CAPITOLO II

Come allattare

A volte mia moglie mi diceva: “Non capisco come fate a parlare tanto dell’allattamento materno. Bambini, tette e non c’è nient’altro da dire”. Beh, è vero. Nella stragrande maggioranza dei casi ci sono da sapere solo due cose per allattare: dimenticarsi dell’orologio e allattare nella posizione corretta. E, in condizioni normali, non servirebbe neanche spiegare questo alla madre. Non ci sarebbe bisogno di parlare dell’allattamento a richiesta se a qualcuno non fosse prima venuto in mente di raccomandare gli orari rigidi. E non servirebbe insegnare la posizione corretta se le bambine imparassero, come hanno sempre fatto, vedendo altre donne allattare, e se non avessimo interferito in alcuni processi, come in seguito spiegheremo. Da sempre, le donne hanno allattato senza frequentare corsi e senza leggere libri, e così continuano ancora a fare nella maggior parte del mondo. E nessun altro mammifero (e siamo diverse migliaia di specie) ha bisogno che gli si spieghi come si allatta.


Con un’eccezione: alcuni primati in cattività. Nella maggior parte dei mammiferi, l’allattamento e la cura della prole in generale sono attività totalmente istintive. Una gazzella o una leonessa nate in cattività possono perfettamente crescere i loro figli. Ma per quanto riguarda i primati, soprattutto quelli più simili a noi, la cosa è differente. Negli zoo hanno spesso grandi difficoltà; le femmine nate in cattività e cresciute dall’uomo (non dalla loro madre) non si prendono cura dei loro figli, li ignorano, o li trattano in modo inadeguato. Ricordo la foto di un gorilla femmina che, invece di tenere suo figlio in grembo, lo portava come un cappello. Una femmina di orango, invece di mettere suo figlio alla mammella, lo baciava sulla bocca: sembrava molto sorpresa che il metodo non funzionasse. Molto spesso non c’è altro rimedio che separare il cucciolo dalla madre e crescerlo artificialmente. Questi fatti ammettono due possibili spiegazioni: una, che le femmine che non hanno avuto l’opportunità di vedere altre madri allattare non hanno potuto imparare osservando; l’altra, che le femmine che non hanno avuto una relazione affettiva normale con la loro madre hanno disturbi affettivi e non sono in grado di mantenere una relazione normale con i loro figli. Forse entrano in gioco entrambi i fattori. In alcuni zoo si è deciso di ricorrere alla proiezione di video educativi per le scimmie incinte, o è stato chiesto a madri umane di allattare i propri figli davanti alle gabbie.

L’igiene

Non c’è bisogno di lavarsi il seno né prima né dopo le poppate, a meno che non vi siate rotolate nude a terra o qualcosa di simile. Non è necessario lavarlo con acqua e sapone, né solamente con acqua. Si lava già abbastanza quando ci si fa la doccia (e non conviene neanche sfregare molto il capezzolo con la spugna). Dopo la poppata basta asciugarlo un po’ se è pieno di saliva.

L’eccesso di sapone può eliminare le sostanze protettive naturali, e probabilmente favorire le ragadi.

La frequenza e la durata delle poppate

Forse avrete già sentito dire da qualche parte che il seno si dà a richiesta. Ma è facile che vi sia stato spiegato male.


Sembra molto complicato sradicare dalla nostra cultura questa ossessione collettiva degli orari delle poppate. Sembra che sia qualcosa che esiste da sempre. Alcune persone, sentendo parlare di allattamento a richiesta, pensano che si tratti di una nuova invenzione degli hippy, e che con la stessa sfrenata libertà cresceremo una generazione di selvaggi indisciplinati. In realtà è esattamente il contrario; l’allattamento a richiesta è quel che esiste da sempre, e gli orari sono l’invenzione moderna. Sicuramente qualche medico dell’antica Roma avrà parlato di orari, ma si sarà trattato di un caso isolato e inoltre a quel tempo le madri non chiedevano al medico come si faceva ad allattare. Praticamente tutti i medici fino al XVIII secolo raccomandavano l’allattamento a richiesta (o non raccomandavano niente, perché dato che l’allattamento non è una malattia, i medici non si occupavano molto dell’argomento). Solo all’inizio del XX secolo iniziarono quasi tutti a consigliare un orario; e anche allora poche madri lo seguivano, perché non esisteva la mutua e i poveri non andavano dal dottore se non a causa di gravi malattie. Solo quando, verso la metà del secolo scorso, le visite dal pediatra cominciarono a convertirsi in una cerimonia regolare le madri iniziarono a cercare di seguire un orario, ottenendo pessimi risultati.


Pensiamoci un po’. Fino a un’ottantina di anni fa solo i ricchi portavano l’orologio da polso. Fino a due secoli fa, pochissime persone avevano l’orologio in casa, ci si orientava con i rintocchi della chiesa. Sei secoli fa, gli orologi erano meridiane, e la maggioranza della gente non ne aveva mai vista una o non era in grado di interpretarla. Vi sembra che si possa contare dieci minuti ogni quattro ore con una meridiana? I soldati romani, i vichinghi, i marinai di Colombo, tutti erano stati allattati a richiesta; vi sembra che fossero eccessivamente mammoni e viziati?


Molta gente (madri, familiari, medici, infermiere) legge o sente questa cosa della richiesta e pensa: “Sì, certo, non bisogna essere rigidi con le tre ore; se piange un quarto d’ora prima glielo si può dare o se sta dormendo non c’è bisogno di svegliarlo apposta”. O meglio: “Sì, certo, a richiesta, quel che ho sempre detto io, mai prima di due ore e mezzo né oltre le quattro”. Tutto questo non è a richiesta; sono solamente orari flessibili, che dopotutto non sono così deleteri come gli orari rigidi, ma continuano a causare problemi. A richiesta significa in qualsiasi momento, senza guardare l’orologio, senza pensare al tempo, sia che il bambino abbia poppato da cinque ore, sia che abbia poppato da cinque minuti.


Però, come può avere ancora fame dopo cinque minuti? Immaginatevi di alimentare vostro figlio col biberon. Di solito prende 150 ml; improvvisamente, un pomeriggio, il bambino ne beve solo 70. Se dopo cinque minuti sembra che abbia di nuovo fame, gli darete gli 80 che rimangono o gli direte: “Non puoi avere ancora fame, hai mangiato cinque minuti fa”? Sono sicuro che tutte le madri gli darebbero il resto del biberon senza dubitare un solo momento; di fatto, molte passerebbero più di un’ora tentando di infilargli in bocca il biberon ogni cinque minuti. Quindi, se un bambino si stacca dal seno e dopo cinque minuti sembra che abbia ancora fame, è possibile che abbia mangiato solo la metà. Magari aveva ingoiato aria e si sentiva infastidito, e ora ha fatto il ruttino e può continuare a poppare. O magari si è distratto vedendo volare una mosca, e ora la mosca se n’è andata e lui si rende conto di avere ancora fame. O magari si è solo sbagliato, pensando di aver già mangiato abbastanza e ora ha cambiato idea. In qualsiasi caso solo quel bambino, in quel momento, può decidere se ha bisogno di poppare o no. Un esperto che ha scritto un libro rinchiuso nella propria casa, l’anno scorso o un secolo fa, o la pediatra che ha visitato il bambino giovedì scorso e vi ha raccomandato un orario, non potevano sapere se vostro figlio, oggi, alle 14.25 avrebbe avuto fame. Questo significherebbe attribuire loro poteri soprannaturali. Se conoscete qualcuno in grado di predire a che ora avrà fame vostro figlio, non perdete tempo a chiedere una cosa così inutile; meglio sapere che numero uscirà alla lotteria.


Non gli farà male mangiare così presto dall’ultima poppata? Non bisogna aspettare che si svuoti lo stomaco? Non deve riposare l’apparato digestivo? Ma certo che no.


Quello del riposo digestivo l’ho sentito raccomandare con autentico entusiasmo. Dando retta a qualcuno, chiunque direbbe che lo stomaco si infiamma e finisce per scoppiare. E il cuore, quando riposa? E i polmoni, il fegato, i reni? Non esiste un solo organo all’interno del nostro corpo che abbia bisogno di riposare, anzi, meglio per noi che non riposino mai. Non riposa né il cervello (di notte sogniamo, e in ogni caso il cervello continua a controllare l’organismo), né i muscoli (ci muoviamo durante il sonno). Perché dovrebbe riposare proprio lo stomaco?


E quella di svuotare lo stomaco è un’altra convinzione assurda, disgraziatamente molto diffusa tra i pediatri. I pediatri non studiano nei centri di salute, ma negli ospedali. Passano quattro anni facendo la specializzazione, ma in generale non escono dall’ospedale. Ciò significa che hanno visto molte meningiti e molte tubercolosi, ma pochi bambini raffreddati e quasi nessuno sano. La loro formazione sull’alimentazione infantile è puramente teorica; quando un bambino entra in ospedale devono solo impartire l’ordine “dieta normale per la sua età” e in cucina sanno già quel che c’è da fare. L’unica occasione in cui al pediatra dell’ospedale è richiesto di occuparsi personalmente dell’alimentazione di un bambino è nel periodo di tempo che passa con i prematuri. Si sa che dar da mangiare a un prematuro, specialmente a un gran prematuro (cioè a un bimbo molto piccolo, di meno di un chilo) non è cosa semplice. Bisogna calcolare esattamente quanti millilitri di latte somministrargli e ogni quante ore, e non si può dargliene neanche uno in più. I più piccoli non riescono a succhiare, e bisogna mettere loro un sondino nasogastrico. E a volte il loro apparato digestivo non funziona ancora (in fin dei conti, avrebbero dovuto stare ancora nella pancia della mamma, e lì non c’è bisogno di mangiare). All’inizio, prima di dar loro il latte, bisogna aspirare dal sondino per controllare se è rimasto nello stomaco del latte avanzato dalla poppata precedente. L’eccessiva ritenzione è un brutto segno, e continuare a dare latte quando lo stomaco non si svuota completamente può essere pericolosissimo. Per disgrazia alcuni pediatri dimenticano che questo è un problema specifico dei grandi prematuri, e mantengono poi la convinzione che non si possa mangiare finché lo stomaco non è vuoto.


Ma, nel migliore dei casi, lo stomaco è vuoto solo durante il primo sorso. Dopo un minuto, il bambino non ha più lo stomaco vuoto. Quando mangiamo il secondo piatto lo stomaco non è vuoto. Ce l’abbiamo pieno di zuppa, o di insalata, o di pasta; come ci azzardiamo a buttarci dentro una bistecca? Quando un bambino si attacca a un seno, fa il ruttino (o non lo fa) e poi si mette a poppare dal secondo seno, solo un minuto dopo che aveva finito col primo. Se si può poppare dopo un minuto senza alcun pericolo, perché non si può poppare dopo cinque o quindici minuti, mezz’ora o un’ora e mezza?


E se in realtà non aveva fame, se piangeva per un altro motivo, non gli farà male mangiare ancora? Certo che no. Primo, il seno non si prende solo quando si ha fame, ma anche per altre ragioni. Secondo, se non vuole succhiare non succhierà. Il modo più semplice per sapere se un bambino ha fame o no, è offrirgli il seno e vedere cosa succede.


E il tempo massimo? Bisogna svegliarlo? Quante ore può stare senza poppare? Di regola, quante ne vuole. Un bambino sano, che ingrassa normalmente, non ha bisogno di essere svegliato. Popperà quando avrà fame. Stare per delle ore senza poppare non gli produrrà un’ipoglicemia. Addirittura, alcuni decenni fa, era obbligatorio che rimanesse otto ore senza poppare ogni notte; curiosamente oggi ad alcune madri dicono che è obbligatorio svegliarli ogni quattro ore.


È diverso il caso di un bimbo malato, o che non ha un normale aumento di peso. Un bimbo può essere così debole da non avere la forza di chiedere il seno. In questi casi bisognerà offrirglielo più spesso. Questa soluzione si può applicare anche ai neonati (si veda a pag. 93).


Quando un bambino dorme troppo, molte volte non serve svegliarlo, basta stare attenti ai suoi segnali di fame. A richiesta non significa dargli il seno ogni volta che piange. Da una parte, i bambini possono piangere per tanti motivi; se è chiaro che piange per un’altra cosa, non serve dargli il seno (ma in caso di dubbio, diciamo, la cosa più semplice è provare a darglielo. E molte volte, anche se piangono per paura, dolore o qualsiasi altro motivo, il seno è il modo migliore di calmarli). D’altra parte, il pianto è uno degli ultimi segnali della fame. Se un adulto stesse tre o quattro giorni senza mangiare, probabilmente anche lui piangerebbe dalla fame. Ma mangiamo molto prima di arrivare a questo punto, vero? Da quando un bambino più grande ha fame a quando piange possono passare diverse ore. Da quando un lattante ha fame a quando si mette a piangere possono passare alcuni minuti, o qualcosa in più, dipende dal carattere del bambino. Però è raro che appena senta lo stimolo della fame si metta a piangere. Prima di arrivare a questo avrà mostrato segnali precedenti: un cambiamento nel livello di attività (svegliarsi, muoversi), movimenti con la bocca, movimenti di ricerca con la testa, rumorini, portarsi le manine alla bocca… è in questo momento che bisogna attaccarlo al seno, non aspettare che pianga. Se un bambino che è debole perché ha perso peso è solo nella sua stanza, fuori dalla vista dei genitori, è probabile che di questi segnali non si accorga nessuno e il bimbo si riaddormenterà per sfinimento. Tanto vale tenerlo sempre vicino, o meglio in braccio, per poterlo allattare subito.


Un commento di passaggio. Perché i bambini, quando vogliono poppare, aprono la bocca e muovono la testa verso i lati? È un gesto? Un modo di comunicare? Credo di no. Da sempre i bambini sono stati in braccio alla madre. Anche se oggi in molte culture si usa portarli sulla schiena, questo non è stato possibile fino a che i nostri antenati non hanno imparato a tessere tele o corde. Prima di allora, i bambini si tenevano con un braccio, quindi non stavano sul dorso, ma davanti. E la madre era nuda. Che dormissero o fossero svegli, il capezzolo si trovava sempre a pochi centimetri dalla loro bocca. Quando cercavano il seno, di solito lo trovavano. Non è un gesto, non stanno facendo come se cercassero, stanno effettivamente cercando.


Allattare a richiesta non significa che il bimbo succhi come e quando voglia, e tutto sia sempre normale. Anche lo zucchero nel sangue o la pressione arteriosa sono a richiesta; vale a dire ognuno ha quello che ha. Però non tutti i valori sono normali; se la pressione è troppo alta ci troviamo di fronte a una malattia. Un medico non può dire al paziente: “Che fa lei con la pressione così alta? Non le avevo detto che doveva averla più bassa? A partire da questo momento non oltrepassi mai i 140/90”. Il paziente non ha scelto di avere la pressione alta, non dipende dalla sua volontà. Quel che deve fare il medico è raccomandargli una cura adeguata, e allora la pressione si abbasserà.


Pertanto, esistono dei valori normali anche per la durata e la frequenza delle poppate. Per conoscere i valori normali per una specie di mammifero, basterebbe osservare un numero sufficiente di femmine con i loro piccoli. (Sorprendente, vero? Gli zoologi e i veterinari lasciano che le madri e i loro cuccioli facciano quel che vogliono, e decidono che questo è normale. Non hanno mai pensato di scrivere in un libro: “Le giraffe devono poppare dodici minuti ogni cinque ore” e poi di andare a convincere le mamme giraffe a obbedire. Questo è successo solo con la specie umana.). Di sicuro nessuna specie allatta guardando l’orologio, ma c’è un modello; se sappiamo che i cuccioli di drago poppano da tre a cinque volte al giorno, uno che lo fa sei volte è semplicemente un’eccezione; ma uno che lo fa quattordici non è proprio normale.


Il problema è che non sappiamo quali siano i valori normali nell’essere umano. Perché l’essere umano non si trova più allo stato selvaggio, tutti viviamo in società, in civiltà, con le nostre convinzioni e le nostre norme. Le Spagnole, verso la metà del XX secolo, allattavano dieci minuti ogni quattro ore. Non facevano ciò che volevano, il normale, ma quel che aveva indicato loro il medico o il libro. Se nell’Alto Orinoco c’è una tribù che allatta cinque minuti ogni ora e mezza, questo sarà naturale o è quel che raccomanda lo stregone della tribù? Così all’essere umano non basta, come agli altri animali, l’osservazione per stabilire i valori normali dell’allattamento. Bisogna usare anche un criterio di efficacia: se con le madri che fanno così funziona, bisognerà ammettere che, se non è normale, come minimo è compatibile con le nostre necessità.


In Occidente, i bambini che poppano a richiesta di solito lo fanno una decina di volte in ventiquattro ore (la maggioranza tra otto e dodici, alcuni poche di più, altri poche di meno), distribuite irregolarmente. Di regola lo fanno a raffica: poppano due o tre volte a distanza abbastanza ravvicinata, e poi dormono per un periodo più lungo… I neonati, siccome non sanno ancora poppare, a volte stanno attaccati a un seno quindici o venti minuti o anche più; ma quando ci prendono la mano vanno sempre più veloce, e verso i tre mesi molti poppano per cinque o sette minuti, o addirittura per due o meno. Le dieci poppate al giorno si mantengono, più o meno, per tutto il primo anno e parte del secondo. Arriva un momento in cui il bambino comincia a poppare sempre meno, una o due volte al giorno; ma verso i due o tre anni è preso da una sorta di frenesia, si attacca a tutte le ore, addirittura ogni quindici minuti (non per ventiquattro ore, chiaramente. Poppano molte volte di seguito e poi restano molte ore senza mangiare). È come se stessero giocando a prendere il latte. Familiari e amici, sempre così amabili, ne approfittano per nuocere al vostro stato d’animo con il tipico: “Te l’avevo detto che questo bambino è viziato; si sposerà e dovrai andare in chiesa a dargli la tetta”. (Uno dei fattori che fanno sì che i bambini di questa età si mettano a poppare tutto il tempo può essere il fatto di stare a contatto con estranei… quindi familiari e amici hanno molte opportunità per osservare questo fenomeno.) Tranquille, è lo stadio finale; dopo alcune settimane (o mesi) di voracità, alcuni bambini si staccano dal seno quasi di colpo, e altri mantengono un allattamento quasi simbolico (una o due poppate al giorno) ancora per qualche anno.


In altre culture, i bambini poppano molto più spesso. Sembra che il record del mondo sia detenuto dai Kung, o Boscimani del Kalahari, che si attaccano al seno circa sei volte all’ora nell’arco di una giornata, ma ogni poppata dura solo all’incirca novanta secondi. Perché vi facciate un’idea, gli antropologi si dedicavano a osservare per quindici minuti i bambini più piccoli di due anni con le loro madri, per prendere nota di quel che facevano. Solo in un 25% dei casi il bambino restava quindici minuti senza poppare. Quelli più piccoli di tre anni poppavano sempre di notte. Senza arrivare a queste cifre, i popoli nativi dell’Africa, Asia, o America hanno l’abitudine di allattare più spesso rispetto alle madri occidentali.


Potremmo quindi affermare che esistono due modelli di allattamento che funzionano nell’essere umano: poche poppate (cioè solo una decina al giorno) ma relativamente lunghe, o molte poppate ma più brevi. Con tutte le varietà intermedie. Ciò che non è normale, né qui né nel Kalahari, è che ci siano tante poppate molto lunghe, che il bambino stia appeso al seno. Questo, di solito, indica che il bambino non riesce a poppare bene, forse perché la posizione non è corretta o a causa del frenulo linguale troppo corto, o per la combinazione dei due fattori, come vedremo più avanti.

Anche in Europa ci sono delle differenze. Secondo uno studio multinazionale sulla crescita dei bambini, si è rilevato con sorpresa che il numero medio di poppate al giorno al secondo mese variava da 5,7 a Rostock (Germania) a 8,5 a Oporto1, passando per le 6,5 di Madrid o le 7,2 di Barcellona. Donne appartenenti a culture così simili, che in teoria stanno allattando a richiesta. Com’è possibile che i bambini chiedano la tetta più volte in un Paese che in un altro?


La risposta è semplice, ma inquietante. Risulta che l’allattamento a richiesta, il concetto intorno al quale ruota questo libro così come qualsiasi libro moderno sull’argomento, in realtà non esiste. Non esiste perché i bambini non sanno parlare.


Se potessero parlare, un osservatore imparziale potrebbe certificare: “Effettivamente, questa madre sta allattando a richiesta”; oppure “questa madre non allatta a richiesta, perché alle 11.23 la bimba ha detto: «Mamma, tetta», e alle 11.41 l’ha chiesta di nuovo, ma non è stata allattata fino alla terza richiesta, alle 11.57”. Siccome i bambini non parlano, rimane a discrezione della madre decidere quando sta chiedendo il seno e quando no. Due bambini piangono, a uno la madre dà subito la tetta, mentre l’altra guarda l’orologio e dice: “Non sarà fame, perché l’ho allattato neanche un’ora e mezza fa, devono essere i denti”, e gli dà un giochino di gomma da mordere. Due bambini muovono la testa e la bocca, come per cercare qualcosa; una madre se lo attacca subito al seno mentre l’altra neanche se ne accorge perché il bambino era nella culla e lei non guardava. Due bambini dicono “ga-ga”; una madre pensa: “Oh, si è già svegliato” e se lo attacca al seno, l’altra lo guarda estasiata ed esclama: “Che carino, già comincia a parlare a quest’età”. Molte madri occidentali hanno sentito dire che “mano a mano che cresce, aspetterà sempre di più tra una poppata e l’altra”. E la profezia si compie; le madri convinte che “aspetterà sempre di più” hanno sempre la tendenza a non ascoltare la richiesta del figlio o a interpretarla come un’altra esigenza (freddo, caldo, dolore, coliche, denti, noia… qualsiasi cosa tranne la voglia del seno). I loro figli, effettivamente, poppano sempre meno, e prima di raggiungere l’anno sono svezzati. Ma è appurato che quando la mamma sfata questo mito e davvero prova ad allattare a richiesta, il bambino continua a chiedere. Sì, poi arriva un momento in cui il numero di poppate diminuisce; ma di solito non capita a tre mesi, ma verso l’anno e mezzo o più tardi.


Nella nostra società i dieci minuti e le tre ore sono diventati una regola così radicata che probabilmente quasi tutte le madri, anche le più entusiaste dell’allattamento, hanno provato qualche volta a stimolare il bambino a resistere un po’ di più tra poppata e poppata, o a tenerlo attaccato un po’ di più quando si stacca dopo due minuti. Forse, se li lasciassero, i bambini non popperebbero dieci volte, ma quindici o venti, o più. Forse questo periodo che ho descritto come stadio finale, in cui i bambini si attaccano a tutte le ore, dura solamente alcune settimane perché tutte le madri si impegnano affinché non duri, perché il bambino avverte la preoccupazione e il disagio di sua madre e si arrende; forse se la madre lo accettasse felice, il bambino continuerebbe per mesi e anni.


Forse non c’è molta differenza tra noi e i boscimani. Siccome i Kung allattano per circa quattro anni, quando gli antropologi si sono messi a contare il numero di poppate forse non hanno notato molti neonati, ma soprattutto bambini di due o tre anni. Forse i neonati Kung non poppano sei volte all’ora, ma un po’ di meno. Forse le loro madri sono talmente abituate ad allattare molto spesso un bambino di due, tre o quattro anni, che quando ne partoriscono un altro si stupiscono che si attacchi al seno così poco, e fanno tutto il possibile per allattarlo più spesso, esattamente al contrario delle madri di qui. Magari influisce il calore del deserto, e i bimbi boscimani hanno bisogno di bere piccoli sorsi di latte tutto il tempo.


Da ultimo, bisogna ricordare che a richiesta non solo significa quando vuole il bambino, ma anche quando vuole la madre. È certo che le necessità di un neonato sono assolutamente prioritarie. Tuttavia man mano che il bambino cresce, sua madre ha sempre più possibilità di intromettersi e decidere quando allattare e quando no. Quindi un orario rigido è sbagliato a qualsiasi età, e conviene sempre che la maggioranza delle volte sia il bambino a decidere. Ma nello stesso tempo non succede nulla se si anticipano o si ritardano alcune poppate.


Per esempio, se vostro figlio di tre mesi chiede il seno in mezzo alla strada, glielo potete dare subito; ma potete anche distrarlo un attimo e darglielo quando tornate a casa. A cinque mesi, una madre che segue un orario rigido non può andare al cinema alle sette perché suo figlio deve mangiare alle otto. La madre che allatta a richiesta, invece, può farlo alle sei, può cercare di dargliene ancora un po’ alle sei e mezza, lasciare il bambino alla nonna e vedere il film tranquillamente. E se alle otto meno un quarto il bambino protesta, la nonna lo intratterrà come meglio può, che mamma tornerà dopo mezz’ora e gli darà la tetta.


Così, contrariamente a ciò che pensa molta gente, l’allattamento a richiesta non è una schiavitù, ma una liberazione per la madre. La maggior parte delle volte può fare quel che vuole suo figlio, così il bambino è contento e non piange, e quindi anche lei sarà contenta e non piangerà. E qualche volta, ed è un bene, anche la mamma può fare quello che vuole. La schiavitù è l’orologio. Dover camminare su e giù, piangendo con in braccio un bambino che piange per quindici minuti, o per due ore, perché “ancora non è il momento”. Dover svegliare un bambino che dorme come un ghiro, perché “è già ora”. Dover spiegare alla parrucchiera: “Alle 5.30 non posso. Non mi può dare l’appuntamento alle 6.30? È che alle 6 ho la poppata…”.


Konner M, Nursing frequency and birth spacing in Kung hunter-gatherers, in “IPPF Med Bull”, num. 15, 1978, pp. 1-3.


Manz F, van’t Hof MA, Haschke F, The mother infant relationship: Who controls breastfeeding frequency?, in “Lancet”, num. 353, 1999, p. 1152.

Come poppano i bambini

Nella prima edizione di questo libro ho scritto che “il bambino non succhia dal seno aspirando, formando il vuoto, come si fa con una bibita attraverso una cannuccia, ma lo munge, o lo spreme, premendo con la lingua i seni galattofori in cui si è accumulato il latte per effetto dell’ossitocina”. Questa era la descrizione del procedimento proposta da alcuni scienziati inglesi che vent’anni prima avevano analizzato tramite ecografia il movimento della lingua del bambino durante la poppata.


Pochi anni dopo, la dottoressa Geddes, australiana, ha analizzato nuovamente il fenomeno della suzione tramite ecografia ed è giunta a una conclusione diametralmente opposta: in realtà, il bambino succhia abbassando la parte posteriore della lingua e questo crea un vuoto che permette al latte di uscire.


Nel 2012, il dottor Woolridge, inglese (che aveva partecipato ai primi studi condotti negli anni Ottanta), ha esposto durante un convegno le sue conclusioni, a cui era giunto dopo aver fatto ulteriori ecografie. Egli afferma che nell’arco di una stessa poppata si alternano in proporzione variabile due tipi di movimento: quello “peristaltico” (che comprime il seno, secondo la prima teoria) e quello “estrattivo” (che crea il vuoto). I movimenti peristaltici sono predominanti e si possono osservare in tutti i bambini; la maggior parte dei bambini compie anche movimenti estrattivi.


Per estrarre manualmente il latte è necessario comprimere i dotti dietro l’areola, un gesto che assomiglia più ai movimenti peristaltici. I tiralatte, al contrario, agiscono formando un vuoto, proprio come i movimenti estrattivi. Alcuni produttori di tiralatte sostengono con entusiasmo la teoria australiana del vuoto come unico meccanismo di suzione, perché questo consente loro di affermare che i tiralatte agiscono in maniera “naturale”.


Geddes DT, Kent JC, Mitoulas LR, Hartmann PE, Tongue movement and intra-oral vacuum in breastfeeding infants, in “Early Hum”, num. 84, 2008, pp. 471-477.


Woolridge M, The mechanics of breastfeeding revised: Do babies extract milk from the breast using peristalsis, suction or a combination of both?, in “Association of Breastfeeding Medicine Conference”, Trieste, Maggio 2012.

La posizione, chiave del successo

Qualunque sia il meccanismo della suzione, una cosa è certa: in bocca il bambino non deve avere solo il capezzolo, ma una parte più grande di seno. Che sia per comprimere o per risucchiare, la lingua deve trovarsi al di sotto dell’areola, nella zona in cui si trovano (o non si trovano) i seni galattofori, o come li vogliamo chiamare.


La figura 3 (pag. 54) mostra che l’areola si allunga e va ad occupare, insieme al capezzolo, tutta la cavità boccale. La punta della lingua sta sopra le gengive, a volte addirittura sopra al labbro inferiore, sotto l’areola. La lingua si muove verso l’alto e poi all’indietro, spremendo così il latte accumulato all’interno dei dotti. In realtà, la lingua non si sposta fisicamente, ma un’onda di pressione la percorre dalla punta alla base. Non si provoca, quindi, uno sfregamento tra la lingua e il seno. Mano a mano che l’onda di pressione si muove verso il capezzolo, i dotti si svuotano, pertanto la pressione al suo interno è molto bassa. Siccome la pressione negli acini mammari è molto alta (per effetto dell’ossitocina), il latte torna a riempire i seni galattofori, così che la lingua possa spremerli nuovamente. Dopo uno o vari movimenti della lingua, nella gola si accumula la sufficiente quantità di latte per scatenare il riflesso di deglutizione, che fa sì che il bambino ingoi.


Mentre succhia, il bambino tiene la bocca molto aperta, il seno trattenuto fino in fondo, le labbra everse (ovvero, il labbro superiore piegato verso l’alto e quello inferiore verso il basso). A volte viene specificato che il labbro superiore può essere “everso o indifferente”. Quello inferiore è sicuramente everso. Il bambino non si succhia mai il labbro. Il naso si trova vicino al seno; di solito il mento vi è appoggiato, così come spesso succede con la guancia, in modo che non si vedono neanche le labbra. Le guance non affondano ma si gonfiano ritmicamente (poppare, insisto, non è come succhiare da una cannuccia, ma come masticare). All’inizio, il bambino può muovere le labbra rapidamente, probabilmente per stimolare il capezzolo e far sì che venga prodotta una maggior quantità di ossitocina. Ma subito cambia il ritmo della poppata, e i movimenti rapidi intorno alla bocca lasciano spazio ad altri movimenti più lenti e più ampi della mandibola. Si può vedere come si muovono l’angolo della mandibola e l’orecchio, e come si contraggono i muscoli temporali, ai lati del cranio.

Conseguenze di una posizione scorretta

Quando il bambino viene messo in una posizione scorretta, invece di contenere una buona parte di seno, succhia solamente il capezzolo e si produce una catena di sintomi:


1. Guance che affondano (fanno risucchio)

Siccome non riesce a premere il seno con la lingua, è obbligato a succhiare formando il vuoto.


2. Dolore e ragadi

Il bambino esercita una maggiore forza su una minore superficie (solo quella del capezzolo), e di conseguenza una maggiore pressione. La madre sente dolore durante la poppata, e in pochi giorni si possono presentare ragadi.


3. Poppate molto lunghe, non si stacca dal seno

Formare il vuoto è un modo poco efficace di poppare e il bambino ha bisogno di molto più tempo. Di solito la madre esclama: “Mezz’ora o tre quarti d’ora per ogni seno, e perché lo stacco io, se no continuerebbe”.


Se è ben attaccato, il bambino lascia il seno spontaneamente quando termina, che sia dopo due minuti o dopo venti (dipende dall’età). Anche quando la madre dice: “Si addormenta al seno”, normalmente ciò che vuole dire è che il bambino si stacca dal seno e si addormenta. Se un bambino, ogni tanto, si addormenta con il seno in bocca e bisogna staccarlo, non importa, sono cose che capitano. Ma se accade ad ogni poppata, quasi sempre è perché si trova in una posizione scorretta (o perché, per altri motivi come una debolezza generale o problemi alla lingua, non riesce a succhiare bene).


4. È ancora affamato

Nonostante resti attaccato mezz’ora, si nota che è inquieto, lamentoso, insoddisfatto.


5. Poppa molto spesso

E siccome è ancora affamato, dopo poco tempo ne chiede ancora. La madre si lamenta del fatto che ce l’ha “tutto il giorno attaccato”. È normale che il bambino chieda il seno più spesso del solito in alcune ore della giornata (normalmente nel pomeriggio) o in alcuni giorni sporadici; ed è normale anche che faccia tante poppate ma molto corte, di uno o due minuti l’una. Ma tante poppate e molto lunghe, poppare mezz’ora o tre quarti d’ora e dopo pochi minuti ricominciare, e così per tutto il giorno, indicano di solito una posizione scorretta.


6. Seni pieni, ingorgo mammario, mastite

In casi estremi, se un bambino non succhia praticamente niente, la produzione di latte si blocca e il seno si svuota. Ma quando il bambino succhia male e continua a poppare, è più probabile che il seno rimanga troppo pieno. Il seno sembra in grado di distinguere quando un bambino succhia in modo corretto ma poco (quando è già grande e sta mangiando altre cose) e quando succhia poco perché lo fa in modo sbagliato. Nel primo caso, il seno produce meno latte. Ma nel secondo caso si mette in moto un meccanismo di sicurezza. Perché la natura non vuole che i bambini muoiano di fame; non è il caso che un bambino rimanga pelle e ossa solo perché ha il labbro spostato un centimetro più in qua o più in là. Quando il seno si accorge che il bambino non sta succhiando in maniera efficace, inizia a produrre in quantità maggiore il primo latte, mentre l’ipofisi produce più ossitocina in modo che quel latte esca in tutta fretta. Potremmo dire, semplificando molto, che il primo latte, annacquato, è quello che gocciola da solo, mentre il secondo, ricco di grassi, è quello che il bambino estrae quando succhia correttamente. Siccome il bambino non riesce a estrarre bene il latte, il seno glielo serve su un vassoio. Questo meccanismo di sicurezza permette che il bimbo continui a succhiare, ma con difficoltà. Con il seno che produce troppo latte e il bambino che non è in grado di poppare in modo corretto, il risultato è che i seni sono sempre pieni, spesso dolorosamente pieni, e a volte si manifesta addirittura una mastite.


7. Riflesso eccessivo di eiezione

Dicevamo che le madri notano il colpo di latte all’inizio della poppata, soprattutto nei primi mesi (vedi pag. 20). Ebbene, quando il bambino succhia in posizione sbagliata la madre si accorge di questa montata lattea in maniera molto violenta e più volte durante ogni poppata. Il latte può uscire letteralmente a getto. Il bimbo, più che succhiare, aspetta che il latte, che esce naturalmente per effetto dell’ossitocina, gli cada in bocca. Per questo ci mette molto tempo. Nel frattempo, l’altro seno può gocciolare in maniera copiosa. In alcuni libri, soprattutto americani, si menziona un possibile eccesso di ossitocina come se si trattasse di una malattia specifica. Succede che, quando l’ipofisi della madre produce un eccesso di ossitocina, il latte esca a getto, al bambino vada di traverso, e dopo un po’ di tempo, infastidito da un’esperienza così sgradevole, finisca per rifiutare il seno. Come trattamento si raccomanda di estrarre un po’ di latte a mano prima della poppata, così che il primo getto di latte più violento non cada nella bocca del bambino, o si consiglia di allattare sdraiate a letto supine, in modo che il latte si trovi ostacolato dalla forza di gravità. Forse esiste qualche donna con eccesso di ossitocina, così come ci sono donne con ipertiroidismo; ma in molti siamo convinti che questi siano casi molto rari, e che molti dei problemi attribuiti a un eccesso di entusiasmo dell’ipofisi si debbano in realtà alla posizione scorretta. Mettendo il bambino nella giusta posizione, questi riesce a succhiare in modo efficace, e la madre non è più obbligata a produrre un eccesso di ossitocina.


8. Vomito e rigurgiti

Tutti i bambini vomitano, alcuni più di altri. È normale, e questo sintomo comincia a scomparire verso l’anno. Ma il bambino che poppa in posizione scorretta, rigurgita e vomita in abbondanza perché assume un maggior volume di latte diluito, invece di prendere il latte più concentrato della fine della poppata, e può semplicemente essere che questo gli riempia talmente lo stomaco da procurargli il vomito.


9. Diarrea

Col passare del tempo, bevendo più del primo latte, si introducono meno grassi, ma si assume più lattosio del normale e questo può provocare un relativo sovraccarico. Non è che il bambino sia intollerante al lattosio; il bambino sta bene e potrebbe tollerarne una normale quantità. Ma se questa risulta essere eccessiva non riuscirà a digerirla totalmente. Il lattosio non digerito arriva all’intestino crasso, dove verrà attaccato dai batteri, producendo così gas e acido lattico. Le feci sono più liquide (ancor più perché in un bambino allattato al seno sono sempre liquide) e più acide, e questo provoca bruciore al sederino se non gli viene cambiato subito il pannolino.


10. Pianto e coliche

Al nostro eroe non mancano motivi per piangere. Ha fame. È stanco. Sua madre gli mette il muso perché le fanno male i capezzoli. Può ingerire aria mentre succhia il latte, perché in posizione scorretta le labbra non si chiudono ermeticamente. I batteri producono gas a causa del lattosio non digerito; il bimbo si sente appesantito, e in più gli brucia il sederino.


11. Capezzoli arrossati

Di norma, il capezzolo è più o meno dello stesso colore dell’areola che lo circonda. Quando, però, il bambino succhia in maniera scorretta, la lingua sfrega ripetutamente sul capezzolo e inizia a spellarlo, fino a che questo, irritato o arrossato, non risalta sull’areola marrone.


12. E il peso?

Beh, dipende. Se la madre cerca di allattarlo dieci minuti ogni quattro ore, sicuramente non ingrasserà quasi per nulla. In questo modo non può neanche incominciare. Ma se la madre allatta a richiesta, mattina, pomeriggio e sera, se lo tiene attaccato tutto il giorno, è possibile che il bambino aumenti a sufficienza. O addirittura, in casi rari, può essere che ingrassi troppo. Assumendo pochi grassi può continuare ad avere fame. E persino quando ha già assunto abbastanza calorie può continuare a essere affamato. Alcuni bambini ingrassano come bestie, nonostante vengano allattati in posizione scorretta.


Questo dettaglio è importante. Non basta il peso per valutare l’allattamento, non possiamo dire: “Il bambino ingrassa, quindi va tutto bene”. Se la madre deve allattare giorno e notte perché il bimbo ingrassi, soffrendo per le ragadi e per l’ingorgo mammario, e il bambino deve passare il tempo a poppare, piangere e vomitare, significa che non va bene. L’allattamento è ben riuscito quando, oltre ad ingrassare, sia la madre che il bambino si mostrano felici.


La posizione al seno non è sempre o del tutto sbagliata o del tutto corretta. Esiste tutta una gamma di possibilità tra l’una e l’altra. Perciò, non tutti i bambini presentano completamente i sintomi descritti in precedenza, o non li mostrano con la stessa intensità. Quasi sempre si osservano almeno le poppate molto lunghe e il dolore ai capezzoli. Può essere che ci siano state ragadi, ma poi rimane solo il dolore; man mano che il bimbo cresce, cresce anche la sua bocca, che riesce così a contenere meglio il seno, e tra questo e l’esperienza che va acquisendo col tempo, sembra che i sintomi della posizione scorretta tendano a scomparire.


Un’ampia gamma di possibilità significa che il confine tra il normale e il non normale è vago. Chloe Fisher è un’ostetrica di Oxford, forse la persona più affidabile per quanto riguarda la posizione di allattamento dei bambini. Le hanno chiesto qual era il limite, fino a quando si può considerare normale la durata di una poppata (come ci piacerebbe aver tutto quanto ben organizzato, poter dire: “diciassette minuti è normale, diciotto è troppo!”). Ha risposto: “Normale è ciò che accetta la madre”. Se la madre è contenta dell’allattamento e il bambino pure, se allattare è il momento più bello della giornata, un momento di calma e riposo, cosa importa che la poppata duri diciotto minuti? Per un’altra madre invece la situazione può essere fastidiosa. Magari le fanno male i capezzoli, o il bambino piange tutto il tempo, o semplicemente può essere che abbia altri figli o altre attività, o che dedicare così tanto tempo ad allattare la faccia sentire vincolata e innervosita. In questi casi, è bene sapere che un piccolo cambio di posizione del bambino la può aiutare.

Come fargli assumere una posizione adeguata

(Si vedano le fotografie sul sito: http://www.acpam.org/la-posicion-al-pecho).


Quando la madre si sdraia a letto supina, oppure si accomoda su una poltrona o una chaise longue, con il bambino addosso, a pancia in giù, la maggior parte dei neonati si dirige spontaneamente verso il seno e inizia a succhiare in posizione corretta (possono metterci un po’). In pratica, succede la stessa cosa che era successa in sala parto. L’istinto di cercare il seno non si manifesta solo dopo il parto, ma continua per mesi (e col passare del tempo non sarà più solo un gesto istintivo, ma diventerà intenzionale). Il contatto pelle a pelle è piacevole, ma non è necessario: il bambino popperà anche vestito. La cosa importante è garantire la tranquillità del bambino e rispettarne i tempi. Ho conosciuto un bambino che aveva rifiutato il seno fin dalla nascita (prendeva solo il latte materno che la madre si estraeva, ma non aveva mai voluto poppare; piangeva non appena lo si avvicinava al seno) attaccarsi al seno per la prima volta al terzo mese in questa posizione. Suzanne Colson ha definito questa posizione biological nurturing (allevamento biologico); troverete maggiori informazioni sul sito www.biologicalnurturing.com.


In altre occasioni, la madre vorrà allattare seduta (di solito è meglio se si siede lievemente piegata sulla sedia) o guidare il figlio in maniera più attiva. Oppure può capitare che la postura non sia del tutto corretta quando il bambino si attacca da solo, e che sia necessario migliorarla spostandolo un po’.


Abbiamo visto che, per poppare in maniera efficace, il bambino deve avere una buona parte di seno all’interno della bocca, e la lingua al di sotto. Anni fa si diceva alle mamme: “Bisogna che il bambino non si aggrappi solamente al capezzolo, ma a tutta l’areola”. Ma c’era un problema. La madre riesce a vedere il suo seno solo dall’alto, quindi non può sapere cosa succede nella parte inferiore. Cercando di inserirgli la parte superiore dell’areola in bocca, al bambino a volte usciva la parte inferiore. Il capezzolo rimaneva troppo vicino al labbro inferiore e non c’era spazio per collocare la lingua e poppare. Non si tratta quindi di contenere tutta l’areola, ma di contenere una buona parte del seno, in modo tale che il capezzolo si venga a trovare nella parte superiore della bocca del bambino. Tra il capezzolo e il labbro inferiore ci dev’essere sufficiente spazio per la lingua (fig. 3).

Invece, se il capezzolo si trova all’altezza del naso, quando il bambino apre la bocca c’è sicuramente lo spazio sufficiente per la lingua (fig. 4).


La posizione del resto del corpo è importante, ma secondaria. Dopo qualche mese i bambini raggiungono un’abilità tale che sono in grado di poppare in qualsiasi posizione. Se la bocca è al posto giusto, non importa in quale posizione sia il resto del corpo anche se, ovviamente, ci sono posizioni in cui è più o meno facile collocare correttamente la bocca. I neonati soprattutto trovano grandi difficoltà a poppare se la posizione del corpo non è adeguata.

Nella precedente edizione di questo libro ho scritto che il collo del bambino deve stare dritto o leggermente inclinato all’indietro. Grazie a un caro amico, il dottor Ruiz, ho appreso che in realtà la testa deve essere decisamente inclinata all’indietro, come quando beviamo da un bicchiere. Alla luce di questo, la figura 9-A (pag. 59), che era un esempio di posizione corretta, si potrebbe forse modificare. Piegando la testa all’indietro, anche il naso si sposta all’indietro, mentre il mento viene in avanti. Il nasino del bimbo si allontana dal seno, e al tempo stesso la mandibola si avvicina, così da riuscire a mettere una parte maggiore di lingua sotto l’areola. Se prolungassimo l’asse mediano del seno che attraversa il capezzolo, questo uscirebbe dalla regione occipitale del bambino, non dalla nuca né tanto meno dalla schiena.


Molti bambini, naturalmente, poppano bene, o abbastanza bene, anche con il collo dritto. Esistono posizioni accettabili e posizioni migliori. Quando il bambino fa fatica a poppare, per esempio a causa del frenulo linguale troppo corto, è molto importante che la sua posizione sia perfetta, con la testa decisamente inclinata all’indietro.


Con il collo inclinato all’indietro, certo, ma comunque dritto rispetto agli altri assi, non piegato da un lato, né ruotato, né tanto meno piegato verso il basso: in quel caso sarebbe molto difficile poppare.


Se non ci credete fate una prova con un bicchiere d’acqua, e cercate di berlo con il collo piegato (il mento che tocca lo sterno), ruotato (mento che tocca la spalla) o di lato (l’orecchio che tocca la spalla).


Nella maggior parte dei casi non è necessario né conveniente sorreggere il seno mentre il bambino sta succhiando; invece di muovere il seno e portarlo dove si trova il bambino, è meglio muovere il bambino e portarlo al seno. Sorreggere il seno può causare vari problemi: la stessa mano può essere d’ostacolo, impedendo che il bambino si avvicini abbastanza al seno; la pressione delle dita può comprimere qualche condotto, impedendo che esca il latte, e alla madre non rimane nessuna mano libera.


In alcuni casi in cui il seno è molto cadente può essere più comodo sorreggerlo con il palmo della mano; non è necessario schiacciare con il pollice da sopra. La posizione a forbice (sorreggendo il seno tra l’indice e il medio) è molto utilizzata, e numerosi quadri antichi testimoniano che le madri la adottano da sempre. Nonostante questo, è stata denigrata da molti esperti perché, se si fa in maniera scorretta, con le dita troppo vicine al capezzolo, il bambino non ha lo spazio per mettere la bocca. Se le dita sono abbastanza distanti dal capezzolo, la forbice non causerà problemi, anche se sembra più semplice usare l’indice e il pollice (fig. 5).

A volte è meglio comprimere un seno molto voluminoso perché il bambino lo possa prendere più facilmente (fig. 6), soprattutto nelle prime settimane (cioè quando ha la bocca più piccola).

Una volta che il bambino si è attaccato, si può lasciare il seno. Non dimenticatevi di comprimere il seno nella stessa direzione della bocca del bambino. Wiessinger2 l’ha spiegato perfettamente attraverso l’analogia del sandwich (fig. 7).

La testolina dev’essere orientata in modo che l’asse della cavità boccale e l’asse del seno siano allineati (fig. 8). A seconda della forma del seno, il corpo del bimbo dovrà stare totalmente di lato, guardando la madre, oppure un po’ inclinato in diagonale. Ma se il corpicino è rivolto verso l’alto, il bambino non potrà poppare comodamente. Tutto il corpo del bimbo deve stare a contatto con quello della madre, circondandolo come una cintura; il bambino della figura 9-C è molto lontano dalla madre; questo lo obbliga a stendere troppo il collo all’indietro. A volte si utilizza la frase “Ombelico con ombelico”, che è un’esagerazione (ho visto madri prenderla alla lettera e cercare di far coincidere il loro ombelico con quello del bambino). Basta metterlo pancia contro pancia.

In molti libri, soprattutto in quelli americani, si raccomandava di sorreggere con una mano il culetto del bambino, in modo che la sua testolina riposi nell’angolo del gomito della madre. Ma il gomito si trova a lato del corpo, mentre il seno sta davanti. Senza dubbio molte madri allattano con la testolina all’interno del gomito, di solito grazie al fatto che il seno è grande e morbido, e lo si può orientare verso il gomito, o, anche, perché la madre sposta il braccio fino a portare la testolina davanti al seno (posizione un po’ scomoda che può concludersi con un mal di spalla). Ma se il seno e il gomito si trovano nella posizione normale (fig. 10), il bambino si troverà obbligato a piegare il collo per raggiungere il seno. Starà scomodo, potrà aggrapparsi solo al capezzolo, e dovrà fare grandi sforzi perché questo non gli esca dalla bocca.

È meglio tenere il bambino con la mano sotto la sua schiena, in modo che la testa riposi sull’avambraccio della madre. Un’altra possibilità è quella di sorreggergli la testa con l’altra mano (fig. 11).

Posizionandolo davanti al seno, sfregando il suo labbro superiore sul capezzolo, il bambino comincerà a cercare, muovendo la testa e leccando ripetutamente. Più di una madre alle prime armi, vedendo suo figlio muovere la testa da un lato all’altro, ha esclamato: “Sta dicendo di no! Non vuole il seno!”. Se leggete questo libro durante la gravidanza, o quando sono già settimane o mesi che allattate, penserete che sto esagerando… ma sfinite dopo un lungo parto, insicure e con gli ormoni sconvolti, credetemi, non è così difficile deprimersi per una cosa così. Ricordate, vostro figlio non sta dicendo di no; il movimento della testa da una parte all’altra è istintivo, e serve a trovare il capezzolo. Le nostre cugine scimmie non portano il loro cucciolo al capezzolo; lo prendono semplicemente in braccio e lui si preoccupa di fare il resto.


Prima di poppare, il bimbo deve assicurarsi che quello è in effetti il capezzolo. Non sta bene mettersi a succhiare dal braccio o dalla pancia della mamma; oltre a non prendere il latte, le lascerebbe un bel livido. Per capire mette in funzione quasi tutti i sensi: vede l’areola, tocca il capezzolo con la pelle del viso e poi con le labbra, lo annusa e lo lecca. Quando infine si decide, apre la bocca e si lancia a fondo. In quel momento, spingetelo verso di voi con la mano che tenete sotto la sua schiena, perché il seno sia ben messo nella sua bocca. Non spingetelo premendo la nuca; provochereste un riflesso istintivo e il bambino butterebbe la testa all’indietro.


Troverete una spiegazione della posizione del seno, con l’aggiunta di fotografie, sul sito: www.acpam.org/la-posicion-al-pecho.

Altre posizioni

Conviene conoscere altre posizioni per allattare:

  • Con i piedi all’indietro (a palla da rugby). Utile specialmente per allattare insieme due gemelli, o nel caso in cui i piedi del bambino vi diano fastidio alla cicatrice del cesareo.
  • Distesa a letto. Madre e figlio possono mettersi sul fianco, l’uno di fronte all’altra. Per dare il secondo seno vi potete inclinare un po’ di più e darglielo dall’alto, oppure abbracciare vostro figlio, girarvi insieme a lui e mettervi sull’altro fianco. Se i seni sono molto gonfi, può risultare più comodo dargli prima quello in alto e poi quello in basso. Questa postura presenta un importante inconveniente: per tutto il tempo della poppata, è necessario spingere il bambino mettendogli una mano sotto la schiena perché si attacchi bene al corpo della mamma. Quando smettete di spingere, il bambino si allontana e il seno gli esce quasi completamente dalla bocca; e se il bambino si dovesse girare fino a mettersi in posizione supina potrebbe dare un bello strattone al capezzolo. In alcuni casi si raccomanda di appoggiare alla schiena del bambino un cuscino o un asciugamano arrotolato, ma è molto importante che non vi siano cuscini e simili in prossimità del viso del bambino, per evitare il rischio di asfissia. Di giorno potete premervelo al seno mettendogli una mano sotto la schiena per tutto il tempo che volete, ma di notte (o se vi capita di fare un sonnellino), non appena cominciate ad addormentarvi e diminuite la pressione, il bambino si allontanerà e cominceranno i problemi. Invece, se la madre si mette supina, con il bambino sopra, a pancia in giù, non è necessario spingere. Ci penserà la forza di gravità a mantenere il bambino al suo posto, anche se la mamma si è addormentata.
  • A cavalcioni (a volte detta “a cavalluccio”). Molto utile per bambini che devono poppare in posizione molto verticale, per esempio a causa di una schisi del palato. Così come nella postura più tradizionale, alcuni bambini possono poppare perfettamente con il collo dritto, ma nella postura ottimale il collo è inclinato all’indietro, e il bambino guarda la madre negli occhi.
  • Il bambino è nel lettone, supino, e la madre si mette sopra di lui a quattro zampe, come la Lupa romana. Questa postura può essere utile, per esempio, in caso di ostruzione o mastite al seno, per cui bisogna trovare la posizione in cui la lingua del bambino rimanga esattamente sotto la zona infiammata. Anche quando è la madre a stare supina e il bambino è sopra di lei, a pancia in giù, è possibile sistemarlo in qualsiasi angolo. Non dimenticatevi di fare una foto ricordo.

Perché poppano in posizione scorretta

Una volta scordati i benedetti orari e stabilito l’allattamento a richiesta, la maggior parte dei problemi è dovuta alla posizione sbagliata o a un problema con il frenulo linguale, come vedremo più avanti.


Com’è possibile che ci siano così tanti bambini mal posizionati al seno? Dopo aver letto la lunga e noiosa spiegazione precedente, si è tentati di dire: “Beh, perché è così difficile che non è chiaro a nessuno”. In realtà non è così complicato. Tutti i mammiferi poppano senza che nessuno gli spieghi la posizione corretta, e così hanno fatto le nostre antenate da sempre.


Questo argomento mi preoccupava. Ci ho impiegato anni a capire realmente qual è la posizione corretta, anni a leggere libri, a guardare documentari e ad ascoltare esperti. E continuo a imparare: ho dovuto cambiare molte cose rispetto alla prima edizione di questo libro. Come ci riuscivano, allora, nelle grotte di Altamira? Come mai oggi così tante madri e i loro bambini non riescono a trovare la posizione corretta? Mi vengono in mente quattro motivi:

1. Interferenze dopo il parto

Ho trovato la risposta in uno studio scientifico realizzato in Svezia nel 1990 da Righard e Alade3. Sono stati messi a confronto due gruppi di neonati, alcuni a contatto pelle a pelle con la madre dalla nascita, e altri separati temporaneamente. All’interno di ogni gruppo c’erano alcune madri a cui avevano somministrato petidina (un potente analgesico) durante il parto. Praticamente tutti i bambini che stavano a contatto con la madre e non si trovavano sotto l’effetto della petidina si muovevano da soli verso il seno, e si attaccavano in posizione perfetta. I movimenti di strisciamento iniziavano una ventina di minuti dopo il parto; e tra i quaranta e i novanta minuti quasi tutti cominciavano a poppare. Dei bambini a contatto con la madre, ma sotto l’effetto dell’analgesico, solo la metà poppavano in posizione corretta, e lo stesso succedeva con quelli che non avevano subito alcuna anestesia, ma erano stati separati dalla madre. Quindi i bambini nascono con l’istinto e la capacità di cercare il seno, trovarlo e poppare correttamente, ma quando interferiamo, che sia con la petidina o separando il bambino dalla madre, molti non ci riescono. E quando si univano i due fattori, il risultato era devastante; neanche uno riusciva a poppare nella giusta posizione, e la grande maggioranza non poppava affatto, né bene, né male. Dopo due ore dalla nascita non avevano ancora poppato.


La cosa più curiosa (vista dalla Spagna) è come gli svedesi definiscono i bambini a contatto con la madre e separati dalla madre. Quelli del primo gruppo, alcuni secondi dopo la nascita, prima di essere lavati o prima che mettessero loro le gocce negli occhi o qualsiasi altra cosa, venivano posizionati nudi sul corpo nudo della madre, e lì restavano per alcune ore. Quelli del gruppo separati, appena dopo il parto, prima di venire lavati o pesati o che mettessero loro le gocce negli occhi, venivano posizionati nudi sul corpo nudo della madre. Ma dopo venti minuti dalla nascita venivano separati, lavati e pesati e solo dopo quaranta minuti dalla nascita venivano risistemati nudi sul corpo nudo della madre, e lì restavano per due ore. Questa separazione di venti minuti, che non erano neanche i primi venti, già interferiva con la capacità del bambino di poppare. E che dire allora dei neonati che non toccano e a volte neanche vedono la madre per tre, sei, dodici ore, o addirittura di più? Magari tutti i bambini che nascono in Spagna avessero lo stesso contatto con la madre che hanno i neonati separati in Svezia4.


Certo, non pensate che il dettaglio del contatto pelle contro pelle sia una specie di cerimonia new age o di terapia naturalista. Non si tratta di trasmettere vibrazioni positive né energia tellurica. Si trasmette calore, nel senso più stretto del termine. Vari studi (tra i quali quelli realizzati in Spagna nell’ospedale 12 de Octubre di Madrid e nel Joan XXIII di Tarragona, centri pionieri di questo argomento) dimostrano che il bambino a contatto pelle a pelle con la madre mantiene la temperatura normale, o la recupera nel caso si sia abbassata.


Noi mammiferi siamo animali a sangue caldo, abbiamo bisogno di mantenere una temperatura corporea costante. Per lottare contro il freddo dobbiamo bruciare più zuccheri, mobilitando le nostre riserve, e impiegando più ossigeno, il che obbliga i nostri polmoni, cuore e fegato a lavorare più in fretta. Per un neonato è molto più difficile che per un adulto, per questo i bambini appena nati sono esposti al rischio di una pericolosa ipotermia.


Noi adulti ci copriamo per non avere freddo. Ma i vestiti non scaldano, isolano solamente. Il nostro organismo produce facilmente calore, e i vestiti impediscono che questo calore si disperda. Lo stesso cappotto che permette che non abbiate freddo può far sì che un blocco di ghiaccio non si sciolga. Ma il problema del neonato è proprio che fa fatica a produrre calore sufficiente. Ha bisogno di una fonte di calore esterna. All’interno dell’utero, si trova alla stessa temperatura della madre, sui 37°C. Se viene messo nudo sul corpo nudo della madre, i due continueranno ad avere la stessa temperatura, è una legge fisica. La madre è la miglior fonte di calore, efficace, sicura, sempre alla stessa temperatura, continua a scaldare anche se tagliano luce e gas, e il bambino non si scotterà mai fra le sue braccia. Ma se mettiamo fra madre e figlio uno o molti strati di isolante sotto forma di vestiti, il bambino non riceverà il calore di cui ha bisogno.


Righard L, Alade MO, Effect of delivery room routines on success of first breast-feed, in “Lancet”, num. 336, 1990, pp. 1105-7.


Christensson K, Siles C, Moreno L, Belaustequi A, De La Fuente P, Lagercrantz H et al., Temperature, metabolic adaptation and crying in healthy full-term newborns cared for skin-to-skin or in a cot, in “Acta Paediatr”, num. 81, 1992, pp. 488-493.


Gomez Papì A, Baiges Nogues MT, Batiste Fernàndez MT, Marca Gutiérrez MM, Nieto Jurado A, Closa Monasterolo R, Metodo Canguro en sala de partos en recién nacidos a término, in “An Esp Pediatr”, num. 48, 1998, pp. 631-633.

2. Confusione tra capezzolo e tettarella

Tutti sanno che quando i bambini si abituano al biberon possono smettere di poppare. Molte madri dicono: “Mi ha rifiutato il seno”. La spiegazione più comune è che “siccome il biberon è più semplice, diventano sfaticati e non si vogliono sforzare con il seno”.


Ma questo non è vero. Il biberon non è più semplice. Vari studi, tanto su bambini prematuri che su bimbi con gravi malformazioni cardiache, dimostrano che la frequenza cardiaca e respiratoria e il livello di ossigeno nel sangue si mantengono più stabili quando succhiano dal seno che non quando prendono un biberon. I bambini nascono per poppare dal seno, i loro muscoli e i loro riflessi sono programmati precisamente per questo, mentre prendere un biberon richiede un apprendimento specifico.


Il problema non è il fatto che sia più facile o più difficile, ma che è diverso. Il bambino deve estrarre il latte dal seno, ad eccezione delle poche gocce che escono da sole, e per far questo la lingua deve spingere ritmicamente all’indietro. Oltre a far sì che il latte fuoriesca, questo movimento tende a introdurre il seno sempre di più all’interno della bocca, cosa che a sua volta permette al bambino di poppare meglio. Dal biberon, invece, il latte esce da solo; il bambino deve fare in modo che il latte smetta di uscire per poter ingerire quello che ha già in bocca. Con il biberon la lingua si muove ritmicamente in avanti. Questo movimento tende a spingere il biberon fuori dalla bocca. Per impedirlo, tutte le tettarelle e i succhiotti del mondo si allargano sulla punta formando una specie di bolla che fa da tappo.


Dietro il tappo, la tettarella si restringe in modo tale che il bambino possa prendere il biberon con la bocca quasi chiusa; se aprisse tanto la bocca come fa quando prende il seno, non servirebbe il tappo e il biberon gli cadrebbe di sicuro.


Alcuni bimbi più grandicelli alternano senza alcun problema seno e biberon (o succhiotto), facendo ogni volta i movimenti precisi con la lingua e con le labbra. Ma durante le prime settimane sono in molti quelli che fanno confusione; se riescono a prenderne bene uno, non capiscono come funzioni l’altro. Nei primi giorni, molte madri dicono: “Chiede continuamente il seno, ma non c’è modo di fargli prendere il ciuccio” (continuamente significa in questo caso prima di tre ore), e molte altre esclamano: “Non vuole poppare, e non capisco cosa gli succede perché succhia continuamente il ciuccio” (e poi la tipica spiegazione: “Non vuole il seno perché non esce niente” non è vera; non è mai uscito nulla da un ciuccio e nonostante questo lo succhiano).


La prima volta che si dà un biberon a un neonato (per esempio quando nel bel mezzo della notte qualcuno decide di darglielo per non svegliare la madre), molto spesso lo rifiuta. A parte il fatto che il latte ha un sapore strano e la tettarella anche, è dura e ha una forma singolare; quando cerca di succhiare come se fosse un seno, il latte esce a una velocità tale che al bimbo va di traverso. Così respinge la tettarella, sputando e piangendo. Ma l’infermiera continua a insistere. L’infermiera affabile dice: “Non è nulla, ci ci ci, questo bimbo così bravo beve il suo lattino”; l’infermiera scorbutica dice: “Adesso basta fare i capricci, cosa si crede questo bambino?”; comunque sia insistono entrambe. Dopo alcuni secondi di angoscia il bimbo scopre che facendo così e cosà con la lingua, non gli va più di traverso. “Molto bene, vedi che è facile?”, dice un’infermiera; “vedi che erano tutte storie?”, dice l’altra.


Alcune ore più tardi, quando lo porteranno alla madre, il neonato penserà quel che più avanti dirà centinaia di volte: “Guarda mamma, guarda cosa so fare!”. Proverà a fare con il seno quel che ha appena imparato con il biberon, spingendo con la lingua. Con sorpresa e sconforto, il seno gli uscirà dalla bocca. Perché i seni non hanno il tappo; tutti i seni del mondo terminano a punta.


“Mi rifiuta il seno e piange”, dice la madre afflitta. Sfinita dal parto, in pieno uragano ormonale, presa dalla tristezza post-parto (più lieve ma molto più frequente della depressione), la madre in realtà sta dicendo: “Mi rifiuta, il seno, e piange.” Si sente rifiutata dal suo stesso figlio; è possibile cadere più in basso? “Non preoccuparti, si attaccherà la prossima volta”, dice l’infermiera affabile. “Certo, non hai latte”, dice l’infermiera scorbutica. Si portano via il bambino e gli danno un altro biberon. È l’inizio della fine.


Perché tutte le infermiere (e tutte le madri, le nonne, i padri o le vicine) sanno che è possibile dare un biberon a un bambino. Sempre. Se non lo vuole, è solo questione di pazienza. Nessuno dice: “Lascialo in pace; ci hai già provato, ci sono volte in cui il biberon semplicemente non funziona”; “a mia cognata è successa la stessa cosa, il bambino rifiutava il biberon e quasi moriva di fame, alla fine ha dovuto dargli il seno”; “non bisogna essere fanatici dei biberon, oggigiorno con il seno crescono benissimo”; “io sono il primo difensore del biberon, ma bisogna riconoscere che alcune donne non ci riescono”; “è meglio dargli il seno con amore che il biberon con risentimento”; “non fai alcun bene a tuo figlio; dandogli il biberon in questo modo non fai che trasmettergli il tuo nervosismo”; “non devi sentirti in colpa, non è obbligatorio dare il biberon per essere una buona madre”…


Se tutte le madri avessero la stessa assoluta certezza che sempre, sempre è possibile allattare un bambino, continuerebbero a insistere, e quasi tutti i bambini smetterebbero di rifiutare il seno dopo pochi minuti. E nei casi più difficili, l’aiuto verrebbe dall’infermiera, sicura e nello stesso tempo con più esperienza. Se tutte le madri, infermiere, nonne, padri e vicine avessero tanta fiducia nel seno come ce l’hanno nel biberon, non avrei dovuto scrivere questo libro.


Questo rifiuto del seno quando il bambino si è abituato al biberon è conosciuto come confusione del capezzolo o confusione tra il capezzolo e la tettarella. Per evitarla si raccomanda di non dare biberon o succhiotti ai bambini, almeno durante il primo mese. Dopo il mese, molti bambini rifiutano con forza il biberon o il succhiotto, e non si lasciano più ingannare così facilmente come un neonato. Altri prendono il biberon, o usano il succhiotto, ma non si confondono più, e in ogni caso muovono la lingua in modo corretto. Ma ci sono anche bambini che, qualsiasi età abbiano (anche più di sei mesi), quando cominciano a usare succhiotti o biberon iniziano a rifiutare il seno, o a poppare in modo doloroso per la madre.


Alcuni medici insistono a dire che la confusione del capezzolo non esiste, e che dare uno o più biberon ai neonati non pregiudichi in alcun modo l’allattamento materno. Quel che è certo è che non esistono prove sperimentali, perché per questo bisognerebbe dare il biberon di proposito a un gruppo di bambini, scelti a caso, per vedere cosa succede. Quelli che pensano che questo non sia un male non si disturberanno a fare un simile studio, noi che siamo invece convinti che sia un danno, pensiamo che non sarebbe etico eseguire un esperimento del genere. “Che importa se esiste o non esiste?”, penserà il lettore; di fronte al dubbio, meglio non dargli il biberon e basta. Ebbene risulta che alcuni di quelli che non credono in questa confusione raccomandano a tutti i bimbi allattati al seno almeno un biberon alla settimana, perché si abituino. Perché se no, quando la madre riprenderà a lavorare, o per qualsiasi altro motivo dovrà uscire di casa, il bambino rifiuterà il biberon. Bene, almeno riconoscono che la confusione funziona in un senso, che il bambino che si abitua al seno poi rifiuta il biberon.

3. Mancanza di modelli culturali

L’allattamento nei primati superiori non è puramente istintivo (vedi pag. 36). Manca un apprendimento derivato dall’osservazione; apprendimento che in natura avviene in modo spontaneo. Ma molte madri partoriscono senza aver mai visto allattare altre donne. Alcune non hanno neanche mai tenuto in braccio un bambino. Molte adolescenti non hanno vissuto l’esperienza di vedere una madre crescere il proprio figlio, ma quella di lavorare come baby sitter, prendendosi cura del bambino (e dandogli il biberon) quando la madre non c’è.


Al contrario è piuttosto facile incontrare bambini che prendono il biberon: nei parchi, nei film, nelle foto sulle riviste. Questo contribuisce al fatto che, in molti Paesi europei, le immigranti allattino meno delle autoctone. Le turche che vivono in Svezia, per esempio, non solo allattano meno delle turche che sono rimaste in Turchia; ma allattano anche meno delle svedesi. La Svezia è uno dei Paesi europei in cui si allatta di più, ma le immigranti non capiscono. Non capiscono i libri, non hanno amiche con cui parlare, possono solamente guardare le foto sulle riviste, giungendo così alla conclusione che “il biberon dev’essere meglio, perché qui lo prendono tutti i bambini”.5


Dato che, invece, hanno visto molte volte dare il biberon, nelle foto o dal vivo, molte madri cercano di allattare tenendo il bambino come se gli stessero dando un biberon, con la testa nell’interno del gomito e lo sguardo verso l’alto. Messo così, il bambino deve torcere e piegare il collo e quasi non raggiunge il seno.


Anche l’arte può proporre modelli inadeguati. In molte opere Gesù bambino viene allattato seduto e con il collo girato. Ma guardate bene il bambino: di solito ha già molti mesi, a volte uno o due anni. I neonati in realtà non sono molto fotogenici; il quadro riesce meglio con un bambino grandicello. I bimbi più grandi, come abbiamo già detto, riescono a poppare bene in quasi tutte le posizioni. E in alcuni quadri il bambino non sta neanche succhiando; sta guardando il pittore (la cosa più interessante che abbia visto nella sua vita, è ovvio) mentre dà al capezzolo uno strattone da far paura.

4. L’abnegazione

Anche il mito della madre che si sacrifica contribuisce a far sì che molti bambini succhino il seno in posizione sbagliata.


Perché il capezzolo fa tanto male? Un pizzicotto sul capezzolo è molto più doloroso che in qualsiasi altro punto della pelle. Deve forse essere molto sensibile, per poter reagire agli stimoli e scatenare i riflessi dell’ossitocina e della prolattina? Non necessariamente. Quello che conosciamo come tatto sono, in realtà, vari sensi diversi, con ricettori e nervi distinti. Il capezzolo potrebbe essere molto sensibile alla pressione o al contatto, ma poco sensibile al dolore.


Penso che la delicata sensibilità al dolore serva a garantire che il bambino si aggrappi bene al seno. Perché allattavano le donne delle caverne? Perché allattano gli animali? Perché il veterinario lo raccomanda, perché si dice che è molto nutritivo e protegge dalle infezioni? È chiaro che no. Il primo motivo per cui le madri, animali o umane, allattano è semplicemente per far tacere il bimbo. Il pianto è un suono molto sgradevole, che spinge la madre a fare qualcosa per calmarlo. Seno, braccia, carezze, canzoni, quel che sia, ma che taccia.


Cosa succedeva nella caverna di Altamira quando un bambino poppava in posizione scorretta? “Il bambino piange, gli dò il seno. Mi fa male, gli tolgo il seno. Piange ancora, gli dò il seno. Mi fa ancora male, glielo tolgo…” E così via fino a che non raggiungevano la posizione corretta: “Dài, che questa volta non mi fa male! Può succhiare tutto quel che vuole…”. Il dolore è un avvertimento del nostro corpo affinché la madre cambi posizione. In questo modo può risolvere il problema prima che compaiano ragadi, mastiti, vomito, coliche…


Ma in tempi molto più recenti, l’allattamento si è tinto di connotazioni morali. Una buona madre continua ad allattare, anche se le fa male. Una buona madre si sacrifica e compie il suo dovere:


Guarda il viso sofferente di quella madre che sta allattando, a costo di violenti e terribili dolori! Come sta per scoppiare in lacrime anche se, con uno sforzo estremo, cerca di trattenersi e come, lanciando un forte urlo, toglie bruscamente il bambino dal seno!
Dr. José J. Muñoz,
¡¡Madre…cría a tu hijo!!, 1941

Una buona madre non ascolta i messaggi del proprio corpo, e continua ad allattare in posizione scorretta, fino a che le usciranno le ragadi. E quando non può più sopportare il dolore, l’ansia e lo sfinimento, quando si arrende e passa al biberon, quelli che davanti a lei dicono: “Non ti preoccupare, con questi nuovi tipi di latte di oggi crescerà bene allo stesso modo”, alle sue spalle commenteranno: “È che le madri di oggi non sopportano niente”.


In conclusione, per milioni di anni non ci devono essere stati quasi mai problemi di posizione. Dopo un parto naturale, quando il bambino stava in braccio alla madre dal primo secondo e non si muoveva da lì per dei mesi (dove avrebbe dovuto stare, nella caverna-nursery?), senza succhiotti né biberon e con molte opportunità di osservare altre madri con i loro figli, quasi tutti i bambini succhiavano bene. E in caso ci fosse stato qualche problema, il dolore avvertiva la madre di correggerlo immediatamente. La natura non poteva prevedere che la nostra società sarebbe arrivata a fare tutto il contrario.


E perché la natura non ha ideato un sistema più semplice? Se l’ossitocina fosse un po’ più efficace, e tutto il latte uscisse di colpo senza fatiche per il bambino, questi potrebbe poppare anche se fosse in posizione scorretta, e siccome non dovrebbe sforzarsi, non ci sarebbero neanche più dolore e ragadi. L’idea è allettante, ma non può funzionare. Se il latte uscisse da solo, il bambino non avrebbe alcun controllo. Perché la quantità e la composizione del latte si adattino alle necessità del lattante, è necessario che questi svolga un ruolo attivo. Per questo il latte non esce da solo in nessun mammifero, bisogna sempre fare uno sforzo. Per questo le vacche, le capre, le pecore, bisogna mungerle, non basta mettere sotto un secchio e aspettare.


A proposito, già che si parlava di abnegazione materna, mi permetto di inserire una considerazione aggiuntiva contro il sacrificio. La parola sacrificio ha diverse accezioni, e alcune di queste non sono male: “Atto di abnegazione o altruismo, ispirato dalla veemenza d’amore”. Ma può anche essere: “Azione a cui uno si sottomette con grande ripugnanza”, in modo tale che può esserci confusione.


Si sacrifica un alpinista per raggiungere la cima? Si sacrifica chi studia per un concorso per diventare notaio, o chi fa pratica ore e ore al pianoforte? Non stanno facendo qualcosa che li disgusta; stanno facendo quel che desiderano fare. Io non voglio scalare una montagna né essere notaio, per questo non lo faccio.


Se volete portare vostro figlio in braccio, o dargli il seno, fatelo. Se volete smettere di lavorare per mesi o anni per crescerlo, o rifiutare una magnifica opportunità di lavoro all’estero per stare con la vostra famiglia, fatelo. Ma solo se volete. Se non volete, non fatelo. Dire: “Ho sacrificato la mia carriera professionale per stare con mio figlio” è assurdo tanto quanto: “Ho sacrificato la relazione con mio figlio per la mia carriera”. Non sono sacrifici, sono scelte. Vivere è scegliere, le giornate hanno solamente ventiquattro ore e chi fa una cosa non può farne un’altra contemporaneamente. Scegliete quello che in ogni momento vi sembra opportuno, e basta. Chi fa quel che vuole non sta rinunciando, sta riuscendo; non si sacrifica, ma trionfa.


La sfumatura è importante, perché chi fa (o crede di fare, o vuole credere di fare) un sacrificio lo fa, per definizione, molto malvolentieri. Non si considera appagato, crede che gli si debba qualcosa. Presto o tardi avrete conflitti coi vostri figli. In questi momenti, chi crede di essersi sacrificato pensa (o peggio, dice): “Sembra assurdo, dopo tutto quel che ho fatto per te” o “per colpa tua non sono potuto arrivare a…”. Le parole, una volta pronunciate, non possono essere cancellate. Invece, le persone coscienti di aver fatto ciò che desideravano pensano: “Che peccato che dopo tutti gli anni di gioia che mi hai dato, ora abbiamo un conflitto” o “grazie a te ho avuto il privilegio di essere padre”. O, ancora meglio, lo dicono.

Un dono per tutta la vita - Seconda edizione
Un dono per tutta la vita - Seconda edizione
Carlos González
Guida all’allattamento materno.Un vademecum indispensabile, con tante informazioni pratiche per aiutare le madri che desiderano allattare a farlo senza stress e con soddisfazione. Dopo i bestseller Bésame mucho e Il mio bambino non mi mangia, Carlos González, in una seconda edizione ampliata e aggiornata, con Un dono per tutta la vita torna a parlare di una delle sue grandi passioni: la difesa dell’allattamento materno.Il suo obiettivo non è convincere le madri ad allattare, né dimostrare che allattare al seno sia meglio, bensì offrire informazioni pratiche per aiutare quelle mamme che desiderino allattare a farlo senza stress e con soddisfazione.Nel seno, oltre al cibo, il bimbo cerca e trova affetto, consolazione, calore, sicurezza e attenzione.Non è solo una questione di alimentazione: il bimbo reclama il seno perché vuole il calore di sua madre, la persona che conosce di più.Per questo motivo, la cosa importante non è contare le ore e i minuti o calcolare i millilitri di latte, ma il vincolo che si stabilisce tra i due, una sorta di continuazione del cordone ombelicale.L’allattamento è parte del ciclo sessuale della donna; per molte madri è un momento di pace, di soddisfazione profonda, in cui riconoscono di essere insostituibili e si sentono adorate.È un dono, sebbene sia difficile stabilire chi dia e chi riceva. Conosci l’autore Carlos González, laureato in Medicina presso l’Università Autonoma di Barcellona, si è formato come pediatra presso l'ospedale Sant Joan de Déu.Fondatore e presidente dell’Associazione Catalana per l’Allattamento Materno, tiene corsi sull’allattamento per personale sanitario e traduce libri sul tema. Dal 1996 è responsabile del consultorio sull’allattamento materno e da due anni cura la rubrica dedicata della rivista Ser Padres.È sposato, padre di tre figli e vive a Hospitalet de Llobregat, in provincia di Barcelona.