CAPITOLO I

Come funziona il seno

A discrezione del consumatore

Mezzo secolo fa era opinione tanto diffusa quanto errata pensare che la quantità di latte prodotta da ogni donna fosse fissa: alcune hanno tanto latte e altre poco latte. Ad alcune il latte durava una settimana, ad altre due mesi e poi scompariva: il deposito si era svuotato. Chiaramente, si poteva anche avere latte buono o latte cattivo. Erano cose che si avevano o non si avevano. Se hai tanto latte e buono, hai avuto fortuna, e potrai allattare, e tuo figlio crescerà grande e bello. Se hai poco latte, o un latte annacquato, non c’è soluzione: per fortuna che hanno inventato i biberon! Niente che la madre faccia o smetta di fare influisce sul risultato; se conoscevi alcune madri che avevano allattato per più di tre mesi (che a quei tempi era un atto eroico), o per più di sei (il che era assolutamente una bizzarria), non ti veniva in mente di chiederle: “Spiegami come hai fatto, piacerebbe anche a me poter allattare mio figlio”, ma si commentava con una certa invidia: “Che fortuna, tu che hai latte! Magari ne avessi avuto anch’io per allattare mio figlio!” (Beh, a dire il vero il commento più frequente era: “Non capisco perché ti sacrifichi allattando al seno, io l’ho fatto col biberon ed è diventato splendido”).


E non è molto strano che in Europa quasi nessuno abbia latte, mentre in Africa quasi tutte le madri ce l’abbiano? Certo, è questione di razza; le nere hanno più latte, come le gitane; invece noi bianche non ce l’abbiamo (alcuni aggiungevano che, certo, le nere e le gitane appartenevano a razze primitive). E allora perché le nostre nonne (le nonne di mezzo secolo fa, le bisnonne o trisavole del lettore) avevano latte, se erano della nostra stessa razza? Su questo punto le spiegazioni si dividevano. Per alcuni erano le preoccupazioni della vita moderna la causa della fine dell’allattamento (parleremo meglio di questo a pag. 23), per altri era l’evoluzione della specie in azione: l’organo che non si usa si atrofizza e presto nasceranno bambine senza seno (ah, però… forse che prima nascevano col seno?).


Come nei cartoni animati, dove gli animali si trasformano in cinque minuti. Però non è così che funziona l’evoluzione. In realtà, i caratteri acquisiti non si ereditano (vale a dire, anche se si susseguissero cento generazioni di madri che non danno il seno, la centounesima avrebbe gli stessi geni e lo stesso seno, e potrebbe utilizzarlo se volesse e sapesse come). E anche se, a causa di una mutazione, ci fosse una donna senza latte (il che può accadere ed è di fatto accaduto, si veda a pag. 168), questa avrebbe una o due figlie, due o tre nipoti… Ci vorrebbero migliaia di anni perché una parte consistente della popolazione arrivasse ad avere questo gene mutante che provoca la mancanza di latte, e occorrerebbe soprattutto un vantaggio riproduttivo: che le donne senza latte avessero molti più figli, o che i loro figli sopravvivessero con maggior facilità. Senza vantaggio evolutivo, una mutazione non ha alcun motivo per estendersi; dopo migliaia di anni potrebbe avere solamente una manciata di discendenti. Nelle classi medie dei paesi industrializzati dell’ultimo trentennio del XX secolo, l’ipotetico gene del non avere latte non possiede alcun vantaggio riproduttivo. Al contrario, per milioni di anni e ancora oggi nella maggior parte del mondo, se la madre possiede poco o cattivo latte, è molto probabile che i suoi figli muoiano (a meno che un’altra donna offra loro il proprio seno). Qualsiasi possibile gene mutante, lungi dall’estendersi, sarebbe stato rigorosamente eliminato. Per questo ci sono così poche donne senza latte.


No, non ci siamo evoluti; abbiamo gli stessi geni dei nostri trisavoli. Abbiamo gli stessi geni degli abitanti delle caverne di Altamira1. E una produzione di latte fissa o limitata nel tempo non sarebbe compatibile con i fatti comunemente osservati.

L’errore forse sta nel fatto che ci vogliamo paragonare alle mucche. È certo che esistono razze che producono più latte di altre; i contadini lo sanno da secoli. Perché non dovrebbero esistere anche donne appartenenti a una razza da latte? Ma attenzione, le vacche da latte non sono mammiferi normali. Sono mutanti, accuratamente selezionati nell’arco di migliaia di anni per produrre molto più latte di quanto i vitelli abbiano bisogno. Una cerva che produce tanto latte quanto una vacca sarebbe una cerva malata.


È evidente che i bambini, man mano che crescono, hanno bisogno di una maggior quantità di latte (fino a che non cominciano con altri alimenti, e allora il consumo di latte si stabilizza e più avanti diminuisce). Non c’è alcun dubbio; quando si allatta un bambino con il biberon, bisogna aumentare ogni volta la quantità di latte.


Supponiamo che un neonato prenda 500 ml di latte, e che un bambino di quattro mesi ne prenda 700 (cifre inventate e arrotondate solo a titolo esemplificativo. Non spaventatevi, per allattare non c’è alcun bisogno di sapere di quanto latte necessita o quanto latte prende un bambino). Se la quantità di latte è fissa, e una donna ne produce solo 500 ml al giorno, già al primo mese, suo figlio inizierà ad essere affamato e bisognerà dargli un’aggiunta. “Esatto! – penserà più di una – questo è quel che è capitato a una mia amica.” “E alcune non arrivano a produrre neanche 500 ml al giorno, ma solo 300, così i loro figli hanno bisogno di un’aggiunta fin dal primo giorno”. Ma conosciamo anche alcune donne che continuano a dare il seno per molti mesi, quelle a cui il latte non finisce. Di queste ce n’erano alcune anche nei tempi peggiori in cui si allattava dieci minuti ogni quattro ore; ora sono sempre di più. E sappiamo che ai tempi delle nostre bisnonne tutti i bambini venivano allattati per mesi o anni, così come succede ora in gran parte del mondo. Come funziona il seno di queste donne? Le fortunate che riescono ad allattare per quattro mesi senza necessità di aggiunte, e ci sono e sono sempre di più, sarà forse perché producono 700 ml fin dal primo giorno? Ma allora, cosa accade durante i primi mesi a questi 700 ml di latte? Se li beve il bambino? Impossibile. Quello che ne ha bisogno solo di 500, ne prende solo 500. Molte madri, che usano il biberon, hanno provato a dare al loro figlio un poco in più del necessario (…che rimanga fra noi, alzi la mano quella che non ci ha provato). Solo un pochino in più perché sia ben nutrito, perché mi cresca bello. Ma i bimbi non lo prendono. Se lo prendessero, quasi tutti i bambini di un anno peserebbero più di 20 chili, e alcuni più di 30.


Così il bambino assume solo 500 ml di latte, mentre sua madre ne produce 700. Dove vanno a finire, allora, i 200 ml che avanzano? Gocciolano? Sgattaiolano via dal seno? 200 ml arrivano a riempire un bicchiere, questa madre non avrebbe bisogno di spugne, ma di bacinelle nel reggiseno. Restano all’interno? Si accumulano? Dopo una settimana ci sarebbero 1.400 ml; dopo un mese sei litri di latte accumulato, tre litri per ogni seno. Tutte le donne dovrebbero togliersi il latte e buttarlo, per settimane; e quella che non lo fa, scoppierebbe.


Quindi la quantità di latte non è e non può essere fissa, ma continua ad aumentare man mano che cresce il bisogno del bambino. La stessa madre, che inizialmente produceva 500 ml, dopo un certo periodo ne produrrà 700.


È forse il tempo che fa aumentare la produzione? Vale a dire, si tratta di un processo programmato, come una lavatrice, per cui tutte le madri producono 500 ml di latte al primo mese, 700 dal quarto mese, un po’ di più al sesto e a partire da quel momento sempre di meno? Sarà per questo che iniziamo a dare le pappe a partire dai sei mesi? Perché a quell’età comincia a diminuire la produzione di latte? E, peggio ancora, esistono donne con un programma cotone e altre con un programma capi delicati? Donne che arriveranno a produrre 800 ml e avranno latte per due anni, e altre che non supereranno mai i 600 e resteranno senza latte al terzo mese?


Impossibile. L’essere umano non può essere programmato così male, non è in questo modo che funziona il nostro organismo. Se le variazioni nella produzione di latte fossero prestabilite, cosa accadrebbe, per esempio, se il bambino morisse? Per millenni, e ancora oggi in gran parte del mondo, la morte di un bimbo non è stata una rarità, ma un fatto quotidiano, un’esperienza che prima o poi le madri vivevano. Se il bambino moriva durante il parto, o di meningite a due mesi, credete che la madre continuasse ad aumentare la quantità di latte fino al sesto mese, e a partire da lì a diminuirla fino ai due o tre anni? Che sofferenza e che spreco!


E le nutrici? Per secoli, in gran parte d’Europa, le donne ricche non hanno mai dato il seno ai loro figli. Credete che le balie rimanessero senza latte dopo due anni e andassero in pensione? Una vita professionale più breve di quella di un calciatore! No, le nutrici, non appena terminavano di allattare un bimbo, iniziavano con un altro, e continuavano in questo modo per decenni.


E i cambiamenti nell’alimentazione complementare? All’inizio del ventesimo secolo i pediatri consigliavano di allattare al seno – e solo al seno – fino a dodici mesi; in seguito fino a dieci, otto, sei, tre, meno di un mese… e, improvvisamente, riprendevano di nuovo con tre, quattro, sei mesi. Se la quantità di latte diminuisce a partire dal sesto mese, di che vivevano i nostri nonni tra il sesto e il dodicesimo? Sarà forse che il programmatore della secrezione di latte si mette automaticamente d’accordo con le raccomandazioni fornite dall’Associazione di Pediatria, come l’orologio del computer che si regola automaticamente quando ci si collega a Internet? No, il processo è inverso: non iniziamo con i cibi solidi a sei mesi perché a quest’età diminuisce la produzione di latte, bensì la produzione di latte diminuisce perché abbiamo cominciato con l’alimentazione complementare.


È una questione di progettazione. Abbiamo bisogno di un sistema che si adatti in ogni momento alla necessità del bimbo, producendo una maggiore quantità di latte se ne vuole di più e una minore se ne vuole meno. Un sistema che continui a generare latte fino a che il bimbo ne ha bisogno, e che ne sospenda la produzione quando smette di poppare. Che produca latte per uno se c’è un solo bambino, e per tre se nascono tre gemelli.


La soluzione è semplice e geniale: la quantità di latte non dipenderà dalla razza della donna, né dal tempo trascorso dal parto, ma solo da quanto poppa un bimbo. Se poppa molto, uscirà molto latte; se smette di poppare, smetterà di uscire latte. È un meccanismo che inventarono già i primi mammiferi più di duecento milioni di anni fa; la natura tende a mantenere le soluzioni che funzionano bene.


Ma possiamo dire qualcosa di più. In natura, se il bimbo non poppa, il latte smette di generarsi e basta. Ma molte madri di bambini malati o prematuri che non possono poppare, o molte madri che lavorano, tirano fuori il latte con altri metodi. In realtà, quel che fa sì che il seno produca latte non è tanto il bimbo mentre poppa, ma il fatto di estrarlo. Estrarlo con qualsiasi mezzo: dando il seno, o estraendolo a mano o con un tiralatte.

Il seno, cos’è e a cosa serve

L’unica cosa che ha bisogno di sapere la maggioranza degli utenti sul funzionamento di un televisore è come si preme il tasto per accenderlo e come si cambia canale. Se ci vengono chiesti ulteriori dettagli, dovremo difenderci con un generico: “Funziona a elettricità”. Non serve conoscere le parti che compongono un televisore e il loro funzionamento, per vedere la televisione.


Allo stesso modo, per dare il seno l’unica cosa che serve sapere è come metterlo in bocca al bambino. Se ci vengono chiesti ulteriori dettagli, ora potremo dire presuntuosamente che “quanto più latte si estrae, tanto più se ne produce”; gli animali non sanno nemmeno questo e allattano meravigliosamente. Altra cosa è conoscere cosa contiene il seno, come funziona, perché estraendo più latte se ne produce di più. Anche se non è necessario saperlo per allattare, spiegheremo qui di seguito alcuni dettagli: perché è divertente (beh, dipende dai gusti), perché dà un tocco di serietà, e perché bisognerà pur dire qualcosa affinché il libro non sia tanto scarno.


Ma prima dobbiamo fare un’importante distinzione. Alcune persone a questo mondo hanno progettato e costruito il loro televisore. Sanno esattamente di quali pezzi è composto (quelli che hanno montato loro!) e l’utilità di ognuno. Non possiamo dire la stessa cosa del seno, né di nessun’altra parte del nostro corpo. Anche se ormai si conoscono sempre più cose, possiamo trovare ancora molte sorprese. Ciò che si sa del seno non è altro che una piccola parte della realtà, e probabilmente alcune delle cose che pensiamo di conoscere sono sbagliate. Quel che io, personalmente, so del seno non è altro che una piccola parte di quel che sa una quantità di scienziati in tutto il mondo. E quel che spiegherò di seguito non è altro che un riassunto schematico.

L’esterno del seno

Per tradizione, le donne hanno due seni. Non è sempre stato così; altri mammiferi ne hanno diverse coppie, si pensi alla propria gatta o alla propria cagna. Come ricordo di questi lontani parenti, alcune persone hanno più di due seni. Di solito si tratta solo di un capezzolo in soprannumero, che compare in un qualsiasi punto di una linea immaginaria tra l’ascella e l’inguine. A volte è un capezzolo talmente primitivo che chi lo possiede, uomo o donna che sia, crede che si tratti di un neo o di una verruca. Altre volte c’è anche un tessuto ghiandolare, più o meno sviluppato, che all’inizio dell’allattamento può gonfiarsi e gocciolare. Non preoccupatevi, è passeggero; continuate ad allattare normalmente, mettete del ghiaccio se allevia il fastidio e in due o tre giorni scomparirà il disturbo.


Verso il centro del seno si trova il capezzolo, una struttura a volte in rilievo e a volte infossata, da cui esce il latte. Intorno al capezzolo c’è una zona scura più o meno grande, l’areola. Così tanta gente, inclusi medici e infermiere, si impegna a dire aureola, che la Real Academia Española ha finito per accettarli come sinonimi; ma noi irriducibili puristi ricordiamo che sono due cose ben distinte: l’areola è una superficie di piccole dimensioni, mentre l’aureola, da aureo, è l’alone dorato che portano i santi in cima al capo. Chiamatela areola, per favore.


Nell’areola si trovano delle piccole escrescenze che crescono durante la gravidanza e l’allattamento. Si chiamano ghiandole di Montgomery, e contengono una ghiandola sebacea enorme e una ghiandola mammaria in miniatura (questione di un millimetro di differenza fra le due). Le ghiandole sebacee sono distribuite in tutta la nostra pelle e producono sostanze protettive; qui nell’areola sono più grosse, e pertanto hanno una maggiore efficacia protettiva. La minuscola ghiandola mammaria produce latte, insieme con i suoi anticorpi, con il suo fattore di crescita epidermica, con le sue numerose proprietà antinfiammatorie… un’autentica pomata epitelizzante.


Al bordo dell’areola crescono anche numerosi peli abbastanza grandicelli. Ogni donna pensa di essere l’unica ad averli e se li toglie con molta cura; in realtà sono assolutamente normali. Alcune madri si chiedono se il bimbo non avrà problemi durante l’allattamento a causa di questi peli. Che problema può avere dato che discendiamo dalle scimmie?


Sotto il capezzolo e l’areola si trovano una serie di fibre muscolari involontarie, abilmente incrociate in modo che la loro contrazione produce l’erezione del capezzolo (ovvero, fa sì che l’areola si contragga e il capezzolo sporga). Lo sfregamento, il freddo o lo stimolo sessuale possono produrre l’erezione del capezzolo.

La parte che non si vede

Poche cose sono noiose come l’esterno del seno. Visto uno, visti tutti.


Dentro, invece, la sua costituzione risulta molto varia. Ci sono ghiandole, dotti, tessuti connettivi, legamenti, arterie, nervi, vasi linfatici…


La ghiandola in sé è formata da vari lobuli, artisticamente intrecciati con tessuto grasso. È la quantità variabile di tessuto grasso che fa sì che esistano seni di tutte le dimensioni; la ghiandola è sempre più o meno uguale, e la dimensione del seno non ha niente a che vedere con la sua capacità di produrre latte. La donna è unica tra i mammiferi per la capacità di accumulare grasso nel seno. Se avete visto una cagna o una gatta coi suoi cuccioli, ricorderete che la madre è quasi piatta.


Curiosamente, il numero di lobuli della mammella è ampiamente discusso. Alcuni dicono che ci sono una ventina di lobuli, anche se spesso i loro condotti confluiscono prima di giungere al capezzolo; altri che ci sono una decina di dotti, ma che si ramificano molto vicino al capezzolo; in fondo mi sembra che si dica la stessa cosa. Comunque sia, nel capezzolo sbocca una certa quantità di canali chiamati galattofori (cioè, che portano il latte) e, premendo il seno, il latte esce da tanti piccoli fori insieme, come se fosse un annaffiatoio.


La zona dei dotti galattofori vicino al capezzolo ha la capacità di distendersi e riempirsi di latte, formando i cosiddetti seni galattofori. C’è un po’ di confusione, vero? Perché il seno può anche chiamarsi tetta, mammella o petto; ma ogni seno contiene una decina di seni galattofori. A volte, quando il bimbo sta poppando, è possibile palpare i seni galattofori pieni, da sotto l’areola, a un paio di centimetri dal capezzolo.


All’inizio del presente secolo, alcuni scienziati australiani hanno affermato che i seni galattofori non esistono, perché nella mammella a riposo non sono presenti fori da riempire e, quindi, nell’arco della giornata il latte non si può accumulare lì, ma che è semplicemente la parte finale dei dotti a dilatarsi un po’ quando il latte deve uscire al momento della suzione. Sono persino arrivati a parlare di una “nuova anatomia” della mammella, come se avessero rivoluzionato radicalmente le nostre conoscenze. Francamente, penso che non abbiano rivelato un granché. Non mi è mai parso di sentir affermare che le donne hanno dei depositi vuoti all’interno del seno in cui si accumula il latte tra una poppata e l’altra. Quello che si è sempre affermato riguardo ai seni galattofori è esattamente ciò che ripetono gli australiani: che al momento della suzione la parte finale dei dotti si riempie di latte, appena appena, giusto quello che prende il bambino nella suzione. Si potrà anche usare un altro nome, ma si tratta comunque della stessa cosa.


A partire dal capezzolo i canali si vanno progressivamente ramificando fino a che un vaso microscopico giunge a una borsa microscopica di cellule, l’acino mammario. Ogni acino è formato da uno strato di cellule secretrici, e circondato da cellule mioepiteliali, contrattili.


Su ognuna di queste cellule agisce un ormone. La prolattina fa sì che la cellula secretrice produca latte; l’ossitocina fa sì che la cellula contrattile si contragga e che il latte esca in quantità.

Gli ormoni dell’allattamento

L’ipofisi, una ghiandola alla base del cervello, produce l’ossitocina e la prolattina in risposta a un riflesso neuroendocrino. I riflessi più comuni, come quello di stendere la gamba quando ti danno un colpetto sotto la rotula, sono puramente neurologici: c’è un ricettore sensitivo nel tendine rotuleo, un nervo che trasporta il segnale fino al midollo spinale, un centro di computazione che decide quel che bisogna fare, e un nervo motore che porta la risposta al muscolo, ordinandogli di contrarsi. Anche nel capezzolo e nell’areola ci sono ricettori sensitivi e nervi che trasportano l’informazione fino all’ipotalamo; ma il centro di computazione non risponde attraverso un nervo, ma con un ormone che raggiunge la sua destinazione per mezzo del sangue. Per questo il riflesso è neuroendocrino.

La prolattina

I livelli di prolattina sono molto bassi prima della gravidanza. Aumentano progressivamente a partire dal primo trimestre di gestazione, ma non viene prodotto latte perché il progesterone e gli estrogeni generati dalla placenta inibiscono l’azione della prolattina.


Dopo il parto, i livelli di prolattina si mantengono elevati per dei mesi; ma se la madre non allatta, riprendono a diminuire nel giro di un paio di settimane. Dopo l’espulsione della placenta, i livelli di progesterone e di estrogeni si abbassano in maniera vertiginosa in un paio di giorni, il che permette alla prolattina di agire. È l’espulsione della placenta che mette in moto la produzione del latte.


Il livello di prolattina rimane alto, diciamo, per mesi. Ma sale molto di più, moltiplicandosi per 10 o per 20, ogni volta che il bambino poppa. Questi picchi di prolattina si manifestano solamente in risposta agli stimoli del seno. Se il bambino succhia molto si produrrà una gran quantità di prolattina e molto latte. Se il bambino succhia poco si avrà poco latte. Se il bambino non succhia, si smetterà di produrre latte.


Alcuni pensano, erroneamente, che bisogna lasciar passare alcune ore tra poppata e poppata, affinché il seno abbia il tempo di riempirsi nuovamente. Non è vero. Il seno non funziona come la vaschetta del gabinetto, per cui bisogna aspettare che si riempia per poter tirare ancora la catena. È più simile al rubinetto del lavandino: se si vuole che esca più acqua, bisogna aprire di nuovo il rubinetto.


Dopo la suzione, il livello di prolattina si abbassa lentamente in due o tre ore fino a raggiungere il livello base (che, ricordiamo, è già di per sé alto dopo il parto). Immaginiamo che un bimbo poppi per dieci minuti ogni quattro ore (dieci minuti ogni quattro ore? Esatto, stiamo parlando di un bambino assolutamente immaginario!). Qualunque sia il motivo (forse perché sta crescendo), il nostro eroe vuole più latte. Che farà? Si metterà a poppare quindici minuti ogni quattro ore? Improbabile, sarebbe un metodo poco efficace. Allungando la suzione si arriverebbe a produrre più o meno la stessa quantità di prolattina, e pertanto di latte. Se, invece, decide di poppare dieci minuti ogni due ore, si otterrà il doppio dei picchi di prolattina nell’arco della giornata. Anzi, siccome il livello di prolattina non si è ancora abbassato del tutto, il nuovo picco sarà ancora più alto (diciamo che invece di salire da 50 a 500, sale da 100 a 550). Succhiando più spesso si produce uno spettacolare aumento della secrezione di prolattina, e quindi della quantità di latte.


Pertanto non c’è miglior modo di ostacolare l’allattamento che diminuire il numero delle poppate. Ogni volta che diciamo alla madre di resistere per tre o quattro ore, che mai deve cedere prima delle due ore e mezzo, che è impossibile che il bimbo abbia ancora fame, che se lo si allatta ora il seno è ancora vuoto e quindi non serve, che lo stomaco deve riposare, che bisogna fare una pausa notturna, stiamo mettendo seri ostacoli all’allattamento.


Durante la notte, tanto il livello base così come i picchi di prolattina sono più alti. Vale a dire che il bimbo ottiene più latte con meno sforzo quando poppa di notte. Per questo (tra gli altri motivi) è un’enorme sciocchezza la raccomandazione di non allattare durante la notte.

L’ossitocina

Molti aspetti della vita sessuale della donna sono regolati dall’ossitocina. È l’ormone che si produce durante l’orgasmo, durante il parto e ogni volta che il bambino poppa. Il suo principale effetto è la contrazione delle varie fibre muscolari: quelle dell’utero, quelle della vagina, quelle che circondano gli acini mammari, e quelle che si trovano sotto il capezzolo e l’areola. Tutti questi episodi della vita sessuale hanno molte dinamiche comuni. Durante l’orgasmo avvengono contrazioni dell’utero e della vagina, e il capezzolo è in erezione. Durante il parto si verificano contrazioni dell’utero e della vagina e suppongo che anche il capezzolo sia in erezione, anche se normalmente nessuno ci fa caso. Durante la poppata il capezzolo è in erezione, e si hanno contrazioni dell’utero e della vagina, i famosi dolori puerperali.


I dolori puerperali sono contrazioni più o meno dolorose dell’utero che si producono ogni volta che il bambino succhia, durante i primi giorni dopo il parto. È una noia, ma si pensi che è per il suo bene: le contrazioni aiutano a far sì che l’utero torni alle sue dimensioni normali, il che probabilmente diminuisce il rischio di emorragie o infezioni. Si dice che per ogni nuovo figlio i dolori puerperali aumentino (così come normalmente il parto fa meno male, una cosa compensa l’altra).


Anche se la risposta del corpo all’ossitocina può risultare molto simile, le sensazioni che risveglia nella donna sono molto diverse, perché non dipendono solamente dagli ormoni, ma anche dallo stato d’animo. La maggior parte delle donne non prova eccitazione sessuale né durante il parto né durante l’allattamento.


Alcune però sì. Alcune madri si rendono conto di provare sensazioni di natura sessuale e che possono portare all’orgasmo, mentre il bambino sta poppando. Anche se è una cosa abbastanza rara, lo diciamo qui perché se ci sta leggendo una di queste madri, sappia che è qualcosa di assolutamente normale. No, non è una pervertita, non sono cattivi pensieri, non sta abusando di suo figlio, non sono tendenze incestuose, non c’è nessun motivo perché smetta di allattare. Se l’allattare risulta una cosa particolarmente piacevole, allora che la si sfrutti in modo opportuno, non è il caso di lamentarsi per una delle poche felicità che, a volte, la vita ci riserva.


Oltre a produrre la contrazione di varie fibre muscolari, l’ossitocina influisce sul comportamento. Quando si introduce un topolino nella gabbia di un topo femmina ancora vergine, questa se lo mangia. Ma se prima le viene somministrata un’iniezione di ossitocina, cercherà di prendersene cura come fosse sua madre e cercherà addirittura di allattarlo (anche se, chiaramente, non riuscirà a secernere latte).


All’inizio dell’allattamento, la maggior parte delle madri nota l’azione dell’ossitocina: una specie di contrazione o formicolio al seno, la sensazione che il latte stia già venendo, la comparsa di alcune gocce o addirittura di un piccolo spruzzo… È il riflesso dell’eiezione, che è stata denominata con diversi nomi popolari a seconda delle varie zone: tornata di latte, colpo di latte, crescita del latte, uscita del latte… In Spagna2 di solito viene chiamata montata lattea la sensazione di avere entrambi i seni pieni verso il terzo giorno dopo il parto, mentre invece si definisce discesa del latte la sensazione che il latte cominci a venire fuori ad ogni poppata. Ma… occhio! Nella maggior parte dei Paesi americani si pensa il contrario: il latte scende al terzo giorno e poi, ad ogni poppata, sale di nuovo.


Abbiamo detto all’inizio dell’allattamento e la maggior parte delle donne. Ci sono donne che mai nella loro vita hanno notato la discesa del latte o come la vogliamo chiamare, ma questo non significa che non abbiano latte o che il latte non scenda. E la maggior parte delle mamme, dopo due o tre mesi, non ne avverte più la discesa e non si accorge di nulla, anche se il latte continua ad uscire perfettamente. Non spaventatevi, non siete rimaste senza latte.


Le lettrici che percepiscono l’effetto dell’ossitocina avranno osservato che l’uscita del latte si produce spesso prima che il bambino inizi a poppare. Basta voler allattare, sentir piangere vostro figlio, o addirittura pensare a lui quando non l’avete sotto gli occhi, perché i vostri seni si contraggano e inizino a gocciolare. Come è possibile che il riflesso si scateni senza il bisogno dello stimolo?


È possibile, perché si tratta di un riflesso condizionato. Ricordate il famoso cane di Pavlov, che perdeva bava ogni volta che sentiva il suono di una campanella? Il riflesso della salivazione si attiva grazie allo stimolo del cibo all’interno della bocca. Suonando la campanella ogni volta che dava da mangiare al suo cane, Pavlov ottenne che l’animale associasse i due stimoli, e bastava il solo suono per fargli produrre saliva. In realtà tutti i cani hanno un riflesso di salivazione condizionato: mostrategli una bella bistecca, e cominceranno a sbavare prima che il cibo entri nella loro bocca. Anche a noi viene l’acquolina in bocca quando vediamo un cibo appetitoso, o semplicemente quando solo ci pensiamo. L’originalità di Pavlov sta nell’aver utilizzato una campanella al posto di una bistecca; se di fronte all’Accademia di Scienza di Mosca avesse detto: “Guardate, guardate cosa fa il mio cane quando gli mostro una bistecca”, i professori illuminati avrebbero risposto con sdegno: “Capirai! Al mio cane succede la stessa cosa”. Ma la campanella incuriosì tutti quanti.


Così come il riflesso di salivazione si manifesta spontaneamente in tutti i cani (e le persone), il riflesso di eiezione si manifesta spontaneamente in tutte le madri. Gli effetti si possono notare addirittura anni dopo l’allattamento; alcune donne provano una sensazione di formicolio al seno quando sentono piangere un bambino, o quando vedono in televisione immagini di bimbi affamati o invalidi. Si è definito riflesso di eiezione fantasma, in analogia con il membro fantasma che continuano a sentire alcune persone dopo aver perso un braccio o una gamba.

Può essere che il riflesso condizionato serva a facilitare i passaggi: in questo modo il bimbo non deve neanche stare a poppare aspettando che il latte cominci a uscire, perché non appena si attacca al seno il latte sta già gocciolando. Michael Woolridge, un fisiologo inglese3, pensa però che la principale utilità del condizionamento non sia quella di scatenare il riflesso, bensì di inibirlo, come meccanismo di protezione delle femmine dei mammiferi. Essendo un riflesso condizionato, non dipende dallo stimolo fisico della bocca sul seno, ma dal fatto che la madre senta il bimbo, lo veda, lo pensi… In definitiva dipende dalla corteccia cerebrale. I pensieri della madre possono scatenare il riflesso allo stesso modo in cui possono inibirlo. È la tipica storia: “Ha avuto un dispiacere e ha perso il latte”.


Immaginate una cerva che sta allattando tranquillamente. Improvvisamente sente un lupo. Scappa di corsa dopo aver nascosto il suo piccolo fra i cespugli, perché ancora non è in grado di correre. Siccome il cucciolo non emana alcun odore (per questo sua madre passa tutto il giorno a pulirlo, leccandolo con la lingua) ed è molto tranquillo, mentre la madre, al contrario, emana odore e fa rumore quando si muove, è molto probabile che il lupo insegua la madre e non lo trovi. Se per disgrazia il lupo raggiunge la madre, anche il piccolo morirà nel giro di poche ore. Se invece la madre riesce a scappare, in poco tempo tornerà da lui e continuerà ad allattarlo.


Ma se la cerva continuasse a perdere gocce di latte, nessun lupo che si rispetti potrebbe perderne le tracce. Siccome il riflesso di eiezione è condizionato, la secrezione di ossitocina si interrompe quando la cerva si spaventa. A differenza della prolattina, che impiega molte ore ad abbassarsi, l’ossitocina viene eliminata rapidamente e rimane nel sangue solo un paio di minuti; se l’ipofisi smette di produrla, in poco tempo non ne rimane traccia (per questo quando si ricorre all’ossitocina per accelerare il parto è necessario somministrarla continuamente, goccia a goccia; non servirebbe a nulla iniettarne una siringa ogni tre ore). Per maggior sicurezza, l’adrenalina, che viene prodotta dagli animali impauriti, inibisce direttamente gli effetti dell’ossitocina. Probabilmente lo stesso meccanismo può inibire il parto se la madre è spaventata. Una femmina adulta di ippopotamo, di rinoceronte, o di giraffa non avrà niente da temere dalle iene; mentre il cucciolo appena nato sarebbe una preda facile. La presenza di un pericolo può arrestare la produzione di ossitocina e ritardare il parto di qualche ora, fino a che il pericolo sarà passato. Forse per questo alcuni parti sono così difficili in un ambiente estraneo come l’ospedale, circondate da sconosciuti, e difatti la maggioranza delle donne si sente più a suo agio se accompagnata dal marito o da un familiare; altre preferiscono partorire a casa, aiutate da un’ostetrica di loro fiducia.


Scusate, sto menando il can per l’aia (ma il cane non è forse il migliore amico dell’uomo?).


Torniamo alla nostra amica cerva insieme al suo cucciolo. Siccome ormai è passato lo spavento, l’adrenalina scompare dal sangue, il riflesso condizionato si scatena nuovamente, il latte ricomincia a uscire e il piccolo poppa contento. Ma se invece di una cerva parliamo di una donna, la cosa può essere un po’ più complicata. Oltre alla madre e al suo bambino, lì intorno ci sono la nonna, il marito, la suocera, la cognata, la vicina, il medico, l’infermiera, e alcuni di loro, se non tutti insieme, inveiscono minacciosi: “Hai perso il latte per un dispiacere? A una mia cugina è successa la stessa cosa e il bambino stava quasi per morire di fame; suo marito è dovuto uscire di corsa a cercare una farmacia di turno per comprare il latte, perché era sabato sera…”.


Non è più la paura del lupo, ma la paura di perdere il latte quella che aumenta l’adrenalina e abbassa la produzione di ossitocina. Il bambino cerca di succhiare ma non esce quasi latte; il bambino si arrabbia e protesta, la suocera ne approfitta per far notare: “Vedi? Ti stanno cedendo i nervi per il latte. Te l’ho detto che nel tuo stato è meglio che la smetti con certe stupidaggini e gli dài il biberon”. La madre si mette a piangere e si impaurisce ancora di più…


Uno dei modi migliori per ostacolare l’allattamento è spaventare la madre, convincerla che non può farcela, che allattare è molto difficile… È una strategia consueta dei produttori di latte artificiale. Ma attenzione! Non sto dicendo che le donne spaventate, nervose, o stressate non possono allattare. Certo che possono! L’allattamento materno non è un delicato fiore di serra, ma una delle funzioni più robuste del nostro organismo. Una funzione vitale (non per la madre, ma per il bambino). Tutti i nostri organi possono cedere (di qualcosa bisognerà pur morire), ma rimanere senza latte è raro quanto avere un arresto cardiaco o un’insufficienza renale. Chi parla dello stress della vita moderna dimentica che siamo la prima generazione di spagnoli che vanno a letto la sera con la sicurezza di avere da mangiare anche il giorno seguente. Le donne hanno allattato per millenni, in situazioni di gran lunga peggiori. Hanno allattato quando vivere 35 anni veniva considerato “invecchiare”, quando la siccità preannunciava la fame, quando la guerra devastava le loro case, quando si lavorava come schiavi, quando le epidemie decimavano paesi e città. L’effetto dello stress sull’allattamento è temporaneo: il latte non esce subito, il bambino si arrabbia e piange un po’… continua a poppare perché ha fame, e alla fine il latte esce, per quanto sia stressata la madre. Ciò che accade oggi e non è mai accaduto prima è che, se il bimbo piange e si arrabbia, la madre gli dà un biberon. Non sono i nervi e le preoccupazioni che provocano la perdita del latte, ma i biberon.

Il FIL

Per molto tempo si è creduto che l’ossitocina e la prolattina bastassero a spiegare, almeno a grandi linee, come funziona l’allattamento. A grandi linee perché sono coinvolti molti altri ormoni che non abbiamo neanche menzionato.


Perché quando il bambino succhia di più esce più latte? Perché la poppata produce più prolattina. Perché un seno gocciola mentre il bambino sta prendendo latte dall’altro? Perché l’ossitocina scorre nel sangue e arriva ai due seni allo stesso modo. Perché le donne che cercavano di seguire la regola dei dieci minuti ogni quattro ore di solito restavano senza latte? Perché c’erano pochi stimoli e di conseguenza poca prolattina. Perché le madri dei gemelli hanno latte per entrambi, e le madri di parti trigemellari ne hanno per tre? Perché se c’è il triplo dei bambini c’è il triplo di prolattina.


Restava però un curioso fenomeno che non si poteva spiegare solo attraverso questi due ormoni. Nel sud della Cina, nella zona di Hong Kong, vivono i Tankas, un gruppo etnico che per generazioni ha trascorso la propria vita in mare, vivendo su delle giunche. Per poter remare con più comodità, le donne avevano la consuetudine di dare sempre lo stesso seno. I bambini poppavano sempre dal seno destro, mai dal sinistro (e sicuramente si manifestava un maggior numero di cancri al seno sinistro). Senza spingerci tanto oltre, ogni tanto vediamo bambini che, per chissà quale motivo, smettono di poppare da uno dei due seni. A volte è una situazione transitoria, e dopo due o tre giorni la madre riesce ad allattare di nuovo da entrambi i lati. Ma di tanto in tanto qualche bambino oppone un rifiuto assoluto e non c’è niente da fare. A volte si incontrano madri che stanno due settimane o due mesi allattando da un solo seno.


Siccome l’ossitocina e la prolattina scorrono nel sangue e arrivano ai due seni allo stesso modo, entrambi dovrebbero rispondere nella stessa maniera e produrre più o meno la stessa quantità di latte. Immaginatevi un seno che produce ogni giorno mezzo litro di latte o più, e il bambino che si rifiuta di succhiarlo. In un solo giorno, il dolore diventerebbe insopportabile; in tre giorni si dovrebbe ricoverare la madre; in due settimane scoppierebbe letteralmente, con sette litri di latte accumulati.


Ma questo non capita mai. Quando un bambino non vuole poppare da una parte, quel seno si gonfia e provoca fastidio, e a volte la madre deve togliersi un po’ di latte per alleviare la tensione; ma in due o tre giorni i disturbi spariscono, il latte si asciuga e il seno resta morbido e vuoto. Il seno sinistro produce il doppio di latte rispetto alla quantità normale (sì, il doppio; se il bambino non muore di fame significa che sta prendendo da un solo seno quel che gli altri prendono da entrambi), mentre il seno destro non ne produce neanche una goccia, e così per settimane o mesi. Come si spiega questo fenomeno? Deve esistere un meccanismo di controllo locale, qualcosa che agisce su ogni seno indipendentemente.


All’inizio si credeva che tale meccanismo fosse puramente fisico. Il seno è talmente pieno che la pressione del latte comprime i vasi sanguigni, di modo che il sangue non può più immettersi. Pertanto non entra l’ossitocina, non entra la prolattina, non entrano i princìpi nutritivi di cui la ghiandola necessita per continuare a produrre latte. Il seno resta collassato, come un aeroporto di fronte a uno sciopero dei controllori.


Certo che questo meccanismo fisico ha la sua importanza; ma da qualche anno si è scoperto che esiste un altro ormone che agisce localmente per controllare la secrezione del latte. Si tratta di un peptide (cioè una piccola proteina) che è stata trovata nel latte di capra, in quello della donna e in quello di altri mammiferi (che io sappia, è stato sempre trovato quando lo si cercava). Quest’ormone si denomina FIL, dall’inglese Feedback Inhibitor of Lactation, inibitore retroattivo dell’allattamento. Per approfittare della stessa sigla, potremmo chiamarlo “Fattore Inibitore del Latte”, che suona ugualmente bene.


Il FIL costituisce un bell’esempio di controllo da parte del prodotto finale. Il latte contiene un inibitore della produzione di latte, in modo che, se il bambino succhia molto, si rimuove l’inibitore e si produce più latte, mentre se il bambino succhia poco, l’inibitore rimane all’interno e la quantità di latte prodotta è minore.


Questo è stato dimostrato da alcuni scienziati australiani, misurando in serie il volume dei seni. Una macchina scatta varie foto del seno da diverse angolazioni e, partendo da queste immagini, un computer ne calcola il volume (qualcosa di simile al metodo che si utilizza durante la gravidanza per stimare il peso del bambino a partire dall’ecografia). Dato che non è pericoloso e risulta abbastanza comodo, il procedimento si può ripetere tutte le volte che si vuole, diverse volte in un’ora. (Il metodo antico per misurare il volume del seno consisteva nel piegarsi sopra un catino colmo d’acqua, immergere il seno e misurare la quantità d’acqua che fuoriusciva; risultava impreciso e alquanto fastidioso). In questo modo gli australiani hanno potuto dimostrare come il volume del seno aumenta poco a poco tra poppata e poppata, man mano che si accumula il latte. Poi il bambino succhia, il volume diminuisce bruscamente, e si ricomincia di nuovo. Se durante una delle poppate il bambino, per una qualsiasi ragione, prende meno latte, nelle ore successive esso verrà prodotto più lentamente. Se in un’altra poppata il bambino succhia di più (per esempio perché nella precedente ne ha assunto una minor quantità e ora è affamato), il latte si produce rapidamente. Se poppa solo da un lato, quel seno produrrà molto latte, mentre l’altro, che è rimasto pieno, non ne produrrà o quasi. In questo modo la produzione di latte si regola immediatamente, da una poppata all’altra e indipendentemente per ogni seno, a seconda della necessità del bambino. Certo, sempre e quando gli venga permesso di poppare quel che vuole e quando vuole. Se un giorno non può essere allattato perché, ad esempio, la mamma è uscita, e deve aspettare una o due ore, non succede nulla: quando la madre tornerà, succhierà di più per compensare e tutto si aggiusterà. Ma se sistematicamente gli negano il seno ogni volta che lo chiede, mattino, pomeriggio e sera, un giorno dopo l’altro; se hanno raggirato la madre con i tipici consigli dieci minuti ogni quattro ore o aspetta un po’ di più tra una poppata e l’altra, il bambino non avrà modo di dare istruzioni al seno e questo non potrà sapere quanto latte produrre. Quando la madre aspetta molte ore perché si riempia il seno prima di allattare (“perché glielo dài ora, se è vuoto?”), quel che otterrà sarà avere sempre meno latte, perché il fattore inibitorio si accumula man mano che il seno si riempie.


Anche se non sapevamo dell’esistenza del FIL, ne abbiamo osservato gli effetti per secoli interi. Qualsiasi medico o infermiera lo ha visto centinaia di volte.

Come si conclude, normalmente, l’allattamento? In Spagna non termina quando vogliono la madre o il bambino. Secondo un’inchiesta, la maggior parte delle madri intervistate ha confessato che avrebbe voluto allattare per più tempo4. Nonostante questo, sono rimaste senza latte. Com’è possibile?


Una madre sta allattando tranquilla. Improvvisamente, per qualsiasi motivo, si mette (le mettono) in testa che suo figlio è comunque affamato: perché non resiste tre ore, perché piange, perché si sveglia, perché si succhia i pugni, perché non fa la cacca, perché poppa molto, perché poppa poco. Il motivo non è importante, fatto sta che arriva il fatidico giorno in cui danno al bambino il primo biberon. Molti, soprattutto se hanno più di due o tre mesi, non lo vorranno perché non hanno fame. Ma i più piccoli, poverini, capita che si facciano ingannare. E non di rado la madre insiste una e più volte, o addirittura le raccomandano di non dare il seno perché il bambino abbia fame e prenda il biberon. Se il bambino succhia dal biberon, di cui in realtà non aveva assolutamente bisogno, rimarrà pieno di latte fino alla testa. Ogni giorno assumeva 500 ml di latte, e oggi ne ha presi 50 o 100 ml in più. Non stiamo parlando di mangiare un po’ più del normale, ma di un 10 o 20% in più. Vi viene molta voglia di muovervi dopo il pranzo di Natale? Se il bimbo si svegliava, ora dormirà molte ore, se piangeva, non piangerà più; se succhiava i pugni ora non se li succhierà. “Hai visto che fame aveva? È bastato dargli un biberon e finalmente si riposa”. Sì, riposare! Questo povero bambino è solo strapieno.


Il Natale in Spagna è una sfida per la nostra digestione. Si susseguono almeno due grandi scorpacciate (in alcune zone, Vigilia e Natale; in altre Natale e Santo Stefano). Che si fa il giorno successivo? Si mangia frutta. Nessuno può sostenere tre pranzi di Natale di seguito. La stessa cosa succede a un bambino: se un giorno si è lasciato ingannare e si è rimpinzato di cibo, non lo ripeterà di certo. Il giorno seguente penserà: “Se mi danno 100 ml di biberon, tanto vale che ne prenda solo 400 dal seno, o scoppio”. Può succedere che la madre se ne accorga, oppure no; però, anche se avrà poppato lo stesso numero di volte e per lo stesso tempo, avrà assunto meno latte, perché deve lasciar spazio al biberon. Così il biberon, che il primo giorno è stato la manna dal cielo, il terzo giorno già non ha lo stesso effetto: se piangeva, tornerà a piangere; se si svegliava, si sveglierà di nuovo; se si succhiava i pugni, lo farà ancora. La madre pensa: “Sto perdendo il latte, dovrò dargli un altro biberon”; e in parte ha ragione, perché il latte sta diminuendo, ma quel che non sa è che la causa è proprio il biberon, e la soluzione non è aggiungerne un altro, ma togliergli il primo. E così si parte col secondo biberon, poi arriva il terzo, poi il quarto… L’abbiamo visto centinaia di volte: quando si comincia con i biberon, il seno si riduce a un pugno in un paio di settimane. “Il biberon”, diceva non so quale famoso medico più di un secolo fa, “è la tomba del seno”.


Così il bambino che poppava 500 ml, dopo ne popperà 400, 300, 200… Se la madre continuasse a produrre 500, dove andrebbe a finire il latte che avanza? In due settimane la madre finirebbe disperata al pronto soccorso, col seno infiammato per i chili di troppo, maledicendosi: “Ho iniziato da quindici giorni col biberon e, certo, siccome non mi svuotavo, guardi come sono diventata”. Ma questo non capita mai; al contrario: “Ho iniziato a dargli il biberon e ora non vuole più il seno e ho perso il latte”.


Quando un bambino poppa sempre meno, esce sempre meno latte. Il FIL non sbaglia. Non vedremo mai donne col seno sul punto di esplodere, carichi di uno, tre o cinque litri di latte in più. Vale a dire che il FIL è come un ascensore: o funziona, o non funziona. Se può scendere, allora funziona anche per salire. Se si dà a un figlio sempre meno il biberon, popperà sempre di più e la madre avrà sempre più latte. In pochi giorni potrete buttare nel cestino tutti i biberon.


Una cosa importante: stiamo parlando dei biberon superflui e di un bambino che si attacca bene al seno e ingrassa normalmente, a cui hanno dato un’aggiunta senza motivo giustificato. Quando, invece, l’aggiunta è giustificata, perché il bambino non prende peso, non è sufficiente eliminarla poco a poco; bisogna indagare la causa del problema dall’inizio e porle rimedio (vedi pag. 130).


Alcuni mesi dopo il parto, la prolattina perde importanza. Il livello di base è più basso, così come il picco che si produce a ogni poppata. Ma il volume del latte non diminuisce, anzi continua ad aumentare. Non sappiamo come e perché, ma sembra che il controllo locale, il FIL, risulti sempre più importante per regolare l’allattamento.


Ing R., Petrakis NL, Ho JH, Unilateral breast-feeding and breast cancer, in “Lancet”, num. 2, Luglio, 1977, pp. 124-127.

Il controllo del volume del latte

Per alcuni aspetti si può paragonare il funzionamento del seno a quello dei polmoni. Normalmente, senza renderci conto, respiriamo, un po’ d’aria dentro, un po’ d’aria fuori. Ma non entra tutta l’aria che potrebbe entrare, né esce tutta quella che potrebbe uscire. Possiamo fare un’inspirazione profonda e introdurre nei nostri polmoni più aria del normale, come accade per esempio prima di immergersi sott’acqua. Possiamo fare un’espirazione forzata ed espellere tutta l’aria possibile, per esempio quando soffiamo per spegnere le candeline di una torta. Allo stesso modo, se ce n’è bisogno, il seno può produrre più latte del solito, così che, se ha molta fame, il bambino può poppare più di quanto fa di norma.


Il volume corrente, la quantità d’aria che entra ed esce normalmente, è molto lontano, in qualsiasi individuo sano, dal volume massimo. C’è sempre una grande riserva, che ci permette di respirare più profondamente e più in fretta quando dobbiamo fare un particolare sforzo. Quando questa riserva diminuisce, l’individuo si ammala, soffre di insufficienza respiratoria. In primo luogo, non riesce a respirare quando corre, poi quando sale le scale, nei casi più gravi quando si alza dalla poltrona; questo significa che è arrivato al punto in cui il volume corrente coincide con il volume massimo.


Tutti i nostri organi e sistemi funzionano secondo lo stesso principio. A meno che non si tratti di una persona gravemente malata, esiste sempre un ampio margine per forzare la macchina. In caso di necessità, il cuore può battere più in fretta, lo stomaco può digerire più cibo, i reni possono eliminare più liquidi e più tossine, il fegato può metabolizzare più sostanze. È così che funzionano gli esseri viventi.


La stessa cosa accade con il seno. Qualsiasi donna può produrre latte per tre bambini, probabilmente anche per quattro o cinque. A parte il residuo di latte che è impossibile estrarre, che chiameremo riserva anatomica, c’è sempre una quantità di latte che il bambino potrebbe assumere se volesse, ma che non sfrutta quasi mai. La chiameremo riserva funzionale.


Nessuno ha mai misurato il volume esatto di queste riserve; inventeremo delle cifre a titolo di esempio. Immaginiamo che nel seno ci siano 100 ml di latte. Di questi, 10 sono la riserva anatomica, e altri 20 la riserva funzionale; il bambino, in condizioni normali, ne prende 70, e il seno ne produce di nuovo altri 70. Un giorno, il bambino è più affamato, e ne prende 80. Diminuendo la quantità di FIL, il latte viene generato più rapidamente, e il seno produce 90 ml per la seguente poppata. Se tale cambiamento risulta permanente, se a partire da quel momento il bambino pensa di assumerne 80 ad ogni poppata, si raggiunge un nuovo livello di equilibrio: ora, nel seno ci saranno sempre 110 ml, dei quali 10 sono la riserva anatomica, 20 la riserva funzionale e 80 quel che prende il bambino ogni volta e quel che il seno riproduce subito dopo. Se, al contrario, il fatto di assumere 80 ml fosse solo un extra, e alla seguente poppata tornasse a succhiarne solo 70, il seno si troverebbe subito con un residuo di latte maggiore rispetto al normale. La quantità di FIL nella mammella sarebbe maggiore, la produzione si fermerebbe, e alla successiva poppata si tornerebbe ai soliti 100 ml aspettando il bambino.


Sembra complicato? Beh, era solo un esempio dimostrativo, la vita reale è molto più complicata. Perché nessun bambino succhia esattamente la stessa quantità ad ogni poppata, né la stessa quantità da ogni seno. La vita reale è così complessa che nessuno può sottometterla a norme o prevederla. Né il libro, né il medico, né la nonna, né nessun altro può dire a vostro figlio in quale esatto istante deve poppare né quanti minuti deve stare attaccato al seno. Vostro figlio è l’unico che lo sa.

Il controllo della composizione del latte

Non solamente la quantità di latte prodotta, ma anche la sua composizione dipende dal modo in cui poppa il bambino. Il bambino ha il controllo del seno per ottenere il tipo di latte di cui ha bisogno in ogni momento.


La quantità di grasso nel latte aumenta durante la poppata. Non si tratta di un aumento insignificante; si è verificato che la concentrazione di grasso al termine della poppata può essere di cinque volte maggiore rispetto al principio. A volte si parla di primo latte e secondo latte; ma non è che ci siano due tipi di latte, ops! è finito il latte scremato e ora esce quello grasso. La quantità di grasso (e pertanto di calorie) aumenta gradualmente, come si può vedere nello schema della figura 1. All’inizio il bambino assume poche calorie in tanto volume; alla fine, molte calorie in poco volume. Si noterà che in questo grafico non compare la variabile del tempo. Il tempo dipende dalla rapidità con cui il bambino poppa; può essere che mangi tutto quel che vuole in due o tre minuti, o che ce ne metta più di venti.


Quindi, tanto più latte assume un bambino da un seno in una determinata poppata, maggiore sarà la concentrazione di grasso che si raggiunge (c’è un limite massimo, certo, ma tale limite non si raggiunge mai perché, come abbiamo già detto, il bambino non svuota mai completamente il seno). Quando si stacca, le ultime gocce che ancora cadono hanno una concentrazione di grasso molto elevata. Quando riprende a poppare, dopo alcune ore, le prime gocce di latte avranno pochissimo grasso. L’ultimo latte concentrato si è diluito nell’arco di tali ore con il nuovo latte, più annacquato, che nel frattempo è stato prodotto. Si pensa che anche in questo caso esista un autocontrollo, e che se il bambino lascia nel seno molta quantità di grasso, questa inibisce la produzione di lipidi, e il latte prodotto successivamente sarà più annacquato del normale. Come se il bambino dicesse: “Mamma, non riesco a finire questa pasta, è troppo condita”, e lei rispondesse: “Non preoccuparti, la prossima volta ci metterò meno olio”.


Supponiamo che il bambino succhi e si stacchi dal seno, ma dopo cinque minuti cambi idea e torni ad attaccarsi. Uscirà latte con pochi grassi? No, perché non c’è stato tempo per il nuovo latte di diluire quello rimasto nel seno al termine della precedente poppata. Uscirà, all’inizio, lo stesso secondo latte che stava uscendo un momento prima. La quantità di lipidi all’inizio della poppata dipende dal livello raggiunto durante la poppata anteriore, e dal tempo trascorso da allora.


D’un tratto stiamo parlando di un solo seno. Ma c’è anche il secondo. Non è la stessa cosa prendere 100 ml da un solo seno invece che 50 da tutti e due; nel secondo caso il bambino ha assunto molti meno grassi, e pertanto molte meno calorie. E non è neanche lo stesso prenderne 70 e 30, o 85 e 15…


E se non è lo stesso, cos’è meglio? Quando toglierlo da un seno e dargli l’altro? Non si sa. Non conosciamo la quantità di lipidi di cui ha bisogno un bambino (i libri sulla nutrizione possono dire cose come: “I lattanti tra sei e nove mesi necessitano tra x e y milligrammi/chilo al giorno di lipidi”; ma non possono dirci quanti lipidi deve assumere Laura Rossi, di otto mesi, questo pomeriggio alle 16.28), non conosciamo la quantità di lipidi che conteneva il latte all’inizio della poppata, non sappiamo quanti millilitri di latte sono stati bevuti, non sappiamo a che velocità sta aumentando la quantità di grasso nel latte in questa precisa poppata, non conosciamo la quantità di grasso nel latte dell’altro seno, non sappiamo che quantità di latte del secondo ci starà nello stomaco. Come può esserci gente che è in grado di dire cose come: “Dopo dieci minuti toglietelo dal primo seno per dargli il secondo”? Vallo a sapere. L’ignoranza mette ali all’audacia.


Ogni bambino dispone quindi di tre meccanismi per modificare la composizione del latte che prende in ogni momento: può decidere quanto latte assumere, quanto aspettare per poppare di nuovo, e se attaccarsi a un solo seno o a entrambi. Si è verificato sperimentalmente, analizzando il latte in ogni caso, che i tre fattori influiscono sulla sua composizione. La quantità di latte ingerita dovrebbe dipendere dal tempo in cui un bambino resta attaccato al seno; ma la relazione è così variabile (alcuni bambini poppano in fretta, altri lentamente) che statisticamente non c’è relazione. Non possiamo dire: “Se è rimasto cinque minuti ha ingerito 80 ml, e se è rimasto dieci minuti ne ha assunti 130”. La concentrazione di lipidi non dipende dal tempo che ci mette il bambino a poppare, ma dalla quantità di latte che ha preso durante questo tempo. Dunque, per un determinato bambino, e in una determinata poppata, è ovvio che se lo stacchiamo dal seno prima, avrà mangiato meno. E d’altra parte è facile misurare per quanto tempo poppa, ma è molto difficile sapere quanto latte ha preso. Così, a scopo puramente didattico, possiamo affermare che i tre meccanismi di controllo sono: la durata della poppata, la frequenza delle poppate, e l’attaccarsi a un seno o a tutti e due. Ogni bambino, in ogni momento del giorno o della notte, modifica a volontà questi tre fattori per ottenere l’alimento di cui ha bisogno.

Quando si stacca il bambino dal un seno prima che finisca (soprattutto perché qualcuno in buona fede ha consigliato: “Dàgli il secondo seno prima che si addormenti”), invece del secondo latte del primo seno, prenderà il primo latte del secondo. Questo significa, come indica la figura 2, che dovrà assumere un volume maggiore per ottenere le stesse calorie. Se la differenza è piccola, probabilmente non succede nulla. Prende un po’ più di latte, e buonanotte. Ma se gli cambiano il seno quando ancora doveva assumere una grossa quantità dal primo (per esempio, quando togliamo il seno dopo dieci minuti a un bambino che ne ha bisogno di quindici o venti), la quantità di latte che dovrebbe prendere è così consistente che non gli starebbe nello stomaco. Negli adulti, lo stomaco ha una capacità molto superiore a quella che normalmente si sfrutta; potremmo berci un litro di acqua dopo mangiato e non ci darebbe neanche fastidio. Ma lo stomaco di un bambino è molto piccolo, non ha quasi capacità di riserva. Il bambino si vede obbligato a lasciare il secondo seno, perché non gli sta più niente, ma d’altra parte ha ancora fame; la situazione è molto simile a quella che si produce a causa della cattiva posizione al seno (pag. 47).


Nel 1988, Michael Woolridge e Chloe Fisher pubblicarono sulla prestigiosa rivista medica “Lancet” cinque casi di bambini che presentavano in forma reiterata un pianto frequente, coliche, diarrea e altri disturbi. Bastò dire alle madri di non staccare il bambino dal primo seno, ma di aspettare che lo facesse da solo quando aveva finito, perché i disturbi sparissero. Poco dopo, Woolridge e altri ricercatori cercarono di riprodurre sperimentalmente la situazione in un gruppo di bambini sani che non avevano alcun problema durante l’allattamento. Dissero alla metà delle madri di staccare il bambino dal primo seno dopo dieci minuti, e all’altra metà di aspettare il tempo necessario affinché il bambino lasciasse il seno spontaneamente. Si aspettavano che i bambini del primo gruppo assumessero troppo liquido, troppo lattosio e pochi grassi, e che pertanto avessero coliche, vomito e gas. E in effetti all’inizio prendevano meno grassi. Ma loro stessi modificavano gli altri due fattori, cioè il tempo tra poppata e poppata e il poppare da un seno o da entrambi, di modo che nell’arco del giorno riuscivano ad assumere la stessa quantità di grassi dell’altro gruppo, e non mostravano alcun disturbo.


Siccome i bambini hanno tre mezzi (ricordate: frequenza delle poppate, durata della poppata, un seno o due) per controllare la composizione del latte, è possibile che la maggior parte si regoli per mantenerne il controllo sfruttandone solamente due, anche se noi abbiamo arbitrariamente fissato la terza. Forse quei cinque bambini che manifestarono problemi con il tempo limitato della poppata sono eccezioni, sono bambini (o madri) con una minore capacità fisiologica di adattamento. Parimenti, tutti camminiamo, ma nel momento di correre alcuni vanno più piano e si stancano prima di altri.


La capacità di adattamento degli esseri viventi può essere molto spiccata, ma non possiamo chiedere miracoli. Nell’arco del secolo scorso, molti medici si impegnarono a controllare simultaneamente i tre fattori: il bambino deve poppare esattamente dieci minuti da ogni lato ogni quattro ore. La precisione arrivava a essere ossessiva; ci sono ancora mamme che chiedono se le quattro ore si iniziano a contare da quando il bambino comincia a poppare o da quando smette (perché con dieci minuti per seno e uno di intervallo per fargli fare il ruttino sarebbero quattro ore e ventuno minuti). Molti libri e molti esperti non dicevano neanche “ogni quattro ore”, ma davano direttamente l’ora concreta: alle otto, alle dodici, alle quattro, alle otto e alle dodici. Non ti passi per la testa di allattarlo alle nove, all’una e alle cinque! Tra mezzanotte e le otto di mattina c’è un riposo notturno di otto ore (passare mezza nottata in bianco a sentire come piange tuo figlio senza potergli dare il seno lo chiamano riposo notturno). Quella delle quattro ore era la raccomandazione della scuola tedesca. C’era anche una scuola francese che raccomandava di dare il seno ogni tre ore, con riposo notturno di sei. C’è da chiedersi se l’aver poppato cinque o sette volte al giorno influisse sul carattere nazionale dei rispettivi Paesi. C’erano anche fautori del dare ad ogni poppata un seno o due (questi ultimi più numerosi), tanto che alla fine si avevano quattro teorie: uno ogni tre, due ogni tre, uno ogni quattro o due ogni quattro. Ma di solito ogni medico aveva una sola teoria, e la difendeva con entusiasmo. Così i bambini si trovavano completamente disarmati: non potevano scegliere né la frequenza, né la durata, né il numero di seni di ogni poppata. Non potevano più controllare né la quantità, né la composizione del latte, dovevano accettare quel che riservava loro la fortuna. Nella maggior parte dei casi la quantità era insufficiente e la composizione inadeguata; i bimbi piangevano, si lamentavano, vomitavano, non aumentavano di peso… Alcuni anni fa, in Spagna, dare il seno ancora al terzo mese era strano, e darlo senza l’aiuto del biberon era quasi un atto eroico.


Ci sono, è ovvio, anche casi in cui, per la più rocambolesca delle coincidenze, il bambino ottiene la quantità di latte di cui ha bisogno e con una composizione adeguata poppando dieci minuti ogni quattro ore. Queste rare eccezioni non facevano che confermare la fede dei medici nella rigidità degli orari: “Tutta questa cosa dell’allattamento a richiesta è una stupidaggine. Io ho conosciuto una madre che seguiva alla lettera i dieci minuti ogni quattro ore e le è andata a meraviglia; ha dato il seno nove mesi, e il bambino dormiva come un angioletto e ingrassava perfettamente. Quel che succede è che ora le donne non vogliono fare sacrifici, preferiscono la comodità del biberon”.


Woolridge MW, Fisher C, Colic, “overfeeding”, and symptoms of lactose malabsorption in the breast-fed baby: a possible artifact of feed management?, in “Lancet”, num 2, 1988, pp. 382-384.


Woolridge MW, Baby-controlled breastfeeding: biocoltural implications, in Stuart-Macadam P, Dettwyler KA, Breastfeeding. Biocoltural perspectives, Aldine de Gruyter, New York, 1995.


Woolridge MW, Ingram JC, Baum JD, Do changes in pattern of breast usage alter the baby’s nutrient intake?, in “Lancet”, num. 336, 1990, pp. 395-397.

Un dono per tutta la vita - Seconda edizione
Un dono per tutta la vita - Seconda edizione
Carlos González
Guida all’allattamento materno.Un vademecum indispensabile, con tante informazioni pratiche per aiutare le madri che desiderano allattare a farlo senza stress e con soddisfazione. Dopo i bestseller Bésame mucho e Il mio bambino non mi mangia, Carlos González, in una seconda edizione ampliata e aggiornata, con Un dono per tutta la vita torna a parlare di una delle sue grandi passioni: la difesa dell’allattamento materno.Il suo obiettivo non è convincere le madri ad allattare, né dimostrare che allattare al seno sia meglio, bensì offrire informazioni pratiche per aiutare quelle mamme che desiderino allattare a farlo senza stress e con soddisfazione.Nel seno, oltre al cibo, il bimbo cerca e trova affetto, consolazione, calore, sicurezza e attenzione.Non è solo una questione di alimentazione: il bimbo reclama il seno perché vuole il calore di sua madre, la persona che conosce di più.Per questo motivo, la cosa importante non è contare le ore e i minuti o calcolare i millilitri di latte, ma il vincolo che si stabilisce tra i due, una sorta di continuazione del cordone ombelicale.L’allattamento è parte del ciclo sessuale della donna; per molte madri è un momento di pace, di soddisfazione profonda, in cui riconoscono di essere insostituibili e si sentono adorate.È un dono, sebbene sia difficile stabilire chi dia e chi riceva. Conosci l’autore Carlos González, laureato in Medicina presso l’Università Autonoma di Barcellona, si è formato come pediatra presso l'ospedale Sant Joan de Déu.Fondatore e presidente dell’Associazione Catalana per l’Allattamento Materno, tiene corsi sull’allattamento per personale sanitario e traduce libri sul tema. Dal 1996 è responsabile del consultorio sull’allattamento materno e da due anni cura la rubrica dedicata della rivista Ser Padres.È sposato, padre di tre figli e vive a Hospitalet de Llobregat, in provincia di Barcelona.