CAPITOLO V

La tirannia della paura

Non devo aver paura. La paura uccide la mente. La paura è la piccola morte che porta all’annichilimento totale. Affronterò la mia paura. Lascerò che mi sovrasti e mi attraversi. E quando sarà passata, volgerò l’occhio interiore a guardare il suo cammino. Dove era la paura, più nulla ci sarà. Solo io resterò1.

Si parlava in precedenza di quanto la paura indotta sia un elemento fondamentale per creare una reazione di massa, che permetta la manipolazione delle coscienze. In questo capitolo approfondisco come l’evento pandemico abbia portato a creare una condizione diffusa di panico e insicurezza, a tutto vantaggio di un progetto di tracciabilità e controllo degli individui.


Il filosofo Ivan Illich ha colto con chiarezza il legame fra il potere sanitario e quello politico, e ne ha previsto le nefaste conseguenze e gli scenari futuri in un saggio giustamente famoso:


La medicina iatrogena rafforza una società morbosa nella quale il controllo sociale della popolazione da parte del sistema medico diventa un’attività economica fondamentale; serve a legittimare ordinamenti sociali in cui molti non riescono ad adattarsi; definisce inabili gli handicappati e genera sempre nuove categorie di pazienti. L’individuo che è irritato, nauseato e menomato dal lavoro e dallo svago industriali può trovare scampo solo in una vita sotto vigilanza medica e viene così distolto o escluso dalla lotta politica per un mondo più sano2.


L’educazione (quella che ha plasmato noi adulti, come quella che sta modellando i nostri figli) è stata un fattore chiave nello sconvolgimento esistenziale che si è verificato negli ultimi due anni, e sarà anche un fattore determinante per il modo in cui usciremo da questa crisi.


La paura innesca una reazione innata detta di “lotta o fuga”, che porta a esaltare l’aggressività, oppure a comportamenti di evitamento, fino ad arrivare, quando né la lotta né la fuga sono possibili, al ritiro emotivo, il distacco dalle emozioni, il farsi piccoli e invisibili per sfuggire alla minaccia reale o percepita. Quando domina la paura o l’ansia, i processi di apprendimento, di esplorazione, la curiosità, la razionalità vengono fortemente inibiti: si va in modalità sopravvivenza, in cui l’unica cosa importante sono i riflessi pronti per combattere, fuggire o nascondersi.


Ecco perché è così difficile confrontarsi con una persona spaventata, e riportarla “alla ragione” con argomentazioni logiche, scientifiche o con il semplice buon senso: la sua visione a tunnel le permette di inquadrare solo una piccola area del suo campo percettivo, ed è arroccata in difesa; quando qualcosa mette in pericolo le sue certezze, si attiva il meccanismo della negazione, quindi l’interlocutore che sta cercando di dialogare in modo critico viene identificato come una minaccia, e la sua argomentazione come un attacco personale. Questo meccanismo è stato utilizzato a piene mani e incoraggiato dall’ideologia oggi dominante, al fine di mantenere il consenso sulla narrativa relativa all’evento pandemico. Alla popolazione terrorizzata è stato dunque fornito un assortimento stereotipato di figure negative a cui attingere qualora ci si imbattesse in chi esprime obiezioni razionali, per tacitarlo attribuendogli etichette di estremista, negazionista, terrapiattista e quant’altro possa servire per disprezzare e squalificare chi non esprime consenso. Come già abbiamo visto parlando di pedagogia nera, il dissenso all’interno di un doppio legame non è consentito, e chi contesta può rientrare solo in una di queste due categorie: malvagio o pazzo.


Così, se in passato prevalevano le tirannie e con esse la persecuzione dei dissidenti definiti come criminali, oggigiorno prevalgono i totalitarismi, dove il dissenso viene definito come una patologia da curare.

Questione di ormoni

Due differenti approcci, due differenti posizioni esistenziali, due differenti modi di affrontare la vita ed entrare in relazione con gli altri si fronteggiano negli esseri umani. Da un lato la filosofia del Homo homini lupus (ogni uomo è lupo verso l’altro uomo), ovvero la visione di mera sopravvivenza dell’individuo in competizione con il suo prossimo e con il resto dell’universo; dall’altro la percezione che tutto è interconnesso e che i benefici di una parte si riverberano sul tutto, per cui il nostro compito è armonizzarci con ciò che ci circonda e prenderci cura di noi stessi, degli altri, dell’ambiente con cui siamo in relazione. Nel film Cloud Atlas3 queste due posizioni sono ben rappresentate: da una parte attraverso il motto dei personaggi negativi, The weak are meat, the strong do eat (e cioè il debole è cibo per il forte), mentre dall’altra parte viene rappresentata la posizione di chi si prende cura, attraverso le parole dell’eroina Sonmi: Da ogni crimine, e ogni atto di gentilezza, generiamo il nostro futuro.


Ultimamente stiamo assistendo a una recrudescenza di retorica guerresca, basata sull’idea che la nostra integrità e benessere vada conquistata e protetta con la lotta e con l’annientamento di ogni cosa che possa ostacolarla o competere con essa: che siano altri gruppi di individui, o minuscoli virus. L’interconnessione è ignorata e rimane un’incapacità di percepire il quadro d’insieme, e comprendere che un approccio distruttivo non può che portare ad altra distruzione. Tuttavia, in parallelo a questo rigurgito bellicoso, sta crescendo anche la coscienza collettiva, con la consapevolezza di quanto invece sia importante la dimensione del prendersi cura.


Queste due anime, di guerra e pace, predazione e cura, sono presenti nell’uomo a un livello biologico, umorale. Infatti si possono identificare con due precisi assi neuro-ormonali che governano il funzionamento del nostro organismo e delle nostre emozioni: l’asse adrenalinico e quello ossitocinico. L’asse adrenalinico è detto anche il sistema di lotta e fuga, e viene attivato nei momenti di emergenza, mettendo in grado l’individuo di fronteggiare improvvisi eventi avversi. Agisce quindi sulla circolazione, con la vasocostrizione periferica che riduce il sanguinamento in caso di ferite, mentre il sangue va ai muscoli e al cuore, permettendo una maggiore forza e rapidità nell’aggredire o fuggire; la respirazione è potenziata; il sistema nervoso è in uno stato di estrema allerta.


Effetto opposto genera l’asse ossitocinico, che la studiosa Kerstin Uvnäs Moberg definisce il sistema della calma e connessione4: l’ossitocina, ormone noto soprattutto per i suoi effetti sul sistema riproduttivo, oltre a provocare le contrazioni dei muscoli che avvolgono il sistema duttale del seno e dell’utero, durante l’orgasmo, l’allattamento, il travaglio e il parto, è un ormone che presiede anche a processi importanti relativi alla crescita e riparazione cellulare, ai processi di guarigione, e sul piano sociale predispone al comportamento esplorativo, alle amicizie, alla convivialità, al benessere condiviso.


La paura e lo stress attivano l’adrenalina e il cortisolo, ormoni del sistema di lotta e fuga; ma quali sono invece i fattori che stimolano la risposta ossitocinica? Proviamo ad elencarli.

  • Il contatto: il tocco di una mano, una carezza, un massaggio, il contatto pelle a pelle, l’odore della pelle, la vicinanza stretta fra due persone: sono questi gli stimoli che più fortemente innescano il rilascio dell’ossitocina. Non a caso viene definito anche l’ormone dell’amore, dato il suo legame sia con il piacere sessuale, sia con i sentimenti di rilassatezza, benessere, abbandono e tenerezza che vi sono legati.
  • I segnali amichevoli: il sorriso, i gesti di amicizia, la convivialità, le situazioni sociali aumentano il livello di ossitocina, predisponendo le persone a una maggiore socievolezza, fiducia e cura reciproca.
  • Il contatto con la natura e l’attività fisica: anche l’attività fisica, specialmente se effettuata in un luogo naturale, potenzia il rilascio di ossitocina.
  • Il benessere e il senso di sicurezza inteso come assenza di minaccia, fondamentali per il rilascio di questo prezioso ormone, dato che emozioni come il dolore, la paura, l’insicurezza, l’imbarazzo, il disagio hanno invece un effetto inibitore.
  • Per ultimo anche il piacere del mangiare può avere un effetto sul rilascio dell’ossitocina, che sembra in una certa misura coinvolta anche nei processi di assimilazione del cibo, e questo può spiegare, al di là della sazietà, il senso di benessere, rilassatezza e buonumore che ci assale dopo un buon pranzo, specie se fatto in compagnia.

Il potenziamento dell’uno o dell’altro sistema nell’infanzia ha effetti durevoli ed è di radicale importanza per la futura salute psicofisica. Possiamo allevare infermieri o soldati, secondo le necessità dei nostri tempi. Uno stato di allarme continuato può abbassare la soglia di reazione allo stress in modo permanente, forgiando persone pronte a combattere o fuggire. Tutto questo è utile in tempo di guerra, ma in tempo di pace genera individui che tendono a logorarsi nell’ansia a ogni ostacolo incontrato nella vita. E benché si cerchi di convincerci del contrario, in questo momento la maggioranza della popolazione umana è in pace, desidera restarci, e ha bisogno più che mai di ossitocina per proteggerla e consolidarla giorno dopo giorno.

Il nemico invisibile

Se occorre generare uno stato diffuso di paura indifferenziata e di incertezza, quale nemico migliore di uno invisibile e sconosciuto? Può essere ovunque. Può aggredirci in silenzio senza che ce ne accorgiamo. Non sappiamo come combatterlo. Chiunque di noi può esserne un portatore (quindi complice) inconsapevole: il nostro vicino di casa, i nostri figli, persino noi stessi, possiamo tutti diventare veicolo di morte. Dobbiamo arginarlo, bloccarlo, eradicarlo. Erigere barriere, trincee, bastioni di difesa. Nasconderci, chiuderci in casa, respirare il meno possibile l’aria di “fuori”. Diffidare, tenere a distanza. Fabbricare armi, veleni, schierare i nostri eserciti di medici, infermieri, virologi, scienziati, farmacologi. Distruggere l’invisibile nemico con nuove medicine, farlo scomparire fino all’ultimo frammento, per sentirci di nuovo salvi dopo la vittoria totale. Questa narrativa guerresca è stata messa in campo fin dalle prime battute dell’evento pandemico, sollecitando un già ipertrofico asse adrenergico nella collettività, impedendo un esame obiettivo, una comprensione sistemica del problema e un’azione che fosse volta non solo alla lotta e alla fuga, ma anche e in primo luogo alla salute e alla cura. Se prima l’asse ossitocinico in qualche modo bilanciava quello dell’adrenalina, con le norme di “contenimento del contagio” ci è stato proibito tutto ciò che poteva attivarlo: il contatto con la natura, l’attività fisica, gli abbracci, i baci, la vicinanza, la convivialità, gli incontri con gli amici, la socializzazione, persino i sorrisi; mentre il linguaggio militare, con il suo quotidiano “bollettino di guerra”, manteneva alto il cortisolo, ormone dello stress.


L’adozione della chiave di lettura bellica nella nostra relazione con i microorganismi non è nuova: è iniziata più di un secolo fa e ha portato l’umanità a un vicolo cieco, una guerra senza quartiere che si protrae ormai da troppo tempo, con risultati devastanti per la salute della specie umana, delle specie animali di cui ci prendiamo “cura” e dell’ambiente nella sua totalità.


La dottoressa Anne Katharina Zschocke, che ha dedicato i suoi studi al tema del microbiota umano e ambientale, descrive lucidamente il disastro di questa logica di guerra:


Nel XIX secolo si ebbero due interpretazioni gravemente errate che hanno portato alla situazione attuale: si proiettava sui microbi la visione imperante all’epoca su lotta, guerra e concorrenza e si isolavano singoli ceppi batterici dalla molteplicità di un ambiente vitale naturale, li si facevano crescere come monoculture pure in laboratorio, si facevano con essi esperimenti sugli animali – tra l’altro in seguito anche sugli esseri umani – e senza esitare si arrivava alla conclusione che facessero insorgere delle malattie. (…) Da quel momento… il mondo microbico fu suddiviso in batteri “buoni” e “cattivi”, in germi “patogeni” e “non patogeni”. Si dichiarò la disinfezione come principio basilare per la salute e la sterilizzazione come fine ultimo a cui arrivare. Ancora oggi un mercato gigantesco si basa su questa idea5.


Il linguaggio militare applicato alla malattia ci trasforma tutti in soldati e, come tali, docili e ubbidienti, oltre che “pazienti”. Le statistiche dei contagiati e dei malati divengono bollettini di guerra, e il bilancio dei morti appare un conteggio delle inevitabili perdite, che in una guerra sono, entro certi limiti, necessarie e accettabili. Questa chiave di lettura ha fatto perdere all’umanità l’occasione di una comprensione profonda degli ecosistemi e dell’interconnessione fra tutte le forme di vita, lasciandoci inconsapevoli del ruolo chiave del microbioma e del concetto di salute basato sull’equilibrio dinamico fra organismi pluricellulari, batteri e virus.


È stata offerta una narrazione semplificata del problema, che invece di generare un atteggiamento volto al prendersi cura, ha provocato un’epidemia di comportamenti fobici e aggressivi. Successivamente, questa narrazione, semplicistica e ampiamente superata dagli eventi, è stata mantenuta in vita a tutti i costi, anche a prezzo di menzogne, mistificazioni e rimozione di ogni diritto costituzionale.


La retorica della guerra trasforma tutti i cittadini in soldati, e coloro che dissentono in traditori; e prepara il terreno a scenari ancora più tetri, in cui questi plotoni armati di odio e paura possono essere diretti verso qualsiasi “nemico” che l’ordine costituito ritenga di volta in volta meritevole di diventare l’oggetto della rabbia e della violenza collettiva.

Nuova normalità

Emergenza: il suo significato originario riporta a ciò che affiora in modo inaspettato. La Treccani la definisce come “situazione di estrema pericolosità pubblica, tale da richiedere l’adozione di interventi eccezionali”. Nelle situazioni critiche impreviste e improvvise le normali procedure per fronteggiare le crisi non sono abbastanza rapide e decise, pertanto si adottano misure che derogano a quei meccanismi di prudenza e garanzia civile che in tempi normali costituiscono il fondamento di uno stato di diritto, per la necessità di limitare i danni e prevenire maggiori catastrofi. Ciò che emerge all’improvviso è per sua natura nuovo e imprevedibile; ma sempre per sua natura un’emergenza diviene, con il tempo, una cosa emersa, visibile, osservabile e prevedibile. In altre parole, per definizione un’emergenza è un fenomeno temporaneo, e altrettanto dovrebbero esserlo le misure improvvisate che vi fanno fronte nella fase della reazione iniziale. Obiettivo prioritario della risposta alla crisi dovrebbe dunque essere approfondire la conoscenza del problema, per mettere in atto misure ordinarie, meglio strutturate e pianificate, idonee ad affrontarlo e a prendersi cura della popolazione a rischio. Normalizzare un’emergenza e renderla in qualche modo permanente non è solo una dichiarazione di fallimento di fronte alla crisi, ma è anche pericoloso, perché abituarsi a un’emergenza significa ridurre la propria attenzione, prontezza e flessibilità nei confronti di una situazione minacciosa e in divenire.


Proprio per questi motivi già nei primissimi mesi di pandemia ho trovato allarmante, disturbante e direi molto sospetto vedere la rapidità con cui si è cominciato a parlare di “nuova normalità”, quando ancora eravamo sopraffatti dagli eventi e in piena eccezionalità delle misure di contenimento. La cosa che più mi colpì fu la velocità con la quale le pubblicità si adeguarono, facendo scomparire i baci, gli abbracci e ogni forma di contatto fisico; mostrando mascherine indossate con naturalezza da massaie serene mentre riempivano i loro carrelli di prodotti disinfettanti; genitori che affettuosamente lasciavano i figli a scuola mandando baci da dietro i finestrini chiusi dell’auto; dichiarazioni d’amore via cellulare; la scomparsa degli scenari all’aria aperta, sostituiti da ambientazioni casalinghe, modelli in pantofole, giochi da salotto. Nel contempo, a scuola sono comparsi manifesti, canzoni e giochi ispirati alle amiche mascherine, mentre l’assortimento di emoticon dei social si arricchiva di abbracci virtuali e di un assortimento completo di faccine imbavagliate.


Ma attenzione. Questa iconografia non si è limitata ad adeguarsi a un cambiamento di costume nella popolazione: lo ha preceduto e ha contribuito attivamente a consolidarlo, quando ancora a parole ci illudevano che il sacrificio sarebbe durato un mese o poco più. Ho trovato allora assai inquietante questo tentativo di normalizzazione di un assetto difensivo, mantenuto con insistenza anche nella cosiddetta “ripartenza”. Nel frattempo, si addolciva la pillola di retorica con la favola che sarebbe andato “tutto bene”, e che saremmo riusciti comunque a salvare capra e cavoli. Ma io sapevo che, per definizione, si perde o la capra o i cavoli.


Se si ripercorrono questi due anni di misure “eccezionali”, si nota che queste sono state sempre introdotte come provvedimenti temporanei, un poco alla volta, un settore alla volta, una categoria di individui alla volta. Ma allo stesso tempo, ci veniva rappresentata dai media una normalità sempre più distopica e lontana dalla vita quotidiana sino ad allora sperimentata, una condizione sempre più incongrua e disconnessa dalla vita e dalla natura umana. Sono così apparse via via le bambole provviste di mascherina, il gioco del dottore vaccinatore, le app per tenerci alla larga gli uni dagli altri, fino all’articolo di giornale in cui un giornalista particolarmente zelante cercava di convincere i lettori che una donna con il volto coperto fosse più seducente. La narrazione che, con tono rassicurante, ci mostrava l’assurdo come normale ci ha fatto tollerare direttive prive di senso come le seguenti: al mare senza prendere il sole, in discoteca senza ballare, a scuola senza interagire con i compagni, al parco senza altalene, all’asilo senza giochi, allo stadio senza tifosi, alla scuola guida senza esami di guida, e a messa senza acquasanta e segno di pace.


Noi adulti abbiamo la memoria a soccorrerci e sappiamo che un’altra vita è possibile; possiamo ripristinare uno stile di vita più consono alla nostra natura nel momento in cui le libertà ci verranno restituite… o quando in qualche modo ce ne riapproprieremo. Ma che dire dei nostri bambini? Loro, seppure più vicini all’istintualità e quindi più immediatamente sofferenti per le restrizioni, sono anche più plastici nell’adattarsi alle situazioni più estreme, purché gli adulti intorno a loro trasmettano un messaggio di normalità e calma. Sta a noi genitori decidere se vogliamo rafforzare il loro senso di giustezza interno, oppure la narrazione che viene proposta dall’esterno.

Andrà tutto bene?

Come genitori, spesso di fronte a situazioni difficili ci troviamo a rassicurare i nostri figli e proteggerli dalla paura e dallo sconforto. Pensare positivo è un atteggiamento esistenziale che permette di valorizzare i punti di forza piuttosto che le criticità, trasformare gli ostacoli in opportunità e incoraggiare l’attivazione delle risorse interiori per superare i problemi. Tuttavia è importante non confondere un approccio positivo ai problemi con il cosiddetto pollyannismo, e cioè l’atteggiamento di chi nega gli aspetti spiacevoli della vita e cerca di rassicurare a tutti i costi se stesso o gli altri. Pollyanna è la protagonista di un romanzo di Eleanor Porter6, che poi è diventato anche un famoso cartone animato. È un’orfanella che con determinazione mette in atto, in tutte le innumerevoli avversità della sua vita, un gioco che le era stato insegnato da suo padre: il gioco della felicità. Si tratta di trovare il lato positivo in ogni avversità e in ogni problema della vita. Nella storia Pollyanna riesce alla fine a contagiare anche le persone più cupe intorno a lei e, nonostante attraversi momenti veramente difficili, alla fine riesce sempre a riprendersi. Da questa storia è stato tratto il termine pollyannismo per indicare chi minimizza o nega le esperienze sgradevoli e i problemi, raccontandosi una versione della realtà edulcorata e ostinatamente ottimista.

Tornando ai genitori, è importante che gli adulti, affiancando i loro figli, seppure aiutandoli a trovare gli aspetti positivi delle cose che accadono loro, non operino interventi di negazione o minimizzazione delle difficoltà o dei sentimenti negativi che ogni bambino prova. I sentimenti sono tutti degni di rispetto, anche quelli come la tristezza, la rabbia, l’angoscia, la disperazione. Solo dopo un’elaborazione delle emozioni negative si può andare oltre, così come solo dopo una disamina calma ma realistica dei problemi si può lavorare per trovare soluzioni che siano radicate nella realtà, e non invece in una fantasticheria.


Negli ultimi tempi la popolazione adulta del nostro paese è stata infantilizzata, ritenuta incapace di elaborare e comprendere problematiche complesse, e quindi è stata soggetta a imposizioni, manipolazioni, falsi moralismi: tutte cose che non dovrebbero essere esercitate nemmeno nei confronti dei bambini. Una di queste azioni minimizzanti è stata la rassicurazione forzata, e la frase andrà tutto bene è diventata il tormentone dei primi mesi di pandemia. Fin dai primi tempi ho provato verso questo approccio un senso di inquietudine e insofferenza; rammento che dicevo con un certo sarcasmo che “Andrà tutto bene” è la frase che nei film viene detta alla persona che sta per morire. Allora passavo per guastafeste, e nemmeno io sapevo spiegare bene il motivo di questo fastidio, ma ora so che nasceva dalla preoccupazione di vedere incoraggiare un ottimismo irriflessivo, che non teneva conto dell’enorme complessità del problema che ci trovavamo a dover fronteggiare. Lo slogan “Andrà tutto bene” ci ha impedito allora, e impedisce ancora oggi, di focalizzarci su ciò che non va e su cosa si può fare per migliorare la situazione. Uno slogan come “Possiamo fare meglio” sarebbe stato preferibile!

Vittime dimenticate

Mai come in questi due anni di emergenza pandemica le esigenze irrinunciabili dei bambini sono state ignorate o minimizzate. Ci si è preoccupati (anche se in modo maldestro, spesso inefficace e parziale) delle necessità di varie categorie di cittadini, e davanti a tutto si è posta la priorità di garantire una sicurezza sanitaria; ma le categorie deboli (anziani e bambini) sono all’improvviso diventate non più persone con una loro vita, ma solo statistiche da far quadrare, elementi “a rischio” da mettere in sicurezza con la stessa cura che si ha nel mantenere vivo il bestiame di un allevamento, mentre i loro bisogni vitali sono diventati un “plus” facilmente sacrificabile. Così l’idea di protezione che si è imposta è stata la segregazione degli anziani, lasciandoli a languire e spesso morire in totale solitudine, lontano dai loro cari; e per quanto riguarda i bambini, tutti i loro bisogni fondamentali sono stati accantonati in nome di una sicurezza sanitaria tutta da verificare. E non sto parlando solo dei 10 diritti sanciti dalla Convenzione Internazionale dei diritti dell’infanzia7, dei quali comunque oltre la metà è venuta meno, in modo più o meno continuo, da quando sono state messe in atto le norme di gestione dell’emergenza.


Nel mio precedente lavoro, La rivoluzione della tenerezza8, ho parlato dei diritti naturali dei bambini9: fra questi ricordo qui il diritto a sporcarsi, agli odori, al dialogo, all’uso delle mani, alla strada, al selvaggio, al silenzio che permette di udire il suono dei rumori naturali. Tali bisogni irrinunciabili sono di colpo diventati “rinunciabili”, come se si trattasse in fondo solo di futilità, piacevolezze di cui si potesse fare a meno, o facilmente sostituibili. Abbiamo rinchiuso i nostri figli in casa e nelle aule, abbiamo coperto loro il naso e la bocca impedendo sia la respirazione libera e l’uso dell’olfatto, sia la corretta percezione dell’espressività del viso umano; gli abbiamo negato per mesi l’attività sportiva e persino quella libera all’aperto, in aree selvagge e naturali; abbiamo proibito loro ogni contatto fisico con i loro amici e compagni, e persino la semplice vicinanza, fino a sgridare e punire a scuola bambini che avevano osato raccogliere da terra la matita del compagno o aiutato la compagna a indossare il cappotto; abbiamo minimizzato le loro paure e angosce facendone una questione di “abitudine” e abusando del termine “resilienza”, per mascherare il fatto che ciò che si è preteso da loro è stata letteralmente una resa incondizionata. In linea con la peggiore pratica della pedagogia nera, abbiamo ripetuto loro in ogni salsa che tutto ciò era fatto per il loro bene, anzi, abbiamo disegnato le faccine sorridenti sulle loro mascherine, con un inquietante “effetto clown” sui segnali non verbali dei volti; abbiamo insegnato filastrocche e canzoncine sulla gioia di lavarsi le mani e igienizzare tutto ciò che toccavano, li abbiamo cacciati dalle aule, rinchiusi in casa e piazzati per ore davanti a uno schermo, e infine abbiamo voluto violare i loro corpi con un trattamento sanitario, offrendo loro una narrazione retorica che trasfigurava la loro accettazione in un atto di altruismo e di coraggio, con tanto di consegna del relativo “diploma”.


In tutto questo, i genitori si sono posti talvolta confermando con convinzione la narrativa ufficiale, talaltra come complici riluttanti e rassegnati, e altre volte infine hanno lottato con disperata ostinazione per cercare di contrastare decisioni governative che confliggevano con la loro visione. In tutti i casi, sono certa che quei genitori hanno fatto ciò che pensavano fosse in loro potere per riservare il meglio, o almeno il minor danno, per i loro figli. Ma quale percezione i bambini hanno avuto di queste dinamiche complesse, di queste decisioni prese sopra le loro teste? Qualcuno ha forse chiesto loro cosa volessero? Quanto si sono adattati a una narrazione pressante, che presentava una situazione profondamente anormale e innaturale come nuova normalità?


Non voglio entrare qui nel merito della sanguinosa querelle rispetto alle varie disposizioni di governo, ma solo porre l’attenzione di tutti sulle emozioni dei bambini, ai quali ben pochi hanno chiesto il parere o la loro percezione dei fatti. Lasciamo quindi che siano loro a dirci, per un momento, come si sentono e si sono sentiti.

Nel cuore e nella mente dei bambini

Nell’aprile del 2021 lanciavo un’indagine sulle pagine di un social, chiedendo ai genitori di raccontare l’impatto psicologico della pandemia sui loro bambini. Era passato un anno dal primo lockdown e non ancora si intravedeva una luce in fondo al tunnel.

In meno di mezza giornata, ho avuto più di 200 risposte, a dimostrare come il tema della serenità mentale dei bambini, così ignorato dalle istituzioni, fosse invece ben presente in tutte le famiglie. Da questo modestissimo sondaggio emersero dati inquietanti, che mostravano fino a che punto la vita sociale, cognitiva e affettiva dei bambini era stata sconvolta dagli eventi, e documentavano l’enorme senso di disagio vissuto da bambini dai primi passi fino alle soglie della pubertà. Mostravano anche, in modo eclatante, quanto la coscienza e la consapevolezza dei bambini fosse sottovalutata e trascurata. Vediamo i vari aspetti, affiancati dalla viva voce dei protagonisti, in alcune delle testimonianze raccolte da quel sondaggio.

  • La paura della malattia e della morte. Mamma ma io non voglio morire! Moriremo tutti? Che succede se ci ammaliamo, finiamo tutti in ospedale? No mamma, non le raccolgo le margherite, c’è il coronavirus anche sui fiori. Mamma, ma in bicicletta sono più veloce del coronavirus? Un bambino, alla richiesta di un altro bimbo di giocare, risponde: No, c’è il covid, si può morire. Altro bambino, zona rossa e asilo chiuso, non fa un passo fuori casa perché teme che i virus siano dappertutto: Non possiamo andarci perché sennò il virus contagia la strada? ha contagiato gli alberi? allora è pure negli stivaletti?
  • La paura di perdere i propri cari. Ho paura di contagiarti e che tu muoia (in lacrime). Non uscire! C’è il virus e poi non torni più! Un bambino è preoccupato per i nonni, ricorda a memoria tutte le date di vaccinazione; un altro chiede continuamente: Stai male? Una bambina è disperata, ha perso la nonna e teme di essere stata lei a ucciderla.
  • La sofferenza sociale. Mamma mi fai vedere il sole? Non mi ricordo più quando si vedeva il sorriso delle persone. Mamma posso mettermi il grembiule per casa? Così mi sembra di stare a scuola… Papà questo virus mi ha tolto il mare! Una nonna alla nipotina: “Cosa vuoi per il tuo compleanno?” Risposta della nipotina: “Un abbraccio”. Una bambina ha passato un inverno di solitudine, mangiandosi le unghie a sangue e facendo mascherine di carta per farsi venire a trovare... Rimane come una statua di sale quando persone che adora la guardano da dietro una mascherina e le dicono Non possiamo salutarci... chiede alla mamma se le vogliono ancora bene. Un bambino teme che quando rivedrà i suoi compagni della materna non si ricorderanno più di essere stati amici. Un altro conosce a malapena il nome dei suoi compagni e delle sue compagne perché non gli è permesso nemmeno voltarsi.
  • Passato, presente e futuro. Bimbi di 4-6 anni: Vorrei tornare ai vecchi tempi. Lo sai nonna, io me lo ricordo come era prima. Mamma quando si ritorna come prima, senza mascherine, più felici? Quanti anni avremo io e la sorellina quando il virus passerà? Mamma, ma io avrò un’infanzia bella come la tua? Mamma, da grande non voglio avere figli, così non dovranno soffrire a stare fermi e seduti in classe con la mascherina come sto io. Un bambino racconta al fratello, ai primi giorni di asilo, com’era prima: Prima del covid non avevamo la mascherina tutto il giorno, poi si andava a mangiare in mensa e si poteva parlare assieme con tutti, poi i lavoretti si facevano assieme, la maestra ci spostava i banchi e le sedie, si faceva il trenino con le sedie, poi io abbracciavo le compagne, a volte mi aggrappavo alla maestra, poi le gite in pullman erano bellissime! Te non lo puoi sapere, ma fidati di me, senza covid era bello andare a scuola, adesso nemmeno io ho più voglia di andarci.
  • Regole. Mamma non ci dobbiamo abbracciare – E perché amore? – Perché ce lo hanno detto le maestre. Nonna, ma tu non puoi venire qui, perché non sei della famiglia e bisogna tenere la distanza. Mamma ma col virus si può camminare? Rivolto al suo gemello: Non mi puoi baciare, c’è il virus! Una bambina torna da scuola con due mascherine una sopra l’altra perché l’ha detto la maestra, e vuole che lo faccia anche sua madre. Molti bambini si scandalizzano quando vedono qualcuno senza mascherina per la strada, o persino nei film.
  • Nuova normalità. 4 anni, tornando dalla materna: Mamma, è vero che adesso che sono diventata grande posso finalmente mettere anch’io la mascherina?” 8 anni: Senza mascherina mi sento nudo. 2 anni e mezzo: Non mi ricordo di quando si poteva girare senza mascherina.
  • Regressione. Molti bambini, anche in età scolare, dopo i lockdown hanno ripreso a dormire nel lettone anche se l’avevano abbandonato da anni, mostrano ansia di separazione e si spaventano di fronte agli estranei anche se hanno 2-3 anni.
  • Agorafobia, claustrofobia, idee persecutorie. Molti bambini, usciti di casa dopo un lungo lockdown, sono disorientati e spaventati. Uno non riconosceva i luoghi e aveva paura di non trovare più la strada di casa. Altri vanno in panico appena si cambia percorso. Molti sono spaventati e a disagio e vogliono tornare subito a casa. Un bambino di 5 anni ha paura di stare da solo in una stanza. Un altro di 3 anni ha paura della gente con la mascherina, dice che sono “cattivi”.
  • Tic, ossessioni, fobie. Ho paura di cadere dal letto, ho paura che le mani delle fogne mi prendano e mi portino via. Una bimba di 3 anni si addormenta solo dopo complessi rituali: Mamma non voglio stare da sola! È tornato Dracula! Un bimbo di 7 anni ha paura di una lampada; un’altra della stessa età ha avuto un attacco di panico in classe; altri hanno sviluppato il terrore del buio e delle porte chiuse. 3 bambini di 4-5 anni hanno sviluppato un’ossessione per lavarsi le mani, e si svegliano anche la notte per farlo. Una si mastica un dito fino a causare un callo; un’altra ripete come un eco le sue stesse parole. C’è chi ha avuto un aumento di tic e chi soffre di insonnia e di incubi.
  • Rabbia. Molti bambini, specie rispetto alla scuola, hanno violenti scoppi di rabbia: A me piace stare a casa da scuola, ma quando lo decido io, non quando lo decidono gli altri, dice un bimbo di 5 anni. E un altro: Non ho fatto niente di male ma mi sento in prigione come se avessi rubato. Decidono loro cosa possiamo ma soprattutto cosa non possiamo fare; ma cosa ne sanno loro di cosa vorremmo fare, invece? Non ce lo chiede mai nessuno, dice un ragazzo di 14 anni. E va bene! Grida una bimba di 8 anni dopo aver pianto e lottato a lungo davanti alla scuola: Oggi entro, ma è l’ultima volta! Una volta entrata, la maestra riferisce che è “buonissima”: sta immobile al banco. Un ragazzo di 14 anni in DAD dice che se ritorna a scuola non vuole fare merenda perché lo stressa mangiare “come un ladro”. Dice che i suoi compagni “sono pixel”.
  • Depressione, pensieri suicidi. Papà come è fatto l’inferno? - Perché? - A scuola siamo 8 ore seduti con le mascherine... 8 ore, capisci? È un inferno (bimbo di 6 anni). Stessa età: mamma, ho dei brutti pensieri e non so come allontanarli. 7 anni: Mamma, dimmi la verità, il coronavirus non passerà mai, vero? 8 anni: Sono inutile, non ho amici, sono brutta, nessuno vuole giocare con me, mi vorrei suicidare, ho paura che voi morirete. 11 anni: Mamma smettila di essere sempre ottimista, non torneremo mai alla vita di prima. Diversi bambini anche alla riapertura non vogliono più riprendere lo sport o le attività, sono disinteressati a tutto e non vogliono uscire ma poi piangono di solitudine, affermano di non ricordare più com’era “prima”, hanno sviluppato disturbi dell’alimentazione o dipendenza dagli schermi.
  • E i più piccoli? Anche i bambini nati con il lockdown mostrano diversi problemi. Bambini da otto mesi a un anno e mezzo vivono malissimo ogni alterazione della routine, si spaventano se portati in luoghi nuovi, non hanno comportamento esplorativo, presentano un ritardo nelle normali tappe evolutive, e appaiono inconsapevoli del fatto che la situazione attuale è uno stato di eccezione e non la normalità. Una bimba rimette la maschera alla mamma quando se la abbassa; un altro piange quando la mamma la indossa, e se vede avvicinarsi altre persone con mascherina va in panico e rifugge il contatto ravvicinato. Un altro si getta a terra in preda al panico quando rivede i nonni dopo sei mesi di videochiamate. Molti di loro sono già dipendenti da internet.

Smettiamola di minimizzare

Fin dai primi atti dei provvedimenti per fronteggiare l’emergenza molti psicologi e pedagogisti hanno lanciato l’allarme riguardo ai rischi per la salute mentale dei bambini. Si è richiesta a gran voce un’attenzione, nel pensare i provvedimenti, a soluzioni che potessero compensare in qualche modo la deprivazione sociale e sensoriale, o almeno mobilizzare risorse in più per sostenere le famiglie e i minori sottoposti a questo stress prolungato. I loro appelli sono rimasti, nella migliore delle ipotesi, inascoltati, e nella peggiore hanno suscitato derisione o reazioni aggressive e difensive, da parte di persone comuni ma anche di soggetti pubblici, come se queste richieste fossero un tentativo di privare gli adulti dei provvedimenti protettivi contro il contagio. I media hanno gettato benzina sul fuoco alimentando queste reazioni ostili e minimizzando o ridicolizzando chi metteva in guardia contro le serie conseguenze di queste situazioni stressanti nei bambini. Questo atteggiamento prosegue tutt’ora, nonostante le relazioni allarmanti che ci vengono da studi clinici e dati epidemiologici. Ne citiamo solo alcuni fra tanti. Uno studio prospettico francese effettuato su bambini in età scolare subito dopo il primo lockdown mostrava che il 17% evidenziava sintomi di PTSD (sindrome post-traumatica da stress)10. Un altro studio italiano effettuato su bambini e giovani dagli 8 ai 18 anni, ha rilevato il 30% di PTSD, in particolare fra i figli di operatori sanitari11. Pesante anche il bilancio per gli adolescenti: una revisione di studi12 ha mostrato la presenza di PTSD, depressione e disturbi d’ansia, mentre una meta-analisi13 ha evidenziato depressione in un adolescente su 4 e ansia in uno su 5: il doppio degli anni precedenti la pandemia.


Smettiamo di schernire i professionisti della salute mentale e coloro che si occupano di infanzia che da due anni ormai vanno avvertendo che la situazione per i bambini è veramente traumatica e disfunzionale. Non è questa le sede per discutere se in certi momenti alcuni provvedimenti siano stati necessari, almeno sulla base di quanto noto al momento; sono comunque stati imposti senza aiutare i bambini a comprenderli senza fraintendimenti, anzi bersagliandoli di messaggi contrastanti, dal terrorismo psicologico al pollyannismo più sfrenato. Anche laddove uno stress causato da provvedimenti d’urgenza fosse stato inevitabile, smettiamo di minimizzare i danni o di negarli, disprezzando le competenze di chi si occupa proprio di salute mentale e benessere dei più piccoli; questi “effetti collaterali” dei provvedimenti hanno costituito, e continuano a costituire, un’emergenza per la salute psicofisica dei nostri bambini che non può essere stralciata dagli obiettivi di tutela della salute che informano le decisioni dei governi.


Il cervello dei bambini è enormemente plastico, e proprio nei primi anni si tracciano le “strade” dei percorsi neuronali; cioè, detto in parole molto semplificate, il modo di pensare e di sentire. Le due cose vanno insieme, perché nel bambino l’apprendimento viaggia sulle esperienze emotive. È attraverso le emozioni che nelle menti dei più piccoli si tracciano i percorsi del pensiero. Quello che si apprende in questi primi anni, comprese le regole morali ed etiche, si incide in maniera così profonda da non essere nemmeno cosciente, e quindi è assorbito in modo acritico. Associare, come è stato, apprendimenti e tappe fondamentali evolutive con esperienze emotive angoscianti può causare nei bambini blocchi che potrebbero inibire per sempre la loro propensione ad esplorare e ad apprendere. Come dice la psicologa Daniela Lucangeli, studiosa di neuroscienze e processi di apprendimento,


Ogni bambino, mentre impara, costruisce un bagaglio di memorie differente, in funzione del fatto che stia apprendendo con ansia oppure con gioia: se lo fa con ansia, questa riemerge assieme alle nozioni che lui ha memorizzato causandogli un cortocircuito emozionale, intralciando la sua capacità di imparare ancora14.


Dobbiamo prendere coscienza del fatto che i bambini sono persone a pieno titolo, non sono dei cuccioli che reagiscono in modo ingenuo e rudimentale a ciò che avviene intorno a loro. Hanno i loro pensieri, e spesso sono pensieri molto più grandi di loro, e persino più grandi dei pensieri degli adulti, sempre presi dalle minutaglie del quotidiano. Hanno emozioni: amore, dolore, paura, rabbia, felicità, e le loro emozioni hanno valenza assoluta, non sono più piccole, ma più grandi delle nostre, di noi che abbiamo imparato a smorzarle con la ragione o la rimozione. Hanno le loro teorie sulla vita, l’universo e ogni altra cosa. Ragionano sul passato e sul futuro: il proprio, dei loro familiari e del mondo intero. Si pongono dei perché grandi come quelli su cui si sono logorati filosofi di tutti i tempi.


Tanta grandezza va rispettata e riconosciuta, e quando l’imprevisto travolge la vita quotidiana, come è successo di recente a tutti noi, occorre riservare un posto speciale ai bambini, per ascoltarli con raddoppiata attenzione e proteggerli dai nostri errori e dalle nostre manchevolezze.

Il bambino autentico
Il bambino autentico
Antonella Sagone
Riconoscere ed evitare la manipolazione nell’educazione dei figli. Accrescere la consapevolezza dei processi di mistificazione: un cammino difficile e sofferto per essere un genitore migliore, giorno dopo giorno. Nonostante sempre più spesso venga ribadita l’importanza del rispetto e dell’ascolto delle emozioni e dei bisogni dei bambini, nella nostra cultura prevale ancora uno stile educativo fatto di lusinghe e ricatti, premi e punizioni.Nel suo libro, Il bambino autentico, l’autrice Antonella Sagone descrive i meccanismi di condizionamento dei bambini e dei loro genitori: leggendolo, molti si rispecchieranno in certe situazioni di cui sono stati vittime nella loro infanzia oppure, ancora più dolorosamente, si renderanno conto di aver riprodotto le stesse dinamiche sui propri figli.L’educazione manipolatrice non solo spezza l’integrità degli individui e li priva dell’amore incondizionato che spetta loro di diritto, ma li rende anche molto più vulnerabili a ulteriori operazioni manipolatorie in età adulta.La consapevolezza di questi processi di mistificazione è un cammino difficile e sofferto, ma è importante sapere che quel bambino autentico, integro, luminoso è ancora nascosto nell’intimo di ogni adulto, e che ciascuno di noi può essere un genitore migliore, giorno dopo giorno. L’ebook di questo libro è certificato dalla Fondazione Libri Italiani Accessibili (LIA) come accessibili da parte di persone cieche e ipovedenti.