CAPITOLO III

Giochi di parole

La fortezza era percorsa da gallerie scavate nella roccia, e sopra l’ingresso di ciascuna galleria c’era un cartello che diceva: TUTTO CIÒ CHE NON È PROIBITO È OBBLIGATORIO1.

La linguista Lera Boroditsky spiega come le parole che usiamo, la grammatica e la sintassi della lingua con la quale pensiamo, condizionino il nostro pensiero2. Siamo ciò che pensiamo, e pensiamo con le parole che usiamo. Il modo in cui si parla, i legami e le connessioni fra le parole, modellano la nostra mente. Per questo una grande rivoluzione di pensiero necessita per prima cosa di creare nuove parole e di abbandonare il linguaggio che veicola la vecchia ideologia.


Vivendo in una società giudicante, la maggior parte delle parole che si usano per descrivere il comportamento del bambino e la relazione con gli adulti veicola un giudizio. Buono, cattivo, bravo, obbediente, monello, furbo, educato, normale, capricci, vizi, “mi sfida”, sono tutte parole che includono un’idea su come il bambino (o a volte anche il genitore) dovrebbe essere, e rapportano il proprio figlio a questo ideale. Si focalizzano sul comportamento, ma non sulle cause di questo comportamento; sull’effetto che le sue azioni hanno sugli adulti e sulle loro emozioni, ma non sulle emozioni del bambino stesso. Il giudizio blocca la comprensione e resta in superficie, impedendo al genitore di empatizzare e di capire veramente il significato di ciò che il bambino esprime con un comportamento o un pianto. Questo tipo di linguaggio intossica la mente e il pensiero degli adulti, limitando il loro discernimento e la possibilità di connettersi davvero ai propri figli, e instilla preoccupazioni riguardo al giudizio sociale, forzandoli a conformare il loro bambino a un modello di “normalità” omologato al pensiero corrente.


Si dovrebbe sempre diffidare di tutti gli articoli o manualetti che spiegano come un bambino “dovrebbe” comportarsi, o dormire, o mangiare, o poppare, o parlare, e anche di quelli che spiegano come si “dovrebbe” fare i genitori. Guarda caso, la maggioranza dei bambini non si comporta come “dovrebbe”, a meno che non intervenga l’adulto a correggerli e modellarli... qualcosa non torna! E guarda caso, nessuna madre o padre spontaneamente farebbe certe cose, come lasciare piangere il bambino, non prenderlo in braccio, negargli il seno perché non è l’ora prevista, fingere di non capire se non pronuncia bene le parole, e così via, se non intervenissero gli esperti del momento a correggere quei genitori deboli e troppo indulgenti!


L’uso del verbo “dovere” deve quindi diventare per i genitori un segnale lampeggiante che invita a diffidare. Attenzione poi anche al verbo “potrebbe” o alle locuzioni come “fino a”: servono come “uscita di emergenza” dalla velleità appena affermata con il “dovrebbe” (che ha anche un opportuno condizionale). La traduzione è: Cari signori, sappiamo bene che quello che vi stiamo proponendo come normale è irrealistico, perciò mettiamo le mani avanti: certo alcuni bambini “riescono a dormire fino a...” e a tot mesi “potrebbero già dormire tot ore”... come dite? non lo fanno? Eh, ma noi abbiamo detto che potrebbero farlo, non vi abbiamo dato la garanzia! E comunque, vi abbiamo anche detto che “ogni bambino è diverso e il tuo avrà il suo ritmo”, quindi non prendetevela con noi!


Questo è linguaggio pubblicitario, da imbonitori che vogliono vendere un prodotto, vantando pregi inesistenti: “fino al 100% di macchie in meno” – “fino a 5.000 gigabyte di banda” – “biodegradabile fino all’80%”… sì, che bello, ma poi ti ritrovi con un bucato ugualmente sporco, un detersivo che inquina proprio come gli altri, e una connessione che va a manovella, perché ti hanno prospettato una possibilità massima, ma non ti dicono mai qual è la garanzia minima. Potrebbe arrivare al 100% di potere sbiancante, ma non è detto che lo faccia... e il bambino di quattro mesi potrebbe dormire ininterrottamente per otto ore, ma guarda caso, non lo fa quasi mai!

Le parole mancanti

Se le parole sono gli “attrezzi” per articolare i pensieri, va da sé che quanto più povero è un linguaggio, quanto più scarse e generiche sono le parole che usa, tanto più semplificato e privo di sfumature sarà il pensiero che scaturirà da questo linguaggio. I concetti, i soggetti, le emozioni che non hanno un nome in un certo senso non esistono veramente. Non a caso la lotta all’analfabetismo è un fattore cruciale per risvegliare la coscienza di un popolo sottomesso e aprire la strada alla sua autodeterminazione; non a caso i totalitarismi si fanno premura di intervenire sul linguaggio, proibendo certe parole, creandone altre che fungono da vuoti slogan, e semplificando la lingua in modo che non sia possibile esprimere sfumature e descrivere le complessità del reale.


Nella civiltà delle formiche del romanzo La spada nella roccia di Terence Hanbury White tutte le possibili sfumature sulla qualità delle cose sono ridotte ai soli termini di “fatto” e “non fatto”. Nella distopia 1984 di Orwell, la cui società è permeata dalla neolingua, fino alle dittature reali, ovunque i regimi totalitari si sono applicati a modificare la lingua per renderla uno strumento di omologazione del pensiero, creando scelte obbligate, discriminazioni, pregiudizi, e anche rimuovendo attivamente i concetti sgraditi con il semplice espediente di negare loro un nome. Si nota che quando si instaura un totalitarismo, attraverso il linguaggio erano già state effettuate in precedenza operazioni di rimozione, distorsione, emarginazione nei confronti dei bambini e degli adulti che erano diventati.


Per quanto riguarda i genitori, e in particolare la madre, c’è un’incredibile abbondanza di parole per definire e nominare ciò che non fa, o fa “male”: negligente, iperprotettiva, sbadata, permissiva, superficiale, violenta, distaccata, soffocante, rigida, esigente, pigra. Ci sono poi gli “psicologismi” come isterica, depressa, nevrotica, ossessiva, paranoica. Molti di questi termini definiscono ciò che la madre fa “troppo” o “troppo poco”; ma manca la relativa parola per dire ciò che è fatto nella giusta misura; ovvero, se quella parola esiste, ancora una volta assume, riguardo alle cure parentali, una sfumatura giudicante. Proviamo ad esempio, rifacendoci ai termini precedenti, a trovare la parola che esprima l’altro estremo, oppure la giusta misura: diligente, protettiva, vigile, rigorosa, profonda, mite, coinvolta, distante, morbida, indulgente, operosa. Queste parole non pesano, in modo positivo, quanto le loro controparti negative; a volte sono neutre, altre volte suonano altrettanto negative! Mancano inoltre della complessità o della specificità per descrivere le qualità di chi accudisce un bambino con competenza. In certi casi, suonano grottesche, con tutt’altro significato o del tutto prive di senso. Con questo misero assortimento linguistico, alla domanda “cosa hai fatto oggi” è più facile che una madre risponda elencando tutto ciò che NON è riuscita a fare, o che pensa di non aver fatto bene come voleva.


Una sventura ancora maggiore delle parole che giudicano, etichettano, classificano, è costituita da quelle che ancora debbono essere create. Se una cosa non ha nome, nella mente delle persone semplicemente non esiste; oppure viene nominata scorrettamente usando i termini che si hanno a disposizione, anche se non sono appropriati. Naomi Stadlen, nel suo libro Quello che le mamme fanno3 ha evidenziato bene questo nodo così importante. È facile, chiedendo a una madre che cosa ha fatto tutto il giorno in casa con suo figlio, che lei risponda “niente di speciale”. Forse, come nell’esempio sopra, vede solo le cose negative; forse lei stessa ha difficoltà a divenire consapevole della quantità di azioni “invisibili” che ha compiuto nell’accudire e contenere il suo bambino minuto dopo minuto, senza interruzioni, anche quando faceva “altro”, per un’intera giornata. Forse questo vuoto di parole le farà sentire la giornata vuota, futile, priva di significato. Può darsi invece che lei senta di aver fatto molto, ma provi un senso di frustrazione sapendo di non poter spiegare agli altri in che cosa consista il tempo passato con suo figlio. Come descrivere il coinvolgimento ininterrotto, l’intensità delle emozioni, il continuo slittare dalla visione adulta al guardare il mondo con gli occhi del bambino? Questo “doppio binario” permette alla madre di osservare con la comprensione, l’amore e l’ironia di un adulto, e nello stesso tempo condividere con il bambino la visione di un mondo fresco, nuovo di zecca, pieno di stupore e meraviglie, dove la banalità e l’ovvio non hanno posto. Il tempo scorre lentissimamente all’interno della bolla temporale del bambino, e nello stesso tempo all’esterno “vola via”, procurando all’adulto la sensazione che non basti mai.


Prendiamo ad esempio ciò che una madre fa quando riporta alla calma un bambino che piange o è agitato. Si tratta di un insieme quasi impercettibile di gesti, movimenti, suoni, parole, scambi di sguardi, dosati con ritmi e sequenze complesse e precise. In una madre che coccola il suo bambino cambiano persino la temperatura corporea, la frequenza cardiaca, il respiro e il campo bioelettrico. Il dottor William Sears descrive nel suo libro The Fussy Baby Book4 la “danza” che fa una madre per calmare il bambino che tiene in braccio: un insieme di passi brevi in avanti, indietro e lateralmente, con oscillazioni sia laterali che verticali, flettendo ogni tanto le ginocchia, un moto sussultorio e ondulatorio che cambia casualmente ogni pochi secondi, secondo un arco di variazioni preciso. Nessuno insegna alle madri queste cose, ma le fanno. Nessuno ha un nome per questa danza, che quindi, di fatto, non esisterà o verrà definita, nella migliore delle ipotesi, “cullare” (ma il movimento della culla è ben più semplice e ripetitivo); nell’ipotesi peggiore verrà chiamata “viziare”, “il vizio delle braccia”.


L’adulto che dedica il suo impegno a un oggetto può avere, al termine della sua azione, qualcosa da mostrare: “ho riparato il rubinetto del bagno”. Ma una madre che, nell’arco delle ultime otto ore, ha “riparato” suo figlio innumerevoli volte, riconducendolo a uno stato di calma e connessione (sereno, integrato, coerente), dal caos e dall’agitazione in cui era caduto, non ha nulla da mostrare se non un bambino quieto e appagato, il che non fa che alimentare l’idea che fare la madre sia, in fondo, un compito davvero semplice.


Né ci sono parole per descrivere e definire l’azione di una madre che affianca suo figlio nella scoperta del mondo, descrivendogli ogni piccola cosa, attirando la sua attenzione su ciò che potrà affascinarlo, mediando le situazioni di conflitto, prevenendo le potenziali difficoltà, facendo da filtro con ciò che potrebbe agitarlo o sovraccaricarlo di stimoli, guidando la sua esperienza a volte anche solo con uno sguardo e un sorriso condiviso. Le parole come “guida”, “coach”, “interprete”, “mediatrice” o “facilitatrice” fanno riferimento a situazioni di tutt’altro genere e non rendono la complessità e la specificità di queste azioni, che una madre (o anche un padre o un altro adulto sintonizzato sul bambino) compie continuamente… anche quando “sembra che non stia facendo niente”.

Parole per rimodellare la realtà

Di rado le parole sono neutre. Esse sono l’involucro che contiene tutta una costellazione di idee, valori, associazioni, riferimenti. Definire la fase in cui il bambino comincia a mangiare “introduzione di cibi solidi” oppure “svezzamento” non è affatto la stessa cosa. La prima locuzione è descrittiva, mentre la seconda veicola l’idea che offrire il cibo solido (o magari le pappe) sia “togliere il vizio” del seno al bambino. In una sola parola si sta dicendo che poppare al seno dopo i primi mesi è sbagliato (vizio); che i cibi solidi vanno a sostituire il latte materno; che il bambino va preso per fame. Tre affermazioni totalmente fuorvianti e antitetiche rispetto la fisiologia. Dello stesso tenore è il termine allattamento prolungato, con il sottinteso che, dopo i primi mesi, allattare non sia più appropriato. Non a caso io preferisco dire allattamento a termine. Come la gravidanza a termine è quella che dura proprio quanto deve durare, ed è seguita da un parto spontaneo, così è l’allattamento per il bambino, che dovrebbe staccarsi dal seno con uno svezzamento spontaneo. Persino il termine italiano “allattamento a richiesta” suggerisce un rapporto in cui la madre dà e il bambino chiede e sfrutta la sua disponibilità, tempo ed energie, mentre il termine originale inglese (breastfeeding on cue, cioè allattamento seguendo i segnali reciproci), non implica questa idea. E forse quando parliamo di legame fra mamma e bambino dovremmo decidere di abbandonare il termine simbiosi, che ci porta fuori strada, e parlare piuttosto di mutualismo, cioè di una relazione da cui i membri traggono reciproco vantaggio.


E che dire dei termini relativi alla gravidanza e al parto, così spesso ricchi di implicazioni negative? Gravida (cioè appesantita), doglie, travaglio (con il loro strascico di dolore e fatica), espulsione del feto (che fa pensare all’eliminazione da sé di qualcosa di passivo e indesiderato), come anche “far nascere”, riferito a chi assiste la nascita.

Rinominare per non cambiare

Uno degli esempi più antichi e consolidati, per quanto riguarda le cure materne, ci viene dall’inglese. Che fascino poteva avere un pezzetto di gomma giallastro da cincischiare in bocca, se lo avessero chiamato “sostituto gommoso del seno”? Ben poco. Ma una volta che il ciuccio è stato chiamato pacifier, il pacificatore, ecco che ha assunto tutt’altro fascino.


Certe volte basta dare un nuovo nome a un vecchio approccio per farlo sembrare accettabile. Punire tutta la classe per il comportamento indesiderato di un singolo alunno diventa punizione sistemica; mettere in castigo viene ridefinito sedia della riflessione; non prendere in braccio il bambino che piange di notte si trasforma in sleep training. E quanto suonano bene le parole in una lingua straniera! I nostri bisnonni utilizzavano il francese allo stesso modo, per abbellire le parole sgradevoli, tanto che ancora oggi ci si scusa scherzosamente, in caso di turpiloquio, per il “francesismo”!


E che dire del sistema del bastone e della carota, ovvero di punizioni e premi? Suona superato, ma se togliamo le punizioni e lasciamo solo i premi, che siano lodi o attenzione dell’adulto, oppure solo dei miserabili adesivi, e chiamiamo tutto questo token economy, non suona forse molto meglio? Solo che in realtà le punizioni, che pure sembrano scomparse, ci sono ancora, nascoste dietro i premi. Perché nel momento in cui introduciamo la regola che i premi andranno solo a chi li merita, che cosa diventa negare il premio, se non la punizione? E cosa succede quando il premio non è un nuovo giocattolo, ma la tenerezza e l’attenzione dell’adulto? Se l’affetto, l’approvazione, l’amore smettono di essere incondizionati, diritti umani radicati nei bisogni fondamentali, e diventano “premi”?


Per il bambino l’amore dei genitori è tutto, e un amore condizionato è meglio di niente. Persino la collera dei genitori è meglio di niente, del non essere visti. Si accettano così dagli adulti pretese anche irrazionali, umiliazioni, bugie, privazioni, punizioni, si accetta che queste cose vengano ridefinite come amore: sono fatte per il tuo bene, dicono gli adulti.


La via dell’inferno, si dice, è lastricata di buone intenzioni; e nessun gioco di parole è mai stato più devastante e corrosivo di quello che trasforma esperienze, azioni e scopi negativi in fatti positivi. Per ottenere questo risultato basta poco. Per esempio far precedere l’elemento negativo con aggettivi che ne esaltano la giustezza e la salubrità: sano, bello, utile, buono. Una sana sculacciata; una giusta severità; una punizione esemplare; un utile spavento; una buona dose di scapaccioni; un bel pianto.


Poi quei bambini e bambine crescono e diventano adulte. Ma certi bisogni profondi restano.


Anche gli adulti hanno bisogno di sicurezza, attenzione, amore, inclusione. E soprattutto se già da bambini hanno imparato a confidare in un amore che si esprime con la violenza, accetteranno anche da grandi, da parte di chi ha potere e autorità, da coloro nei quali hanno riversato la loro fiducia, le stesse forme di amore mistificato e condizionato: limitazioni nella vita sociale o nella mobilità etichettate come “protezione”, uno sconvolgimento sociale che limita i contatti personali e si fonda su una tracciabilità costante degli individui, promosso come “nuova normalità”, la censura ribattezzata come “erogazione controllata di informazioni” oppure “protezione dalle fake news”, le chiusure forzate di piccole imprese, fallite per le norme pandemiche, descritte con il termine di “distruzione creativa”, una inerte indifferenza che diventa “vigile attesa”, dei trattamenti sanitari obbligatori rinominati “cure preventive” e lasciapassare, ottenuti con l’obbedienza coatta, ridefiniti “strumento di libertà”.

Stesse parole, nuovo significato

Un altro modo sottile di manipolare il pensiero è quello di utilizzare le parole usandole in un senso diverso da quello consueto. A forza di associare un termine a un nuovo insieme di concetti in modo fuorviante, si crea una nuova costellazione linguistica che modifica il significato di quel termine. Le lingue si modificano proprio così. Ma qui non stiamo parlando di un uso comune linguistico che prende piede. Stiamo parlando di un uso fuorviante dei termini da parte di chi vuole trasmettere una certa ideologia in modo seducente. Ecco qualche esempio di parole il cui significato è stato stravolto.


Bisogni. Si sostiene che il bambino sia “naturalmente” incline a seguire una routine, e che i genitori debbano imporgli delle regole quotidiane, affinché abbia più energia, stia bene e cresca sano. Tali consigli vengono accompagnati da continue rassicurazioni che le regole non vanno imposte con la violenza, ma anzi occorre ascoltare il bambino, osservarlo, rispettare i suoi bisogni, aiutarlo a “trovare da solo” la strada per maturare e crescere. Peccato che quella strada, di fatto, sia stata già ben delineata e lastricata dall’adulto. Spesso ho osservato che questi paladini del diritto del bambino a veder rispettati i suoi bisogni, alla fine, parlano sempre di bisogni di non-qualcosa: il bisogno di non essere svegliato quando dorme, di non essere allattato se “non ha fame”, di non avere compagnia se sta “esplorando la sua capacità di autonomia”, di non essere aiutato quando “sta imparando a fare da solo”, di non essere immediatamente consolato quando deve “sfogarsi con il pianto” e via dicendo. Ma nel momento in cui il bisogno è invece di qualcosa o qualcuno: il seno, la mamma, le coccole, ecco che ci si affanna a mettere in guarda contro il “troppo” amore.


Rispetto. Il bambino va rispettato. Certo nessuno dirà il contrario. Ma una certa cultura del distacco sembra ricordarsi di questo principio solo per biasimare le cure prossimali. Così si esorta a “rispettare il sonno del bambino” evitando di svegliarlo anche se il seno della mamma sta scoppiando e il neonato magari non poppa da ore; di rispettare la sua “privacy” evitando di farlo dormire con i genitori; di rispettare il suo “bisogno di piangere” evitando di consolarlo; di rispettare la sua “voglia di indipendenza” offrendogli ciuccio e orsacchiotto invece del seno. In poche parole, rispettare il neonato diventa “lasciarlo in pace”, non stargli addosso, come se la mamma fosse una sorta di stalker che molesta suo figlio, che sarebbe invece più felice se venisse toccato il meno possibile. Rispettare i bisogni del bambino è un principio sacrosanto; ma poi quando quei bisogni vengono definiti in base alle aspettative degli adulti, qualcosa non torna.


Resilienza. Si definisce resilienza la capacità di un materiale di resistere alle sollecitazioni senza spezzarsi, ma assorbendo l’urto senza perdere la sua forma. È quindi una cosa diversa dalla resistenza, che è invece la capacità di sviluppare una “corazza” sufficientemente robusta da non risentire degli urti. È anche diverso dalla malleabilità, che è la caratteristica di deformarsi sotto l’azione di una forza, restando poi deformati anche quando questa forza è cessata.


Sempre più spesso si fa uso (e abuso) di questo termine, ma si è persa la comprensione di cosa significhi davvero essere resiliente. Ad esempio, tempo fa girava in rete un articolo che elencava una lunga lista di suggerimenti per insegnare ai propri figli la resilienza. Ora, è già discutibile l’idea che la resilienza possa essere “insegnata”… ma l’idea di insegnare ogni cosa fa parte dell’approccio pedagogico dominante, secondo il quale il bambino non può diventare ciò che deve diventare, se gli adulti non intervengono a modellarlo e istruirlo. Tuttavia il vero problema è che questo articolo, come molti simili, sembrava suggerire che la resilienza consistesse nell’essere pazienti e adattarsi a tollerare le frustrazioni. Ma quella è sopportazione. Tirare in ballo l’educazione alla pazienza spesso diventa così un alibi offerto ai genitori per giustificare tutte le situazioni in cui la volontà dell’adulto si impone contro quella del bambino.


In tempi più recenti si chiede anche agli adulti di essere “resilienti” e adattarsi alla “nuova normalità”. Ma quella è malleabilità o, se vogliamo dirla in termini più psicologici, accondiscendenza, rassegnazione. La resilienza richiede invece un forte senso identitario, la capacità di non perdere la connessione con il nostro sé più autentico, e di restare integro e coerente, pur adattandosi, anche nelle avversità.


Felicità. Secondo Lucia Rizzi, in arte Tata Lucia, protagonista di grande successo di una trasmissione televisiva che ha avuto molte stagioni, la felicità è frutto di un’azione educativa, un’arte appresa perché praticata in famiglia, e raggiunta attraverso “l’educazione al rispetto” (cioè non importunare il neonato con troppe attenzioni) e l’uso sistematico del sorriso, anche e specialmente quando il bambino è agitato o piange:


Anche quando il piccolo sta urlando, sono la vostra serenità e il vostro sorriso che lo aiutano a star bene5.


Più avanti si sostiene che è l’ansia della mamma a far piangere il bambino. Si colpevolizza così il genitore che correttamente accorre al primo segnale di disagio di suo figlio, rispecchiando la sua emozione, e si loda invece quello che, in modo dissonante, esprime serenità di fronte al disagio del suo bambino, affermando che “rispetta” il suo pianto e gli permette la “soddisfazione” di riuscire a calmarsi da solo. D’altronde, il motto “mamma serena, bambino sereno” imperversa in questi manuali e nei consigli degli esperti, che raccomandano uno stile di accudimento distaccato. Ancora una volta si disegna uno standard di bambino modellato sulle aspettative degli adulti, sui loro bisogni, e poi si passa a definire questo standard come “naturale”: un’altra parola in nome della quale si è sdoganata qualsiasi prassi. Sorridere quando il bambino piange è un messaggio molto difficile da decifrare per un bambino, perché l’espressione delle emozioni non è congruente con la situazione in atto. Come una nota stonata, questo messaggio incoerente incrina l’armonia e la chiarezza comunicativa.


Libertà. “Non tirarlo su ogni volta che piange: lascialo libero di sperimentare le sue emozioni e di sfogarsi”. “Non rispondere subito quando la notte ti chiama. Lascialo libero di provare la gioia di farcela da solo”. Questo tipo di esortazioni sono frequenti nei manuali che addestrano il genitore ad applicare la pedagogia nera. Per me la libertà è lo stato di chi, in qualità di persona integra, consapevole e connessa interiormente ed esteriormente, effettua delle scelte. Per questi cattivi consiglieri, invece, la libertà coincide con la solitudine, e chi ha bisogno del sostegno degli altri non è “libero”, e chi si prende cura, chi accorre con sollecitudine, chi risponde ai bisogni del bambino ed è presente, in realtà opprime. Per queste persone i legami affettivi sono una minaccia, perché espongono al rischio di un abbandono: meglio cavarsela da soli e rinunciare all’amore, che rischiare di perderlo. Per loro la libertà è quella della volpe che si recide la zampa per liberarsi della tagliola. In questa mistica dell’autarchia, la parola libertà viene utilizzata solo con significato privativo, nel senso di fare a meno di qualcosa o qualcuno. Inoltre sembra che, sul piano educativo, siano i genitori gli erogatori della libertà o dell’oppressione dei loro bambini. Ma ha senso, in assoluto, il concetto di dare la libertà? Quando la libertà dipende dal benestare altrui, non è più libertà. La libertà non può essere condizionata, così come non lo può essere l’amore. La libertà è uno stato intrinseco nell’essere umano: tutti nasciamo liberi e integri, vivi e vitali. Nessuno può rendere libero un altro, perché si tratta di una qualità essenziale dell’essere, un diritto inalienabile, innato, una condizione interiore. Nel momento in cui la libertà viene concessa, non è più libertà ma servitù.

Richieste paradossali e doppio legame

Un modo per indebolire la capacità critica delle persone è confonderle con indicazioni contraddittorie e vaghe. Chi è confuso non pensa con chiarezza, perde il filo, non ha più certezza di nulla e può considerare che il suo disorientamento dipenda da una sua incapacità a capire, e non dalla persona che gli sta parlando; soprattutto se questa persona ostenta sicurezza ed esperienza. Così i ragionamenti e i consigli contraddittori ricevuti causano una sorta di trance e indeboliscono la forza della persona che li ascolta, rendendola più dipendente dall’esperto.


Si è già accennato nel precedente capitolo alla “suggestione ipnotica” che subisce un bambino quando riceve un’attribuzione accompagnata dal divieto di discutere e persino pensare a ciò che sta succedendo. Particolarmente disabilitante è ricevere esortazioni contraddittorie, in particolare se la contraddizione non è esplicita, ma intrinseca nelle indicazioni. Questo si realizza quando nel messaggio sono contenute due affermazioni, una relativa al contenuto, e un’altra relativa al messaggio stesso, e queste due affermazioni sono contrastanti. Un esempio molto evidente potrebbe essere la frase: “Non fidarti mai di nessuno”. Chi riceve questo consiglio, se lo segue fino in fondo, dovrebbe diffidare del consiglio stesso, scivolando in un paradosso senza fine. Da un’altra testimonianza mi viene l’esempio di un padre che dice a sua figlia: “Devi seguire ciò che ti dico e non ciò che faccio”. In questo caso la contraddizione è fra il piano verbale e quello non verbale (parole/azioni), ma è anche contraddittorio dal punto di vista del messaggio di relazione, perché l’adulto, nel momento in cui pretende di essere rispettato nella sua autorità, si squalifica suggerendo che lui stesso non segue i princìpi che vuole trasmettere a sua figlia. Se l’indicazione è intrinsecamente contraddittoria, qualsiasi cosa si faccia in risposta, non si può che fallire. Ci si sente inadeguati e incompetenti e sempre più bisognosi di consigli.


Uno degli esempi più classici è il padre che rimprovera il figlio: “Non essere così passivo, non devi venirmi dietro qualsiasi cosa io dica! Voglio che pensi con la tua testa, che tu sia più autonomo!” Il povero bambino, come fa, sbaglia. Se sceglie di fare ciò che il papà gli dice, è passivo, non autonomo. Se sceglie di pensare con la sua testa e dà torto a suo padre, sta obbedendo ai suoi ordini, quindi di nuovo non è autonomo. Un altro esempio è l’ingiunzione “Sii spontaneo!”, rimproverando il bambino (o comunque l’interlocutore) di comportarsi in modo da compiacere l’altro piuttosto che per uno slancio sincero del cuore. Ovviamente, chi cerca di essere spontaneo obbedendo all’ordine, non è spontaneo, ma non lo è anche chi non obbedisce a tale richiesta.


Queste sono trappole da cui è impossibile uscire se non rifiutando il gioco.


Se la relazione fra i due soggetti fosse paritaria, sarebbe in fondo facile limitarsi a replicare che la richiesta fatta è incongrua e che è impossibile accontentarla. Ma una caratteristica delle ingiunzioni paradossali come queste è che avvengono all’interno di una relazione asimmetrica, in cui una persona ha molto più potere dell’altra. La persona sottoposta quindi non può protestare, perché sarebbe un atto di insubordinazione; chi osa discutere la regola sarà bollato come sciocco (o pazzo) oppure come cattivo. Non può nemmeno obbedire, perché obbedendo inevitabilmente fallirà, qualsiasi cosa faccia. Potrebbe in teoria fuggire dalla situazione, limitandosi a sottrarvisi. Ma queste situazioni avvengono in genere all’interno di una relazione di intenso legame emotivo e di dipendenza, da cui tirarsi fuori significa pagare un prezzo doloroso e a volte inaccettabile: la perdita della benevolenza dell’altro. Alla “vittima” incastrata in questa posizione insostenibile dunque non resta che ammalarsi, e il male può andare dalla patologia psichiatrica o organica alla soluzione narcisistica: il cinismo prende il sopravvento e si decide di diventare il “genitore di se stesso”, disprezzando gli altri e rifugiandosi in una sorta di autarchia affettiva. Una via di fuga solo in apparenza meno grave è vivere in uno stato trasognato, di ottundimento della consapevolezza. Gli psichiatri hanno studiato questi grovigli comunicativi fin dalla fine degli anni ’50, in particolar modo nella ricerca delle cause non congenite della schizofrenia; e a questo tipo di “situazione impossibile” è stato dato il nome di doppio legame. Lo psicologo Paul Watzlawick definisce come segue il forte legame asimmetrico tipico di queste situazioni:


Due o più persone sono coinvolte in una relazione intensa che ha un alto valore di sopravvivenza fisica e/o psicologica per una di esse, per alcune, o per tutte. Le situazioni in cui si hanno tipicamente queste relazioni intense includono (ma non sono limitate ad esse) la vita familiare (soprattutto l’interazione genitore-figlio); l’invalidità; la dipendenza materiale; la prigionia; l’amicizia; l’amore; la fedeltà a una credenza religiosa, a una causa o a una ideologia; i contesti influenzati da norme sociali o dalla tradizione; e la situazione psicoterapeutica6.


Sembrerà che si stia parlando di situazioni estreme; invece queste dinamiche sono frequenti e diffuse. La pedagogia nera è infarcita di questi scenari. Sebbene si sopravviva a occasionali trappole di questo tipo, diverso è il caso di un individuo che sin da bambino si trova a crescere all’interno di questa modalità disfunzionale di comunicazione: ciò lo renderà più vulnerabile, anche da adulto, a discorsi paradossali e incoerenti, meno consapevole e più facile preda della manipolazione; inoltre potrà a sua volta usare senza accorgersene lo stesso stile manipolatorio verso chi è più debole di lui. Prendiamo per esempio alcune di queste ingiunzioni paradossali che tante volte vengono rivolte ai genitori:


Per essere una buona madre basta seguire il proprio istinto. Ecco di nuovo, sotto mentite spoglie, l’esortazione “sii spontaneo!” La teoria è che per una madre sia naturale essere materna; e quando non lo è diventa una madre “snaturata”. Ma cosa definisce l’essere una “cattiva madre”? Semplice: ignorare le indicazioni pedagogiche che le provengono dai vari “esperti” di educazione infantile, gli stessi che parlano di istinto materno. Dunque da un lato si dice ai genitori di assecondare il loro naturale “buon senso”, e dall’altro si presume che debbano andare contro il loro istinto per poter educare degnamente i loro figli. Da queste indicazioni non possono scaturire che madri “snaturate”, da condannare in quanto pazze o malvagie.


Assecondare il bambino ma “senza esagerare”. Si esortano i genitori a rispettare i tempi e le richieste del bambino, ma entro certi parametri e misure che piovono dall’esterno. Si mettono in guardia i genitori dal “troppo” qualcosa, laddove questo qualcosa è una caratteristica legata alla sensibilità e all’impulso di ogni genitore: troppo amore, troppa sollecitudine, troppa attenzione, troppo contatto, troppa presenza. In sostanza, si chiede a madri e padri di non essere materne e paterni. L’esempio più rappresentativo di questa categoria di suggerimenti intrinsecamente contraddittori è quello relativo all’allattamento a richiesta. Ormai tutti conoscono questa raccomandazione dell’OMS, che ricorda come la fisiologia umana richieda la disponibilità del seno per il bambino ogni volta che mostra di cercarlo, quindi molto spesso e con intervalli variabili di tempo. Tale concetto viene “limato” e ridefinito dalla maggior parte dei manuali e degli “esperti” di puericultura, come nelle parole della Tata Lucia:


Allattamento a richiesta non deve voler dire che il neonato mangia quando e quanto vuole sia di giorno che di notte7.


Oltre a un mesto addio ai congiuntivi, dobbiamo qui prendere commiato anche dalla coerenza, che con un guizzo acrobatico viene estromessa da questa affermazione. Seguire la richiesta del bambino qui diventa rispettare gli orari. È tipico delle suggestioni paradossali utilizzare un ribaltamento del significato delle parole, non facile da cogliere perché non è esplicito ma suggerito dal contesto del discorso o dall’espressione non verbale che le accompagna.


Fidarsi è bene ma non fidarsi è meglio. Una versione interessante di questo consiglio paradossale del “non fidarsi mai” l’ho ascoltata non molto tempo fa da una mamma, a cui è stato detto: “Ricordati che tutto ciò che senti dire dai medici per il 50% è falso”. Poiché chi ha pronunciato la frase era un pediatra, il problema che si pone è: come sapere di quale 50% fa parte l’avvertimento dato?

Il bambino autentico
Il bambino autentico
Antonella Sagone
Riconoscere ed evitare la manipolazione nell’educazione dei figli. Accrescere la consapevolezza dei processi di mistificazione: un cammino difficile e sofferto per essere un genitore migliore, giorno dopo giorno. Nonostante sempre più spesso venga ribadita l’importanza del rispetto e dell’ascolto delle emozioni e dei bisogni dei bambini, nella nostra cultura prevale ancora uno stile educativo fatto di lusinghe e ricatti, premi e punizioni.Nel suo libro, Il bambino autentico, l’autrice Antonella Sagone descrive i meccanismi di condizionamento dei bambini e dei loro genitori: leggendolo, molti si rispecchieranno in certe situazioni di cui sono stati vittime nella loro infanzia oppure, ancora più dolorosamente, si renderanno conto di aver riprodotto le stesse dinamiche sui propri figli.L’educazione manipolatrice non solo spezza l’integrità degli individui e li priva dell’amore incondizionato che spetta loro di diritto, ma li rende anche molto più vulnerabili a ulteriori operazioni manipolatorie in età adulta.La consapevolezza di questi processi di mistificazione è un cammino difficile e sofferto, ma è importante sapere che quel bambino autentico, integro, luminoso è ancora nascosto nell’intimo di ogni adulto, e che ciascuno di noi può essere un genitore migliore, giorno dopo giorno. L’ebook di questo libro è certificato dalla Fondazione Libri Italiani Accessibili (LIA) come accessibili da parte di persone cieche e ipovedenti.