imporgli il distacco forzato durante la notte.


Cosa succede al bambino sottoposto a questo tipo di trattamento? Mentre da un’osservazione esterna notiamo che dopo un periodo di pianto più o meno prolungato il bambino si acquieta e alla fine si addormenta, facendo sembrare che il metodo “funzioni”, se si rileva però il livello di cortisolo (l’ormone dello stress) di quel bambino nella fase di “calma” notiamo che esso rimane molto alto, dimostrando che quella serenità è solo apparente10. Bisogna dire che, sempre in base allo stesso studio, anche nei genitori, in particolare le madri, il cortisolo raggiunge livelli molto alti nella fase in cui il bambino piange. Lo stress dei genitori non nasce solo dal sentir piangere il proprio figlio, ma è anche e soprattutto generato dal farsi violenza per non accorrere, perché a questi genitori è stato detto che consolare il bambino gli potrà creare un danno futuro ben più grave. Ma il cortisolo, dopo, nei genitori scende quando il bambino smette di piangere, perché la pedagogia nera offre una spiegazione falsamente rassicurante: il bambino ha imparato a calmarsi da solo e ora dorme più sereno e più forte interiormente. Gli adulti, facendo propria questa mistificazione, si conformano al pensiero corrente, e saranno in futuro più riluttanti ad accettare spiegazioni diverse e ad accogliere le informazioni che dimostrano l’importanza del contatto e della risposta al pianto i bambini: questo infatti rievocherebbe in loro lo stress doloroso provato in passato, rinnovando il senso di colpa.


Tutti noi genitori lo abbiamo provato prima o poi: il sapore guasto di aver fatto soffrire nostro figlio o nostra figlia in nome di un principio educativo astratto, reprimendo il nostro istinto di abbracciarlo e consolarlo, perché nella nostra testa una voce ci ripeteva che era per il suo bene. E ci abbiamo anche creduto per un po’: in fondo, la tecnica aveva funzionato. Il bambino aveva pur smesso di… (qualunque cosa di non adeguato stesse facendo). Volevamo crederci con tutte le nostre forze, ma la connessione era persa e qualcosa, proprio in fondo alla nostra consapevolezza, ci diceva che quella era invece l’unica cosa importante.


Non sempre, per fortuna, i genitori danno retta a questi consigli senza cuore. Queste pressioni colpevolizzanti tuttavia avvelenano la loro gioia nell’accudire con amore e sensibilità i figli, tanto che spesso finiscono per sentire il bisogno di scusarsi e giustificarsi, con frasi come: “Lo so che sbaglio, ma…” (…l’ho preso in braccio perché piangeva troppo, lo allatto ancora, l’ho preso nel lettone con noi).

La trappola del senso di colpa

Il senso di colpa è un sentimento di disistima nei confronti di se stessi, alimentato dalla convinzione di aver fatto, pensato o provato qualcosa che invece, secondo un modello ideale, non si sarebbe dovuto fare, pensare o provare. Si basa quindi su una forma di giudizio. Marshall Rosenberg, psicologo e padre della Comunicazione non violenta, definisce l’approccio basato su giudizi moralistici come una forma di comunicazione che “aliena dalla vita”,


…un linguaggio pieno di parole che classificano e creano dicotomie fra le persone e le loro azioni. Quando parliamo questo linguaggio, giudichiamo gli altri e il loro comportamento, e ci preoccupiamo di decidere chi è buono, chi è cattivo, chi normale, chi anormale, chi responsabile, chi irresponsabile, chi sveglio, chi ignorante, eccetera11.


Sebbene l’intento di questo modo di comunicare sia quello di “aggiustare” ciò che non va bene, l’effetto ottenuto è generalmente l’opposto di quello voluto. Un linguaggio giudicante, che sia diretto al prossimo oppure verso se stessi, risulta sempre alienante, nel senso che divide e allontana da ogni slancio sincero dell’anima, spinge alla difensività e all’opposizione, mortifica e svilisce la fiducia nelle capacità di migliorare. Sempre dallo stesso autore:


Paghiamo un caro prezzo quando le persone rispondono ai nostri valori e bisogni non perché desiderano dare dal cuore, ma perché hanno paura, si sentono in colpa o provano vergogna. Prima o poi, subiremo le conseguenze della minor simpatia proveniente da coloro che si conformano ai nostri valori perché si sentono internamente o esternamente costretti a farlo. Anch’essi, poi, pagheranno un prezzo emotivo, perché probabilmente proveranno risentimento e minor autostima quando si adeguano alla nostra volontà per paura, per senso di colpa o per vergogna12.


Il senso di colpa quindi è una trappola che paralizza l’individuo fra il “dover essere” in un certo modo e il sentirsi “incapace di essere” in quel modo, proprio a causa del giudizio negativo ricevuto. Quando il senso di colpa viene poi indotto sulla base dei sentimenti “buoni o cattivi”, diventa un vero e proprio ricatto morale e una forma di manipolazione particolarmente potente e subdola. Molti manuali per genitori sono imperniati su idee moralistiche e suggeriscono modi per far pressione sui bambini attraverso approcci giudicanti (prediche, rimproveri, punizioni), con l’intento di farli sentire in colpa e con la speranza di indurli a cambiare comportamento e persino modo di sentire.


Prenderò alcuni esempi tratti da uno di questi libri, sottolineando che si tratta solo di uno fra numerosi simili, di cui alcuni anche recenti. In questo libro, scritto da uno psicoterapeuta e un’insegnante, si parte dal presupposto, tipico della pedagogia nera, che l’indole dei bambini sia fondamentalmente cattiva e abbia bisogno di essere corretta e indirizzata per non prendere “una brutta piega”.


Prima dei quattro o cinque anni non aspettatevi alcun senso morale; tra i cinque e i sette il bambino guarderà con sospetto le varie regole di comportamento che gli metterete davanti; dopo gli otto, avendo acquisito una maggiore esperienza della vita, avrà sempre meno dubbi. (...) Tutti i bambini si comportano male di tanto in tanto: è perché sono inesperti ed egoisti; è naturale che sia così13.


Il metodo principale suggerito ai genitori per orientare il bambino verso il “giusto” modo di vedere le cose, è la colpevolizzazione attuata responsabilizzando pesantemente il bambino riguardo ai sentimenti degli altri. In quest’altro brano si descrive una situazione in cui il bambino chiede alla mamma un giocattolo che lei non ha intenzione di comprargli:


Mamma: La tua insistenza mi dà un grosso dispiacere. Non vorresti invece fare qualcosa che mi renderebbe felice? Bene, allora rimetti l’automobile dove l’hai presa.

Alfredo: Ma se la riporto sarò io a star male.

Mamma: È vero, ti dispiacerà di non averla, ma sarai contento di aver fatto qualcosa di tanto gentile per me.


Gli autori commentano:

La mamma, gentilmente ma senza cedimenti, riesce a far capire ad Alfredo come si sente e lo aiuta ad accettare l’ingiustizia intrinseca nel fatto di imporre ad altri sentimenti che non vorrebbero provare. Senza perdere d’occhio il punto di vista di entrambi, offre in cambio al figlio una gratificazione diversa: quella di esercitare il suo potere sui sentimenti materni14.


Questo esempio mi “piace” in modo particolare perché gli autori, con una sorta di ingenuo entusiasmo, non si vergognano di elogiare i pregi della manipolazione affettiva, sia per la sua efficacia nell’ottenere dagli altri ciò che si vuole attraverso il ricatto emotivo, sia per la gratificazione secondaria che offre, di sentirsi “bravo” agli occhi delle persone care. Un dettaglio fa però crollare il castello di carte su cui si regge questa ipotesi educativa: nessuno è responsabile dei sentimenti degli altri! I sentimenti sono generati da noi stessi e si originano dai nostri bisogni e dalle nostre aspettative, in base alle quali reagiamo con emozioni diverse nei confronti di ciò che succede intorno a noi. A pensarci bene, in effetti, il potere della colpevolizzazione si regge proprio sull’ignoranza di questo principio, e su una percezione distorta della responsabilità, dove chi colpevolizza tende a caricare sulle spalle degli altri la propria infelicità, mentre chi si sente in colpa può reagire mortificandosi (letteralmente: allontanandosi dal nucleo vitale di sé) oppure dando a sua volta la colpa agli altri e cercando fuori di sé la responsabilità della propria sofferenza, in un processo che perpetua la manipolazione emotiva.

Il bambino autentico
Il bambino autentico
Antonella Sagone
Riconoscere ed evitare la manipolazione nell’educazione dei figli. Accrescere la consapevolezza dei processi di mistificazione: un cammino difficile e sofferto per essere un genitore migliore, giorno dopo giorno. Nonostante sempre più spesso venga ribadita l’importanza del rispetto e dell’ascolto delle emozioni e dei bisogni dei bambini, nella nostra cultura prevale ancora uno stile educativo fatto di lusinghe e ricatti, premi e punizioni.Nel suo libro, Il bambino autentico, l’autrice Antonella Sagone descrive i meccanismi di condizionamento dei bambini e dei loro genitori: leggendolo, molti si rispecchieranno in certe situazioni di cui sono stati vittime nella loro infanzia oppure, ancora più dolorosamente, si renderanno conto di aver riprodotto le stesse dinamiche sui propri figli.L’educazione manipolatrice non solo spezza l’integrità degli individui e li priva dell’amore incondizionato che spetta loro di diritto, ma li rende anche molto più vulnerabili a ulteriori operazioni manipolatorie in età adulta.La consapevolezza di questi processi di mistificazione è un cammino difficile e sofferto, ma è importante sapere che quel bambino autentico, integro, luminoso è ancora nascosto nell’intimo di ogni adulto, e che ciascuno di noi può essere un genitore migliore, giorno dopo giorno. L’ebook di questo libro è certificato dalla Fondazione Libri Italiani Accessibili (LIA) come accessibili da parte di persone cieche e ipovedenti.