Raffaele Mantegazza

Dalla Pedagogia della resilienza
alla Pedagogia della resistenza

Professore Associato Pedagogia Interculturale Università Milano Bicocca

A Tel Aviv vive una coppia di giovani fidanzati che ha intenzione di sposarsi. In Israele, per vicende storiche la generatività è estremamente importante. Come da sempre il popolo ebraico, a maggior ragione dopo la Shoah, è un paese che ha una politica di sostegno alla genitorialità. Quindi una coppia che non vuole fare figli non è vista tanto bene. Questi due ragazzi invece vogliono assolutamente dei figli. Il ragazzo è un donatore di seme quindi ha depositato il suo seme in 14 provette, il numero è importante in quanto è un numero pari. La legge israeliana prevede che il diritto di prelazione di questo materiale è della coppia, in caso insorgesse un problema di infertilità. Se però la coppia rinuncia con un documento scritto, questo sperma viene congelato e conservato per la fecondazione eterologa. Prima di tutto l’omologa. Il ragazzo, purtroppo, muore in un attentato. Si pone il problema di cosa fare di queste 14 provette. 

La ragazza chiede che le vengano assegnate le provette con l’intento di essere distrutte in quanto il ragazzo purtroppo non può più prendere decisioni perché scomparso e lei non vuole diventare la madre di un bambino che nascerebbe orfano. 

I genitori del ragazzo chiedono invece di ottenere le provette con l’intento di cercare una madre surrogata e far nascere un bambino con la fecondazione eterologa. La madre surrogata dopo la nascita del bambino dovrà farsi da parte, come previsto dalla legge, ed il bambino verrà cresciuto dai nonni che si spacceranno per i suoi genitori. 

Il tribunale, considerando che le provette sono in numero pari, seguendo la legge di Israele, (vedi Salomone cosa dice) assegna sette provette alla madre e sette provette alla nonna, la suocera. 

Chiaramente entrambe le parti presentano ricorso avverso questa sentenza ridicola. La sentenza definitiva assegna le provette alla suocera e permette di fare la fecondazione eterologa con l’unica condizione che, quando il figlio o la figlia che nasceranno avrà compiuto la maggior età, dovrà conoscere la verità. 

La coppia di nonni/genitori, perché adesso non si capisce bene cosa siano, cerca per tre anni una madre surrogata, scartando una trentina di candidate. Quando trova quella che ritiene adatta, fà la fecondazione eterologa e nasce una bambina. Il giorno in cui nasce la bambina, per la prima volta dopo tre anni, la signora va sulla tomba di suo figlio al cimitero. 

Questa è una storia vera che mi è stata raccontata ad un convegno internazionale di bioetica a Cipro, da una collega di Tel Aviv. 

Perché ho iniziato con questa storia? 

Perché noi dobbiamo renderci conto che siamo ad una svolta epocale. 

Stiamo vivendo un periodo della storia umana che non ha mai visto problemi etici di questo tipo. Non è mai stato possibile, tecnicamente. Quando incontriamo una persona, chiunque sia, una persona diversa da noi per cultura, per qualsiasi cosa, solo di due cose possiamo essere certi: che morirà, come noi; e che nove mesi, otto mesi, sette mesi prima della sua nascita, un pene è entrato in una vagina. Per millenni siamo stati certi di questa cosa: un pene è entrato per un atto d’amore, purtroppo per un atto di violenza o per un atto che non aveva previsto di far nascere un bambino, ma quello era un fatto certo. Un’intera specie per millenni ha fatto i figli in un modo solo. Oggi per fare dei figli ci sono altre possibilità, oggi i figli possono nascere diversamente e nascono diversamente. Lasciando stare che cosa ne pensiamo, questo è un dato di svolta assoluta, siamo in un’epoca storica nella quale una specie animale ha la possibilità di distruggere tutto il pianeta. Si calcola che possiamo distruggere settanta pianeti come la Terra con gli arsenali atomici che abbiamo. E anche senza usare gli arsenali atomici, con l’inquinamento e con le scelte anti-ecologiche che facciamo continuamente arriveremo senza dubbio a distruggerlo. La Nasa sostiene che nel 2050 non si vedranno più le stelle negli Stati Uniti. Per la prima volta da quando la terra si è formata non si vedranno più le stelle per l’inquinamento. Abbiamo messo le mani sui grandi indisponibili. 

La famosa poesia di Garcia Lorca, che è molto bella, dice: “la mia vita confina a nord con la morte e a sud con mia madre ferita”. Immagine bellissima, la madre ferita, che attraverso la sua ferita ti ha dato origine e viaggi, Lorca, Andalusia, la Spagna, dal sud caldo al nord freddo. Ma non è necessariamente una cosa negativa. Però io non controllo i limiti. 

Noi invece abbiamo messo le mani sui limiti. 

Abbiamo messo le mani sulla morte. Pensate alle recenti questioni sul fine vita, l’accanimento terapeutico, la definizione di morte cardiologica, la definizione di morte cerebrale, che è una cosa su cui sto lavorando molto da quando insegno nel dipartimento di Medicina. 

E la vita. La generatività. La gettatezza. 

Oggi non siamo più gettati, siamo “progettati” direbbe Heidelberg. Ma sono sempre successe queste cose, sono sempre successe le guerre, ma la prospettiva di una distruzione globale del pianeta e di un’intera specie no. 

Torna qui il discorso dell’enciclica di qualche anno fa. Siamo a una svolta epocale perché abbiamo la possibilità non di distruggere un popolo, una nazione, un continente, ma tutto ciò che c’è su questo pianeta. 

Abbiamo messo le mani sulla nascita, abbiamo messo le mani sulla morte. 

Certo, nel Medioevo c’è stato un periodo del Rinascimento in Italia, soprattutto nella Firenze del Rinascimento, in cui andavano di moda i capelli neri, i capelli corvini. Una persona con i capelli corvini era considerata di particolare bellezza, allora si diceva alle donne incinte: dovete bere molto caffè e molta cioccolata, però occhio che se ne bevete troppa nascerà un bambino nero. E poi se il marito è bianco sono dolori… 

Ma non è la stessa cosa. Bere cioccolato vuol dire influenzare una decisione cosmica, la sorte, gli dei, perché il bambino nasca con i capelli neri. Ma non c’è un’azione diretta, come lavorare sulle cellule, come progettare il colore degli occhi di un figlio. 

La cosa che mi sconcerta è quanto poco questi temi siano oggetto di dibattito pubblico, comune e quanto poco sia oggetto di studio da parte della Pedagogia, soprattutto di una certa Pedagogia accademica che rispetto e di cui faccio parte. Mi sconcerta constatare quanta poca attenzione ci sia nella Pedagogia per tematiche come la catastrofe nucleare, che potrebbe sempre avvenire, la Shoah, la dimensione etica-bioetica. Pedagogia che dovrebbe indicare delle strade a partire da questo momento storico così particolare e così epocale. Un momento del pensiero unico, il momento dell’antropologia unica, un momento di una società che è sempre più competitiva, sempre più individualista, sempre più portata ad aumentare le differenze tra i pochi ricchi e i tanti disperati poveri. 

Ma che cosa è successo in Italia ad un certo punto, che catastrofe c’è stata se la scuola di Gianni Rodari, di Mario Lodi, del Movimento di Cooperazione Educativa, di Munari, delle grandi sperimentazioni degli anni settanta se la nostra è diventata la scuola delle prove Invalsi?! Io mi chiedo che cosa è successo! Ci dev’essere stato qualche terremoto che ha veramente azzerato queste esperienze. Io ho fatto un corso nel dipartimento di salute mentale in uno dei più grandi ospedali di Milano. Un corso per operatori psichiatrici i quali, sotto i 40 anni, nemmeno sapevano chi fosse Basaglia. Cioè, io non sono contrario alla riforma Basaglia, ma credetemi se vi dico che non sapevano chi fosse Basaglia, una persona che ha creato un movimento mondiale, peraltro poi allargato da altri, rispetto al tema della salute mentale, il tema “salutemalattia”. 

Io credo che oggi, proprio per questo, da un lato andrebbe ripreso in mano un libro di Julien Benda Il tradimento dei chierici. “Chierici” vuol dire intellettuali. Gli intellettuali hanno tradito. Non sono loro la causa diretta della guerra, perché la guerra la fanno i generali e i politici, ma gli intellettuali. Hanno tradito perché mentre giocavano con le loro categorie, il mondo esplodeva. E non si sono neanche resi conto dall’assassinio di Sarajevo, e un po’ anche di cosa era successo prima. 

Ecco, io penso che oggi siamo ancora di fronte a questo, penso che oggi serva una Pedagogia schierata. Di più, uso una parola forte, una Pedagogia militante. Ma non militante per un partito, naturalmente, ma militante rispetto alla Costituzione, che è il testo sacro. Cosa deve fare e cosa non deve fare la scuola è scritto nella Costituzione. Finché c’è, ce la teniamo. E la scuola italiana deve avere quello come costante punto di riferimento. Dall’altra parte abbiamo un’idea di umanità che dalla stessa umanità viene schiacciata, oppressa, calpestata nell’attuale sistema sociale. Da questo l’idea di “resistenza”. 

Ricordo una frase di Walter Benjamin, autore tedesco che amo tantissimo, autore comunista, ebreo tedesco. La sua è una storia tragica, sia in quanto ebreo sia in quanto militante di sinistra era considerato un nemico. Morì suicida mentre fuggiva dai nazisti. È di Walter Benjamin una frase un po’ complessa, che cercherò di semplificare: “Chi si stupisce di quello che sta accadendo non ha capito niente della storia. Perché chi studia la storia arriva al nazismo, arriva alla Shoah ecc.” 

Ecco, chi si stupisce che la scuola italiana, non tutta perché poi nella scuola per fortuna ci sono gli insegnanti, chi si stupisce che nella scuola sia richiesto iperindividualismo, competitività, selezione, catalogazione, chi si stupisce di questo non ha capito che la scuola è il braccio armato del dominio. Ma gli insegnanti dentro la scuola possono fare resistenza. Ma non resistenza a partire dalla loro opinione politica personale, che sarebbe una questione meramente ideologica, ma fare resistenza a partire dal mandato costituzionale. C’è un’evidente contraddizione fra l’idea di cittadino prevista dalla costituzione, che non a caso è la sintesi delle tre grandi anime della resistenza social democratica comunista e quella cattolica di comunione liberazione, è l’idea di uomo e di cittadino che oggi ci si chiede di formare, che non è cittadino ma è “consumatore”; che è la persona alienata, convinta che bisogna avere il ventiquattresimo cellulare, quando ne hai già ventitré, perché c’è un’applicazione che non userai mai, che però è importante avere. 

Io penso che l’idea di resistenza, prima ancora di diventare un’idea e quindi un progetto, una Pedagogia, una Filosofia, parta da dimensioni pre-razionali. Io la chiamo la “dimensione del brivido”. Quello che molte persone, per fortuna tante persone, provano davanti all’ingiustizia, davanti anche a certe immagini di persone sfruttate, immagini di persone che muoiono sole. La prima reazione non è organizzare un pensiero politico; non è organizzare categorie politiche utilissime, ma è il brivido, il pensiero: “No, non è possibile!”. 

Quando parlo della Resistenza partigiana ai ragazzi nelle scuole, io esordisco dicendo “Guardate che i partigiani non partivano avendo un programma politico, un’idea politica del tipo “Vado in montagna poi, caduto il fascismo, organizziamo le due Camere, Camera e Senato etc etc”. Queste persone avevano visto ammazzare i loro amici e hanno detto: “Adesso basta!”. Avevano visto incendiare una casa, avevano visto fare violenza ad una persona anziana, deportare un ragazzino e avevano detto: “Adesso basta!”. Se sei dentro una casa che ad un certo punto sta bruciando, devi uscire. Non ti interessa quello che c’è fuori. Se pensi a quello che c’è fuori, vuol dire che non stai bruciando abbastanza. 

Io penso che questa dimensione sia molto presente nei giovani ed io ho la grossa fortuna che, oltre a fare il professore universitario, lavoro molto con i ragazzi tutti i giorni. Lavoro tantissimo dentro le scuole sui progetti sulla resistenza, sulla Shoà e vedo dei giovani che hanno una capacità quasi innata di indignarsi. Di dire “Non è possibile”, “che schifo”, “ma non va bene”, “ma perché?”. Come quando parli loro della violenza sugli animali, sulla natura. Il problema è che poi tutto questo fatica a diventare un progetto, fatica a diventare una direzione filosofica, culturale e politica. Fatica a trovare un mondo adulto che guidi questi ragazzi a partire un po’ dalla loro indignazione per costruire un progetto. 

Allora recupero l’idea udi resistenza. A che cosa bisogna resistere? 

Non tanto al potere, che è una parola molto vaga, ma quanto a quello che gli autori della scuola di Francoforte, su cui mi sono formato, definiscono il Dominio. 

Il Dominio non è potere, il Dominio è una forma di potere che si nutre della ricchezza dell’essere umano, o dell’animale o della pianta. Che succhia sapere, risorse, senso, lavoro dal corpo vivo delle persone. Il potere è, ad esempio, costringere uno schiavo a costruire una piramide; dominio è costringere un deportato a portare in cima alla scalinata della morte un sasso e arrivato in cima buttarlo giù. Nel primo caso è una cosa grezza. Non sto mica dicendo che gli schiavi nella piana di Giza stavano bene, ma c’è una funzione economica: io voglio costruire la piramide, voglio farlo con manodopera schiavistica per non avere delle spese. Nel secondo caso la dimensione è completamente diversa. Era puro esercizio nudo della violenza e dell’umiliazione, dell’annientamento e dell’annichilimento dell’anima. Questo è ciò a cui io credo siamo chiamati a resistere. 

Quali sono oggi le forme del dominio? 

A cosa dobbiamo resistere ed educare a resistere? 

A una forma di dominio che è anonima, latente, nascosta e che è un po’ dappertutto. Noi non sappiamo bene dov’è il potere. Il potere è nelle multinazionali, è nel Governo, spero bene nel Parlamento in una forma di democrazia. Ma c’è una forma di potere molto più nascosta, che è legata a tutta la dimensione della pubblicità, della persuasione occulta e soprattutto, e qui io insisto molto, sulla questione delle nuove tecnologie e del web. 

Vi dico subito che Umberto Eco mi avrebbe definito non apocalittico, anzi più che apocalittico. Non è che io questa cosa non la voglia vedere. Il problema è il seguente, si dice che le nuove tecnologie sono uno strumento e che gli esseri umani hanno sempre usato gli strumenti. Pensiamo alla scimmia che usa il bastone per prendere la mela. Ma è proprio qui il problema, che lo scopo era la mela non il bastone. Oggi quando i ragazzi fanno un video alla Torre Eiffel, il fine non è la Torre Eiffel, il fine è il video, è fare il video per il gusto di fare il video e poi metterlo su Youtube dove nessuno lo guarderà mai. Quella povera Torre Eiffel è lì per niente, non la tocca più nessuno, non la annusa più nessuno, non ci sale più nessuno. Il problema non è che le tecnologie sono uno strumento di mediazione. L’essere umano ha sempre creato strumenti, anche la forchetta è uno strumento di mediazione, anche le bacchette in Oriente. Ma quello che conta è quello che mangi, la forchetta è uno strumento per mangiare le cose buone in un certo modo culturalmente condiviso, oppure le cose cattive che hai nel piatto. Allora questo tipo di potere è un potere che legittima sé stesso. Il potere degli schemi è un potere dove si perde la dimensione dello scopo, rimane solo lo strumento. Lo strumento diventa fine a sé stesso. Tanto per essere molto chiari, io ho visto la Lim, lavagna interattiva multimediale, nella camera della nanna dei bambini di tre anni della scuola dell’Infanzia. È questo il problema. 

Certo è comodissima, se i bambini devono addormentarsi accendiamo i cartoni animati e la maestra può anche andare. Il problema non è la maestra sfaticata ma la mancanza di criticità rispetto all’utilizzo che si fa di queste tecnologie. 

E oggi il potere è interamente qui, è un potere anonimo, invisibile. 

Faccio un esempio rispetto ad una cosa che non c’entra con le nuove tecnologie. Pensate a quando andiamo in autogrill. Andiamo in autogrill perché magari dobbiamo andare in bagno e non vogliamo comprare niente perché abbiamo tutto ciò che ci serve in macchina. 

Sul percorso per uscire però, non certo a caso, incontriamo il reparto dei salumi. Un mio amico che lavora nella grande distribuzione mi dice che è consuetudine diffondere nell’aria delle essenze spray di salumi che invece per motivi igienici sono ben impacchettati e non emanano profumi. Queste essenze aumentano la salivazione ed il desiderio di acquistare e, subito dopo i salumi, ecco che troviamo il reparto delle bevande, e la maggior parte delle volte vi assicuro che compreremo almeno una bottiglietta d’acqua. 

È evidente che la persona che ha pensato questa cosa ha fatto un’operazione pedagogica, non so se condividete, perché la Pedagogia può non essere una scienza buona e gli educatori non sono necessariamente delle brave persone. Perché c’è l’educatore nazista, l’educatore neofascista, l’educatore mafioso. Io ho un amico, Michele Gagliardo, che sta scrivendo un libro sui meccanismi dell’educazione mafiosa a confronto con l’educazione nazista. Spero che questo libro sarà presto pubblicato perché è un’idea veramente geniale rilevare come l’educatore mafioso riprenda strategie dell’educatore nazista rivolte ai giovani hitleriani, rivolta all’élite degli sterminatori. Converrete con me che il potere è estremamente pedagogico. Il potere è stato buono ad aprire il quinto centro commerciale nel giro di cinque chilometri perché quello a quattrocento metri da me mi costringeva ad attraversare quattrocento metri di distanza da casa mia magari con la neve o la pioggia. Il potere mi apre un centro commerciale proprio sotto casa mia con i negozi aperti tutta notte. Quindi va bene. C’è a Torino, vicino all’università Salesiana, un distributore automatico aperto 24/24 di cacciaviti, chiavi inglesi, pinze etc etc. Ma chi di noi alle tre del mattino ha bisogno di acquistare una rondella? E c’è scritto: aperto 24/24 h!! Un distributore come quello delle sigarette. Guardavo e pensavo che non può essere reale questa cosa, sono bisogni indotti, non possiamo aspettare domani mattina per comprare un cacciavite? No, però che bell’idea! Che società meravigliosa che alle tre del mattino mi permette di comprare una vite!. Dicevo a Michele Serra che al supermercato troviamo cinquanta marche diverse di dentifrici, dentifrici quanti ne servono: va bene al fluoro, quello al sapore di fragola per bambini, quello antiplacca, quello antitartaro, quello in gel… cinque… no… cinquanta marche diverse. Il satellitare: trecento, cinquecento, mille canali televisivi che trasmettono tutti la stessa schifezza. Le gare di Formula Uno dove puoi fare la regia personalizzata. Ma dico: c’è un regista, è pagato, è lì sul circuito, saprà lui farmi vedere le scene più importanti… E no! Io ho la mia telecamera personalizzata. Per vedere cosa in una gara di formula uno? Beh se c’è un sorpasso te lo farà vedere il regista!! Però pensate tutto questo quanto va a incrementare il senso di onnipotenza dell’individuo, il senso di questo finto benessere. E a questo la scuola, la Pedagogia, non solo la scuola, deve contrapporsi. Un dominio che ha realizzato equivalenza di tutti i luoghi, di tutti i ruoli. Pensate all’idea di democrazia, cui io sono fortemente affezionato, come spazio in cui puoi dire quello che vuoi. Non è democrazia, questo è l’arbitrio, Non dico anarchia perché io ho un grande rispetto per il pensiero anarchico. Spesso si usa il termine anarchia in modo improprio e questo perché su Google, su Facebook, sui social puoi dire quello che vuoi senza provarlo, senza dimostrarlo, senza assumertene la responsabilità. Questa bellissima democrazia che ti permette di aprire il sito dell’Anpi, e poi un sito di Forza Nuova, e puoi tenere queste finestre aperte contemporaneamente sullo stesso schermo. E l’Anpi è uguale a Forza Nuova, perché i ragazzi di Salò sono uguali ai Partigiani. Queste cose sono disgustose perché antistoriche. Non è vero che tutto è uguale a tutto, ma qui tutto è livellato. Si è livellata ogni idea, ogni gerarchia di valori. Certo, ognuno ha la sua gerarchia di valori, io non voglio imporre una gerarchia di valori, ma bisogna insegnare ai ragazzi che nella loro vita c’è una cosa che vale 100, una cosa che vale 50, una cosa che vale 10 e una cosa per la quale sei anche disposto a morire. Questo secondo me è molto importante. È motivare le scelte dei valori. 

Dominio che scavalca l’educatore, scavalca l’insegnante. Faccio due esempi. 

Io lavoro con i ragazzi, facoltà di medicina e con i fisioterapisti. Quindi persone che devono lavorare con il proprio corpo e con il corpo dei pazienti. Io li vedo all’ultimo anno, durante l’ultimo semestre. Comincia il Corso e passo la prima ora di lezione a dire: “Ragazzi guardate me, non guardate lo schermo. Non ho il computer e lo schermo è spento. Non sarò bello, ma pazienza… così mi ha fatto la mamma. Guardate me, io guardo voi”. Fisioterapisti, persone che dovrebbero essere capaci di guardare il corpo del paziente e solo con il linguaggio del corpo creare una comunicazione. Mi spiace dire queste cose, criticando anche il mio Corso di laurea, ma loro passano tre anni a guardare slides. Hanno il testo delle slides e quindi i docenti non li guardano neanche in faccia. Hanno le slides con gli spazi bianchi dove scrivere quello che è proiettato sullo schermo, e questo è andare a lezione? Hanno le slides con le caselline bianche, il professore le proietta intere, e tu te le completi. E questa è Pedagogia? Ma come abbiamo fatto a permettere queste cose? 

Perché abbiamo accettato questa cosa, perché non abbiamo “fatto occupazione”? Voi capite che quello della formazione degli insegnanti, della formazione di base e della formazione in servizio è un tema fondamentale. E pensiamo alle certificazioni di dislessia, ai disturbi specifici dell’apprendimento, ai BES. Ora, a parte il fatto che in una terza elementare su 20 bambini 10 siano dislessici io non ci credo neanche sotto tortura. Non è possibile. Fisicamente non è possibile. Proviamo a capire come vengono fatte queste diagnosi. Con tutto rispetto per i colleghi Neuropsichiatri, non si può più far finta di niente. La diagnosi di dislessia viene fatta attraverso la lettura delle “non parole”. Cioè delle parole senza significato che il bambino deve leggere, E se il bambino non riesce a leggerle è dislessico. Quando me l’hanno raccontato non ci credevo, pensavo che la persona che me lo ha raccontato, conoscendomi, volesse provocarmi. Non sono 2000 anni che diciamo che la lettura ad alta voce è un atto comunicativo? E noi facciamo leggere le “non parole”? Ma anch’io sarei dislessico se mi facessero leggere un codice fiscale, a meno che non mi serva per fare il 730. Ma mi domando cosa accadrebbe se facessimo leggere a questi bambini in una situazione pubblica, un testo eccitante, interessante, bello. Ammettiamo che tutte le diagnosi siano corrette, facciamo questo atto di fede, perché il neuropsichiatra che fa la diagnosi deve dire agli insegnanti quali sono i metodi compensativi e dispensativi da utilizzare? Quello è il lavoro dell’insegnante. Se un insegnante, sulla base di una diagnosi, non è capace di predisporre metodi dispensativi e compensativi deve cambiare mestiere. Un conto è far rilevare che bambino ha una soglia di attenzione di non più di un quarto d’ora per volta, questo serve tantissimo all’insegnante, ma poi deve essere l’insegnante a decidere che strategie didattiche adottare. La Pedagogia è stata massacrata dall’invasione diagnostica di questi ultimi anni, e se si è lasciata massacrare probabilmente era troppo debole sia a livello accademico che anche, e soprattutto, a livello di opinione pubblica. È comprensibile che un genitore si senta - paradossalmente - rassicurato dalla diagnosi, perché è umano. Mettendosi nei panni di un genitore che non ha competenze pedagogiche, che soffre per il suo bambino, lo si può anche capire. Ma che sostegno si è dato a questi genitori, oltre che la diagnosi dell’Asl? E allora scopriamo casi di genitori che si rivolgono al Dirigente e, in presenza del loro Legale, contestano l’insegnante che ha fatto leggere un testo al figlio per 30 secondi e non avrebbe dovuto farlo. 

La scuola deve reagire, noi insegnanti dobbiamo reagire, dalla scuola dell’infanzia all’università, accomunati dall’amore per il nostro lavoro, dobbiamo reagire a tutto questo. 

Faccio un passo ulteriore. La questione della “tecnologia” la vorrei riprendere sul piano della responsabilità. Faccio questo esempio. Un paio di anni fa, quando insegnavo ancora nella Facoltà di Scienze dell’Educazione, mi è arrivata una e-mail da una studentessa. La email recitava testuale: “Quale libro devo comprare per sostituire quello esaurito”. Fine. 

Nessuna presentazione, nessuna firma, nulla. 

Allora io ho risposto: “Caro anonimo, normalmente le email si firmano, se mi dice come si chiama creiamo un minimo di relazione, anche soltanto virtuale”. 

Mi ha sconvolto la risposta: “Professore se lei guarda in alto nella email c’è scritto il mio nome”. 

Questa è un’altra svolta epocale. Stiamo allevando le prime generazioni senza firma, perché sui social non ci si firma. È stato calcolato che ci sono settecento Silvio Berlusconi su Fb. Ora, uno magari sarà lui, aggiungiamo qualche omonimo, ma non ci sono settecento Silvio Berlusconi in Italia. 

Ma è evidente che se lo fa un cinquantenne per scherzo o perché vuol prendere una posizione politica è un conto, se però a farlo è un ragazzino che ha problemi con il suo corpo, con la sua identità, è una catastrofe. Parliamo di deresponsabilizzazione. 

Se scrivo una lettera ad un giornale, metto la mia firma, e a causa di ciò che ho scritto qualcuno mi querela, devo difendermi e provare ciò che ho scritto e nel momento in cui interviene un Giudice la mia denuncia ha ancora più forza se ho delle prove. Se invece scrivo un post su un qualunque social, posso asserire qualunque cosa senza dover provare nulla. Se io adesso andassi a casa e scrivessi che un mio collega ha richiesto favori sessuali ad una sua studentessa per farle superare un esame, la carriera e la reputazione del mio collega sarebbero rovinate. Anche una smentita potrebbe essere interpretata come il solito atto dovuto nei confronti di uno dei tanti professori potenti e quindi intoccabili. 

E con questo non intendo assolutamente giustificare la violenza sessuale. Chi chiede prestazioni sessuali in cambio di un favore o di una promozione è un criminale! 

Ma è pazzesco pensare che poter scrivere e pubblicare qualsiasi cosa sia sinonimo di democrazia e di libertà, compreso il non dover argomentare e il non doversi firmare. 

A lezione, e penso che questa sia una difficoltà comune a molti colleghi, chiedo sempre ai miei studenti di alzare le mani e interrompetemi, di non lasciare le domande alla fine ma di dar vita insieme a me ad una lezione interattiva. Ma gli studenti in questo fanno una grande fatica. L’idea di assumersi con la propria faccia, con il proprio corpo, la responsabilità dell’intervento che fanno è totalmente bypassata dalle loro abitudini di presenza sui social. 

La questione del corpo a me sembra davvero incredibile. 

Di recente è stato pubblicato un bellissimo documento dell’Associazione Italiana Pediatri sulla questione di internet, una bellissima ricerca. Un testo che trovate abbastanza facilmente ed è veramente interessante. I pediatri hanno incominciato ad interrogarsi sul fatto che sono sempre più lunghi i tempi che i ragazzi trascorrono davanti al computer, ad uno schermo, e sempre più aumentano i disturbi evolutivi legati al corpo: bulimia, anoressia, tentato suicidio, purtroppo a volte suicidio riuscito. C’è una connessione secondo voi tra la decorporeizzazione, anche delle pratiche educative e il fatto che questi adolescenti scelgano il corpo come teatro di manifestazione del loro disagio? Un connessione la vedo solo io? 

La verità è che i giovani non si guardano più se non attraverso un iphone. 

Vi è in atto una radicale espropriazione della dimensione corporea, della dimensione interattiva, della possibilità di fare esperienza del corpo dell’altro, della possibilità di essere responsabile di quello che si dice, delle affermazioni che si fanno. 

Allora avviandomi alla conclusione, io insisto molto su questa dimensione del corpo e su questa dimensione che, credetemi, non è antitecnologica. Io vorrei chiarire questa cosa: non è antitecnologica, è legata all’uso acritico delle tecnologie. 

È riflettere sul fatto che è molto più facile usare acriticamente un iphone che usare acriticamente un cacciavite, perché è diverso il rapporto che abbiamo con la tecnologia. Il cacciavite, lo ripeto ancora una volta, non è lo scopo ma è lo strumento. L’iphone invece è diventato lo scopo. Si naviga in internet per il gusto di farlo, non per cercare un certo sito o una certa informazione o un certo gioco. 

Allora cosa può fare l’insegnante, cosa può fare l’educatore, l’adulto? 
Prima di tutto mettere via il telefono. 
Molte persone pensano che le nuove tecnologie siano indispensabili. 
Ma indispensabili sono l’aria, l’acqua, il cibo, l’amore forse, no?! 
Non le nuove tecnologie. 

Sono utili, certo, utilizzando il navigatore possiamo arrivare prima a destinazione ma senza il navigatore arriviamo ugualmente… magari un po’ dopo ma comunque arriviamo. Le tecnologie sono utili, sono strumenti. 

Io credo che la resistenza per l’insegnante, per l’educatore, debba prima di tutto passare attraverso il corpo, attraverso la riattivazione dell’educazione come corpo a corpo, come rapporto corporeo, come rapporto anche nutrito dell’eros. Quello che io ho definito anni fa l’“eros pedagogico”. C’è una dimensione erotica della formazione che non ha niente a che fare naturalmente con l’eros del rapporto di coppia o del rapporto sessuale. Ma è una dimensione fortemente affettivizzata: l’amore per la persona che hai davanti che naturalmente non sfocia in un rapporto sessuale perché è un altro tipo di eros. Però è l’innamoramento dei i ragazzi, dei bambini. 

Mi ha sempre colpito quando i bambini dicono “la mia maestra”; non dicono “la nostra maestra”, dicono “la mia maestra”. È tutta mia, la voglio solo io. E faccio sempre un parallelo biblico: “il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe”. Ma perché deve ripetere? Nel monoteismo il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe sono uguali. No perché Abramo lo ha sperimentato in un certo modo, davanti al roveto, Isacco lo ha sperimentato quando lo ha salvato da suo padre che lo stava uccidendo, e Giacobbe lo ha sperimentato in un altro modo. 

Ecco vedete, questo è l’insegnante. Un insegnante davanti a venti bambini è venti persone diverse, perché ognuno se ne appropria; l’insegnate diventa “la mia maestra”. Va bene anche se un bambino dice: “la mia maestra che vada a quel paese che oggi mi ha dato una nota quella stupida”. Va bene perché fa parte della relazione educativa. Va bene che ci mandino a quel paese, purché mandino a quel paese me, voi, quell’insegnante, quel maestro. Perché è mio, e ho una relazione unica con lui. 

Questa è la grandezza e la difficoltà del nostro lavoro. Avere da educarne venti, trenta, quattrocento studenti e arrivare a ciascuno e per ciascuno essere diversi. È questo fare l’insegnante. Non tutti possono riuscirci perché non si tratta di ripetere al gruppo, noi abbiamo un concetto di gruppo classe troppo rigido. Certo che c’è il gruppo, ma il gruppo è formato dai singoli, e ogni singolo introietta gli insegnanti in maniera diversa e poi deve socializzare l’apprendimento. 

E infine… 

La scuola sta rischiando di diventare un servizio a domanda individuale. Cioè, prima di tutto non è un servizio ma un’istituzione, per chiarire, e lo dice la Costituzione. 

I genitori invece chiedono un servizio preciso alla scuola e agli insegnanti a cui pagano lo stipendio e l’arrivo di un bambino straniero che “rallenta lo svolgimento delle lezioni” li infastidisce. 

Cari colleghi insegnanti, è qui che dobbiamo fare resistenza, opporci perché noi facciamo scuola non corriamo la finale dei cento metri! A scuola “andare avanti” vuol dire “andare avanti insieme”, insieme a tutta la scuola, a tutto il comprensivo, a tutta la città che va avanti insieme con noi. 

Questo sarebbe un ribaltamento concettuale straordinario. 

Ma la scuola è questo!. Lo specifico della scuola non è l’istruzione, non è l’imparare, impariamo per tutta la vita, impariamo dovunque, impariamo anche al supermercato. Non è neanche far stare insieme i ragazzi, socializzare in senso un po’ vano. È la socializzazione del sapere. Cioè, si va a scuola non per imparare quando è morto Napoleone, me lo dice Wikipedia o Google, in 0,0001 secondi. Si va a scuola per imparare quando è morto Napoleone insieme agli altri, tutti insieme. E non si cambia pagina fino a quando l’ultimo bambino non ha imparato. E io sono una risorsa per lui nelle ore di storia e lui è una risorsa per me nelle ore di matematica. E il bambino straniero è una risorsa non verbale perché mi costringe ad attivare linguaggi non verbali, a ripensare al ruolo della musica. Ho un ricordo di quando facevo un corso d’aggiornamento in una scuola e arrivò una ragazzina cinese in seconda media che non parlava italiano. Non avrei voluto essere nei panni di quell’insegnante. La scelta fu di darle un mediatore, e furono destinate delle ore per un lavoro individuale. Quali ore? Musica, educazione fisica, arte. Non ci potevo credere! Gli unici linguaggi che questa ragazzina poteva condividere con i suoi compagni glieli avevano tolti. Mia mamma, che ha fatto l’impiegata per trent’anni, non avrebbe mai fatto una cosa del genere perché capiva che linguaggio del corpo, il linguaggio artistico e il linguaggio musicale, sono almeno in parte infrastrutturali. Partiamo da lì, e il mediatore lo mandiamo in classe durante la lezione di arte. Se però accadono queste cose vuol dire che siamo davvero in una situazione di emergenza. 

Allora la rivoluzione, la resistenza è riattivare il nucleo della scuola che è la “socializzazione del sapere”, che richiede i saperi condivisi. Il sapere non ti rende più ricco, non ti rende più famoso, non ti rende più potente ma rende tutti più felici. Tutti. 

Il sapere rende tutti più felici. Se noi sganciamo l’idea di cultura dall’idea di felicità creiamo una scuola noiosa. Creiamo una scuola in cui si va soltanto per imparare delle cose che si sanno, la scuola dei saperi spendibili. Pensiamo anche al linguaggio. Ma perché dobbiamo parlare di crediti, di portfolio? Ma la scuola non è una banca, è la scuola. La Pedagogia ha le sue parole, da Comenio in poi eppure ci facciamo sempre imporre il linguaggio da saperi estranei. Ciò non vuol dire che non bisogna insegnare ai ragazzi l’economia, ma ci mancherebbe altro!. Ma deve farlo la scuola con il suo scopo, che non è lo scopo della banca. La scuola non può sempre farsi dettare la sua agenda da altri. 

Io credo veramente che siamo in un momento di svolta epocale. Ci mancano le parole per descrivere il disastro ambientale, la situazione atomica, il terrorismo, le questioni rispetto al fine vita, le questioni rispetto alla generatività. Ci manca l’etica. Perché l’etica è rimasta indietro, perché l’etica arranca, perché l’etica non conta niente. Perché i miei studenti fanno sei anni di Medicina e non fanno neanche un esame di Bioetica. Si pensa erroneamente che non serve insegnare la bioetica, sono molto più importanti le tecniche. Per carità, le tecniche sono importantissime ma mi piacerebbe che ci fosse spazio anche solo per un esame, Uno, un credito. Otto ore di Bioetica per far conoscere agli studenti la storia che vi ho raccontato all’inizio, e vedere loro come con la loro coscienza si posizionano rispetto alla storia della ragazza israeliana che nasce e fino a diciotto anni chiama papà e mamma due persone che poi ad un certo momento scoprirà essere i suoi nonni. Come si affronta una cosa del genere? 

Mi ricordo che a questo convegno, con la collega israeliana c’erano colleghi da tutto il mondo e nessuno di loro sapeva come commentare la cosa. Bioeticisti a cui sono mancate le parole. 

Ecco, io penso che la scuola sia ancora il posto dove recuperare questo tipo di sapere, che non è sapere umanistico contro sapere scientifico, perché è ridicola questa idea che esistono le due culture. È chiaro che poi ogni scienza ha la sua epistemologia, la sua metodologia. Non è uguale fare una ricerca su Dante e fare una ricerca in un laboratorio chimico. Ma la cultura è ciò che ci accomuna tutti ed è molto interessante incrociare le culture, incuriosirsi, lo vedo tutti i giorni da quando lavoro nella facoltà di Medicina. Chiedere al collega che studia la genetica un libro che può essere comprensibile da me e magari consigliare a lui un libro di filosofia. 

La scuola è il luogo dove formare queste coscienze critiche attraverso l’unica arma che abbiamo che è l’amore per la conoscenza. Che però è l’arma che ha impedito l’estinzione di una scimmia nuda che non ha peli, che non ha artigli, che non ha corazza, senza carapace, che non sa volare, che è lentissima nella corsa rispetto ad un ghepardo, che quando nuota uno squalo la raggiunge in tre secondi. Le ha consentito di sopravvivere fino ad oggi. Noi siamo qua grazie alla cultura. E che cos’è la cultura? Il modo di condividere le nostre paure, il modo di condividere la paura della morte, del nostro futuro e le nostre speranze, dare risposte alle domande che ci accomunano tutti, partire da una domanda. 

La Pedagogia della resistenza non è una Pedagogia assertiva, questa è la strada, seguiamola. È la Pedagogia del “Dobbiamo trovare una strada”; “Abbiamo bisogno di una strada”; “Partiamo dalle domande, dalle domande di senso, rispetto alla solitudine, al dolore, alla morte, rispetto alla gioia, alla felicità, ma anche alla possibilità di una vita affettiva sentimentale compiuta e positiva”. 

E chiudo raccontandovi una storia. Sono partito dagli ebrei, e ritorniamo agli ebrei, io ho un grandissimo amore per la cultura ebraica. 

C’è una tradizione delle mamme, delle mamme ebree della diaspora in particolare per insegnare l’alfabeto ai loro bambini. L’alfabeto ebraico è composto da ventidue lettere consonanti, solo consonanti, e devono essere nello stampato maiuscolo esattamente riprodotte con il pennellino perché sono parola di Dio. Infatti gli ebrei quando si scrivono delle lettere o degli appunti scrivono in corsivo. Il corsivo lo possono modificare, lo stampatello maiuscolo no. Allora il problema è insegnare ai bambini questo alfabeto. In Israele naturalmente lo studiano a scuola, da noi no. La mamma insegna ai bambini di tre anni l’alfabeto, è la tradizione, tradizione che ho ritrovato fra l’altro in Quintiliano nell’Ars Retorica, cosa transculturale, in maniera molto semplice. La mamma prepara ventidue biscotti ciascuno con la forma di una lettera dell’alfabeto. Il bambino sceglie il gusto dei biscotti, quello che preferisce. La mamma prende il primo biscotto e dice “Questa è la lettera alef”, il bambino mangia il biscotto in braccio alla mamma e la mamma racconta una leggenda, una storia, una favola che ha come protagonista una persona o un animale il cui nome comincia con quella lettera. In ventidue giorni il bambino ha imparato l’alfabeto. Ha imparato l’alfabeto sicuramente, ma imparando l’alfabeto il bambino ha imparato qualcosa in più: il sapore del sapere. Sapore e sapere hanno la stessa radice in italiano. Questo bambino ha imparato che il sapere è dolce. Pensate alla dolcezza del biscotto, alla dolcezza della mamma che ti tiene in braccio, alla dolcezza della fiaba dell’intimità. Poi il sapere può essere anche salato, può essere anche aspro, può essere anche piccante, può essere anche amaro. Imparare la Shoà è sicuramente un sapere che ti amareggia, non è sicuramente un sapere gustoso e dolce. Tutte le emozioni dentro il sapere, incrociare il cognitivo e l’affettivo. Restituire sapore alle nostre pratiche quotidiane, questo mi sembra il primo strumento di resistenza. La scuola come un posto in cui i bambini vogliono andare e desiderano andare, perché vi sono delle cose belle e gustose che ti fanno essere felice. Magari in quell’ora in quel momento, con il tuo maestro, ma felice. Sperando che i sapori con la felicità poi da grande proverai a portarlo in tutto il mondo, qualunque scelta di vita tu possa fare. Grazie.

Contributi per una pedagogia della resilienza
Contributi per una pedagogia della resilienza
AA.VV.
Ripensare l’educazione per ricongiungere l’infanzia alla vita reale.Raccolta degli Atti del Convegno del 3 marzo 2018. I Convegni Internazionali si inseriscono in un circuito di eventi organizzati dall’Associazione Montessori Brescia per contribuire alla valorizzazione e alla diffusione del pensiero e del metodo pedagogico di Maria Montessori. Raccolta degli Atti con gli interventi di: Silvia Vegetti Finzi, psicologa e scrittrice Fulvio Scaparro, psicoterapeuta e scrittore Laura Pigozzi, psicoanalista e scrittrice Alessandro Vaccarelli, professore associato di Pedagogia Generale e Interculturale all’Università dell’Aquila Raffaele Mantegazza, professore associato di Pedagogia Generale e Interculturale all’Università di Milano Bicocca