CAPITOLO IV

Divide et impera

Quando i nazisti presero i comunisti / io non dissi nulla / perché non ero comunista. / Quando rinchiusero i socialdemocratici / io non dissi nulla / perché non ero socialdemocratico. / Quando presero i sindacalisti, / io non dissi nulla / perché non ero sindacalista. / Poi presero gli ebrei, / e io non dissi nulla / perché non ero ebreo. / Poi vennero a prendere me. / E non era rimasto più nessuno che potesse dire qualcosa.1

“Per colpa di Cristian, che ha lanciato un quaderno, oggi non siamo andati in giardino”, mi ha riferito un giorno mio figlio, indignato, tornando dalla scuola elementare. La maestra, evidentemente, aveva dato di nuovo una “punizione sistemica”, cioè punito l’intera classe per ottenere il controllo del singolo elemento “di disturbo”. Questo approccio (rispetto a quello di occuparsi dell’elemento difficile, assumendosi la responsabilità di capire e di risolvere un problema, o almeno la responsabilità di imporre limiti), offre molti più “vantaggi” per chi vuole dominare gli altri:

  • utilizza la punizione per vietare le situazioni sgradite, facendo passare questa scelta autoritaria per una “conseguenza” causata dalle vittime stesse;
  • permette di occultare l’azione repressiva dietro etichette come “attivare le risorse del gruppo”;
  • punisce il singolo convogliando su di lui il risentimento dei compagni;
  • fa fare il “lavoro sporco” al gruppo dei pari, delegando loro a biasimare e reprimere i comportamenti dei compagni che violano le regole date;
  • crea una divisione in “buoni” e “cattivi” che può essere utilizzata all’infinito per impedire la solidarietà contro l’oppressione, che si crea invece in un gruppo coeso (secondo l’antico sistema del “dividi et impera”);
  • il capro espiatorio dirotta utilmente la frustrazione della massa, permettendo l’imposizione di limitazioni altrimenti non tollerabili.

Per me, vedere in mio figlio germogliare questo seme di odio e biasimo che gli era stato piantato, è stato come veder strisciare una vipera in salotto: il mio impulso è stato quello di schiacciarla subito con il piede. Dopo essermi fatta raccontare gli eventi, ho provato a ridefinire la questione, iniziando con una semplice descrizione dei fatti: “Cristian ha lanciato il quaderno per qualche motivo. La maestra si è arrabbiata. Non è stato Cristian a vietarvi il giardino: è stata la maestra che ha deciso di tenervi tutti in classe”. Abbiamo poi convenuto che per Cristian doveva essere stata davvero una brutta giornata: oltre a essergli andato storto qualcosa già da prima, in seguito non solo la maestra non si è interessata a capire cosa gli fosse successo, ma si è arrabbiata, e poi anche tutti i compagni si sono arrabbiati con lui: proprio una giornata storta per Cristian!


Ho poi chiesto a mio figlio perché secondo lui la maestra aveva deciso di vietare il giardino a tutti, anziché rimproverare solo Cristian. Mio figlio ci ha pensato e ha individuato la spiegazione corretta: “La maestra non vuole mai portarci in giardino, perché corriamo”.


Questo lavoro di riformulazione delle dinamiche scolastiche ho dovuto farlo, con entrambi i miei figli, per tutto il periodo delle scuole dell’obbligo. È stata dura, ma è valsa la pena per proteggere la capacità dei miei bambini di pensare con la loro testa. Quel bambino che si vide negare l’ora d’aria dalla maestra “per colpa di Cristian”, 30 anni dopo non si è fatto ingannare, quando si è visto di nuovo negare, da un’autorità più alta della maestra, di poter andare in giardino (o più lontano) “per colpa di…”. Il capro espiatorio sono stati a turno gli immigrati cinesi, i runner, i vecchi signori che portavano a spasso il cagnolino, e infine lo sparuto gruppetto dei “no-vax” (etichetta di comodo in cui collocare qualsiasi dissidente delle direttive del governo) che, nonostante ormai vivessero a casa (senza lavoro e senza poter prendere un mezzo pubblico o entrare in una cartoleria), erano diventati i principali untori di una perpetua pandemia. E invece, forse ai cittadini la mobilità è stata negata, in realtà, proprio per gli stessi motivi di quella maestra: non si è voluto che se ne andassero in giro, liberi.

I bisogni negati

Il paradigma culturale basato sul potere interviene a circoscrivere, inibire, controllare e ridefinire gli slanci vitali dei bambini e l’imprevedibilità delle emozioni e dei bisogni, provvedendo a recidere o almeno regolamentare il legame fra figli e genitori. Tutte le azioni (sane, normali, salutari) della mamma volte a soddisfare i bisogni di vicinanza, tenerezza e protezione del bambino, nella nostra società vengono criticate, e la delicata e complessa rete di segnali che vanno dal bambino alla madre e dalla madre al bambino viene ignorata o travisata. Siccome non si vuole accettare la schietta verità che i bambini piccoli hanno costante bisogno di contatto, coccole, allattamento, contenimento, riconoscimento e comprensione, ecco che ogni segnale di disagio o richiesta da parte del bambino viene dalla nostra cultura ridefinito in modi che impediscono ai genitori di mettersi sulla sua stessa lunghezza d’onda, e ne ostacolano l’empatia. Così il pianto e i comportamenti di irrequietezza o disagio diventano capricci, “furbizie”, tentativi di manipolare l’adulto, o sono etichettati come privi di senso.


Se nel lavoro, lo svago, l’attività sociale, gli eventi culturali si comincia a considerare il bambino come un terzo incomodo o addirittura una presenza sgradita (pensiamo a quanti ristoranti, musei, luoghi di studio o di lavoro siano esplicitamente o velatamente vietati ai bambini per ragioni di comodo, cultura o persino motivi assicurativi), allora i genitori si trovano, loro malgrado, a dover fare scelte difficili, che andranno di certo a ledere i bisogni propri o dei loro figli. Le indicazioni ad applicare una disciplina autoritaria trovano di frequente un terreno già disponibile ad accoglierle, perché i genitori di oggi sono spesso cresciuti a loro volta con un approccio distaccato, e hanno già imparato a praticare una qualche forma di scissione emotiva. Le persone che non “risuonano” al pianto di un bambino sono probabilmente state vittime di analoghi approcci sin da piccole; hanno imparato a staccarsi dalle emozioni e spegnere l’interruttore emotivo per sopravvivere all’angoscia. Perciò ora non fanno che attuare lo stesso meccanismo. La pedagogia nera offre tanti alibi, “ridefinisce” la situazione in modi distorti, rimescola le carte... basta leggere certi manuali, secondo i quali i bambini sono i tiranni e i genitori le vittime, i loro pianti sono una astuta strategia per manipolare gli adulti, e al posto del bisogno del bambino di vicinanza e amore si suggerisce un suo fantomatico bisogno di “autonomia”, di essere lasciato “in pace”. Si tratta di un esemplare fenomeno proiettivo: è l’adulto invece che ha il potere, che impone, che manipola, che vuole essere lasciato in pace.


Sembra che le proposte educative che vengono indicate ai genitori non lascino alcuna scelta se non la collusione con il sistema di valori dominante, rinunciando alla connessione amorevole con il bambino, oppure entrare in collisione con tale sistema, proteggendo la relazione parentale ma perdendo l’inclusione e il riconoscimento da parte della società; anzi esponendosi a squalifiche e derisioni fino ad essere stigmatizzati come lassisti, senza spina dorsale, e biasimati solo per il fatto di voler essere, dopotutto, materni o paterni.


La distorsione nella lettura dei bisogni causata dal giudizio morale imperante nella nostra cultura non colpisce insomma solo i comportamenti, i sentimenti e i bisogni dei bambini, ma anche quelli dei genitori. Avviene così che il bisogno di connessione, tenerezza e armonia, che nei genitori potrebbe e dovrebbe essere appagato anche nella relazione con i propri figli, venga dirottato su ambiti e modalità incompatibili con l’accudimento amorevole e la presenza costante che il bambino piccolo invece richiede. E, nello stesso tempo, si insinuano nella relazione fra genitori e figli modalità compensatorie che appaghino quei bisogni, ma in modo disfunzionale o distorto, proponendo prodotti (da acquistare) o servizi (da pagare) al posto di processi autoprodotti (coltivare e far crescere la relazione familiare, in modo autonomo e reciprocamente gratificante).

Gli oscuri frutti dell’obbedienza

Nel 1961 fece scalpore un esperimento condotto dallo psicologo statunitense Stanley Milgram2. Questo esperimento aveva lo scopo di verificare fino a che punto un individuo si spingerebbe a causare sofferenza in un altro, quando ciò gli fosse richiesto da una figura autorevole. Agli studenti soggetto dell’esperimento veniva invece detto trattarsi di uno studio sui processi di apprendimento in condizioni di stress. Lo scenario consisteva in un esaminatore e un esaminato, entrambi studenti, apparentemente estratti a sorte; in realtà gli studenti venivano tutti assegnati come esaminatori mentre gli esaminati erano attori “complici” dello sperimentatore. Il terzo personaggio presente era un uomo in camice che rappresentava un ricercatore e che presenziava l’operato dello studente esaminatore. Allo studente veniva indicato di effettuare una serie di test di memoria sull’esaminato. Per ogni risposta errata, l’esaminato avrebbe ricevuto una breve scossa elettrica, di intensità crescente via via che gli errori si accumulavano (in realtà le scosse erano simulate e l’attore fingeva di soffrire). Il pannello dei comandi per la scossa elettrica recava un indicatore che andava da “scossa leggera” a “estremamente intensa” fino a “molto pericolosa”. Lo scienziato in camice bianco, con toni calmi ma decisi, pressava lo studente a continuare con l’esperimento anche quando le scosse diventavano sempre più intense.


I risultati furono sconvolgenti: più della metà dei soggetti si spinse fino a somministrare la scossa più intensa, nonostante potesse udire la “vittima” lamentarsi, urlare, supplicare di smetterla e alla fine simulare uno svenimento. L’esperimento, ripetuto poi in altre parti del mondo con risultati simili, dimostrò quanto l’obbedienza a un’autorità esterna permettesse di sollevarsi dal senso di responsabilità anche per azioni moralmente riprovevoli. Bastava la presenza dell’autorità per modificare la percezione dell’atto violento, e permettere un distacco emotivo. Non però in tutti. Nell’esperimento di Milgram una parte degli studenti si fermò prima della somministrazione di scosse forti, e una piccolissima percentuale rifiutò del tutto di prestarsi all’esperimento.


Secondo lo psicologo, l’acquiescenza dei soggetti agli ordini del ricercatore si può spiegare con tre meccanismi fondamentali:

  • il rispetto verso una figura autorevole (l’uomo in camice rappresentava l’autorevolezza della scienza);
  • l’abitudine all’obbedienza nei confronti dell’autorità;
  • le pressioni sociali (la prova si basava su un accordo preventivo con lo studente, che riceveva anche un compenso, e rifiutarsi di eseguire il compito significava rompere questo accordo e forse discostarsi da ciò che gli altri studenti avevano eseguito senza problemi).

A differenza delle situazioni manipolatorie generate da una relazione a “doppio legame”, oppure delle situazioni ipnotiche, nel caso qui descritto il soggetto è consapevole del conflitto fra le sue norme morali interiori e ciò che gli viene richiesto di fare; tuttavia esegue perché queste azioni sono inserite in un contesto che lo solleva dalle responsabilità e anche, forse, dal dover pensare con la sua testa. L’uomo in camice, rappresentante dell’autorità, si assume l’onere delle decisioni e lo studente diviene un mero esecutore, un’estensione fisica del personaggio dominante. Inoltre il consenso sociale che percepisce intorno lo incoraggia a conformarsi, anche aiutato da una ridefinizione delle sue azioni: non un atto di sadismo o di persecuzione, ma un “semplice” esperimento scientifico. L’abitudine a obbedire, acquisita probabilmente nell’infanzia, ha sviluppato anche la capacità di scindersi dai propri sentimenti e rimuoverli opportunamente, evitando una valutazione critica delle richieste dell’adulto.


Lasciamo ora gli studenti di Milgram al loro dilemma morale, e torniamo al genitore che sta per somministrare una punizione fisica a suo figlio che si è comportato “male”. Anche qui troviamo un “seguire le istruzioni” che sono acquisite in modo inconsapevole, radicate fra le esperienze della propria infanzia, e che sono state rinforzate nel presente da figure autorevoli che continuano a fare pressione sui genitori: operatori sanitari, pedagoghi, esperti che esortano, dalla televisione, dai libri e dal Web, a “dare dei limiti”, a “farsi rispettare”, a “impartire una lezione”, tutto per il bene del bambino che, dicono, desidererebbe l’intervento violento dell’adulto perché da solo non sa controllarsi. E anche qui interviene un’opportuna ridefinizione dello schiaffo o della sculacciata: non si tratta di abuso, di violenza, ma di un “mezzo di correzione”, un intervento educativo3. Questo processo di normalizzazione della violenza non ha nemmeno bisogno di un’azione fisica, ma può esprimersi tutto a livello emotivo, ignorando, squalificando, mortificando, colpevolizzando il membro più debole di una relazione. La regola che consente di far del male se è una semplice esecuzione di un compito legato al proprio ruolo viene affiancata alla seconda regola, che ordina di non accorgersi della regola; e questa rimozione costituisce la base e la spiegazione per la tristemente famosa “banalità del male”, che periodicamente travalica i confini familiari e diventa fenomeno sociale di discriminazione e persecuzione delle minoranze designate.

Mazze e panelle fanno i figli belle

È noto nelle regioni del Centro-Italia questo proverbio: Mazze e panelle fanno i figli belle, panelle senza mazze fanno i figli pazze (da immaginarsi con una pronuncia da entroterra laziale). E cioè, con punizioni e premi i ragazzi crescono bravi, con premi senza punizioni crescono scombinati o delinquenti. L’idea che educare un figlio significhi condizionarne il comportamento in base a punizioni e premi è rappresentata al giorno d’oggi dalle teorie comportamentiste, che parlano di rinforzo negativo e rinforzo positivo; ma è molto più antica e ben radicata nella cultura patriarcale. Secondo questa prospettiva, obiettivo dell’educazione è plasmare il comportamento del bambino, in modo che si conformi alle aspettative della società; emozioni, bisogni e motivazioni che sono dietro al comportamento restano sullo sfondo, quando non vengono persino apertamente svalutati. Il concetto è “non mi importa perché lo fai, purché tu capisca che lo devi fare”. Le persone cresciute in questo modo alla fine introiettano acriticamente i valori e i precetti culturali e sociali come intrinsecamente “giusti”, e sono convinti di essere persone rette e realizzate non per loro merito ma solo grazie all’educazione ricevuta, comprese le punizioni subite.


Queste persone concepiscono la relazione parentale soltanto in termini di potere (chi comanda chi) e l’amore dei genitori come un bene erogabile in modo condizionato al giusto comportamento del bambino; pertanto disapprovano con convinzione un approccio genitoriale gentile, rispettoso, di ascolto dei sentimenti e bisogni del bambino, volto a cercare soluzioni condivise ai problemi. Dal loro punto di vista bidimensionale, se il genitore non comanda, è il bambino a comandare: altre possibilità non sono concepite. Spesso, una volta adulta, la percezione che ha di sé una persona cresciuta in questo modo, è quella di un individuo sereno, equilibrato, per bene, realizzato, che ha avuto una bella infanzia felice nonostante le urla e le botte ricevute, anzi proprio grazie a quelle.


Questo tanto decantato equilibrio, tuttavia, si concilia male con la reazione aggressiva che queste persone hanno nei confronti di chi pratica un approccio differente. Basta andare su un social e leggere i commenti sotto un qualsiasi articolo medico o psicologico in cui si osa affermare che un bambino non va picchiato per nessun motivo. Fioccano insulti, male parole, derisione, affermazioni aggressive e squalificanti da parte di questi soggetti, cresciuti a “mazze e panelle”.


In queste reazioni c’è dentro tutta la rabbia di non aver ricevuto amore incondizionato, di aver dovuto lottare per ogni briciola di attenzione o per ogni beneficio, c’è la convinzione che nulla è dato gratis e che per quanto si faccia non si avrà mai quello di cui si ha bisogno, o almeno non completamente… Vedendo bambini accuditi con amore il disorientamento è grande; quell’amore incondizionato è un elemento destabilizzante, e allora si deve distruggere quella felicità che a se stessi è stata negata; ma tutto questo avviene a un livello al di sotto della consapevolezza. A livello cosciente, queste persone ribadiscono di essere state amate profondamente dai loro genitori, e che se questi hanno usato violenza su di loro è stato perché da bambini hanno meritato questi trattamenti, anzi: “Avrebbero dovuto suonarmene di più”. L’idea di criticare i propri genitori per i loro metodi educativi viene violentemente respinta, perché nella logica dell’amore condizionato non si può amare una persona che si è comportata male nei propri confronti, ed essi temono in questo modo di non poter più amare i loro genitori.


Un’altra reazione frequente è il sarcasmo, l’ironia, la sdrammatizzazione del ricordo, trasformato in qualcosa di divertente. Credo che possa definirsi una forma di autoprotezione per evitare di evocare la sofferenza vissuta, e forse a volte anche l’imbarazzo riguardo al giudizio degli altri. Infatti, come avviene in tutte le vittime di abusi, c’è un rovesciamento delle responsabilità: è cioè la vittima che si sente colpevole e si vergogna di ciò che ha subìto, così nasconde o minimizza per evitare di essere ancora una volta biasimata o derisa. In fondo deridere e svalutare è la seconda violenza che subisce la persona abusata. La vittima non fa che incorporare questo pensiero.


Non tutti però restano sottomessi a questo condizionamento. Perché in condizioni spaventose alcuni individui riescono comunque a recuperare una propria integrità e invece altri vanno emotivamente in pezzi? La psicoanalista Alice Miller parla della eventuale presenza, nel loro cammino, di un testimone consapevole (un’insegnante, una nonna, un fratello, un amico, un terapeuta) che aiuti la persona a ritrovare se stessa e le dia la forza di apprezzarsi e recuperarsi.

La persecuzione ignorata

Morton Schatzman, psichiatra americano, in un interessante saggio riflette sulle condizioni psichiche in cui il soggetto ha una percezione profondamente distorta della realtà, e nota come per alcune situazioni non c’è un termine che le definisca4.


Propone una sorta di griglia:


Un uomo

È perseguitato Non è perseguitato

Lo sa

A

B

Non lo sa

C

D


Ora, nella situazione A abbiamo un uomo perseguitato e consapevole di esserlo: può essere infelice, disperato, o arrabbiato, o determinato a uscire dalla sua condizione; in ogni caso, si tratta di un individuo sano in una situazione drammatica.


La situazione B è quella dell’uomo fortunato, che vive una vita serena fra le persone care.


La situazione D è invece quella della classica paranoia, il delirio di persecuzione: una persona è amata e al sicuro, eppure è convinta di essere perseguitata, in pericolo e fatta oggetto di trame volte a tormentarla o addirittura ucciderla.


Ma che dire della situazione C? dovrebbe essere considerata altrettanto patologica della D, eppure non c’è una definizione psichiatrica per la condizione dell’uomo che subisce persecuzioni eppure non ne è consapevole, anzi è convinto che i suoi aguzzini lo amino e si prendano cura di lui.


Mi piacerebbe andare ancora oltre lo schema di Schatzman. Se in orizzontale mettiamo le voci perseguita/non perseguita, ecco che abbiamo la descrizione della parte attiva del dramma. Abbiamo così un uomo che perseguita un altro consapevolmente: può essere definito un sadico, un criminale, un freddo esecutore, ma non penserà di stare tormentando il suo prossimo “per il suo bene”. Il suo senso di realtà è intatto e lui è consapevole del male che fa.


Diverso è colui che tormenta pensando di amare, di far bene. Anche qui, manchiamo di una definizione psicologica o psichiatrica chiara. Quante volte assistiamo a una situazione in cui si tormenta un essere umano indifeso con le migliori intenzioni e la convinzione di far bene? Può succedere fra genitori e figli, insegnanti e studenti, fra due membri di una coppia, fra un terapeuta e un paziente, nonché da parte di certi regimi nei confronti della popolazione. In qualsiasi contesto venga usata, fra qualsiasi tipo di ruoli o relazioni, la frase “è per il tuo bene” dovrebbe essere considerata una bandierina rossa, un segnale d’allarme che ci mette in guardia contro una probabile manipolazione delle coscienze. Ma perché tanti adulti non riconoscono la natura violenta del modo in cui sono stati a loro tempo disciplinati? Perché esaltano anzi quella violenza subita, insistendo come sia proprio grazie a tale violenza che sono cresciuti con sani principi morali e rispettosi del prossimo?


Spesso queste persone affermano questi concetti in modo verbalmente molto aggressivo, e sostengono con orgoglio di applicare gli stessi metodi con i loro figli, per il loro bene, anche qui senza riconoscerne la natura crudele. C’è un costante lavoro di ridefinizione della violenza, minimizzando e rovesciando il significato di gesti e parole che, in modo inequivocabile, causano sofferenza, dato che sono gli strumenti di un’educazione che si basa sull’obbedienza indotta dalla paura.


“Uno schiaffo non ha mai ammazzato nessuno”, è la solita replica che nasce da chi nega l’impatto distruttivo della violenza nell’educazione dei bambini. E si continua descrivendo risultati disastrosi di un’educazione senza schiaffi, “dandole tutte vinte”: giovani adulti che non hanno rispetto per gli altri.


È bene sottolineare che ci sono bambini cresciuti senza schiaffi, ma comunque ignorati nei loro sentimenti e bisogni: bambini che spesso hanno ricevuto oggetti anziché ascolto, e condiscendenza a qualsiasi richiesta. I loro genitori non hanno provato a capire il bisogno profondo che poteva esserci dietro i cosiddetti “capricci”. E poi ci sono anche bambini cresciuti senza schiaffi, ma nutriti dall’amore incondizionato e dalla presenza consapevole dei loro genitori. Essere genitori senza violenza non significa dire sempre di sì, ma ascoltare con il cuore, guidare e anche dare limiti ma con gentilezza ed empatia. È molto impegnativo, laddove dire di sì a due ore di cartoni, oppure affibiare uno schiaffone, sono invece due modi facili e sbrigativi, in un certo modo simili perché fanno parte dello stesso approccio noncurante.


Per quanto si cerchi di mostrare, attraverso la logica o il semplice buon senso, che l’amore non può esprimersi con l’aggressione, che il senso del giusto non può essere instillato attraverso le minacce, che la pace non può essere realizzata con la violenza, queste persone continuano a replicare sempre con le stesse argomentazioni stereotipate: che i genitori devono punire i figli per correggerne i difetti, che senza obbedienza i bambini cresceranno egoisti e viziati, che la gentilezza rende le persone deboli, che al giorno d’oggi ci sono tanti ragazzi maleducati perché sono stati picchiati troppo poco, e altri argomenti simili. Naturalmente, chi parla dei bei tempi andati o del degrado dei giovani di oggi non è a casa di quei ragazzi maleducati che non “portano rispetto” per gli altri. Non sa veramente cosa hanno ricevuto, e cosa non hanno ricevuto. Non considera che, anche oggi, la stragrande maggioranza dei genitori adotta metodi educativi basati su premi e punizioni. È certo che l’unica alternativa sia fra i metodi coercitivi (botte, castighi) per far capire ai bambini quando “sbagliano”, e il lassismo (cioè permettere ai figli qualsiasi comportamento e dire sempre di sì alle loro richieste); e se è convinto che l’assenza di sculaccioni e punizioni porti a ragazzi che non sanno limitarsi e accettare regole sociali, allora, quando vedrà ragazzi maleducati, darà per scontato che non siano stati abbastanza percossi o castigati, e affermerà che questo “dimostra” che le botte servono.


Quando una persona, nonostante si tenti più volte di portarla su un confronto ragionevole, continua a fare la stessa obiezione o argomentazione, significa che nel discutere abbiamo risposto alle argomentazioni esplicite ma non alle ragioni profonde che muovono le sue obiezioni. In altre parole, c’è una questione inespressa che non riceve risposta. Quasi sempre, dietro queste reazioni negative verso le cure amorevoli e il contatto, c’è un bambino inascoltato, una persona che nel suo passato non è stata accudita con altrettanto amore e sollecitudine. Se n’è fatta una ragione, ha scelto (come succede ai bambini che ricevono amore condizionato) di adeguarsi alle aspettative di mamma e papà, di giudicarsi imperfetto piuttosto che perdere l’amore dei genitori e la fiducia in loro, e ha rimosso la sofferenza e il senso di ingiustizia. Vedere che ad altri invece viene riservato un trattamento diverso, rischia di far crollare il castello di carte che si è costruito in un lontano passato per giustificare i propri genitori e vivere nell’illusione dell’amore. Dentro di sé qualcosa dice: E io? Perché a me no? Scoprire che si può trattare un bambino diversamente e che si è perso qualcosa di importante è troppo doloroso. Diventa disperatamente essenziale imporre la propria visione educativa, per dimostrare che i genitori ci hanno amato, anche se (anzi, proprio perché) ci hanno fatto soffrire.


Come è possibile non vedere tutte queste incongruenze? Perché, come abbiamo già visto, la pedagogia nera è qualcosa di più che un semplice uso della forza per imporre delle regole. La sua prima regola è non discutere le regole, anzi, dimenticarsi che esiste una regola. La pedagogia nera non è solo autoritaria e punitiva: è anche manipolatoria, induce a rimuovere dalla coscienza la violenza subita. I sentimenti di rabbia e di delusione vengono inibiti e si induce a pensare che tanto più il genitore usa la violenza sul figlio, tanto più lo ama. Il bambino deve accettare questo nonsenso per poter essere amato, per ricevere l’approvazione dei genitori e per ricostruirsi un’autostima non più basata sul suo vero sé, ma sull’essere ciò che i genitori desiderano. È questo che fa la differenza fra la pedagogia nera e la semplice educazione violenta. È questo che fa sì che gli abusi ricevuti nell’infanzia (percosse, umiliazioni, negazione dell’affetto) vengano ricordati, ma con una forte dissonanza affettiva, che li fa emergere con nostalgia e tenerezza, come episodi eroici oppure buffi, su cui ridere con leggerezza.

La sindrome di Stoccolma

La sindrome di Stoccolma è un quadro psicopatologico che è stato descritto in riferimento a individui che erano stati a lungo soggiogati da un’altra persona. Spesso si trattava di sequestri di persona, e a volte il rapito aveva sperimentato abusi psicologici e fisici. Eppure, dopo un certo tempo la vittima sviluppava un attaccamento per il suo carnefice, fino in alcuni casi a difenderlo e proteggerlo, o a innamorarsi di lui.


Sembra appropriato utilizzare questa definizione in senso più ampio, per tutti coloro che non riconoscono le violenze subite e anzi provano attaccamento e gratitudine verso chi le ha inflitte.


Mentre mi lambiccavo per comprendere come avviene il cedimento dell’animo che smette di riconoscere la violenza subita, una discussione in rete mi ha portato alla memoria un episodio che ho vissuto quando avevo circa 4 anni. A quell’età sono stata operata di tonsille senza anestesia (una pratica molto diffusa nella prima metà del ’900, basata sull’idea che i bambini sentissero meno dolore degli adulti).


Provate a immaginare la scena. Sono seduta su una specie di poltrona da dentista, con vari camici bianchi intorno. Mi dicono: “Tieni la bocca spalancata che facciamo una foto buffa per papà”. Sto sotto un riflettore, perplessa apro la bocca e ZAC ZAC il bisturi più veloce del west, non ricordo il dolore ma il suono delle forbici e il terrore dell’aggressione incomprensibile, la bocca piena di sangue, e qualcosa che rischia di soffocarmi in gola, emetto un urlo strozzato e chiudo la bocca con ancora i ferri dentro e il medico mi ringhia di tenerla aperta in tono così minaccioso che obbedisco, un altro ZAC e mi dice “sputa” io sputo dei pezzi sanguinolenti e dico “ma è sangue!” e loro ridono: “Ma certo, è normale, non è niente”. Mi fanno sciacquare la bocca e mi riportano dalla mamma: “Tutto fatto”, e mamma stupita e contenta che sia stato così rapido… mi danno un gelato per consolarmi, si complimentano di come sia stata “brava” e coraggiosa (cioè come ho subìto senza lottare), e mi dicono di non parlare per un po’.

Lo ricordo come fosse un attimo fa.


Soltanto ora, rievocando consapevolmente questo ricordo nudo e crudo, forse per la prima volta nella vita mi rendo conto io stessa appieno di che violenza sia stata. Nella mia mente di bambina lo avevo rielaborato come un evento scioccante ma eroico, e pensavo anzi di essere meglio dei miei coetanei, che avevano subìto l’operazione con un dilatatore in bocca e retti a forza per non divincolarsi... e ne facevano racconti orribili. Io invece me l’ero cavata in modo più “disinvolto”, senza costrizioni perché io ero stata brava (avevo obbedito al medico) e il medico era evidentemente un chirurgo molto bravo che manovrava il bisturi meglio di quanto Zorro sapesse manovrare il suo fioretto…


Questa era la narrazione che mi era stata presentata appena successo il fatto, e l’avevo fatta mia. Riflettere su questa esperienza, per la prima volta, con la Me-stessa-adulta come testimone, è stato illuminante, perché mi ha fatto capire come sia possibile che gli adulti vedano i ricordi di antichi abusi come fatti positivi o divertenti. Per me, uscita sotto shock da quell’intervento, senza ancora aver capito cosa mi era successo, vedere le espressioni sorridenti e soddisfatte degli adulti, l’aria di sicurezza compiaciuta del dottore che mi aveva operato, le parole di lode di mia madre e delle infermiere perché ero stata “brava” e “coraggiosa”, e in generale il messaggio non verbale che comunicava tranquillità, soddisfazione, che ciò che per me era stato un incubo era invece una “Cosa da nulla”, di pochi secondi... ecco: ricordo come ho immediatamente fatto mia questa narrazione, riempiendo quel vuoto di angoscia con sentimenti di orgoglio e compiacimento per me stessa, e con l’apprezzamento degli adulti, che per me era il bene più prezioso, perché raramente elargito.


Se la scelta per il bambino è:

- mantenere vivo il ricordo angoscioso, terrificante, cruento di una violenza fatta a tradimento sul suo corpo e nel suo corpo, senza che alcun adulto muova un dito per salvarlo e anzi approvando l’abuso,

oppure

- costruire un ricordo eroico o divertente, in cui la violenza resta solo come concetto astratto e viene ridefinita come giusta e ben fatta e gli adulti intorno come persone che si prendono cura di te anche se a volte è doloroso, e anzi sono fieri di te che hai subìto senza ribellarti e ti premiano per il tuo coraggio...

Secondo voi, il bambino cosa sceglierà di archiviare come ricordo?

Il legame di abuso come forma di dipendenza

Il doppio legame, come descritto nel terzo capitolo, avvince persecutore e perseguitato in una spirale di dipendenza. Sebbene chi perseguita sia dominante, e quindi a prima vista più in “controllo” della relazione, di fatto è ugualmente dipendente dal legame, avendo bisogno di riaffermare la sua dominanza per proteggere un sé altrettanto fragile di quello della vittima.


La tradizionale definizione di “sostanza da abuso” fa riferimento a tre requisiti che devono essere tutti presenti. La sostanza deve:

  • essere tossica: causare un danno fisico e/o psichico;
  • creare dipendenza: se ne ha bisogno e si sta male se manca (crisi di astinenza);
  • causare assuefazione: per ottenere lo stesso effetto piacevole o calmante ne occorrono dosi sempre crescenti.

Abbiamo già visto come le relazioni abusive, in particolare basate sul “doppio legame”, facciano sì che il soggetto debole resti emotivamente invischiato e incapace di vedere con chiarezza gli aspetti disfunzionali della relazione. Che sia il rapporto fra un genitore e suo figlio, fra datore di lavoro e dipendente, fra terapeuta e paziente, riguardi una coppia o sia rappresentato dal legame che unisce un individuo a una comunità, setta religiosa o governo, la relazione disfunzionale causa un danno profondo all’autostima del soggetto dominato, e talora mette anche a rischio la sua integrità fisica; è molto difficile da interrompere in quanto, seppure si soffra all’interno della relazione, si teme la prospettiva di un conflitto o di un distacco; e il soggetto dominante si trova spesso nella necessità di esercitare sempre più pressione, coercizione o manipolazione per tenere l’altro sottomesso e legato a sé. Sussistono quindi tutti e tre i requisiti per essere definita una sorta di tossicodipendenza.


Un altro aspetto in comune fra la dipendenza da sostanze e l’invischiamento in un doppio legame è che spesso il soggetto dipendente all’inizio nega sia il danno che subisce sia la sua stessa dipendenza. I tentativi esterni di far “prendere coscienza” della sua condizione di vittima alla persona dipendente, suscitano risposte aggressivamente reattive, di furiosa negazione. La negazione in seguito cede il passo alla consapevolezza, via via che avviene l’escalation di sofferenza, e allora si minimizza, si giustifica e ci si convince di avere ancora il “controllo” della situazione. Questo è evidente nelle dipendenze da sostanze, nelle ludopatie, come anche nelle relazioni tossiche con un partner distruttivo e manipolatorio; ma anche nella condizione di soggetti plagiati da sette religiose o sedotte da un regime totalitario. Questa chiave di lettura ci aiuta anche a comprendere il motivo del fervore con il quale i genitori che utilizzano la pedagogia nera verso i loro figli difendono il paradigma dell’amore condizionato.


Purtroppo per i bambini maltrattati, è molto difficile ottenere aiuto e riconoscimento della loro situazione. Come osserva Alice Miller, la resistenza a prendere atto del dramma dell’infanzia maltrattata è elevatissima. Le persone che hanno a loro volta avuto da bambini un’esperienza traumatica o mortificante proteggono le loro rimozioni per scongiurare una rinnovata esperienza di paura, dolore, rabbia, disperazione.


Piuttosto che correre un rischio, rinunciano a informazioni che sono di importanza vitale per noi e per le future generazioni. S’attengono alle convinzioni tradizionali, ostili alla vita, pur di non essere costretti a mettere in discussione i loro genitori5.


In una condizione in cui le sofferenze dell’infanzia non sono mai state elaborate, le mazze e le panelle, il bastone e la carota, insomma le minacce e le blandizie sono non soltanto un ricordo del passato da proteggere, ma un elemento ancora vivo e attivo nei paradigmi emotivi degli ex-bambini inascoltati. Anche se gli eventi che plasmarono certi costrutti sono ormai un fantasma del passato, la paura del dolore e dell’abbandono è ancora viva, presente, reale e attiva, e come un cane da guardia vigila per evitare che si levi il sipario sulla verità.

Come nasce un totalitarismo

Di recente capita di sentire molte persone sostenere che viviamo in una dittatura, mentre altri con uguale indignazione sostengono che sia una sciocchezza e che le dittature del passato erano ben altro. Proviamo allora a chiarire che cosa sta succedendo e ad avanzare una terza ipotesi. Non siamo in una dittatura ma, a mio parere, è in corso in questo momento il processo di costruzione di uno stato totalitario. Che differenza c’è? In un certo senso, tra dittatura e totalitarismo esiste la stessa differenza che c’è fra la disciplina autoritaria e la pedagogia nera. Se l’adulto autoritario impone la sua volontà con la forza, la violenza e le minacce, chi invece applica la pedagogia nera preferisce la manipolazione e cerca di modificare la percezione della sua vittima, convincendola che le imposizioni che subisce sono invece atti d’amore, e che le azioni che è costretto a compiere nascono in realtà da un suo stesso desiderio. Così come il bambino picchiato e umiliato può persuadersi che tutto questo è fatto per il suo bene, allo stesso modo il cittadino manipolato da un regime totalitario può accettare di subire le restrizioni e i soprusi più assurdi, pensando che tutto questo sia per il bene della collettività.


Ecco perché è così importante un’educazione rispettosa dei sentimenti e dei bisogni del bambino, in cui i genitori, anche quando impongono al figlio una decisione non gradita, siano in grado di assumersi la responsabilità di quella decisione, senza caricarla sul bambino stesso o addirittura farla passare come una sua scelta o un suo bisogno. Un individuo che nella sua infanzia ha ricevuto rispetto, ascolto, amore incondizionato, difficilmente sarà manipolabile attraverso le leve della paura, l’incitamento all’odio o le lusinghe del consenso. Un genitore integro, non intimamente ferito, non sarà manipolabile con facilità da parte di una cultura violenta che volesse spingerlo ad applicare metodi educativi senza cuore, o da totalitarismi che volessero indurlo a offrire se stesso e i propri cari alla fame insaziabile dei potenti, al misero prezzo di qualche retorico riconoscimento condito di eroismo o di finto ottimismo. Perché le crudeltà e le insensatezze dei totalitarismi non vengono riconosciute finché masse di persone non sono trascinate in epiloghi catastrofici e distruttivi? Ma anche, e forse questa è una domanda ancora più importante, come mai in ogni totalitarismo, per quanto raffinata sia la propaganda e le mistificazioni attuate, c’è sempre una minoranza dissidente, che resiste al lavaggio del cervello e non si lascia influenzare?


Per procurarsi il consenso delle masse non è sufficiente mistificare attraverso un uso manipolatorio del linguaggio, distorcere le informazioni, imporre la propria volontà ai cittadini attraverso sistemi di premi e punizioni, infantilizzare, usare le minacce o la retorica; occorre anche un terreno favorevole nei soggetti da controllare. Se soccombono a certe manovre di potere è perché queste per essi non sono nuove, ma si innescano su una struttura psicoaffettiva preesistente, in cui mistificazioni, ricatti emotivi, rimozioni e doppi legami erano stati già sperimentati e strutturati. Intendiamoci: non sto dicendo che chi soccombe alla narrazione mistificata di un regime sia particolarmente ottuso, o debole, o pazzo. Gli individui, presi singolarmente, sono per lo più persone normali, con i loro sentimenti, desideri, emozioni, relazioni affettive. Ma nella loro dimensione collettiva di massa dominata, diventano qualcosa di diverso.


Matias Desmet, professore di psicologia clinica all’Università di Gent (Belgio) ha studiato le dinamiche collettive che portano le masse ad appoggiare i regimi totalitari6.


Desmet parla di 4 presupposti che predispongono l’individuo a farsi suggestionare e cadere vittima delle dinamiche di massa:

  • mancanza di connessione e di legami sociali;
  • mancanza di un significato della propria vita;
  • momenti di ansia di cui non si riesce a identificare la causa;
  • momenti ciclici di rabbia e frustrazione, sempre senza un oggetto preciso verso cui dirigere questi sentimenti.

Questa frustrazione, rabbia, ansia, senso di inconcludenza e vuoto che alcuni provano nella loro vita ha origini (personali o collettive) precise, ma che per condizionamenti passati non si è in grado di identificare correttamente. La mancanza di amore incondizionato, il distacco precoce dai genitori, un’educazione repressiva o manipolatoria accompagnata dall’esaltazione dell’ubbidienza e dal divieto di mettere in discussione le regole, creano questa sofferenza “in cerca di un colpevole”: un terreno sul quale è agevole piantare i semi della suggestione. È qui che diviene un facile lavoro di propaganda la messa in campo di un elemento di angoscia collettiva (un’imminente guerra, una catastrofe, un’epidemia) che finalmente offra un volto all’angoscia esistenziale; e nel contempo fornire un capro espiatorio che funga da nemico e contro il quale ci si può compattare, odiandolo. È il processo della formazione di massa, che trasforma un insieme di individui in un’entità collettiva con le sue leggi, le sue emozioni e le sue reazioni specifiche.


La massa ideologizzata offre all’individuo che ne fa parte una relazione di dipendenza che fornisce insomma un senso di appartenenza e connessione, un significato alla vita, colma il senso di vuoto e permette nello stesso tempo di esorcizzare le angosce e la rabbia senza dover indagare la loro vera origine. Nella massa il pensiero è unico, semplificato, il campo visivo è ristretto a pochi elementi (visione a tunnel) e quindi si perde la capacità critica e la comprensione del contesto più ampio. In seguito, basta che questo martellamento ideologico si prolunghi a sufficienza nel tempo per radicarsi e integrarsi definitivamente con la visione della realtà dell’individuo. Gli studi ci dicono che per modificare il modo di essere e le abitudini di una persona è sufficiente un periodo di 21 giorni; ma le fasi che preparano il terreno alle dittature durano anni, e la propaganda poi continua ininterrottamente.


Sempre riferendoci alla cornice interpretativa di Desmet, un 30% della collettività, nella prima fase del processo di formazione di massa, cade in una profonda e intensa suggestione; circa il 40%, pur non convinto, si adegua per acquiescenza all’autorità o per conformismo; il rimanente 30% si oppone, mantenendo il proprio senso critico e costituendo la “resistenza” al totalitarismo. Se quest’ultimo terzo, per sfinimento o repressione, smette di esercitare dissenso e controinformazione, tutto il resto della popolazione si compatta in una massa critica ed è a questo punto che le persone per bene cominciano a compiere atrocità “per il bene comune”.

Il bambino autentico
Il bambino autentico
Antonella Sagone
Riconoscere ed evitare la manipolazione nell’educazione dei figli. Accrescere la consapevolezza dei processi di mistificazione: un cammino difficile e sofferto per essere un genitore migliore, giorno dopo giorno. Nonostante sempre più spesso venga ribadita l’importanza del rispetto e dell’ascolto delle emozioni e dei bisogni dei bambini, nella nostra cultura prevale ancora uno stile educativo fatto di lusinghe e ricatti, premi e punizioni.Nel suo libro, Il bambino autentico, l’autrice Antonella Sagone descrive i meccanismi di condizionamento dei bambini e dei loro genitori: leggendolo, molti si rispecchieranno in certe situazioni di cui sono stati vittime nella loro infanzia oppure, ancora più dolorosamente, si renderanno conto di aver riprodotto le stesse dinamiche sui propri figli.L’educazione manipolatrice non solo spezza l’integrità degli individui e li priva dell’amore incondizionato che spetta loro di diritto, ma li rende anche molto più vulnerabili a ulteriori operazioni manipolatorie in età adulta.La consapevolezza di questi processi di mistificazione è un cammino difficile e sofferto, ma è importante sapere che quel bambino autentico, integro, luminoso è ancora nascosto nell’intimo di ogni adulto, e che ciascuno di noi può essere un genitore migliore, giorno dopo giorno. L’ebook di questo libro è certificato dalla Fondazione Libri Italiani Accessibili (LIA) come accessibili da parte di persone cieche e ipovedenti.