Fulvio Scaparro

“Erra l’uomo finché cerca”.
Correggere gli errori senza spegnere il desiderio di cercare

Psicoterapeuta e scrittore

Se accettare la precarietà dell’esistenza è compito ostico per noi adulti, risulta impossibile per un bambino che viene al mondo affidandosi e, per così dire, contando su un ambiente che lo accoglie, protegge, cura e lo accompagna nel mondo. 

La natura fa quello che può nascondendo al piccolo la dura legge dell’esistenza: nulla dura per sempre. La scoperta di questa legge non può essere brusca ma andrebbe scoperta gradualmente se si vuole che venga accettata come condizione umana ineliminabile e non tolga ai nuovi arrivati la motivazione a vivere, lottare, sognare, creare e raccontarsi storie sul mistero dell’esistenza. 

Sappiamo che, purtroppo, le cose non vanno sempre così e i bambini si trovano senza mediazioni di fronte a quella dura legge e non hanno alcun paracadute che attutisca la scoperta della precarietà della nostra vita e delle nostre relazioni e che ci consenta di diventare resilienti. 

A questo punto voglio mettervi a parte della mia definizione di maturazione. 

Nessuno ragionevolmente considera responsabile di alcunché un neonato. La sua totale dipendenza fa sì che una totale responsabilità ricada sugli adulti dai quali dipende il suo sviluppo fisico e psicologico e, più in generale, su tutti gli adulti che con lui entrano in relazione a qualsiasi titolo. 

Nel corso dello sviluppo, il bambino conquista nuovi spazi di indipendenza e di autonomia, riduce la dipendenza iniziale, altre dipendenze si creano, si riducono e scompaiono. 

Io definisco la maturazione come il processo di acquisizione della capacità di separarsi senza che questo impedisca al soggetto di stabilire nuove relazioni, alla ricerca di nuovi e più soddisfacenti equilibri. La precarietà di ogni equilibrio raggiunto rende continua la ricerca, relative e provvisorie le diverse tappe raggiunte, le diverse maturità, fisiche, affettive, cognitive, morali e sociali, sviluppando una buona dose di resilienza

Secondo questa definizione, da uno stato fusionale in cui il neonato è ancora soggetto pienamente e sanamente immaturo, nel corso dello sviluppo si afferma o dovrebbe affermarsi con sempre maggiore evidenza la capacità di separarsi e stabilire nuove relazioni. 

Il bambino soffre se egli stesso o altri confondono il processo (la maturazione) con una o più delle sue tappe (le diverse maturità che vengono via via raggiunte a livelli e in tempi differenti da individuo a individuo), se percepisce, o altri percepiscono, il suo processo di maturazione come privo o carente di caratteristiche essenziali quali il movimento, l’orientamento e la regressione, se scambia, o altri scambiano, un fotogramma con l’intero film della sua vita. 

In altri termini, al bambino va riconosciuto il diritto all’immaturità (totale all’inizio dell’esistenza) ma anche quello al riconoscimento di tempi personali di maturazione che non procede mai senza arresti e regressioni, soprattutto quando il bambino e la sua famiglia attraversano periodi di gravi crisi, come capita, ad esempio, per malattie che richiedono l’ospedalizzazione o per la separazione dei genitori. 

Il mio contributo alla giornata Montessori sulla “Pedagogia della resilienza”, parte dal Prologo della prima parte del Faust di Goethe. 

Ricordate? Dio non accetta scommesse con Mefistofele ma acconsente a fargli tormentare l’integerrimo Dottor Faust affinché questi non si riposi e non si arrenda mai. “Finché vive sulla terra, erra l’uomo finché cerca” perché solo sbagliando si avvicina alla verità. Nell’originale leggiamo Es irrt der Mensch, erra l’uomo. “Erra”, nella traduzione italiana, può essere inteso come “sbaglia” ma anche come “vaga”. Franco Fortini, in una nota al testo, scrive: “L’idea, cara a Goethe, secondo cui l’errore è condizione per giungere alla verità, implica la positività della lotta e dello sforzo, della tensione e del tentativo.”1
Correggere gli errori senza spegnere il desiderio di cercare, anzi incentivandolo, è una rara capacità che noi riconosciamo ai migliori maestri che abbiamo conosciuto nella nostra vita. Nel corso degli anni, negli incontri con amici e pazienti, mi è capitato spesso di verificare la persistenza di sentimenti di profonda gratitudine e riconoscenza nei confronti dei pochi maestri, dai primi giorni di scuola in poi, che hanno davvero lasciato un segno positivo e indelebile in ciascuno di noi. Questo mi ha permesso di costruire un piccolo identikit del buon insegnante. 

Mi sono convinto che alla base dello speciale rapporto che può crearsi tra insegnanti e allievi c’è la pratica di quella che io ho chiamato “manutenzione d’amore”. 

‘Manutenzione’ è un termine a prima vista fuori del nostro contesto perché richiama quelle operazioni che servono a mantenere efficienti e in buono stato impianti, macchinari, edifici. Non è comune un’espressione quale ‘manutenzione d’amore’, anzi si potrebbe ritenere sconsigliabile, perché unisce in una sorta di ossimoro due immagini in apparenza contraddittorie, la presunta pesantezza della manutenzione e la presunta levità dell’amore. Invece, nella manutenzione c’è spesso tanto amore, nel senso di un forte legame di affetto e di interesse, o almeno di impegno e di diligenza, affinché l’oggetto ‘ben mantenuto’ duri nel tempo nelle migliori condizioni possibili. 

In un’epoca di trionfante ‘usa e getta’, la manutenzione è un’operazione controcorrente di grande valore materiale e spirituale. È come se dicessi all’oggetto della mia manutenzione d’amore: “voglio che tu resti il più a lungo possibile con me, tu per me sei prezioso”. 

Ma non basta, né è sempre opportuno, che io mi impegni per far sopravvivere ad ogni costo una relazione d’amore, perché c’è il rischio di sconfinare in una sorta di accanimento terapeutico. No, con la manutenzione io cerco di fare in modo che l’oggetto della mia manutenzione d’amore continui a dare il meglio di se stesso anche senza di me. 

La manutenzione, per di più, fa bene a chi la fa, impreziosisce, con il lavoro, la cura e l’impegno, il rapporto con uomini e cose, ci assicura legami vitali, ci dà radici, toglie le nostre relazioni dalla precarietà della cronaca collocandole in una storia che è una storia di cura, perfezionamento, impegno, affetto.

Veniamo alla parola resilienza che fa parte di quel gruppo di termini che indicano fenomeni da secoli, talvolta da millenni, ben noti sotto altro nome o in contesti diversi da quelli delle scienze umane ma che, per essere relativamente nuovi - almeno nelle scienze umane - finiscono col richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica, fino a far pensare che “la parola nuova” indichi un fenomeno nuovo.2

Il termine “resilienza” proviene dalla metallurgia: indica, nella tecnologia metallurgica, la capacità di un metallo di resistere alle forze che vi vengono applicate. Per un metallo la resilienza rappresenta il contrario della fragilità. Così anche in campo psicologico: la persona resiliente è l’opposto di una facilmente vulnerabile.

Etimologicamente ‘resilienza’ viene fatta derivare dal latino resalioiterativo di salio. Qualcuno propone un collegamento suggestivo tra il significato originario di resalio, che connotava anche il gesto di risalire sull’imbarcazione scuffiata, cioè capovolta dalla forza del mare, e l’attuale utilizzo in campo psicologico: entrambi i termini indicano l’atteggiamento di andare avanti senza arrendersi, nonostante le difficoltà. Risale il marinaio sulla barca scuffiata, risale il salmone contro la corrente verso la sorgente del fiume per riprodursi…

Una, per me convincente, definizione del termine è la seguente: la resilienza psicologica è la capacità di persistere nel perseguire obiettivi sfidanti, fronteggiando in maniera efficace le difficoltà e gli altri eventi negativi che si incontreranno sul cammino. Il verbo ‘persistere’ indica l’idea di una motivazione che rimane salda. Di fatto l’individuo resiliente presenta una serie di caratteristiche psicologiche inconfondibili: “è un ottimista e tende a leggere gli eventi negativi come momentanei e circoscritti; ritiene di possedere un ampio margine di controllo sulla propria vita e sull’ambiente che lo circonda; è fortemente motivato a raggiungere gli obiettivi che si è prefissato; tende a vedere i cambiamenti come una sfida e come un’opportunità, piuttosto che come una minaccia; di fronte a sconfitte e frustrazioni è capace di non perdere comunque la speranza.”

E ora venite con me nel mondo dei filosofi. Ecco un’immagine celebre di Immanuel Kant: “La colomba leggera, mentre nel libero volo fende l’aria di cui sente la resistenza, potrebbe immaginare che le riuscirebbe assai meglio volare nello spazio vuoto di aria.” Ma è invece proprio la resistenza dell’aria che consente il volo. La colomba vola nel cielo affaticandosi per l’attrito con l’aria, pensando magari che se non dovesse contrastare la forza dell’aria (e quindi non ci fosse quest’ultima) potrebbe volare senza sforzo. Questo non è vero poiché senza l’aria il volo stesso non sarebbe possibile, come sa bene qualunque bambino abbia lanciato in aria un aeroplanino di carta o cercato di alzare in volo un aquilone. Allo stesso modo l’intelletto potrebbe ritenere che senza i fenomeni avrebbe una conoscenza più nitida ma sbaglia perché se non ci fosse l’esperienza non ci sarebbe alcun tipo di conoscenza.
Quindi dovremmo forse essere contenti di soffrire e benedire o addirittura andarci a cercare ogni dolorosa resistenza, perché solo così possiamo volare? Ovviamente, no. Come ci conferma la psicologia dell’età evolutiva, tutto lascia pensare che non siamo nati per soffrire e semplicemente sopravvivere ma per vivere e sfuggire per quanto possibile al dolore. “La vita è l’insieme delle funzioni che resistono [ancora un richiamo alla resistenza] alla morte”3.

Ma il dolore c’è, gli ostacoli, i fallimenti, le frustrazioni ci sono. Non possiamo evitarli e talvolta sono di tale portata che non possiamo che soccombere. È per questo che l’educazione alla resilienza deve iniziare fin dalla più tenera età. L’individuo resiliente non si arrende facilmente anche di fronte alla prove più dure, quello fragile (è il termine opposto a ‘resiliente’) alza subito bandiera bianca.

Resta il fatto che volare liberi e senza peso ovunque ci piaccia, in uno spazio vuoto, senza incontrare resistenza, fa parte dei nostri sogni diurni e notturni. Assistiamo stupiti e non senza invidia alle evoluzioni degli astronauti nelle loro navicelle spaziali come, da bambini, restavamo a bocca spalancata davanti alle imprese di eroi volanti come Superman o Batman. Ci piaccia o non ci piaccia, sono solo sogni che l’uomo non è riuscito (ancora?) a realizzare. Ascoltate cosa avviene quando forziamo troppo la nostra natura nel tentativo/illusione di liberarci delle leggi che regolano la vita nella Terra. Riprendo l’inizio di un articolo reperibile in Rete4:

“È il sogno di ogni uomo potere, un giorno, viaggiare tra stelle e pianeti, camminare nello spazio, e galleggiare nelle astronavi in assenza di gravità. Nonostante nell’immaginario collettivo sia una delle esperienze più emozionanti che si possano fare, partire per una missione nello spazio non è sempre “rose e fiori”, anzi. Non tutti siamo consapevoli dei rischi a cui va incontro chi, per mesi e mesi, rimane in orbita attorno alla Terra: osteoporosi, nausea spaziale, perdita di massa ossea e muscolare, problemi cardiaci e cecità spaziale, diabete, tutto questo causato da microbi spaziali, tempeste solari, radiazioni, assenza di gravità e polvere tossica. Sembra il bollettino di guerra frutto di un autore di fantascienza, ma è la realtà, proprio quella che vivono gli astronauti sia durante la missione, che al ritorno sulla Terra.

Adattarsi alla vita in una navicella spaziale non è semplice: entrando nell’orbita terrestre corpo e cervello hanno bisogno di qualche giorno per adattarsi alle nuove condizioni ambientali.”

In che modo può esserci utile questo riferimento ai viaggi spaziali per la nostra riflessione sulla resilienza?

Il coraggioso ha paura come il vile. La differenza sta nel fatto che il coraggioso tenta di dominare la propria paura e il vile ne è dominato. Di fronte alle difficoltà non dobbiamo dimenticare i nostri limiti. Dobbiamo essere abbastanza umili da non esporci a situazioni che non possono essere affrontate con i nostri mezzi limitati. Il resiliente non è incosciente ma scava dentro se stesso per trovare un modo realistico di superare gli ostacoli. Resilienza è sia fare i conti con la propria impotenza sia vincere la paura del domani.

“Chi è mosso dalla motivazione intrinseca è più resiliente. La sua spinta motivazionale non viene demolita dalle difficoltà, come invece succede comunemente a chi è mosso da rinforzi esterni. Essa infatti trasforma gli ostacoli in sfide.”

Tutta una questione di equilibrio. L’equilibrio del corpo e della mente è una delle sfide più dure e affascinante di fronte alla quale si trova l’essere umano.

Noi siamo una livella a bolla vivente. Cos’è una livella a bolla (o semplicemente “bolla”? È uno strumento di misura utilizzato per determinare la pendenza di una superficie rispetto ad un piano. Sul piano psicologico, noi siamo una bolla in continua vibrazione ed è compito nostro mantenerla più o meno in posizione centrale, sensibile com’è ad ogni variazione dell’ambiente interno ed esterno all’organismo vivente.

“Stai in bolla!”, mi sento dire quando mi agito troppo.

Ed eccovi un’altra ben nota analogia5: “Un’ostrica che non è stata ferita non può produrre perle. Le perle crescono solo quando un corpo estraneo, come un granello di sabbia, riesce ad penetrare dentro l’ostrica. A quel punto, l’ostrica attiva dei meccanismi di difesa e produce una sostanza che ricopre il corpo estraneo con diversi strati. Questa sostanza è la madreperla. Pertanto, una perla è il risultato di una ferita cicatrizzata, della lotta dell’ostrica per proteggersi.”

La resilienza segue un processo simile6.

“Ci sono persone che quando vengono attaccate coltivano rancore, rabbia e amarezza. Pertanto, le loro ferite rimangono aperte anche con il passare del tempo, causando sofferenza e dolore. Altre persone riescono a superare la situazione sovrapponendo diversi strati di una sostanza che agisce come un balsamo sulle ferite; la sostanza è fatta di accettazione, perdono e amore [ma non dimenticanza! ndr]. Così, non solo la ferita guarisce più in fretta ma loro divengono anche più forti.”

“Questa è la resilienza, la capacità di affrontare le avversità e uscirne rafforzati, di crescere anche grazie alle battute d’arresto e tirar fuori il meglio da noi stessi nei momenti più difficili. In effetti, la resilienza non implica solo affrontare un problema, ma anche imparare da questo e crescere come persone, promuovendo alcune delle nostre migliori qualità.

La resilienza determina il nostro futuro. La resilienza non solo ci aiuta ad affrontare i momenti peggiori, non ha solo ha un impatto positivo sul nostro stato d’animo, ma influisce anche sul modo in cui l’organismo combatte contro la malattia.”

“A questo proposito, i ricercatori del King’s College Hospital di Londra, hanno scoperto che il modo in cui affrontiamo la malattia influenza il suo corso. Nel loro studio hanno potuto vedere che, quando due persone hanno la stessa condizione clinica iniziale, chi affronta la malattia con un atteggiamento fatalista e disperazione ha una prognosi peggiore, mentre coloro che affrontano la malattia in modo più resiliente e non si arrendono, hanno una prognosi migliore. Perché? La risposta, o almeno una parte, viene da un altro studio, questa volta condotto presso l’Università di Cambridge. Tutto sembra indicare che il processo resiliente stimola la produzione di DHEA (Dehydroepiandrosterone). Si tratta di un ormone che è stato ribattezzato “l’ormone della resilienza” perché regola i livelli del cortisolo, un ormone dello stress che è anche il precursore dei processi infiammatori. Infatti, si è notato che le persone con bassi livelli di DHEA sono anche più inclini a soffrire di depressione e di disturbo da stress post-traumatico.”

“Pertanto, essere più resilienti non solo ci aiuta a fare buon viso a cattiva sorte, ma gioca anche un ruolo importante nella nostra salute. La buona notizia è che la resilienza non è una caratteristica innata ma può essere sviluppata. Tutti noi possiamo imparare ad essere più resilienti.”7

Ovvio che sarebbe meglio, molto meglio, nascere e crescere in un ambiente che promuova la resilienza rispettando i tempi di maturazione, mettendo in pratica la manutenzione d’amore sopra descritta, ma se le cose non stanno così non dobbiamo arrenderci ricorrendo all’alibi che nessuno ci ha insegnato, soprattutto con l’esempio.
Come? Imparando soprattutto, ripeto, attraverso l’esposizione al buon esempio altrui a8:

Conoscere i propri punti di forza e i propri limiti

Le persone che riescono a sviluppare una percezione del proprio “io” molto forte, sanno chi sono e cos’è importante nella loro vita e possono affrontare meglio le avversità, perché sono meno sensibili alle influenze esterne. Sono persone che conoscono molto bene i loro punti di forza e i limiti e sono in grado di trovare la forza dentro di sé, una forza interiore che le aiuta a evitare le critiche negative e a superare gli ostacoli. Queste persone sono consapevoli del fatto che, anche se a volte la strada è in salita, sono loro che decidono il loro destino.

Sapere prendere il meglio da ogni situazione

Le persone resilienti non sono degli ottimisti ingenui, ma sviluppano un ottimismo realistico. Sono consapevoli del loro potenziale e delle risorse che hanno a disposizione, ma allo stesso tempo, hanno una visione ottimistica. Queste persone sanno che le situazioni non sono del tutto positive o negative, così si sforzano di trovare gli aspetti positivi anche in mezzo alle avversità. Quando le cose vanno male, la persona resiliente cerca di imparare una lezione. Infatti, una persona resiliente non perde e non fallisce mai, ma piuttosto impara sempre qualcosa.

Guardare al futuro

Le persone resilienti hanno spesso una visione molto pragmatica della vita. Mentre la maggior parte delle persone perdono tempo a piangere sul latte versato, le persone resilienti guardano al futuro. Queste persone sono consapevoli del fatto che, per quanto la ferita faccia male, il tempo guarisce tutto. Esse hanno la capacità di superare le avversità correnti e guardano al futuro, facendosi così un quadro più completo della situazione che permette loro di vederla in prospettiva.

Essere molto flessibili
Le persone resilienti hanno un concetto molto chiaro di se stesse e conoscono i loro obiettivi, ma sono anche molto flessibili davanti ai cambiamenti. Di fronte a una tempesta non si irrigidiscono come la quercia, ma si piegano come il salice. Possono adattare i loro piani alle nuove circostanze evitando di aggrapparsi al passato, e sono in grado di rimettersi in cammino molto rapidamente. Dal momento che non si afferrano ad un’unica soluzione, l’universo di possibilità a loro disposizione è molto più vasto.

Essere persistenti nel realizzare i propri propositi

Le persone resilienti cambiano il percorso ma non la destinazione.
Infatti, se c’è qualcosa che le caratterizza è la loro enorme perseveranza e tenacia. Queste persone sanno molto bene dove vogliono arrivare e si sforzano per riuscirci. Il loro segreto sta nel non combattere battaglie perse, non lottano contro i mulini a vento ma, quando è necessario, si lasciano portare dalla corrente. Queste persone sono consapevoli del fatto che non possono decidere la direzione del vento, ma sanno che possono adattare le loro vele per approfittarne al meglio.

Affrontare la vita con ironia

Una delle caratteristiche più importanti che contraddistinguono le persone resilienti è il loro senso dell’umorismo. Infatti, non sono in grado solo di ridere delle avversità ma anche di se stesse. In questo modo il sorriso si trasforma in un alleato che gli permette di restare ottimisti quando tutto intorno a loro sembra perduto. Tuttavia, queste persone non si burlano mai degli altri, il loro senso dell’umorismo è intelligente e critico, non ha lo scopo di minimizzare la situazione, ma solo di sdrammatizzare e liberare le emozioni negative.

Coltivare l’accettazione

Gli eventi traumatici che non sono stati elaborati a livello emotivo continuano a farci del male. Infatti, è stato riscontrato che le esperienze traumatiche e quelle che abbiamo già accettato, sono archiviate in diverse parti del nostro cervello e, quando le evochiamo, queste ci provocano diverse emozioni. Per questo motivo le persone resilienti si sforzano di coltivare l’accettazione. Queste persone sentono il dolore della ferita, ma non cercano di negarlo o sopprimerlo, lo accettano.

Le persone resilienti riflettono sulle esperienze negative, per poterle comprendere, accettarle e trovargli un posto all’interno del loro “io”. In questo modo riescono a girare pagina più rapidamente. [Aggiungo che l’anticipazione del dolore quando ancora nulla di doloroso è già avvenuto è già di per sé dolore. Una quota di sofferenza che possiamo risparmiarci.ndr ]

Accettare l’incertezza

Una delle maggiori fonti di tensione e stress è il tentativo di controllare ogni situazione. Quando qualcosa ci sfugge di mano veniamo assaliti dall’incertezza. Per questo motivo le persone resilienti scelgono di abbracciare l’incertezza, comprendendo che ci sono delle risposte per ogni cosa e che a volte accadono cose negative alle persone buone. Queste persone non si torturano cercando una spiegazione che non trovano, ma piuttosto accettano l’incertezza che accompagna ogni cambiamento e cercano di gestirla nel miglior modo possibile.

Avere fiducia nelle proprie capacità

Le persone resilienti non sono supereroi. E loro lo sanno. Tuttavia, si fidano delle proprie competenze e, soprattutto, della loro capacità di far fronte alle avversità. Di fronte a un ostacolo, la persona resiliente potrebbe non avere l’abilità o le conoscenze necessarie per affrontarlo, ma questo non la scoraggia, al contrario, accetta la situazione come fosse una sfida, perché è fiduciosa di poterla affrontare nel miglior modo possibile uscendone rafforzata. Le persone resilienti hanno fiducia in se stesse, non credono mai che faranno le cose in modo perfetto, ma sanno che faranno del loro meglio. E questo è sufficiente per fargli trovare la forza di cui hanno bisogno.

Circondarsi di persone positive

Se c’è una cosa che distingue le persone resilienti, è che fin da piccole sanno circondarsi di persone positive che possono sostenerle quando ne hanno più bisogno. Le persone resilienti sono indipendenti e provano piacere nell’affrontare le sfide da sole, ma sanno esattamente quando è il momento di chiedere aiuto. Sono consapevoli dell’importanza di coltivare amicizie e scegliere attentamente le persone che possono entrare nella loro cerchia più ristretta. È come se avessero un sesto senso per individuare le persone dannose e tenerle a distanza. Questa caratteristica consente loro di creare una forte rete di supporto che le sosterrà nei momenti più difficili.

Contributi per una pedagogia della resilienza
Contributi per una pedagogia della resilienza
AA.VV.
Ripensare l’educazione per ricongiungere l’infanzia alla vita reale.Raccolta degli Atti del Convegno del 3 marzo 2018. I Convegni Internazionali si inseriscono in un circuito di eventi organizzati dall’Associazione Montessori Brescia per contribuire alla valorizzazione e alla diffusione del pensiero e del metodo pedagogico di Maria Montessori. Raccolta degli Atti con gli interventi di: Silvia Vegetti Finzi, psicologa e scrittrice Fulvio Scaparro, psicoterapeuta e scrittore Laura Pigozzi, psicoanalista e scrittrice Alessandro Vaccarelli, professore associato di Pedagogia Generale e Interculturale all’Università dell’Aquila Raffaele Mantegazza, professore associato di Pedagogia Generale e Interculturale all’Università di Milano Bicocca