CAPITOLO XIII

Le difficoltà della scelta

Svezzare i pazienti per tutelarli

Credo che affidarsi a qualcuno che possiede conoscenze superiori alle nostre, quando si ha un problema di salute, non sia una semplice necessità, ma perfino un bisogno innato nell’uomo, fin da quando erano gli sciamani, non i dottori, a curare gli ammalati. Per molti pazienti, del resto, le pillole prescritte dal medico, l’indicazione dell’ora del giorno in cui prenderle o particolari raccomandazioni riguardanti la dieta costituiscono un insieme di pratiche non molto diverse dalla magia, in quanto seguite un po’ alla cieca, in base alla semplice fiducia nel proprio medico curante. I dottori, in fondo, servono a questo, a mettere a nostra disposizione le conoscenze accumulate nel corso di anni di studio e di pratica per soccorrerci nei casi gravi, e per salvaguardare la nostra salute nel decorso normale della vita. La fiducia che si ripone nel medico è parte integrante della terapia che egli ci prescrive, in quanto condiziona il nostro stato d’animo e contribuisce, quindi, a determinare l’esito delle cure.


In un certo senso, questo rapporto stretto di fiducia, quasi di fede, tra medico e paziente sembra venire incrinato da chi, come il sottoscritto, insiste sulla necessità che, nella somministrazione dei vaccini come di qualsiasi altro farmaco o terapia, il paziente scelga in modo consapevole e sulla base di un’informazione accurata. Questo diverso modo di impostare la relazione tra medico e paziente suscita spesso disagio per una serie di motivi. Da parte del medico perché esiste il semplice dato di fatto che un “dottore” ne sa ben più di un paziente, e dunque ritiene di non potersi mettere a discutere con costui della terapia da seguire negli stessi termini con cui ne discuterebbe con un collega. Per forza di cose, insomma, il rapporto non è alla pari: chi fornisce le informazioni è il medico, e il paziente finisce sempre con il dover fare un atto di fiducia nei suoi confronti quando le accoglie, né si sente mai pienamente giustificato se le rifiuta. In secondo luogo, la maggior parte dei pazienti avverte il bisogno umano e psicologico, cui accennavo sopra, di mettersi nelle mani di qualcuno che venga reputato competente e di sentirsi così al sicuro da ogni rischio.


Pur tuttavia, e per quanto possa risultare disagevole, occorre superare un rapporto di dipendenza di questo genere perché, paradossalmente, esso va a scapito dell’elemento più fragile, ossia la famiglia e i pazienti.

Dover scegliere

Ho voluto riportare qui, alla fine di questo libro, il caso di Vera, bambina non vaccinata che ha contratto la meningite, fortunatamente senza conseguenze, e il caso di Giacomo, bambino danneggiato in modo permanente da vaccino. Due casi perfettamente equivalenti sul piano delle probabilità. Non così sul piano delle conseguenze, dato che Giacomo ha ricevuto un danno irreversibile, mentre Vera non è incorsa in alcuna conseguenza a causa della meningite. Eppure, il caso di Vera è stato addebitato da alcuni medici alla responsabilità morale di chi, come il sottoscritto, è contrario all’ipervaccinazione, mentre il caso di Giacomo è scivolato nel silenzio tra gli incidenti spiacevoli, ma inevitabili.


“Vera non ha ricevuto alcuna vaccinazione”. Inizia così, in modo davvero particolare, la lettera di dimissione che riferisce quanto accaduto a questa bimba di nove mesi. Prima di qualsiasi altra notizia, prima dell’anamnesi, del racconto dei fatti: “Vera non ha ricevuto alcuna vaccinazione”. Non ci sono parole di commento, ma la posizione di questa frase, la prima del lungo referto, è chiarissima: è un atto di accusa nei confronti dei genitori, un rimprovero urlato a chi non ha impedito questa scelta, anzi l’ha addirittura incoraggiata. Ricordo benissimo la telefonata della mamma, che mi diceva che Vera stava male, che era stata ricoverata nell’ospedale cittadino, e da lì trasferita in un centro universitario. In rianimazione. Vera aveva la febbre, era molto irritabile, ma cadeva facilmente in uno stato soporoso, il suo pianto era flebile, la fontanella anteriore bombata e pulsante. Il colorito pallido, grigiastro, le condizioni generali scadute. La puntura lombare ha permesso la diagnosi: meningite da haemophilus influenzae di tipo B. Viene subito iniziata la terapia con antibiotici e cortisone, la bambina si riprende, le sue condizioni migliorano rapidamente, tanto che dopo 3 giorni viene traferita dal reparto di rianimazione a quella di pediatria medica. Sono giorni difficili, duri, i genitori mi telefonano spesso, facendomi partecipare alla loro angoscia, alle speranze generate dai progressi, e alle preoccupazioni che aumentano quando Vera contrae un’infezione da rotavirus, che determina un peggioramento del quadro clinico, anche meningeo. Lentamente Vera recupera tutte le funzioni compromesse dalla malattia, la febbre scompare, riprende quelle competenze neuromotorie che apparivano scomparse, che si temeva non potessero tornare quelle di prima.


Non così Giacomo, il cui organismo ha reagito in modo imprevedibile alla seconda dose di vaccino.


A leggerle insieme, le storie di questi bambini sono le due facce di una stessa medaglia e come tali vanno considerate, e soprattutto ponderate, perché da entrambe possano scaturire nuove, più attente linee guida sulle pratiche vaccinali, e la consapevolezza dei rischi che vi sono in tutti i casi connessi. È dalla voce dei loro genitori, dunque, che le farò narrare.


Dai genitori di Giacomo


Era la vigilia di Natale del 1985: la cometa di Halley solcava i cieli prossimi alla Terra, con la coda guizzante nella costellazione dei Pesci. La sua scia scrisse il nome di Giacomo nella nostra vita. Per nove mesi il nostro piccolo astro fu cullato, desiderato e amato, già prima di spargere i suoi caldi raggi su di noi.


L’inverno si dissolse in fretta, sopraffatto da una delle primavera più esuberanti di cui abbia memoria, costringendoci a un dolce esilio tra pinete, spiagge e crinali montani.


A Ferragosto passeggiai lungo la battigia, per dare a lui e a me un po’ di refrigerio. All’alba del 16, si ruppero le acque: corremmo in ospedale e, dopo un paio d’ore, venne alla luce uno splendido bambino. Me lo appoggiarono sulla pancia, e lui si attaccò subito al seno.


Allattarlo mi riempiva di gioia, come era stato per suo fratello Tommaso.


Gli esami post-natali sull’efficienza delle funzioni vitali, misurati dall’indice di Apgar, dettero esito massimo: 9-10.


Erano passati nove anni dalla prima gravidanza, ma, l’emozione, la meraviglia, il mistero erano quelli della prima volta, con una sola differenza: Giacomo veniva accolto da una mamma e un papà entusiasti di occuparsi di lui con la ricchezza dell’esperienza e delle competenze acquisite negli anni precedenti. Giacomo cresceva bene. Il 16 settembre – a un mese dalla nascita – alla prima visita di controllo al consultorio pediatrico, lo specialista scrisse: “Molto buona la crescita. Regolare lo sviluppo psicomotorio. Niente di patologico”. Le successive visite del 16 ottobre, 11 dicembre 1986, e 15 gennaio 1987 confermarono questo quadro clinico.


Il pediatra che lo visitava diceva: “Giacomo camminerà e parlerà presto”. Il bimbo si portava le manine alla bocca, stringeva gli indici delle mie mani e si tirava su, dormiva bocconi. Quando faceva il bagnetto, scalciava felice, allagando tutto il pavimento. Attento e curioso era una gioia per tutti quelli che gli stavano intorno.


Il 12 novembre 1986, lo portai, di tre mesi, al consultorio a fare la prima vaccinazione. Mi dissero che i vaccini erano tre: antitetanica, antidifterica e antipolio. “Perché” domandai “tre contemporaneamente? A Tommaso, suo fratello, era stata inoculata a tre mesi e mezzo la prima dose di antipolio, a 5 mesi la seconda, e a 10 mesi la prima dose di antitetanica-antidifterica…”


L’assistente sanitaria rispose che si trattava di una riforma pratica per noi genitori “Le mamme spesso dimenticano gli appuntamenti, unendo e anticipando le vaccinazioni si ovvia al problema”.


Il 5 gennaio del 1986, portai Giacomo, di 4 mesi e venti giorni, ad assumere la seconda dose della vaccinazione, ignara di quello che si stava per abbattere sul suo piccolo corpo. Da quel momento la situazione precipitò e fummo scaraventati in un buco nero dal quale non siamo più riusciti a trovare l’uscita.


Dopo la seconda dose vaccinale, la spia che qualcosa di terribile era successo fu il bagnetto. Avevo messo Giacomo nella vasca grande per consentirgli di gioire pienamente dell’elemento che lui dimostrava di amare. Ma, nell’acqua Giacomo non si muoveva… non scalciava… non agitava le manine… le labbra erano diventate viola e il viso pallidissimo…


Lo avevo asciugato e chiamato immediatamente un pediatra nostro amico e vicino di casa che era arrivato trafelato. Lo aveva visitato e mi aveva chiesto: “Quando ha fatto il vaccino?”. “Circa una settimana fa, ormai l’avrà già smaltito” gli avevo risposto. Lui non aveva detto altro. Giacomo stava riprendendo colore.


Progressivamente, nei giorni successivi il bimbo iniziò a perdere il tono muscolare: non dormiva più bocconi, non alzava più la testolina e aveva difficoltà a girarla, muoveva solo gli occhi, e non si portava più le mani alla bocca: per descriverlo si sarebbe potuta usare l’immagine di una bambola di pezza.


I primi di febbraio Giacomo contrasse la Sesta malattia, per tre giorni ebbe la febbre a 38, e poi uno sfogo su tutto il corpo.


Il 16 febbraio 1987 – Giacomo aveva 6 mesi – nuovo controllo pediatrico a casa. Il medico, dopo aver visitato il bambino, scrisse: “Notato modesto ritardo di sviluppo con ipertonia arti superiori ed inferiori (mani a pugno chiuso). Controllo fra 15-30 giorni e eventuale visita specialistica in reparto”.


Non aspettammo. Lo facemmo subito visitare da un noto pediatra di nostra conoscenza, ormai in pensione, che sentenziò perentoriamente: “Paralisi irreversibile”.


Questa diagnosi ci lasciò di sasso: portammo subito Giacomo da un neurologo che non confermò, e tuttavia non fu in grado di dirci che cosa avesse il bimbo né d’ipotizzare che cosa potesse essergli successo.


L’8 marzo comparvero vomito e diarrea che durarono sei giorni. La notte del 23, Giacomo fu colpito da laringospasmo.


Tra un malore e l’altro aspettavamo, speranzosi, che si riprendesse. “Ora si riprende!”, pensavamo. Invece iniziò un dolore infinito che si esprimeva ininterrottamente in un disperato e inconsolabile pianto. Era un dolore continuo e lancinante, diffuso in tutto il suo essere. Giorno, notte, mattino, pomeriggio, sera. I giorni si susseguivano, le stagioni si susseguivano, ma il dolore c’era sempre.


Non esiste ricordo, di eventi lieti o tristi della nostra famiglia, da cui


il dolore di Giacomo sia assente.


“Ti ricordi il matrimonio di Daniele, che bella giornata? Ma come stava male Giacomo…”


“Ti ricordi l’estate del ’97 all’Alpe? Giacomo però soffriva molto…”


“Ti ricordi l’estate di bomboloni con crema e cioccolata della Gina al tendone al mare? Ma Giacomo non stava per niente bene.” Giacomo è sempre stato male.


Per un mese ci recammo tutte le mattine al reparto di pediatria dell’Ospedale di Viareggio, dove venne visitato da tutta l’équipe. Io provavo a far presente che la situazione del bimbo si era presentata dopo le vaccinazioni, ma questo non veniva preso in nessuna considerazione, anzi qualsiasi nesso causale veniva fermamente negato. Una fisioterapista lo tenne sotto osservazione.


A sette mesi, venne visitato dal primario del reparto dei prematuri, con lui era presente anche un altro pediatra. Giacomo venne lasciato sul tappeto di fronte alla scrivania. Ci sedemmo e il pediatra esordì dicendo che Giacomo era viziato, che bisognava farlo piangere, negargli il mio latte e dargli un etto di carne al giorno. Gli risposi che ero cosciente che Giacomo non stava bene. Mi avvicinai al tappeto su cui era Giacomo, che nel frattempo veniva visitato anche dall’altro pediatra. Questi espresse un parere diverso: il bimbo aveva avuto qualcosa, ma qualcosa le cui tracce non erano rilevabili da strumenti diagnostici di routine.


Il 19 marzo 1987 Giacomo fece il primo esame elettroencefalografico il cui esito rivelò un tracciato “privo di anomalie elettriche focali o parossistiche degne di nota”.


Ma dalla fase “bambola di pezza” il bimbo era ora passato all’irrigidimento, si inarcava all’indietro, gli arti inflessibili, le mani chiuse a pugno e i pollici chiusi nel pugno, il braccio destro alzato. Aveva spasmi terribili che non gli consentivano mai di dormire se non per sfinimento e per pochi minuti, mai sdraiato ma sempre in braccio, con la testa appoggiata sulla mia spalla perché – e questo lo abbiamo scoperto circa quattro anni dopo – soffriva anche di reflusso gastro-esofageo. Vomitava spesso anche il mio latte. Chiedevo al pediatra di fare analizzare il mio latte per vedere se Giacomo fosse intollerante, ma lui mi tranquillizzava, dicendo che se fosse stato intollerante non sarebbe cresciuto, e non avrebbe avuto il colorito roseo che aveva.


A volte Giacomo stava con gli occhi sbarrati, tanto che non riuscivo a capire se fosse o meno cosciente. Cercavo di scuoterlo, e quando si riprendeva piangeva anche per tre ore di seguito.


Altre volte, sempre di sera, attaccato al seno, mentre dormiva, era scosso da tremiti.


Il 16 di aprile, venne effettuata una nuova visita e un nuovo tracciato del sonno all’Ospedale di Pontendera, il cui esito fu “nei limiti della norma”. La dottoressa che lo visitò ci disse: “Sa quanti ne vengono, qua, con problemi post-vaccinali? Meno male che, poi, molti recuperano”. Ci consigliò un po’ di fisioterapia.


Dato che la medicina ufficiale non riusciva e non voleva dare una risposta – prima a quello che era successo a Giacomo e poi su come intervenire – iniziammo a rivolgerci anche alle medicine cosiddette “alternative”.


I vari medici omeopati consultati ci confermarono il possibile legame della situazione di Giacomo con i vaccini fatti, ma purtroppo nessuno fu capace di alleviare le sue sofferenze.


Ventisei anni fa non esistevano studi specifici, ed anche chi sapeva, in via ufficiosa e confidenziale confermava il danno da vaccino, ma per iscritto non si azzardava ad esprimere queste valutazioni, temendo l’ostracismo dei colleghi.


Non potevamo curare Giacomo perché non sapevamo cosa avesse. L’unica cosa certa, era che tutto era cominciato dopo aver effettuato la seconda vaccinazione: bisognava partire da lì per fare ricerche a livello nazionale, europeo, mondiale, oppure fare la cosa più banale: leggere gli effetti collaterali descritti nel foglietto illustrativo del vaccino.


Eravamo fiduciosi che la malattia di Giacomo non fosse grave e che, prima o poi, qualcosa si sarebbe sbloccato e qualcuno sarebbe stato in grado di fare una diagnosi più circostanziata. Nel frattempo non avevamo mai smesso di fare fisioterapia. Dall’ospedale ci spostarono al Ceser (Distretto Riabilitativo – Viareggio) e prescrissero al bimbo la fisioterapia due volte a settimana. A me sembrava poco, anche perché, a noi genitori, non spiegavano niente, non ci dicevano come avremmo dovuto comportarci con Giacomo a casa, come avremmo dovuto tenerlo in braccio o muoverlo. Se esprimevo i miei dubbi, rispondevano che, se avessimo voluto fare più ore di terapia, avremmo dovuto recarci all’AIAS, Associazione Italiana per l’Assistenza agli Spastici, di Marina di Massa. Alla psicologa che ci suggeriva queste cose domandai: “Se fosse tuo figlio che faresti?” Mi rispose, “Andrei all’Aias”.


Era il mese di luglio, Giacomo aveva undici mesi, prendemmo un appuntamento con la fisiatra del centro di Marina di Massa. Chiedevo informazioni su cosa poteva avere Giacomo, cosa gli era accaduto e cosa ci aspettava. Le comunicai le nostre perplessità sui vaccini fatti e le dissi anche che, secondo me, prima ancora dei problemi neurologici, Giacomo aveva problemi allo stomaco. Questo perché, oltre al vomito, quando avevo Giacomo in braccio, e il bimbo riusciva ad appisolarsi, avvertivo degli spasmi sulla parte sinistra del suo addome. Ma era come parlare al vento, nessuno ascoltava. La fisiatra del centro ci assegnò ad un giovane fisioterapista, che gli praticò un’ora di terapia tutti i giorni, dalle dieci alle undici del mattino. Frequentammo il centro per quattro anni.


Una mattina Giacomo non aveva fatto colazione a casa, per cui me la portai dietro per dargliela al centro. Quando il fisioterapista lo vide mangiare, andò a chiamare la collega per mostrarle il modo in cui lo faceva: masticava e, se gli usciva un po’ di latte o pane dalla bocca, con la lingua lo riportava dentro. Per noi era una cosa normalissima; per loro, era la conferma che il danno di Giacomo si era verificato dopo i tre mesi di vita, perché quelle erano abilità che si acquisiscono prima di allora (e mi viene in mente questo episodio, perché la stessa meraviglia la manifestarono, undici anni dopo, i medici del centro fisioterapico di Glenn Doman di Filadelfia. Quando, da lontano, videro Giacomo mangiare, si avvicinarono per vedere meglio, e noi domandammo cosa ci fosse di tanto straordinario in un’azione che Giacomo compiva quotidianamente, da sempre. Il motivo era che veniva fugato il dubbio che la patologia di Giacomo fosse nativa: quell’atto quotidiano dimostrava il contrario.


Tuttavia Giacomo non mostrava miglioramenti.


La mattina del 29 ottobre 1987, verso le 6,30 leggo dal mio diario: “Inizio crisi, forse epilettica: occhi verso l’alto, irrigidimento gambe e braccia. È girato su un fianco e gli esce saliva dalla bocca. Tutta la fase è terminata verso le 7,20”


È la prima di una serie senza fine di crisi epilettiche.


Oltre a tutto quello che già manifestava, si aggiunsero, quindi, le crisi epilettiche: sporadiche, i primi tempi, poi quasi tutti i giorni ed anche numerose in una giornata. Anche quando dormiva aveva le crisi, e si svegliava a volte piangendo in maniera inconsolabile, altre volte rigido e con difficoltà a riprendere sonno.


Il 31 gennaio 1988 a diciassette mesi, dopo l’ennesima crisi, Giacomo fu ricoverato all’ospedale di Viareggio e poi trasferito all’Istituto Stella Maris di Pisa.


Dopo dieci giorni di ricovero, e tutti gli esami e visite di routine, la diagnosi fu: “Discinesia cerebrale, deficit psichico a patogenesi tuttora imprecisata”.


La stessa diagnosi, ripetuta due anni dopo, luglio 1990, dall’Istituto Nazionale Neurologico “Besta” di Milano: “Encefalite evolutiva non inquadrata”.


Abbiamo tentato di tutto con la medicina ufficiale: oltre ai ricoveri allo Stella Maris di Pisa e al Besta di Milano, anche al Policlinico Kinderspital di Berna in Svizzera, all’Istituto di Clinica Neurologica dell’Università di Bologna, al Gaslini di Genova, al Meyer di Firenze, al Sant’Andrea di Roma, al San Raffaele di Milano, al Regina Margherita e alle Molinette di Torino, all’Ospedale Neuropsichiatrico di Verona.


Medicina cosiddetta alternativa: oltre all’omeopatia e alla pranoterapia, la terapia orto-molecolare, la terapia tibetana, erboristeria, santoni vari. Tutti i tipi di diete.


Terapie riabilitative: quattro anni, tutti i giorni, all’Aias di Marina di Massa, tre anni di metodo riabilitativo Doman e, dal 2000, riabilitazione presso gli Istituti Fay di Querceta (Lucca) a periodi alterni inizialmente, poi, negli ultimi anni, seguiti fino all’ultimo giorno dal direttore Manolo Dominguez.


È stata, la nostra, una vita di dolore e sofferenza… anche perché abbiamo incontrato, con poche eccezioni, strutture sanitarie con medici incompetenti e “boriosi”, che non hanno mai voluto andare oltre il manuale degli studi universitari, non hanno saputo e voluto vedere né ascoltare.


Giacomo è morto l’8 gennaio 2013.


Dai genitori di Vera


Meningite. Una parola che fa tremare ogni genitore.


E ha fatto tremare anche noi quando le dottoresse del Pronto Soccorso ci hanno informato che la nostra piccola di 8 mesi ne mostrava i segni. Nel suo caso erano stati febbre alla sera, vomito notturno, stato di torpore al mattino e leggero rigonfiamento sul punto della fontanella. Dopo le primissime ore di paura e panico è arrivata la notizia che la forma di meningite di Vera era dovuta al batterio Haemofilus influenza di tipo B. Un batterio totalmente “coperto” dal vaccino esavalente che avremmo dovuto fare a nostra figlia al terzo mese di vita.


Per nostra fortuna il decorso della malattia è stato positivo, senza particolari complicazioni e ad oggi la bambina ha recuperato splendidamente e non mostra alcuna conseguenza, o reliquianza come dicono i medici.


Ma.


Ma tutto questo poteva essere evitato.


Quando abbiamo preso la decisione di non vaccinare i nostri figli abbiamo cercato di informarci il più possibile e sentire più pareri medici. La nostra è stata una scelta consapevole dei rischi a cui andavamo incontro.


I pareri medici che avevamo chiesto sono stati sempre supportati da statistiche, dati e numeri. Io so che la matematica è una scienza esatta, ma in statistica le variabili sono molte e noi non abbiamo la competenza per poter esaminare in modo analitico i dati. Inoltre siamo stati quell’1% che ha preso la malattia!!!! Quindi ora come ora i dati per noi hanno un valore relativo.


La scelta di vaccinare o no, di dare o meno un antibiotico, di alimentare in un certo modo, di far respirare in un certo modo è una scelta che per noi si basa su convinzioni ed esperienze profonde.


Essere genitori significa scegliere ogni istante, per molti, molti anni, cosa fare per un altro essere umano.


Noi adesso stiamo vaccinando entrambi i nostri figli contro le varie forme di meningite, stiamo cercando di farlo nel modo meno invasivo possibile, separando le dosi, facendo passare dei mesi tra l’una e l’altra, cercando di dargli degli integratori che li aiutino a smaltire le tossine del vaccino.


Lo stiamo facendo per paura che possa risuccedere quello che già è successo.


Lo stiamo facendo per paura e con paura.


Nessuno potrà mai assicurarci che i nostri figli (vaccinati o no) non si ammaleranno mai.


Dobbiamo scegliere, rischiare, e farlo nel modo più sereno possibile per non trasmettere ai bambini ansie, sensi di colpa e paure che non appartengono loro. Sono nostre, teniamocele strette, ci faranno compagnia nelle notti insonni.

Alla ricerca del rischio minore

I casi di Giacomo e di Vera rappresentano in modo crudo cosa significhi dover scegliere. Entrambi i casi vanno catalogati tra gli eventi poco probabili, ma conta poco in quale percentuale probabilistica si inserisca un evento quando riguarda la vita del singolo. Allora, che fare?


La scelta che tocca ai genitori non è tra una forma di tutela della salute e il diritto di metterla a repentaglio in nome di un’astratta libertà dell’individuo. Da questo punto di vista, un genitore non ha libertà di scelta: ha una sola scelta, e un solo obbligo morale: quello di mantenere integra la salute dei propri figli.

I casi e i dati esaminati in questo libro evidenziano che non si dà sempre una scelta tra una sicurezza totale, da un lato, e un margine di rischio dall’altro, ma tra due margini di rischio, alle volte identici, alle volte no (i rari danni da vaccino contro il rischio di contrarre una malattia più o meno rara, o più o meno grave). È allora logico e naturale che venga data la possibilità di scegliere il modo in cui intendiamo preservare la salute nostra o quella di nostro figlio, proprio come quando ci viene spiegato quale rischio corriamo ad affrontare una terapia utile a mantenere la nostra salute e quale rischio affrontiamo se decidiamo di non sottoporci a essa. La parzialità delle informazioni che si forniscono prima delle vaccinazioni inducono i genitori a ricercarne di diverse in modo autonomo, a volte confuso e disorientato, a volte dopo che il bambino ha presentato una reazione più o meno grave alla vaccinazione. Per questo auspico un profondo cambiamento nel rapporto con i bambini e con le famiglie che assistiamo. Bisogna migliorare la capacità di ascolto e di attenzione, valorizzando quello che la famiglia riporta e racconta. Un genitore sta insieme a suo figlio tutti i giorni, lo osserva ogni minuto che trascorre con lui, può riferire di tutte quelle caratteristiche fisiche, psicologiche, comportamentali che ci servono per calibrare al meglio le terapie. Bisogna utilizzare queste competenze, pensare a strategie e indicazioni terapeutiche e poi fornire le informazioni in modo corretto e obiettivo, rifuggendo dal catastrofismo. Invece proprio la “strategia della paura” fa sì che si metta in luce solo e sempre un aspetto del problema. Allora si nascondono, si omettono, perfino si negano i rischi legati alla vaccinazione e si propaganda l’idea che facendo fare a tuo figlio tutti i vaccini possibili e immaginabili, egli non rischierà di contrarre alcuna malattia infettiva. L’errore principale in cui incorre la recente politica vaccinale nel nostro Paese è di diffondere nella cultura sociale l’idea irrealistica secondo cui grazie a una moltitudine di vaccini e ai loro perpetui richiami ci si possa attrezzare contro qualunque rischio, invece di inculcare, questo sì, i princìpi per una seria attività di prevenzione: igiene personale, pulizia degli ambienti di vita e di lavoro, corretta alimentazione, stili di vita sani. L’inquinamento ambientale e alimentare è letteralmente esploso e oggi ha raggiunto livelli del tutto non controllabili, alterando le capacità di risposta del sistema immunitario, soprattutto dei bambini più piccoli, stravolgendone la fisiologia. CAS REGISTRY, Istituto della American Chemical Society, ha registrato oltre 71 milioni di prodotti chimici, di natura organica e inorganica, che sono stati immessi nel mercato a partire dal 1957. Attualmente, ogni giorno oltre 12.000 nuove sostanze vengono immesse nel mercato. L’inquinamento che ne risulta è fuori da ogni possibile controllo per il numero sterminato dei prodotti in uso; per la mancanza di informazione del loro effetto sulla salute; per l’incapacità da parte della comunità medica di interpretare l’efficacia dei sistemi di difesa individuali nei confronti di specifici prodotti e analizzare nel singolo individuo gli effetti di accumulo e di sinergia nel tempo tra i diversi composti chimici1. All’inquinamento da PM 2,5 si attribuiscono 4,2 milioni di morti/anno nel mondo. Pesticidi, antibiotici, ormoni, virus mutanti, prioni, diossine sono presenti nel “cibo impazzito”2. Il mercato pubblicitario promuove regimi alimentari “antibiologici”. L’utilizzo di alimenti addizionati con zuccheri è oggi così comune che si è passati da un consumo di zucchero pro capite di 1 chilogrammo all’anno nei primi del ’900 a una media annua di 70 chilogrammi, sempre a persona. Gli antibiotici sono distribuiti in serie appena compare un po’ di febbre, un mal di gola, un’otite e sono usati a piene mani negli allevamenti intensivi degli animali che compaiono sulle nostre tavole, aumentando il fenomeno dell’antibiotico-resistenza, la più grave minaccia della medicina moderna secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità. I dati forniti dal Centro di controllo delle malattie di Stoccolma segnalano che ogni anno in Europa muoiono 25 mila persone per infezione causate da batteri antibiotico-resistenti. Sarebbero 700 mila i morti all’anno a livello mondiale, secondo una recente analisi effettuata per conto del governo britannico. In assenza di interventi adeguati si potrebbe arrivare, nel 2050, a 10 milioni di morti all’anno. In Italia da 5.000 a 7.000 persone ne sono vittime, a causa principalmente di infezioni, e non desta meraviglia dal momento che il nostro Paese è, tra i Paesi europei, quello con maggiori quantità di antibiotici usati negli allevamenti. I dati dell’Ema mostrano che nel nostro Paese la quantità di antibiotico per singolo animale è più che doppia della media europea, superando di 3 volte la quantità della Francia e di 5 volte la Gran Bretagna3.


Una qualificata letteratura scientifica medica ha quantificato i benefici di interventi comportamentali e ambientali che possono incidere in maniera significativa sulla tutela della salute non solo con una minore incidenza delle malattie cronico degenerative, ma anche con riduzione di morbilità e mortalità delle malattie infettive, di tutte le malattie infettive, non solo di quelle per cui esistono i vaccini.

L’importanza relativa delle vaccinazioni deve essere giustamente collocata: la nostra popolazione oggi si ammala e muore soprattutto perché mangia troppo e si muove troppo poco. La quota di salute che si può promuovere con le vaccinazioni è importante ma è marginale rispetto a quella che si potrebbe promuovere agendo sugli stili di vita inadeguati. Esistono interventi di prevenzione e promozione efficaci, tanto e più delle vaccinazioni, che non giungono neppure all’attenzione del pubblico e ai quali il dibattito politico non ha riservato alcuno spazio4.

  • Non esporre i bambini (né gli adulti) al fumo passivo perché si ha un aumento di 3,24 volte di malattie invasive da meningococco.
  • Evitare il fumo di tabacco: il fumo aumenta da 2 a 3 volte la mortalità totale rispetto ai non fumatori e aumenta di 2,3 volte la mortalità da infezioni.
  • Aumentare i consumi di cereali integrali: 200 grammi di cereali integrali si associano a riduzione di circa il 30% della mortalità totale, ma bastano già 50 grammi per ridurre di circa il 20% le morti per infezioni.
  • Aumentare i consumi di frutta secca oleosa: con circa 20-28 grammi al giorno di noci, nocciole, mandorle e pistacchi si ottiene una riduzione di oltre il 20% della mortalità e di 4 volte della mortalità per malattie infettive.
  • Allattare al seno per almeno 6 mesi riduce malattie infettive e morti per polmoniti nei bambini.
  • Aumentare i consumi di frutta e verdura: con 800 grammi al giorno di frutta e verdura si ottiene una riduzione di circa il 30% della mortalità; ulteriore riduzione del 10% della mortalità ogni 200 grammi aggiunti.
  • Ridurre i consumi di alcool entro 1-2 unità alcooliche per l’uomo e 1 per la donna.
  • Ridurre i consumi di carne rossa: carni rosse fresche e lavorate si associano a maggior mortalità totale e da infezioni.
  • Aumentare l’attività fisica: riduzione di circa il 40% della mortalità, riduzione anche maggiore delle morti per infezione.
  • Fare uso prudente/appropriato di antibiotici e contrastare le antibiotico-resitenze (causa di 5.000-7.000 morti/anno in Italia, innanzitutto per infezioni).
  • Lavare spesso le mani, strofinando bene le dita sotto l’acqua corrente previene la diffusione di tutte le infezioni respiratorie.5

Occorre che la “cultura della prevenzione” sia innanzitutto diffusa nel Servizio Sanitario Nazionale, nelle proposte e nei comportamenti di tutte le Istituzioni perché diventi patrimonio comune dei cittadini.


La medicina deve essere:

  • preventiva nel senso più genuino e intrepido, non esaurendosi nella diagnosi precoce di malattie già accettate nel momento in cui sono accertate; promuovendo, invece, e difendendo la salute umana da tutte le offese dell’ambiente di lavoro e di vita fino a piegare queste a quella e non vi-ceversa;
  • sociale nel senso che sappia rivolgere e portare il suo intervento nella comunità reale in cui l’uomo vive, opera e realizza se stesso, senza strappare o ignorare, come da sempre, queste sue radici ma riconoscendovi, anzi, la testimonianza dell’assoluta inseparabilità della salute collettiva da quella individuale;
  • collettiva nel senso che, superando qualsiasi forma presente o imminente del sistema mutualistico burocratico, parassitario e inefficace, dichiari e realizzi l’assunzione integrale da parte della collettività partecipante del diritto di porsi come soggetto non solo di salute ma anche di sanità;
  • umana nella misura in cui (recuperato il colloquio perduto tra una medicina sempre più oggettivante e una sofferenza più soggettivata, ricomposti i frammenti di un atto medico denaturato dalla mercificazione e dalla oblazione al potere) restituisca al malato e al medico la loro integrità che li faccia essere finalmente della stessa parte: quella dell’uomo contro il potere, quella del lavoro contro il capitale.6

Nel caso vengano a mancare questi requisiti, non possiamo puntare sull’assunzione di farmaci e sulla somministrazione di nuovi, ulteriori, vaccini per ovviare a carenze fondamentali nelle nostre condizioni di vita o per escludere qualsiasi malattia, anche la più banale, dal cerchio della nostra esistenza. Ciò non sarebbe soltanto irrealizzabile, ma soprattutto poco salutare, perché l’organismo ha bisogno di affrontare anche stati transitori di malattia per attrezzare il proprio sistema immunitario. Questo è un meccanismo prezioso, sviluppato dalla natura in milioni di anni, come ho avuto modo di osservare in questo libro, e dunque ben collaudato nella specie umana. Gli si deve dare la possibilità di venire collaudato anche in ogni singolo individuo. Non è affidandone il funzionamento alle case farmaceutiche che, sul lungo periodo, vinceremo la battaglia contro l’infinita serie di rischi che hanno sempre attentato e sempre attenteranno alla nostra salute.


Il rischio è qualcosa di intrinsecamente connesso, oltre che con la nostra stessa vita, con qualsiasi trattamento medico, generico o specifico che sia. Esso è ineliminabile. Il più banale intervento può mettere a repentaglio la nostra salute. Per questa ragione, la legislazione esistente prevede l’obbligo di ottenere dal paziente il consenso informato sui trattamenti cui verrà sottoposto, o cui verranno sottoposte le persone per cui egli è responsabile. Nel caso dei vaccini, ho già parlato a lungo in questo volume sui limiti e le approssimazioni con cui tale normativa viene applicata in Italia. Se si esamina la giurisprudenza, ossia le sentenze dei tribunali in materia, è facile vedere come vengano riconosciuti solo due limiti alla necessità del consenso informato da parte del paziente. Il primo è il caso di interventi di pronto soccorso non procrastinabili a meno di non mettere in pericolo la vita del paziente. Il secondo è quello di dimostrato progresso delle condizioni di salute del paziente a seguito di uno specifico trattamento, che pure può avere provocato conseguenze anche serie, che non erano state comunicate in anticipo al paziente7. In altre parole, la giurisprudenza riconosce la necessità, una volta valutato il rischio di affrontare un trattamento medico o di non affrontarlo, di optare per il rischio e il danno minori, quando il rischio maggiore consista nella possibilità di invalidare in modo permanente la salute del paziente.


Questo è il punto centrale del mio discorso: è importante che si dia possibilità di scelta nella consapevolezza dell’esistenza comunque di due rischi. Negare, dunque, il rapporto tra somministrazione del vaccino ed evento avverso quando risulti, al contrario, fondato su constatazioni oggettive, tra-scurare di comunicare i dati sugli avventi avversi alla vigilanza, o rendere assurdamente complicata questa comunicazione da parte dei genitori, significa alterare in maniera fraudolenta il quadro dei dati oggettivi sulla base dei quali i genitori possono operare una scelta. Se poi le statistiche rivelano che i medici per primi, nonché i loro figli e i loro familiari, ricevono vaccinazioni o subiscono interventi chirurgici in misura inferiore alla media della restante popolazione, qualcosa forse vorrà dire. Nei Paesi di più lunga tradizione democratica, dove cioè il cittadino è abituato a prendere su di sé il peso della propria libertà, le vaccinazioni obbligatorie sono poche o nessuna, il che non implica affatto che le famiglie non vaccinino, anzi alcune immunizzazioni raggiungono coperture molto alte. Significa semplicemente che se vaccino mio figlio lo faccio valutando i rischi che l’informazione medica, in modo fedele alla realtà e trasparente, deve comunicarmi. Dopo di che, mi assumo con consapevolezza il rischio, sia in un senso che in un altro. In altre parole, non si sceglie tra una meningite o una difterite certe in età infantile, e una possibilità remota di malattie autoimmuni in età matura: si sceglie tra due possibilità entrambe remote, ma quanto esattamente remote non possiamo saperlo, anche perché la continua somministrazione di ulteriori vaccini, e relativi adiuvanti, e la continua sollecitazione artificiale del sistema immunitario segue meccanismi e produce reazioni che non siamo in grado di prevedere altrettanto bene come lo sviluppo di una malattia virale o batterica.


La mia conclusione è pertanto spiacevole: il rischio non è eliminabile, ma solo gestibile attraverso un processo onesto e accurato di informazione, con l’ausilio di atteggiamenti professionalmente e umanamente corretti, con una valutazione obiettiva e non condizionata delle priorità e delle gerarchie.

Vaccinazioni: alla ricerca del rischio minore - Seconda edizione
Vaccinazioni: alla ricerca del rischio minore - Seconda edizione
Eugenio Serravalle
Immunizzarsi dalla paura, scegliere in libertà.A seguito dell’introduzione dell’obbligatorietà vaccinale, l’autore cerca di fare chiarezza su tale questione, analizzando i dati con chiarezza e linearità. I vaccini sono tutti uguali?Qual è la durata?Quale l’efficienza?Cosa si intende per immunità di gregge?È la stessa per tutte le malattie?A seguito dell’introduzione dell’obbligatorietà vaccinale, il dottor Eugenio Serravalle cerca di fare chiarezza, accompagnando il lettore nel labirinto di dati e termini tecnici con linearità.Vaccinazioni: alla ricerca del rischio minore è una lettura indispensabile per imparare ad applicare il senso critico ad argomenti sui quali ci troviamo spesso indifesi, come l’informazione medico-sanitaria diffusa da stampa e televisione. Conosci l’autore Eugenio Serravalle è medico specialista in Pediatria Preventiva, Puericultura e Patologia Neonatale.Da anni è consulente e responsabile di progetti di educazione alimentare di scuole d’infanzia di Pisa e comuni limitrofi.Già membro della Commissione Provinciale Vaccini della Provincia Autonoma di Trento e relatore in convegni e conferenze sul tema delle vaccinazioni, della salute dei bambini e dell’alimentazione pediatrica in tutta Italia.