Aggiornamento seconda edizione 2014

Un nuovo sguardo
sulla vita prenatale e la nascita

A tutti i bambini che stanno per nascere, a tutte le mamme e i papà perché li sappiano accogliere con amore e tenerezza a tutti i grandi che sono stati bambini perché non perdano mai la speranza di poter avere una vita felice e soprattutto al mio compagno di viaggio intrauterino affinché il suo sacrificio non sia stato vano con amore infinito e sempiterno

Prologo

Se il prezzo per guardare fosse stato la cecità, avrei guardato.

Ralph Ellison

Non importa ciò che guardi ma ciò che vedi.

H.M.Thoreau


Il tempo passa, un bambino cresce. Così è anche per un libro: perché nel frattempo cresce il suo autore…

Sono passati sette anni dalla pubblicazione di Sono qui con te ed è ora che l’edizione venga aggiornata. Il sette è un numero importante, addirittura sacro per tante tradizioni religiose.


Sono gli anni di un ciclo di Saturno: secondo Steiner la formazione dell’uomo avviene proprio attraverso “settenari”, cioè cicli periodici di sette anni.


Eccomi qui dunque ad aggiungere al mio primo libro, a cui sono molto affezionata e che tanto successo ha riscosso tra le mamme, un nuovo capitolo, in cui cercherò di riassumere quanto ho raccolto e imparato nel corso di questi ultimi anni, che sono stati particolarmente importanti per il mio personale percorso evolutivo.


La maggior parte delle riflessioni che vi presenterò sono nate dal mio avvicinamento al mondo della terapia craniosacrale biodinamica e dalle lezioni tenute dal mio maestro in questo campo, Matthew Appleton. A lui quindi vanno i miei più sentiti ringraziamenti e la mia più profonda gratitudine per aver acconsentito a condividerle con i miei lettori. Altre derivano dalla mia personale esperienza di vita e dalla ricostruzione della mia storia prenatale e neonatale: ve le propongo nella speranza che possano esservi utili per comprendere meglio il senso del vostro essere al mondo e quello dei vostri figli.


Quello che desidero offrirvi è fondamentalmente un nuovo sguardo: una prospettiva del tutto nuova e rivoluzionaria sul periodo perinatale. Oggi la scienza si sta aprendo a nuovi orizzonti, inimmaginabili fino a poco tempo fa: sta scoprendo che esiste un collegamento stretto e diretto con una realtà che potremmo chiamare trascendente o, volendo utilizzare il linguaggio della picosintesi, transpersonale. Un’eminente scienziata del calibro di Candace Pert, a cui dobbiamo la scoperta dei recettori per gli oppiacei, ha scritto un libro che parla delle basi scientifiche della salute emozionale e psicosomatica ma che in definitiva, come afferma lei stessa, “parla di Dio”… Leggendo i testi di terapia craniosacrale biodinamica di Michael Shea e Ray Castellino, per citarne solo alcuni, o quelli dell’embriologo Jaap van der Wal, sono rimasta colpita da come sia mutato il vocabolario nell’ambito della ricerca prenatale e perinatale: si parla di incarnazione, di anima, di progetto spirituale e agli allievi si propongono percorsi basati sull’esplorazione di sé e sulla “mindfullness”, ovverossia la consapevolezza che si ottiene attraverso uno stato di presenza mentale, in una parola sulla meditazione…


Il divario tra scienza e spiritualità si sta restringendo sempre più e un ponte tra questi due àmbiti così diversi di conoscenza ed esperienza si sta invece costruendo a poco a poco.


Sono felice dunque di poter “tradurre” per voi, in un linguaggio semplice e sintetico, il risultato delle scoperte di tanti pionieri che hanno lavorato e lavorano quotidianamente nel campo perinatale, così da colmare la distanza che di solito esiste tra mondo accademico e grande pubblico: il mio desiderio è anche di offrire ai genitori informazioni aggiornate, scientificamente corrette, che possano aiutarli a comprendere sempre meglio i loro bambini e aiutarli a crescere secondo natura, o meglio secondo quel piano innato dell’essere che è presente in ognuno di noi e che attende solo di essere realizzato e di giungere a compimento.


Sembra che la Vita abbia complottato per farmi ricevere le risorse necessarie alla stesura di questo capitolo: quando l’editrice me l’ha proposto avevo solo un’idea confusa di cosa vi avrei scritto, ma poi in maniera sincronica mi sono arrivate una dietro l’altra tutte le indicazioni necessarie, sotto forma di articoli e libri che sembravano saltar fuori magicamente dalle mie navigazioni sul web… Ho compreso così che era arrivato il momento di lasciarmi andare al flusso e ricapitolare anche questa parte della mia vita, restituendo il mio personale trauma di nascita trasformato in dono per altri. Le parole sono arrivate da sole…


Sono solita scrivere i miei libri con un sottofondo di musica: in questo caso sappiate che sono state le canzoni di Plum Village (la comunità francese del monaco vietnamita Thich Naht Han) a fare da sfondo a quanto vi accingete a leggere. Credo che non ci sarebbero state parole più adatte di quelle di I’m free e Happiness is here and now per costituire l’ordito di questa tela che mi accingevo a tessere: mentre le ascoltavo mi sono resa conto che sottolineavano il compimento di un percorso a cui ognuno di noi può giungere, non importa quanto traumatizzante sia la storia da lui vissuta. La Vita ci dona sempre un’altra possibilità.


E ora, amici miei, allacciatevi le cinture di sicurezza e preparatevi a partire per uno straordinario viaggio intergalattico: il grande viaggio della Vita…

Il grande viaggio della vita: la nostra prima storia d’amore…

Il mondo cambia se due si guardano e si riconoscono.

Octavio Paz


C’era una volta… La nostra vita prima della nascita ha tutto il sapore di una fiaba e, proprio come in genere succede nelle fiabe, inizia con un viaggio: un viaggio archetipico che riassume tutti gli altri che faremo in seguito, un viaggio eroico che presenta prove da superare, mostri da affrontare, cicli di morte e di rinascita, trasformazioni magiche, innamoramenti e abbandoni…


Come ci ricorda Appleton, la vita prenatale in realtà è un’esperienza selvaggia, come lo è tutto ciò che è naturale, e proprio per questo anche altamente formativa: ci fa incontrare e vivere delle matrici di esperienze che danno forma a tutte quelle che verranno dopo.

La vita prenatale fa da ponte tra il passato e il futuro: contiene il bagaglio della nostra eredità e le potenzialità della nostra vita a venire. Come scrive Karlton Terry “è il ponte tra l’inconscio collettivo e l’esperienza umana”[1].


È quindi un momento veramente magico…

Ed è anche la nostra prima storia d’amore, prototipo di tutte le altre che vivremo in seguito. Eh sì, perché il grande viaggio della Vita inizia con un incontro: quello tra un ovulo e uno spermatozoo…


Già questo la dice lunga: non c’è vita senza alterità… È nella dualità che risiede la creazione. Ma perché l’incontro avvenga bisogna partire e mettersi in viaggio, bisogna essere disponibili ad affrontare l’avventura…


Il fatto più sorprendente però è che l’origine della vita sta nell’incontro non solo di due semplici cellule ma di due coscienze!


Questa straordinaria scoperta ha rivoluzionato il mondo della scienza e ha dato vita a un nuovo paradigma, che vede l’inizio della vita non più come un evento casuale ma come una manifestazione della Coscienza (intesa come insieme di emozioni, pensiero e Spirito) che si incarna: “In principio era il Verbo e il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi[2].

Questo nuovo modello si basa su decenni di ricerca e lavoro clinico esperienziale.


Attraverso esperimenti, come quelli di Cleve Backster effettuati con un poligrafo, si è potuto dimostrare che le cellule posseggono una coscienza e una memoria: si è visto per esempio che una foglia di una pianta reagiva al solo pensiero dello sperimentatore di mettervi sopra una fiamma oppure le cellule della guancia di un uomo, poste in una placca di Petra, reagivano addirittura a distanza a ciò che stava accadendo in quel momento al suo proprietario. Famoso poi è l’esperimento della pianta, testimone della distruzione di una sua “consorella”, che ha riconosciuto il colpevole dell’atto vandalico: quando l’uomo che aveva danneggiato la pianta vicina è entrato nella stanza la “testimone” ha iniziato a vibrare alla frequenza tipica del terrore, come ha potuto dimostrare la registrazione effettuata con il poligrafo.


Le cellule quindi ricordano, hanno una memoria che è veicolata dall’acqua (è il principio alla base dell’omeopatia). Le informazioni sono contenute nei fluidi e da essi veicolate. Pensiamo al feto immerso nel liquido amniotico, in un bagno di memoria…

Ogni cellula del nostro corpo è consapevole. Oggi sappiamo, grazie a recenti ricerche nel campo della neurofisiologia, che i ricordi sono conservati in tutto il corpo e non solo nel cervello come si pensava un tempo. Ancora più precisamente potremmo dire che “la memoria risiede a livello del recettore”[3], come ha scoperto il dottor Eric R. Kandel, un neurobiologo della Columbia University che per questo ha ricevuto il Premio Nobel per la Medicina nel 2000.


Non solo, come scrive il biologo molecolare Bruce Lipton, “Le singole cellule sono anche capaci di imparare attraverso le esperienze vissute nell’ambiente e sono capaci di creare memorie cellulari che trasmettono alla loro prole”[4].

All’inizio dunque, nel grande vuoto della Quiete dinamica, vi è la Coscienza, quella con la C maiuscola, che incontra la coscienza delle singole cellule e da lì ha inizio il grande Viaggio della Vita…


Come afferma Arthur Janov, una coscienza arcaica incomincia già con la prima cellula, per cui si può a buona ragione parlare di “coscienza cellulare”. La cellula, ogni cellula, è in grado di conservare le informazioni, di reagire ad esse e di evitare stimoli nocivi. Quando miliardi di cellule si uniscono la coscienza diventa solo più complessa e intricata. Questa è una scoperta rivoluzionaria perché cambia totalmente la prospettiva: ciò significa che le nostre cellule portano memoria di ogni tappa della nostra storia, fin da quando eravamo uno spermatozoo o un ovulo. Può sembrare sconcertante ma è proprio così… Le conseguenze di questo nuovo paradigma sono, come si può ben immaginare, di enorme portata.


Ma cerchiamo di conoscere un po’ più da vicino i nostri eroi, protagonisti del grande viaggio: la cellula uovo è 100.000 volte più grande dello spermatozoo, è la cellula più grande del corpo umano. Quando è matura ha le dimensioni di un granello di sabbia, quindi è visibile a occhio nudo. Come ci ricorda l’embriologo Jaap van der Wal, presenta alcune caratteristiche del tutto uniche tra le cellule: è perfettamente sferica, tonda e fluida, come una palla. Inoltre è aperta e vulnerabile, cioè interagisce e comunica intensamente con il suo ambiente ed è molto sensibile alle influenze nocive di quest’ultimo.


Diversamente dagli spermatozoi, è una cellula solitaria: cresce nelle ovaie insieme alle sue sorelle ma ognuna di esse sta in una cavità chiamata follicolo, separata dalle altre, ed è circondata da una membrana pellucida, che ha una funzione di sostegno. Al momento dell’ovulazione una sola cellula uovo viene prescelta ed espulsa: “Chi è la più bella del reame?”. Ecco qui che per la prima volta nella nostra storia emerge il tema della competizione… Sarò io la preferita?… Un tema tipico e ricorrente nella vita di una donna. Lasciare l’ovaio è un’esperienza non facile, perché significa abbandonare le proprie compagne e partire per un viaggio verso l’ignoto con il rischio di morire per strada… Come sostegno la cellula uovo possiede una membrana pellucida che la circonda e da cui si sente protetta.


Se la cellula uovo è fortunata, incontra uno spermatozoo. Anche lui ha dovuto separarsi dai suoi compagni d’armi con cui ha sempre vissuto… A differenza della cellula uovo lo spermatozoo è piccolo e a forma di raggio e non è mai solo: basti pensare che l’uomo produce 10.000 spermatozoi al secondo, quindi 3 milioni al giorno e questi riposano e vivono tutti insieme nell’epididimo. Sono formati da tre parti: testa, mitocondri (una specie di batteria energetica) e coda. Al momento dell’eiaculazione c’è una sorta di esodo di massa: inizia un viaggio totalmente imprevedibile e ad alta velocità. Quando gli spermatozoi arrivano nella vulva della donna incomincia la battaglia perché le condizioni climatiche sono per loro avverse: fa caldo e c’è molta acidità. Gli spermatozoi vengono attaccati dai globuli bianchi e il 25% muore dopo venti minuti: un massacro. Il 75% dei sopravvissuti va verso l’ovulo. Non sono in competizione tra loro come spesso si pensa ma collaborano l’uno con l’altro come bravi “camerati”: usano i loro corpo per costruire ponti e nuotare a turno uno sull’altro. Nuotano per l’equivalente di centinaia di chilometri!


Da 5 a 50 spermatozoi arrivano all’ovulo, nel terzo superiore della tuba uterina ma solo uno avrà successo (anche se poi morirà perché bisogna morire affinché la vita continui). Quando lo spermatozoo si avvicina all’ovulo c’è una forte attrazione chimica elettrica, come una forza magnetica (un po’ come succede nell’innamoramento) che scatena una vera e propria danza di corteggiamento… Viene chiamato “complesso di attrazione pre-concezionale”. Lo spermatozoo strofina la testa contro l’ovulo, si disfa il cappuccio, chiamato acrosoma, si perde la coda e il nostro eroe viene risucchiato all’interno della cellula-uovo come da una forza irresistibile. Perché tutto ciò avvenga lo spermatozoo deve attraversare vari strati, un po’ come il principe per raggiungere il castello della Bella addormentata…

“Se le circostanze e le condizioni in un dato momento e in un dato luogo sono appropriate, solo allora può aver luogo la fusione delle membrane e il contenuto della cellula spermatica può penetrare nella cellula-uovo. La continuità della cellula-ovulo però non viene mai interrotta o spezzata!”[5]. Secondo Jaap van der Wal “L’immagine comune e in qualche modo aggressiva dello spermatozoo che penetra la cellula-uovo non è corretta! Nel processo di attrazione pre-concepimento non esiste la questione di un partner attivo di fronte a un partner passivo, né di uno che penetra di fronte a uno che viene penetrato, né di uno che feconda contro quello che è fecondato. Al contrario, le cellule e le proprietà delle cellule sono equivalenti, mentre si mantiene un sottile equilibrio di scambio e di interazione.”[6]


Una volta che la cellula spermatica è entrata dentro la cellula-uovo la membrana dell’ovulo diventa impermeabile come una sorta di barriera e nessun altro spermatozoo riesce più a penetrare. A questo punto avviene la fecondazione, ovverossia lo scambio di informazioni genetiche tra spermatozoo e ovulo, e nasce una nuova entità: lo zigote. Il concepimento è avvenuto e con esso anche l’incontro tra spirito e materia.


Ecco come lo descrive van der Wal: “Le due cellule si appartengono, si completano reciprocamente”[7]. “Il concepimento è un momento il cui tema è la congiunzione e la connessione. …Ciò che prima era separato si unisce, si incontra. …In quel preciso istante in cui io ero te e tu eri me (come dice il poeta), l’Altro può trovare l’occasione e le condizioni per giungere qua giù, per materializzarsi. Non a causa del concepimento, ma grazie ad esso. Qui il punto centrale dell’esperienza è non solo un concepimento orizzontale – cioè quello al livello materiale, fisico, della realtà di cellule, nuclei, biologia, fusione di due gameti – ma anche una connessione o un incontro verticale tra un Qui e un Là, tra spirito e materia…”. “Durante il complesso di attrazione pre-concezionale le relazioni biologiche si sollevano a un livello superiore di energia. Sono quelle le circostanze che offrono la condizione favorevole a che un principio immateriale non-biologico entri in contatto e si connetta con la matrice biologica. …È un atto di incarnazione. …Ogni concepimento umano è una questione a Tre, una terza persona è presente”[8].

Non si tratta quindi di costruire un bambino ma di accoglierlo, perché lui è un Altro che giunge da lontano e che cerca un posto dove “atterrare”… Una scintilla di Luce permea la materia e l’“Altro” nasce.


La qualità di questo evento decisamente sacro è dunque strettamente legata alla qualità dell’atmosfera in cui è avvenuta l’unione tra i due genitori. Le sensazioni relative al concepimento dipendono da cosa è successo tra la madre e il padre nel momento dell’amplesso: possono essere di estrema gioia, addirittura di estasi, ma anche di attacco violento se così la donna ha vissuto il rapporto sessuale.


Nella cultura tibetana si ritiene che l’anima del bambino che verrà concepito sia attratta dalla specifica qualità energetica dei futuri genitori e pertanto si raccomanda che essi meditino sull’amore, la compassione, la gentilezza e la consapevolezza ed evitino ogni sentimento di rabbia, gelosia e aggressività.


Secondo i Veda, gli antichi testi sacri indiani, l’ambiente più propizio alla fecondazione è fatto di bellezza, amore e armonia.


C’è da chiedersi cosa succeda in una fecondazione in vitro… Ciò che risulta evidente in quest’ultima, in quanto documentato, è che la cellula-uovo, al momento dell’iniezione di sperma, si ritrae scompostamente dall’ago come da un’indebita e violenta intrusione.


La cellula-uovo fecondata presto si divide in più cellule formando una morula. La sua sopravvivenza dipende dal nutrimento secreto dall’utero a base di zucchero e proteine: è il nostro primo latte! La sua qualità è influenzata dalle sostanze ingerite dalla madre: se questa fuma e beve alcool non avrà certo un buon sapore e sarà più tossico che nutriente…


Il viaggio del nostro eroe però non è ancora finito. Lo attende un tortuoso percorso dentro allo stretto tunnel delle tube uterine e poi un vertiginoso salto dall’alto, una sorta di bungee jumping, che può essere vissuto come un’esperienza estatica ed eccitante o, al contrario, spaventosa e terrorizzante. Dopo circa 7-14 giorni dal concepimento la cellula-uovo fecondata, che ora si chiama blastocisti, cade nell’utero dove si impianta, cioè mette radici nella parete uterina, dopo aver perso la membrana pellucida e il senso di sicurezza che essa rappresentava. Questo è un momento molto importante e di grande vulnerabilità nella nostra storia personale di cui le nostre cellule serbano memoria. Quando per esempio un bambino preme ripetutamente la fronte contro il nostro corpo ci parla della sua fase di annidamento.


Solo un 25% delle cellule fecondate riesce a impiantarsi, quindi si tratta di un processo difficile, che può comportare sensazioni di inedia e di morte.


Ecco come Terry Karlton, uno dei maestri della terapia craniosacrale, descrive questo processo:

“Per prima cosa dobbiamo considerare che, dal punto di vista delle biologia cellulare, in modo specifico dell’embriologia, l’impianto è un miracolo. Vale a dire che l’impianto è un fenomeno non pienamente compreso a livello chimico e molecolare; è una transizione biologica che in teoria non dovrebbe accadere affatto. Il sistema immunitario materno dovrebbe essere ostile alla blastocisti umana, riconoscendola come un invasore e dovrebbe distruggerla perché contiene il genoma paterno. Il nostro sito d’impianto è la nostra prima casa, e il compito dell’impianto può essere paragonato a stabilire un sito di ordine e sicurezza nella natura selvaggia dell’utero.


Il grande business nella nostra epoca della fertilizzazione in vitro è in grande espansione non solo perché è difficile concepire ma soprattutto perché è difficile impiantarsi.

…Gli effetti dell’esperienza dell’impianto sono rilevanti per il futuro dell’essere umano, del suo comportamento, delle sue reazioni e interazioni.”[9]


Secondo Emerson, prima e durante l’impianto si possono provare sensazioni di pre-morte, di non essere voluti, di non avere un posto dove andare, a cui appartenere, e di conseguenza si può instaurare la credenza che il mondo è un posto ostile e pericoloso, che si ha bisogno di essere soccorsi o di soccorrere gli altri.


La blastocisti scava nei tessuti uterini e si nutre del sangue materno per sopravvivere: le sue cellule cominciano a fondersi con quelle materne. “La blastocisti e l’endometrio reagiscono l’uno all’altro creando un sinciziotrofoblasto, cioè un’area di spazio fisico condiviso dove la blastocisti e il corpo della madre sono interconnessi. Quando l’impianto è completato con successo il chorion, la placenta e il cordone iniziano a formarsi.”[10]

Si comincia ad avere informazioni su quella che per nove mesi sarà la nostra casa: il grembo materno.


Come ci diceva Matthew Appleton “Nell’annidamento c’è il primo assaggio della mamma: sentiamo il suo sapore per la prima volta”.

Architettura del grembo

Io non pretendo il mondo intero, vorrei soltanto un luogo, un posto più sincero dove un bel giorno magari molto presto io finalmente possa dire: questo è il mio posto.

Giorgio Gaber


Per stare al mondo occorre avere un posto: il senso di appartenenza è fondamentale per un essere umano ed è strettamente legato al possedere una terra, una casa, un luogo “dove poggiare il capo”. La scintilla di Luce per incarnarsi deve incontrare la materia, l’Anima per scendere deve trovare una pista di atterraggio, proprio come un aereo…

“Il corpo della mamma è il nostro primo ambiente esterno e lei è il primo essere umano con cui abbiamo un contatto diretto”[11]; ecco perché la relazione con la madre è il prototipo di tutte le altre nostre relazioni.

La prima casa per il bambino è dunque il ventre materno e, proprio come una casa, anche il grembo ha una sua architettura e può essere più o meno accogliente, più o meno comodo e il soggiorno al suo interno più o meno piacevole, ma è sempre funzionale alle esperienze che un individuo è chiamato a vivere… Quindi che le mamme non si sentano in colpa quando leggeranno quanto segue e soprattutto sappiano che quando si è consapevoli del proprio stato è sempre possibile modificare il vissuto del bambino che si porta in grembo parlandogli e spiegandogli quello che sta succedendo. La vita a volte ci scaraventa addosso traumi imprevisti, situazioni dolorose che ci tocca attraversare in momenti delicati, come quello della gravidanza, e che non possiamo evitare ma ci offre anche gli strumenti per affrontarli nel modo migliore possibile.


Sono stati individuati diversi tipi di grembo, e a volte si può sperimentarne un mix, una combinazione di più tipi con sfumature diverse. Ecco quelli principali:



Grembo lussureggiante: è quello tipico di una madre emotivamente equilibrata, rilassata, che si nutre bene, ha delle buone risorse, i cui tessuti sono energeticamente molto vivi e recettivi. È una donna che gode della sua sessualità, che è pronta per avere un bambino e lo desidera profondamente. Questo è il tipo di grembo ottimale per il feto.


Grembo arido: qui il bambino ha la sensazione di essere atterrato in un deserto: non c’è molto nutrimento ma molto stress e tanta ansia. È il caso per esempio di una madre che non vuole un figlio. Può anche trattarsi di un utero vecchio o con problemi di salute.


Grembo frigido: il bambino ha la sensazione di trovarsi in mezzo al ghiaccio… La madre è emotivamente fredda, rigida, molto razionale, poco espansiva, fa fatica a esprimere le emozioni, ha un atteggiamento negativo verso il corpo e la sessualità. Il bambino non si sente accolto, vive una sensazione di precarietà.


Grembo divorante: può essere superficialmente molto simile al grembo lussureggiante ma, sebbene ci sia la sensazione di essere voluti, sotto sotto si avverte il desiderio della madre di avere un bambino per se stessa. Il feto ha la sensazione di essere divorato dai bisogni della madre e che non ci sia spazio per lui: “Non c’è posto per me”. Il bambino vive quindi un conflitto che lo confonde: da una parte è stato molto voluto, dall’altra non è stato accolto.


Grembo tossico: la tossicità può essere di provenienza ambientale (fumo, droga, farmaci, inquinanti ambientali) o emozionale, dovuta per esempio a una madre che trattiene dentro di sé emozioni molto negative. Le conseguenze nella vita adulta possono poi essere una visione alterata della sessualità vissuta come “sporca”, una attrazione per ambienti tossici o al contrario la ricerca della purezza assoluta e il rifiuto di tutto ciò che non lo è (e si può per esempio diventare un venditore di prodotti ecologici per la casa).


Grembo sepolcrale: qui il bambino ha la sensazione di vivere dentro un sepolcro, insieme a dei fantasmi. È il caso in cui la madre rivive un precedente lutto, un aborto, oppure si verifica la perdita di un gemello. Il feto sopravvissuto è letteralmente immerso in un bagno di morte. Il bambino non può sottrarsi a questa situazione, a cui si deve adattare come un prigioniero in cella: “Sono qui al posto di qualcun altro, che era quello veramente voluto, non c’è spazio per me”. Il bambino per crescere e sentirsi al sicuro ha bisogno di Luce, che gli rammenti la connessione col Divino, ma un utero in lutto è buio e scuro, come se una nuvola nera lo occupasse interamente.


Ecco come personalmente ho rivissuto questa esperienza durante una sessione di terapia craniosacrale:

Ero su un’amaca e mi dondolavo beata quando all’improvviso tutto ha cominciato a ruotare e l’amaca a vorticare velocissimamente fino a lanciarmi fuori. Non c’era più posto per me, qualcun altro lo aveva occupato: ora c’erano due bambini-fantasmi sulla mia amaca. Avevano piantato una bandiera bianca rossa e verde come a dire “Questa è casa nostra!”. Io non sapevo dove andare, mi sono raggomitolata in un cantuccio al buio. Ero disperata. (A questo punto della sessione la terapeuta mi ha suggerito di cercare una risorsa) Non sapevo come fare. Poi però a un certo punto mi sono illuminata, sono diventata tutta luminosa, e mi son detta “Io sono Luce!” e mi sono creata una specie di bozzolo in un angolo dell’utero. Stringevo in mano una bandiera azzurra con disegnate sopra la luna e le stelle.


Non sempre dunque il soggiorno uterino viene vissuto come “nove mesi in Paradiso”…


A volte c’è la voglia di scappare il prima possibile da un ambiente che non è quello che ci si era aspettati di trovare e così si nasce prematuri…


Quando, per il bambino, la sensazione è che non ci sia stato posto per lui nel grembo, ad esempio perché quest’ultimo era abitato da fantasmi del passato materno, si forma la credenza che non ci sia posto per lui nemmeno nel mondo. E la sua vita sarà una continua ricerca di un luogo da poter chiamare “casa”…

Ma, come era solito sottolineare Appleton, in realtà sono poche le gravidanze totalmente prive di esperienze negative e inoltre “Se il grembo fosse un ambiente ideale non saremmo in grado di reagire alla negatività”. Come dire che le difficoltà ci forgiano e ci rafforzano fin dall’inizio. Quindi bando allo scoraggiamento: in ogni ostacolo c’è sempre un dono nascosto e in ogni problema un’occasione di crescita. Lo psicologo Haidt parla proprio di “crescita post-traumatica” per indicare lo sviluppo al massimo livello delle nostre forze in seguito ai traumi e alle avversità della vita e cita a questo proposito le parole del filosofo cinese Meng-tzu: “Quando il cielo sta per conferire a qualcuno una grande responsabilità, eserciterà prima la sua mente con la sofferenza, assoggetterà i suoi nervi e le sue ossa a un duro lavoro, esporrà il suo corpo alla fame, lo renderà povero, porrà ostacoli sulla strada delle sue imprese, per stimolare la sua mente, rafforzare la sua natura e farlo migliorare là dove non è ancora competente”[12]. Devo dire che quando ho letto questo passo, citato da Piero Ferrucci nel suo ultimo libro La nuova volontà, ho tirato un sospiro di sollievo… Quando si trova un senso a ciò che ci accade allora si riesce anche ad accettarlo con rinnovata fiducia.

L’embrione, questo sconosciuto…

L’embrione non acquista un’anima, è un’anima.

J.O. de La Mettrie


“Due essenze si abbracciano, lo Spirito appare”[13]: così nel Lingshu, un antico testo cinese di embriologia, viene descritto il momento del concepimento. Attraverso la Porta del Destino il soffio del Cielo si unisce a quello della Terra e nasce l’Uomo. Ogni essere che viene al mondo è dunque, fin dall’inizio, ben altro che un ammasso di cellule…


“L’embrione primitivo presenta un’originalità e un’individualità fin dal momento del concepimento”[14], ci ricorda Shea, e l’embriologo Blechschmidt aggiunge: “L’uomo non diventa uomo; è uomo e si comporta come tale fin dal primo inizio e in ogni fase dello sviluppo dal momento del concepimento in poi”[15].

Dopo un certo numero di divisioni della cellula primordiale si delimita una cavità che presto si divide in due: il sacco vitellino, che ha la funzione di nutrire l’embrione, e la cavità amniotica che ha lo scopo di proteggerlo. Al confine tra le due, sulla soglia tra due spazi vuoti, si sviluppa l’embrione. Alla seconda settimana di gestazione è come un disco che cresce a partire da una tasca. Sospeso tra Terra e Cielo, nutrito dalla prima, protetto dal secondo… Una posizione che manterrà per tutta la vita, nel tentativo di creare un collegamento tra le due dimensioni, quella verticale e quella orizzontale, e portare il Divino nel mondo della materia. Questa è, e sarà per sempre, la sua croce che è chiamato a trasformare in arco…

“Il lavoro dell’embrione è estremamente pesante nella fase iniziale della crescita”[16]; basti pensare che affinché un embrione diventi feto, e quindi completi gli apparati essenziali di tutti i sistemi organici, deve attraversare ben 23 stadi di sviluppo anatomico! E solo il 35% degli embrioni riesce a farlo: tutti gli altri si perdono per strada… Il tasso di mortalità negli embrioni umani è più alto che in qualsiasi altra specie di mammiferi.


Gli studi embriologici confermano l’intuizione di Maria Montessori sullo sviluppo come successione di nascite: a ogni stadio “l’embrione subisce una metamorfosi e si sviluppa in qualcosa di nuovo. La forma creata in uno stadio letteralmente muore e una nuova forma viene creata nello stadio successivo. Ogni stadio è completo e genera quello successivo. Tutto l’insieme, l’unità, precede le parti”[17]; così come la funzione precede la struttura.


“Il processo embriologico è come la costruzione di una casa di pietra. Ogni sasso rappresenta uno stimolo e un evento e ogni pietra nelle fondamenta o nelle pareti ha un effetto sull’intero sistema, che risulta in una forma. Ogni evento ha una conseguenza e perciò ogni evento spinge il sistema in una direzione. Tutti i successivi strati di pietra sono orientati da e costruiti sui loro predecessori.”[18]


È come se l’embrione si sviluppasse orientandosi intorno a linee di forza verticali che lo modellano. Sono come correnti energetiche conduttrici: l’agopuntura le chiama “meridiani”, la prospettiva craniosacrale parla invece di “forze biodinamiche della Respirazione primaria” e distingue una Marea lunga e una Marea media.


In ogni caso il processo è identico: all’inizio c’è il Vuoto, il Grande Mistero, da cui nasce una potenzialità che si incarna e si materializza attraverso il flusso dei fluidi corporei. Questa potenzialità o intenzione nel linguaggio craniosacrale viene chiamata “Quiete Dinamica”. Come dice Boxhall: “La Quiete è il grembo della creazione”[19].

Il Respiro della Vita invece è quella dimensione spirituale che è sempre presente in ogni individuo, anche se egli ne è inconsapevole, e che rappresenta la vera forza di guarigione per ogni essere umano. Si tratta di una vera e propria “esperienza numinosa” che contiene in sé la salute immutabile e agisce dall’interno verso l’esterno per riportare l’armonia e l’equilibrio che non sono andati perduti ma solo dimenticati…


Ma torniamo al nostro eroe – l’embrione – che, come un piccolo Kirikù, è capace di compiere imprese straordinarie, veri e propri miracoli, creando man mano organi e tessuti.


Il primo a comparire, già alla fine della terza settimana di gestazione, è il cuore, che la medicina tradizionale cinese chiama l’Imperatore, e che proprio come questo, vive isolato nel suo palazzo… L’embrione infatti ha il cuore esterno, che si sviluppa come una protuberanza fuori dal corpo ed è quindi anche molto esposto agli stimoli esterni e alle emozioni che gli arrivano.


Il cordone ombelicale in questa fase è molto grande rispetto alla massa corporea: questo perché è il periodo in cui l’embrione inizia a sviluppare gli organi e per farlo ha bisogno di molto sangue, ma ciò lo rende anche molto vulnerabile a tutte le impressioni e le tossine chimiche ed emotive che gli giungono attraverso la circolazione placentare. È il periodo più delicato della gestazione, quello in cui, in caso di tossicità, i danni all’organo in formazione sono più gravi. Pensiamo solo ai danni provocati negli anni ’60 dall’uso di un farmaco antinausea come il talidomide…


Secondo un antico testo sanscrito di medicina ayurvedica, la Caraka Samhita, è attraverso gli odori, i sapori, le forme, i colori e i suoni che si effettua lo sviluppo dell’embrione e poi del feto nell’utero.


Personalmente trovo affascinante l’usanza delle madri indiane, raccontata da Emerson, di cantare dei mantra dal significato diverso a seconda del periodo di gestazione: nel primo trimestre le donne cantano “So” che significa “Io” e meditano su questo come per stimolare la “pura esistenza” dell’embrione. Nel secondo trimestre il mantra diventa “So ham” cioè “Io sono” così da favorire la consapevolezza del proprio essere. Nel terzo trimestre al predicato nominale si aggiunge l’oggetto: “Io sono un bambino/io sono una bambina”.


La terza settimana di gestazione è anche in genere il momento in cui i genitori si accorgono che c’è un bambino in arrivo e anche la qualità di questo momento – che può essere vissuto con grande gioia ma anche con ansia – lascia un’impronta nell’embrione: la domanda che rimane in noi è: “com’è per me essere visto?”. Chi ha problemi, per esempio, a mettersi in primo piano, a stare in mezzo a un gruppo, a salire su un palcoscenico può avere avuto difficoltà in questa fase della sua vita prenatale. Ecco perché è importante in quel momento far sapere al bambino quanto siamo felici che lui ci sia.


Emerson racconta che quando le persone, durante regressioni alla vita prenatale, scoprono di non essere stati voluti, immediatamente comprendono che gli episodi di depressione, aggressività o autosabotaggio della loro vita sono una diretta espressione del rifiuto prenatale. Affermano di fidarsi solo di se stesse e di aver speso la loro vita nel cercare di negare o di trovare quell’amore e quell’accettazione che non avevano ricevuto come embrioni. I sentimenti più comuni riportati sono di disperazione, impotenza, rabbia nei confronti degli altri e del mondo, rifiuto di impegnarsi nella vita.


Lo stadio della scoperta viene ricapitolato al momento dell’uscita dall’utero, quando il bambino vive l’esperienza di essere visto di nuovo, di essere accolto dai familiari e da chi gli sta vicino.


Il neonato e il lattante ci parleranno del momento della scoperta quando, attraverso il linguaggio corporeo, metteranno la loro manina nella zona del cuore.


Il chakra del cuore, secondo la Cabbalah ebraica, corrisponde alla lettera “kaf” ed è correlato al palmo della mano, che accarezza e contiene. La sua iniziale, K, è anche la prima lettera della parola corona, che designa il 7° chakra, il cui significato è “Casa”. Come a dire che c’è una stretta correlazione tra questi due elementi: ci si può sentire a casa solo quando c’è spazio per noi nel cuore di qualcuno… E quel qualcuno per l’embrione è la madre che, a sua volta, è il riflesso di un’Altra Presenza che ci accompagnerà per tutta la vita, tenendoci sempre nel palmo della sua mano…

Il grembo dello Spirito

L’origine dei bambini ha luogo quando sono pensati.

D.W. Winnicot


Per molto tempo si è guardato all’embrione e al feto come ad esseri totalmente privi di consapevolezza e ancora questa spesso è la visione che ne ha la maggior parte delle persone con cui veniamo in contatto. Eppure la ricerca in questi ultimi vent’anni ha dimostrato esattamente il contrario: “Le esperienze prenatali possono essere ricordate e hanno un impatto che dura per tutta la vita”[20], scrive William Emerson e cita alcune testimonianze in proposito veramente toccanti.


Nel 1995 per esempio David Chamberlain ha documentato attraverso un filmato la reazione di un feto all’amniocentesi: il bambino si girava verso l’ago e cercava di allontanarlo con la mano. Ripetuta l’inserzione la reazione è stata identica. In un altro caso[21] è stato studiato il comportamento di due gemelli, uno dei quali si dimostrava aggressivo nei confronti dell’altro. Quando il maschio attaccava la sorellina, questa si ritirava e poggiava la testa sulla placenta. Una volta nati, a quattro anni di età, i due gemelli dimostrarono lo stesso tipo di relazione: quando il fratellino picchiava la sorella lei se ne andava in camera sua e poggiava la testa sul suo cuscino, che usava come una sorta di coperta di Linus nei momenti di ansia e tensione.


Come può l’embrione ricordare se il sistema nervoso è ancora rudimentale e non è ancora mielinizzato? Ci si è accorti, attraverso i tanti casi di regressioni e spontanei ricordi di vita prenatale, che la memoria è insita già a livello cellulare, come abbiamo avuto modo di spiegare parlando del concepimento. Tutto quello che avviene a livello cellulare rimane impresso a livello corporeo e noi ne serbiamo il ricordo, pur senza esserne consapevoli, per il resto della nostra vita.


Come scrive Candace Pert, “la consapevolezza è una proprietà dell’intero organismo”[22] in quanto esiste una rete intercellulare, che lei ha chiamato “rete psicosomatica”, che comunica senza parole grazie alle molecole di emozioni informazionali. Il cervello è dunque solo un punto nodale d’ingresso in questa rete psicosomatica che ha molti altri punti nodali tra cui il midollo spinale e gli organi di senso.

Pensiamo per esempio alla pelle: nell’embrione è già sviluppata alla fine dell’ottava settimana di gestazione e si è scoperto recentemente che contiene delle fibre speciali, chiamate fibre C, che trasmettono impulsi attraverso percorsi diversi da quelli standard delle vie nervose fissando nella memoria cellulare ricordi piacevoli gratificanti, indispensabili per una crescita ottimale dell’embrione. Non per nulla vengono chiamate anche “fibre della tenerezza e dell’affettività”… Sono proprio queste le fibre che permettono a persone con lesioni midollari di riuscire a provare ugualmente il sottile piacere di una carezza, accendendo l’emozione della tattilità affettiva.

È sempre grazie a queste fibre che il feto riesce a percepire il suono e la musica attraverso la pelle della mamma: come afferma il filosofo Umberto Galimberti, “la musica si sente sul corpo come i baci e le carezze. Non si ascolta solo con le orecchie. È il corpo intero che vibra”[23].


La memoria dei vissuti prenatali e di nascita è particolarmente intensa se essi vengono rinforzati da altri successivi eventi traumatici dello stesso genere (specialmente in periodi di transizione come l’adolescenza, o in occasione di eventi come un nuovo lavoro o nuove relazioni o la nascita di un figlio) in quanto i traumi si vengono a sovrapporre l’uno sull’altro, un po’ come fanno le bamboline di legno delle matrioske russe.


Per esempio un bambino che si è incastrato durante il parto sarà più toccato da esperienze di intrappolamento – fisiche ed emotive – che vivrà con maggiore intensità rispetto agli altri bambini e che in qualche modo si attirerà inconsciamente come per rivivere l’antico trauma della nascita. Così come un feto che ha vissuto in utero la morte di un gemello più facilmente sperimenterà nella sua vita l’abbandono improvviso da parte di persone amate.


Questo fenomeno è chiamato “ricapitolazione” e ne parleremo meglio a proposito della riprogrammazione o repatterning. In poche parole “le esperienze prenatali modellano il modo in cui le successive esperienze della vita vengono percepite”[24].

Si è visto inoltre, come evidenzia sempre Emerson, che la modalità di vita prenatale influenza la modalità del parto: se il bambino in utero ha vissuto l’esperienza di un tentato aborto vivrà il processo del parto come annichilente; se al momento dell’impianto ha sperimentato una condizione simile alla morte la proverà di nuovo al momento della nascita, così come i feti che hanno vissuto esperienze invasive e violente durante la vita prenatale, vivranno, rispetto ad altri bambini, le manovre di un parto medicalizzato come estremamente aggressive, anche se non lo sono nell’intento degli operatori: gli aghi dell’amniocentesi vengono percepiti come strumenti aggressivi da rifiutare; i farmaci per l’anestesia come veleni che tolgono forza; le induzioni e le manovre per rompere le acque come violazioni dei confini; il forcipe e la ventosa come tentativi di controllare e annientare.
I bambini sperimentano cioè il processo della nascita in base ai precedenti traumi vissuti nel periodo prenatale. Quindi, come afferma Emerson, “la nascita può essere molto traumatica semplicemente sulla base della storia personale”[25]. Questo è un elemento importante di cui gli operatori, ginecologi e ostetriche, dovrebbero tenere conto per limitare al massimo gli interventi medici e per modificare il loro atteggiamento nei confronti dei neonati o dei bambini che stanno per nascere: chiedere loro il permesso e spiegare cosa stanno facendo, empatizzare con i loro traumi pregressi, dare la possibilità di esprimere le loro emozioni legittimandole sono passi essenziali per prevenire spiacevoli conseguenze a lungo termine.
Ma vediamo ora come avviene in specifico la trasmissione all’embrione e al feto dei vissuti materni all’interno di quello che Frank Lake ha definito il “Grembo dello Spirito”: l’utero (il cui ideogramma cinese rappresenta un involucro che avvolge e contiene il bambino) è non solo un contenitore fisico per l’embrione e il feto, ma un involucro spirituale all’interno del quale il bambino si sente connesso alla Totalità e da essa protetto.

La via del cordone è la via della condivisione

I rapporti di amicizia sono propri dell’ombelico.

Osho


“La via del cordone è la via della condivisione”: questa frase mi comparve una volta in un sogno e da allora è rimasta impressa nella mia memoria come fosse scolpita su pietra… Era un sogno che parlava di un affetto profondo e in effetti nella terapia craniosacrale biodinamica si parla di “affetti ombelicali”, termine ideato da Frank Lake per designare il flusso affettivo che scorre tra mamma e bambino attraverso il cordone ombelicale e quindi lo stato emozionale del feto causato dal sangue che lo raggiunge dalla vena ombelicale. Perché attraverso il cordone arrivano al bambino non soltanto i nutrienti in termini biologici o le sostanze tossiche (come gli additivi alimentari, il mercurio delle otturazioni dentali, le vernici, l’alcool, il fumo…) ma anche le emozioni materne e i “rifornimenti spirituali”, i “viveri per l’essere”, come li chiama Lake.

“Nell’utero – egli scrive – il nascituro non è differenziato dalla propria madre. Qualunque esperienza viva la madre durante la gravidanza, questa è vissuta anche dal nascituro che porta in grembo. L’esperienza del nascituro è l’esperienza della madre. L’esperienza prenatale fornisce la matrice per un livello fondamentale di imprinting che influenzerà il bambino per il resto della sua vita.”[26] Come se in lui rimanessero registrate delle impronte indelebili che verranno poi riattivate, come vedremo, in circostanze particolari. “Il figlio che si sviluppa nel grembo della madre è connesso alla madre attraverso l’ombelico. L’energia vitale della madre fluisce nel feto attraverso lo stesso ombelico. L’energia vitale della madre è un flusso di elettricità del tutto sconosciuto e misterioso…”[27]


A livello energetico dunque il bambino sente quello che sente la madre: ogni cellula del suo corpo entra in risonanza con l’esperienza della mamma, con cui lui si identifica.


Se la mamma è felice della gravidanza, che vive con gioia e accettazione, e si mette all’ascolto del suo bambino, il feto si sente accolto e amato e vive l’esperienza intrauterina come un vero e proprio Paradiso… Secondo Lake è come se la sua “lista della spesa” fisica, emotiva e spirituale fosse soddisfatta dalle speranze di un negozio materno ben rifornito. C’è un senso di “calore e felicità, perfino di una profonda beatitudine incarnata”[28]. La connessione ombelicale con la madre attraverso la placenta è totalmente soddisfacente. La comunicazione è improntata alla pace, alla tenerezza, all’amore. È naturalmente la situazione ideale.

Quando il flusso di affetto materno non è ideale ma sufficientemente buono, quando c’è una discrepanza tra bisogni del bambino e risposte adeguate della madre (come se uno chiedesse latte e ricevesse invece brodo) il feto reagisce affrontando la difficoltà e “facendosi i muscoli”.


Se la madre per esempio è stressata dal lavoro e continua a sostenere ritmi serrati come prima di rimanere incinta, comportandosi come se nulla fosse cambiato, il bambino si sente ignorato e non riconosciuto, ma cerca di far fronte alla situazione tirando fuori tutte le sue risorse.


Quando un feto costituzionalmente forte riceve un flusso affettivo ambivalente, che va e viene, da una madre debole e inadeguata (una madre “accasciata” come la definisce Pinkola Estès), accetta il fardello, spesso per tutta la vita, di fare tutto il possibile per prevenire e alleviare lo stress materno. Ciò comporta la negazione dell’appagamento dei propri bisogni. È il caso del “feto-terapeuta”. Per il resto della sua esistenza questa persona cercherà di risolvere i problemi degli altri credendo inconsciamente che così facendo potrà finalmente essere considerata e amata come avrebbe potuto esserlo se fosse riuscita a liberare la madre da ciò che la affliggeva. Naturalmente si tratta di un’illusione: in entrambi i casi i suoi sforzi sono destinati al fallimento. L’unica soluzione sarà prendersi cura di se stessa, dopo aver superato la rabbia di doverlo fare da sola e permettersi, in caso di necessità, di chiedere aiuto così da poter finalmente sperimentare la gioia di non sentirsi sola nel dolore…


Se la mamma vive forti emozioni negative di rifiuto, perché la gravidanza non era voluta o a causa di seri problemi con il partner, il bambino si sente invaso da “un flusso nero e amaro”. In altri casi la sensazione è descritta come “una nube tossica”.


Nei casi più gravi il feto desidera andarsene e ritornare là da dove è venuto e vive sospeso in una sorta di limbo, come se si fosse ritirato, per esempio tutto nella testa. Ecco una testimonianza a questo proposito:

Per farcela sono dovuta fuggire. Scappare lontano, in un mondo tutto mio. Troppo grande il carico che mi era stato buttato sulle spalle, troppo pesante da portare per la mia tenera età. Così mi sono aggrappata a una corda che Qualcuno mi ha gettato dall’alto e mi sono installata nel mondo di mezzo, a metà strada tra la terra e il cielo. Né di qua né di là, semplicemente sospesa in mezzo alle nuvole bianche. Lo sguardo rivolto verso l’alto, alla ricerca, disperata, di Luce. A lungo ho vissuto in quella terra di mezzo, terra di nessuno, completamente sola. Come unica compagnia me stessa. Solo chi è stato lassù può capire.


Il figlio di una mamma depressa, per via di un lutto avvenuto durante la gravidanza o anche precedente e non elaborato, vive in un grembo sepolcrale. Ancora peggio se la perdita riguarda un precedente bambino che lui o lei è venuto in qualche modo a sostituire: dovrà fare i conti per tutta la sua vita con un fantasma… Per essere amato come lui – pensa – l’unica possibilità sarebbe morire…


La depressione è come un muro. Il muro del pianto, su cui si può solo sbattere la testa. Una madre depressa è un monumento di dolore e non è facile viverci accanto. Una madre depressa è una mamma che ha la schiena girata, che non guarda il bambino ma ha lo sguardo fisso lontano, in un punto che si perde nel nulla. Un bambino che ha una mamma depressa vive una vita da fantasma perché se la mamma non lo vede e non gli parla a lui sembra di non esistere. Ma non solo. Succede di più: se la mamma non guarda il bambino questi si sente colpevole: “Cosa mai avrò fatto per non ricevere attenzione e amore?”, egli pensa e si sente cattivo e non meritevole di essere amato. E allora il bimbo cresce in un continuo sforzo di essere bravo, anzi bravissimo, il più bravo di tutti per catturare lo sguardo mancante della madre, per essere finalmente visto.


In realtà non è affatto una questione d’amore. La mamma depressa non è una mamma che non ama il suo bambino; è una mamma lontana, irraggiungibile perché guarda da un’altra parte, guarda la morte da cui si sente fortemente chiamata e il bambino per trovarla dovrebbe morire con lei, calarsi insieme a lei nel sepolcro. Cosa che a volte fa sviluppando anche lui un atteggiamento depressivo e un comportamento autodistruttivo. Ciò che avrebbe bisogno di sapere invece quel bambino è che se la mamma non lo guarda come lui desidererebbe non è perché non gli vuole bene ma solo perché ha un problema così grande che non riesce a vedere altro… E quindi non è lui ad avere qualcosa che non va, ma la madre: “Non sono io il problema – dovrebbe potersi dire – sono problemi suoi”. Ma è ancora troppo piccolo per farlo… Così reprime il vissuto troppo angoscioso, che riemergerà più avanti nel corso della sua vita in situazioni di perdita che glielo faranno rivivere riaccendendone il ricordo, e decide di farcela da solo. Per lui si tratta di una strategia di sopravvivenza. Allo stesso modo tenta di farsi amare e guardare mettendo in atto altre tattiche come “farsi piccolo piccolo, rispondere ai bisogni di coloro di cui cerca l’attenzione (negando i propri), diventare perfetto, sbrigarsi, essere forte, lavorare duramente per essere riconosciuto…

Tutte queste maschere amalgamate intorno al nucleo del dolore iniziale represso finiscono per modellare una personalità “ma queste strategie che sono state utili in un determinato momento della nostra vita diventano poi in seguito delle vere e proprie palle al piede che possono trascinarci in spirali di autodistruzione”[29] se non vengono riconosciute ed elaborate.

Le risposte allo stress materno variano comunque da bambino a bambino, sia in base alla costituzione e al carattere del piccolo – che potrà accettare passivamente una situazione rassegnandosi o cercare di opporvisi lavorando a più non posso –, sia in base alla durata e all’intensità dello stress.


Quando, come scrive Lake, da un punto di vista fisico le risorse materne sono carenti, il feto fa fatica a crescere e se cessano muore; ma quando le risorse emotivo-spirituali sono alterate o insufficienti ecco che compare un vero e proprio stato di panico e poi di terrore; se sono del tutto mancanti ne risulta uno stato di “non-essere”.


Come ci ricorda Appleton, se in utero il feto si è sentito totalmente sopraffatto, se le sue strategie di difesa non funzionano, non gli resta altro da fare che dissociarsi perché l’anima, quando si sente annullata dalla negatività, non può rimanere a lungo in un luogo così inospitale. Quel bambino rivivrà poi nella sua vita da adulto dei momenti di scissione, di dissociazione legati al suo shock primario.


Il problema principale che l’embrione e poi il feto si trova ad affrontare in utero è la solitudine: qualsiasi esperienza, anche fortemente traumatica, può essere affrontata e superata se il bambino sa di non essere solo, se sente il sostegno amorevole della mamma che gli parla, gli spiega, lo conforta e lo rassicura. Ma questo purtroppo non sempre succede.


Come scrive Louveau “Nei momenti difficili in cui le emozioni ci travolgono e ci sommergono (per esempio un senso di abbandono, di rifiuto, di colpa) nessuno è lì per proteggerci, per consolarci e soprattutto per spiegarci che cosa sta succedendo.

Non potendo capire, l’embrione o il feto interpreta a modo suo (limitante) l’avvenimento doloroso e ne fa una credenza che si incide nel marmo della sua vita. Le principali interpretazioni, che sono anche le più pesanti, sono ‘Io non valgo – io non sono degno di essere amato – ho fatto qualcosa di male e merito di essere punito’”[30].

Occorreranno anni di faticoso lavoro su di sé da adulti per ricostruire la propria autostima e riscrivere sulla propria lavagna interiore parole diverse, espressione di un genuino amore per se stessi, base indispensabile per far crescere l’amore per gli altri. A volte a posteriori si scopre che alcune interpretazioni sono totalmente errate: come quella di un feto che ha captato dalla madre in utero un “vattene, non ti voglio!” che non era però diretto a lui ma a qualcun altro e che gli si è però appiccicato addosso come un marchio di fuoco…


I nostri sistemi di credenze si formano tutti intorno a queste prime esperienze intrauterine.


Chi per esempio ha sperimentato il grembo come un luogo insicuro si fa l’idea che il mondo sia un posto pericoloso.

I temi che riguardano intimità, cibo e denaro sono tutti collegati agli affetti ombelicali e tutte le esperienze simili a quelle ombelicali precoci che incontriamo nella nostra vita adulta creano un’attivazione molto forte. Secondo Osho i rapporti più profondi che abbiamo nella vita, le vere amicizie, sono propri dell’ombelico e il motivo per cui ci sentiamo attratti in modo inspiegabile da un certo tipo di persona è perché tra noi e questa persona scorre un flusso elettrico simile, dello stesso tipo, proprio come quello che scorreva tra il feto che eravamo e la nostra mamma. Ma Osho si spinge ancora più in là: secondo lui “l’anima dell’uomo è connessa con il suo ombelico. L’uomo può entrare nell’anima solo attraverso l’ombelico”[31], che è quindi il punto più importante nel corpo umano, il suo centro, il centro dell’energia vitale. In questo senso “l’ombelico diventa la soglia”[32] per ogni meditatore e ricercatore del Vero.

Per alcuni bambini la vita prenatale è una grande sfida: “Come posso ottenere ciò che è necessario per la mia sopravvivenza e allo stesso tempo proteggermi da ciò che è tossico per me?”. A volte ciò che il feto riceve dal cordone gli pare assolutamente insopportabile ma egli ha delle risorse incredibili e modi molto creativi per trovare soluzioni ai problemi: per esempio se l’esperienza gli sembra insopportabile riduce il flusso del cordone, spingendo con l’addome, inarcandosi o, più avanti, stringendolo con la mano, fino a renderlo tollerabile. Anche movimenti tipo pedalata (che si ritrovano nei neonati) possono servire a far circolare il sangue e spingere via le tossine.


Se in utero predominano gli affetti ombelicali negativi e questi sono molto intensi (per esempio una donna che non vuole il bambino, che fa uso di alcool o droghe) il feto deve lavorare molto per la sua sopravvivenza e porterà queste sue strategie di sopravvivenza anche nella vita adulta. In questo caso di parla di “embrione o feto terapeuta”.


Ecco un sogno di una mia paziente che testimonia in modo eloquente questo tipo di vissuto:

“Ero al mare ma l’acqua era sporca e grigia, io ero arrabbiata con mia mamma e le dicevo ‘Ma che vacanze sono se devo sempre lavorare? Io qui non ci vengo più!’”.

L’acqua del mare sporca e grigia è chiaramente il simbolo del liquido amniotico di un grembo tossico, cioè inquinato da emozioni materne negative e la rabbia della giovane signora è relativa al suo soggiorno uterino che non è stato certo una vacanza in hotel a 4 stelle… Il racconto della sua storia prenatale confermava questo tipo di vissuto, dimostrando, ancora una volta, che fin da piccolissimo il bambino si fa carico emotivamente della sofferenza della madre.


E sì, anche il bambino lavora nell’utero, fin da quando è ancora un embrione: la sua non è affatto una vita da parassita come spesso si è portati a credere… In alcuni casi particolari il feto fa addirittura il terapeuta… Questo succede quando la madre ha un problema di salute o è emotivamente depressa e angosciata, quando il bambino vive di riflesso una perdita o un lutto materno. In queste situazioni è il bambino che si incarica di portare il peso delle problematiche della madre nei confronti della quale si sente peraltro totalmente impotente. E una volta adulto, spesso e volentieri, sceglierà una professione nell’ambito sanitario o comunque d’aiuto agli altri, proprio come la mia paziente, diventata medico…


Se è vero dunque che le problematiche ombelicali prenatali sono le esperienze più forti della nostra esistenza è anche vero però, come vedremo meglio più avanti, che l’embrio-feto è resiliente, riesce cioè a sopravvivere anche senza la presenza emotiva della madre: crede di morire ma in realtà può vivere perché è la Vita, la nostra vera madre, che lo tiene. Noi tutti, fin dall’inizio, siamo immersi nel grembo di Dio, nel Grembo dello Spirito.

L’embrione e il feto lo sanno bene. Come ci ricorda Delassus, essi posseggono una memoria che è innanzitutto la memoria della totalità originaria, di una dimensione non duale dell’esistenza, e ce la trasmettono. Ecco perché, come dicono i saggi indiani, il feto può essere a buon diritto definito “Maestro silenzioso tra i silenziosi”… Questo è il dono che anche ogni neonato, se ha potuto nascere in condizioni naturali e armoniose, ci offre con la sua venuta al mondo: il ricordo del Paradiso perduto… È questo che ogni essere umano cerca, fin dall’inizio della sua vita: l’universo della totalità che ha conosciuto all’alba della sua esistenza. Il neonato lo trova solo in una persona, sua madre o chi si prende cura di lui, attraverso l’ascolto empatico e attento e lo sguardo amorevole. E ritrovandolo in lei allo stesso tempo glielo dona perché glielo ricorda… “Allo stesso modo in cui noi abbiamo il senso della vista, del gusto, dell’equilibrio, abbiamo, nascosto e inconscio, il senso della totalità”[33]: ce ne siamo solo dimenticati… Ma ogni sguardo d’amore vero e profondo che incontreremo nel corso della nostra vita ce lo rammenterà e farà riaffiorare il ricordo… E in quei momenti magici assaporeremo il gusto indescrivibile dell’Eternità.

Mi manchi tanto… ovvero la sindrome del gemello perduto

Eravamo insieme, ho dimenticato il resto.

W. Withman


Ho impiegato cinquantadue anni della mia vita a capire quale fosse l’origine del mio trauma primario, quello che ha segnato tutta la mia esistenza e mi ha causato così tanti problemi, ma ci sono riuscita! Ho dovuto fare il detective, tirare fuori tutte le mie capacità investigative, collegare i pezzetti della mia storia ma alla fine ho potuto ricostruire il puzzle che era andato in frantumi e ho scoperto che la mia prima ferita è stata la perdita di un gemello in utero. Naturalmente non ho delle prove concrete da portare come testimonianza, ma ho raccolto talmente tanti indizi e coincidenze che ora sono più che certa della mia diagnosi.


È stato proprio dopo un seminario esperienziale con Matthew Appleton sul processo di nascita che mi sono imbattuta, navigando su internet, in un libro di Claude Imbert, dal titolo accattivante: Un seul être vous manque. L’ho ordinato all’istante e letto senza indugio, e finalmente non ho avuto più dubbi in quanto tutti i miei sintomi rientravano in quelli menzionati dalla dottoressa Imbert come tipici della sindrome da gemello scomparso: dal diario all’amico invisibile quando ero bambina, alla eterna ricerca, una volta cresciuta, dell’“anima gemella”, che a periodi mi sembrava di aver trovato ma che irrimediabilmente perdevo poi all’improvviso, a volte senza nemmeno la possibilità di una spiegazione o di un saluto… Dalla paura di essere abbandonata e di dormire da sola, agli attacchi di panico in luoghi chiusi come tunnel, treni, aerei che ricordavano l’ambiente uterino in cui il pericolo aveva bussato alla porta e non c’era stata via di fuga…


Dalla paura per il mio cuore come se potesse da un momento all’altro fermarsi come si era fermato quello del gemello, alla penosa sensazione di sentirsi a metà, incompleta, con un pezzo mancante… Dalla rabbia repressa per il supposto tradimento, al senso di colpa per essere sopravvissuta con i conseguenti dolorosi autosabotaggi…

Più volte mi era capitato nel corso di terapie omeopatiche o sedute di osteopatia e craniosacrale di assistere al riaffiorare di strani sogni o di immagini o parole che richiamavano la gemellarità. Una volta durante un seminario con Manitonquat[34] scoppiai improvvisamente in un pianto dirotto quando sua moglie mostrò, durante una dimostrazione di supportive listening, la foto di due gemelline neonate che si abbracciavano con tenerezza[35] e così pure non riuscivo a trattenere le lacrime guardando su internet i filmati sul bagnetto dei gemelli fatto da Sonia Rachel. Finanche una canzone di Vinicio Capossela, dall’inusuale titolo de Il paradiso dei calzini, mi aveva fatto piangere come una fontana: raccontava la storia dei calzini spaiati che non riuscivano a trovare i loro compagni… In casa mia ce n’erano montagne… Di spaiato io ho sempre avuto anche gli orecchini: immancabilmente ne perdevo uno… (questi ultimi “segni” sono citati nel libro di Imbert come indizi di gemellarità).

Quando poi sono stata al seminario esperienziale sulla nascita, mi sono trovata seduta tra due persone che hanno raccontato storie di gemelli perduti… Una coincidenza – direte voi – ma io sono convinta che si trattasse di un segnale per mettermi sulla pista giusta. E infatti parlando con Jenny, la moglie di Matthew che guidava il nostro processo di nascita, ho finalmente sciolto un arcano che mi assillava da tempo: le ho chiesto se sapesse dirmi perché nei momenti di ansia io mi toccassi un punto specifico sulle costole del fianco sinistro. Era un punto non più grande di un pollice su cui premevo il dito istintivamente, come per chiudere un buco e al contempo trovare conforto. La sua risposta mi lasciò di stucco: poteva essere secondo lei il punto di congiunzione con il mio gemello uterino! In quel momento sentii che avevo infine risolto l’enigma che mi tormentava da anni. Ormai sapevo inquivocabilmente che quello era il mio trauma primario, la mia ferita originaria che ancora non si era chiusa.


Quella sera, davanti alla finestra aperta della mia camera, mi uscì una rabbia atavica che non avevo mai espresso prima d’allora nei confronti di chi un giorno lontano mi aveva abbandonato, “senza fiato, senza contatto, con il cuore spaccato a metà”, come dice la canzone del rapper Raige, lasciandomi sola in un grembo sepolcrale, a far fronte a quel monumento di dolore che era mia madre…, “con lo sguardo verso il cielo a cercare una soluzione”.


È a lui, il mio gemello scomparso, che ho scritto questa lettera per onorarne la memoria e riuscire finalmente a lasciarlo andare… Spero possa servire come spunto di riflessione anche a chi come me ha vissuto questa dolorosa e difficile esperienza.

Caro Amico mio,

mio amato compagno di viaggio,

tu che sei stato con me all’inizio di tutto,

tu che sei partito con me per la grande avventura della Vita,

e te ne sei andato lungo la strada, dopo un po’, lasciandomi da sola lungo il cammino,


sappi che io non ti ho mai dimenticato, ti ho portato con me per tutti questi anni e per tutto questo tempo ti ho cercato pur non sapendo nemmeno che eri esistito…


Quante volte nella notte buia ho lanciato all’Universo il grido profondo e disperato della mia anima “Dove sei, dove sei ?”…


Ma io ero certa di averti conosciuto e anche che prima o poi ti avrei di nuovo ritrovato.

Ho conservato la tua memoria dentro al mio santuario che però si è trasformato in un sepolcro…


Tu mi hai lasciato in un bagno di morte, in acque torbide e scure, a far fronte da sola alla paura e al dolore di mia madre, di nostra madre. È stata dura amico mio, senza di te. È stata molto dura. Quante volte ho desiderato seguirti lassù, nel nostro amato Paradiso…


Avrei voluto che tu mi portassi con te, che continuassi a tenermi per mano…

E poi ho creduto che fosse colpa mia se te ne eri andato. Ho sentito il peso della mia impotenza nel non aver potuto far niente per te, per trattenerti, per “salvarti”… Non è stato facile, sai, vederti morire davanti ai miei occhi e non riuscire a rianimarti…


Ma allora non sapevo che tu avevi altro destino, che la strada per te era già tracciata, così come la mia del resto. La tua partenza io l’ho vissuta come un abbandono e un tradimento. Solo ora, dopo così tanto tempo, ho scoperto che ero arrabbiata con te perché te ne eri andato, lasciandomi da sola in quell’inferno.


Ma ora so che l’hai fatto perché avevamo una missione speciale da compiere, io e te, ognuno per conto suo… E tu sapevi che io ce l’avrei fatta con le mie forze, con le mie risorse.


È su quelle che dovevo imparare a fare affidamento. Dovevo rivivere ancora una volta il dramma dell’esilio e della solitudine, l’incubo della prigione, il tormento senza fine della sopravvissuta. Per cambiare il film una volta per tutte. Per fare un passo da gigante, un balzo quantico questa volta. Non avrei potuto se non te ne fossi andato, se non mi avessi fatto toccare il fondo. Sono diventata un detective per capire quale fosse la causa del mio star male, della mia paura, ho messo insieme gli indizi, ad uno ad uno, ricostruito la storia a poco a poco. Da sola, come sempre. O meglio, no, con l’aiuto di Qualcuno che mi ha messo sulle tue tracce, che mi ha inviato segni e segnali, che mi ha tenuto tra le sue mani quando altrimenti sarei affondata…


E poi un giorno mi è arrivato il tuo messaggio: tu mi avevi fatto una promessa, mi avevi detto “Tu vai avanti, io ti raggiungo”. Guarda che ci conto, Amico mio, una promessa è una promessa…


Ora però so che devo lasciarti andare, per la tua strada che, almeno per ora, non è la mia. Non voglio che il tuo sacrificio sia stato vano. Voglio onorare la tua memoria diventando me stessa fino in fondo e raccontando un giorno la nostra storia perché possa aiutare chi ha sofferto come noi, senza sapere. Ora so che ti sei solo allontanato per un po’ perché ognuno di noi potesse compiersi in “libertà e amore”. Ma so anche che ci ritroveremo prima o poi. Succede sempre a chi si è amato tanto come noi.


Sei sempre nel mio cuore, Compagno mio,

ti dico addio, ti rendo a Lui,

con infinito amore

la tua gemella amata.

Secondo la dottoressa Imbert la maggior parte delle perdite gemellari passa inosservata: una piccola perdita di sangue è spesso l’unico segno di questo evento che sembra accadere in un 20% delle gravidanze, con una frequenza pertanto molto più alta di quanto si potesse immaginare. Si tratta di un vero e proprio dramma per il gemello sopravvissuto, di cui però nessuno è consapevole, nemmeno la madre, e che quindi rimane nascosto per sempre nella sua biografia. Ma come un tarlo rode dentro perché è un lutto che non si può dimenticare e che al contempo non è possibile elaborare…
Scrive W. Emerson riguardo alla morte di un gemello in utero: “Prima di tutto c’è un ineffabile e profondo senso di perdita, disperazione e rabbia connesso con la morte del gemello. Poi in secondo luogo c’è una cronica e inarticolata paura che questa perdita succederà di nuovo e una insicurezza che pervade totalmente”[36]. C’è una mancanza di fiducia nelle relazioni o la credenza che esse non dureranno, così come non è durata la prima. La perdita viene vissuta come un tradimento che fa scattare reazioni di rabbia oppure, come difesa, un atteggiamento di distacco dagli altri o anche, al contrario, una tendenza a sviluppare relazioni simbiotiche di codipendenza. Infine le esperienze di morte e perdita durante la vita prenatale possono portare a comportamenti masochistici legati al senso di colpa di essere sopravvissuti.

Ciò che può aiutare in questi casi, come ci ricorda la Imbert, è la presa di coscienza degli aspetti positivi di questa dolorosa esperienza che ci porta su un cammino di ricerca, alla scoperta delle cause e del senso profondo della nostra esistenza. Come ogni trauma, anche questo della perdita del gemello nasconde doni potenziali: ci fa capire quanto siamo forti e pieni di risorse per essere stati in grado di sopravvivere da soli, perché a volte ci vuole più coraggio per vivere che per morire…; ci fa sperimentare il significato dell’amore incondizionato, che è quello di lasciare libero chi è chiamato a percorrere un altro cammino; ci fa sentire che questo tipo di amore esiste: oltrepassa i confini del tempo e dello spazio e dura per sempre.


Chi se ne è andato non vorrebbe saperci tristi: è come se continuasse a guardarci e a dirci, proprio come la canzone sopracitata: “Cosa darei per vederti ridere… Cosa farei per vederti vivere…”


Per poter scrivere questo paragrafo vi confesso che ho avuto bisogno del sottofondo di un valzer: quello interrotto che ancora a volte sogno di ballare con il mio gemello perduto…

Dimmi come sei nato e ti dirò chi sei…

La nascita non è un atto, è un processo.
Lo scopo della vita è di essere pienamente nato, sebbene la sua tragedia sia che la maggior parte di noi muore prima di essere nato.
Vivere è nascere ogni minuto.

Erich Fromm

Ed ecco che arriva il momento da tutti tanto atteso: la nascita!

Per un bambino, che cosa significa nascere, venire al mondo? Ce lo siamo mai chiesto? Cerchiamo di scoprirlo insieme.


Innanzitutto un bambino per nascere deve volerlo. Più di qualsiasi altra cosa al mondo. Ad ogni costo. Con tutto se stesso, senza tentennamento alcuno. Non c’è posto per i dubbi, non c’è spazio per la paura. Deve volerlo con ogni fibra del suo corpo. Ogni sua cellula deve essere imbevuta della voglia di venire al mondo. La decisione dev’essere totale, assoluta, senza ripensamenti. Solo così si apre il varco. Solo così la porta si spalanca e il bambino può nascere alla vita. Solo così l’anima si desta.


Sì, perché lungo e impegnativo è il viaggio per l’atterraggio.

Ognuno lo vive a modo suo: c’è chi parte, lancia in resta, con la curiosità di vedere cosa succederà; chi invece ha bisogno di una spintarella perché tentenna e trema sull’orlo; chi cerca di posticipare l’evento a tutti i costi e chi invece ha fretta di venire al mondo o addirittura fugge da una condizione che si è fatta invivibile… Chi oppone resistenza e mette avanti i piedi, chi ha un ripensamento e si sabota arrotolandosi il cordone intorno al collo…


C’è poi chi nel viaggio si blocca all’inizio e sbatte la testa contro il muro della cervice che pare non aprirsi mai, chi si ferma a metà perché non si sente sostenuto, chi si incastra proprio nella tappa finale quando il traguardo è ormai vicino…


La modalità del processo di nascita si imprimerà nella memoria cellulare e condizionerà poi il resto della vita: c’è chi continuerà a partire con entusiasmo nei progetti per poi fermarsi a metà strada, chi faticherà a incominciarli, a prendere una decisione, chi si bloccherà proprio alla fine quando la meta è a portata di mano…


“Dimmi come sei nato e ti dirò chi sei”: in questa affermazione c’è più verità di quanto si possa immaginare.

Non sempre il tragitto si presenta facile: ci sono tanti ostacoli da superare, a volte sembra di non trovare via d’uscita e allora arriva lo scoraggiamento o addirittura la disperazione. Bisogna provare e riprovare tante strade, bisogna insistere, non darsi mai per vinti anche quando il viaggio sembra non avere fine…


A volte poi ci sono eventi imprevisti: qualcuno ha sbagliato i calcoli, il collo dell’utero non si dilata e il parto viene indotto, ma in realtà il piccolo non è ancora pronto per nascere. Viene spinto fuori con la forza quando lui vorrebbe stare ancora un poco lì al calduccio…


Quando crescerà sarà un bambino che non tollererà imposizioni dagli adulti e reagirà con rabbia a chi cerca di fargli fretta…


Altre volte all’improvviso manca il respiro, scatta la paura, il liquido si tinge ed ecco l’intervento: il bambino viene estratto dall’utero materno con un taglio cesareo o una ventosa. Non è certo un bel modo di nascere… Specie nel caso di un’anestesia della mamma che toglie al piccolo la sensazione del contatto con lei e lo stordisce facendogli mancare all’istante ogni punto di riferimento. Dal punto di vista energetico per il bambino la mamma non esiste più, come fosse morta o scomparsa per sempre… Anche di questo rimarrà il ricordo. Impresso nel corpo, nella mente e nell’anima. Se qualcuno non si è premurato di spiegare al piccolo viaggiatore cosa sta succedendo, se non gli ha detto che c’è un po’ di turbolenza in volo ma che può star tranquillo perché sarà sicuro l’atterraggio e mamma dorme solo ma è lì con lui e presto lui sarà tra le sue braccia.


Ora finalmente è fuori, ce l’ha fatta! Arriva in genere piangendo, a volte di rabbia se l’atterraggio è stato doloroso: serrati i pugni, gli occhi strizzati… A volte invece le sue lacrime sono di tristezza per ciò che sente di aver lasciato… Ma se appena sgusciato viene poggiato sul ventre morbido e caldo della mamma ecco che trova terra e forse sorride…


Quando arriva in questa landa sconosciuta, il bambino deve trovare un volto che lo accoglie, deve trovare un sorriso negli occhi di qualcuno. Un bambino, quando viene al mondo, ha bisogno di trovare una madre innamorata. Innamorata della vita, innamorata di lui, perdutamente. Una mamma che lo osserva piena di stupore e commozione e nei suoi occhi si immerge e lì si perde. Solo così anche lui può innamorarsi della vita. Il bambino viene accolto prima di tutto dallo sguardo della madre, o del padre, che gli fa da specchio: vorrebbe trovarvi ciò che cerca…


Sarà così per sempre nella vita: si può nascere – e rinascere – solo quando si decide di farlo, con determinazione assoluta, quando la scelta diventa priorità, al di là di tutto il resto. Costi quel che costi.


Anche correndo il rischio di non trovare un sorriso negli occhi di qualcuno…

Io ho avuto tre parti: il primo è stato un taglio cesareo d’emergenza per sofferenza fetale; il secondo un parto naturale con travaglio in acqua molto lungo ed estenuante; il terzo un parto in casa veloce ma estremamente doloroso. Ogni figlio una storia diversa. Oggi, a distanza di tempo, riesco a capire tante cose che allora erano passate inosservate e mi rendo conto che ogni nascita ha rimembrato un pezzo della mia biografia e mi ha permesso di trasformare una parte di me. E anche di sperimentare la varietà delle modalità con cui si può venire al mondo. Ora quando parlo con le mamme del loro parto posso dire quasi sempre: “La capisco, l’ho vissuto anch’io…”. Il che per una pediatra come me è sicuramente un gran vantaggio in quanto permette di far scattare l’empatia…


Ma devo ammettere che è grazie all’incontro con Matthew Appleton che ho potuto finalmente mettere insieme tutti i pezzi del puzzle e avere una chiara visione d’insieme. Che ora cercherò di trasmettere a voi, nel modo più semplice possibile, comprensibile anche ai non addetti ai lavori.


Innanzitutto, come abbiamo visto, l’andamento del parto è influenzato da come il bambino è stato accolto al concepimento e da come è stata l’esperienza prenatale. Per esempio, se il bambino non era desiderato o non era del sesso “giusto” per i genitori, le contrazioni gli possono sembrare una punizione e può viverle con senso di soffocamento, come se la mamma volesse distruggerlo. Se invece durante la gravidanza si è stabilita una buona connessione tra la madre e il suo piccolo, l’inizio del parto può essere vissuto come un’avventura entusiasmante e il travaglio diventerà un lavoro a due, una vera e propria cooperazione come quella che esiste tra due alpinisti legati alla stessa corda…


I bambini sono molto attivi nel processo della nascita: con la testa cercano la strada migliore, il passaggio più efficace. Ci sono momenti in cui non sanno se sopravviveranno, in cui hanno la sensazione di essere intrappolati e in questi casi a maggior ragione una parola di conforto e incoraggiamento da parte della mamma è ciò che può fare la differenza (insieme a qualche goccia di Rescue Remedy…)


Ma vediamo ora in modo più particolareggiato ogni singola fase del processo della nascita:

Stadio Uno

Lo stadio uno è rappresentato dall’inizio del travaglio, quando il bambino è sottoposto alla pressione delle contrazioni uterine ma la cervice è ancora chiusa e si dilata piano piano. Possono essere necessarie molte ore per arrivare a una dilatazione completa e nel frattempo il bambino non riesce a muoversi o procede lentamente, millimetro per millimetro. A volte il feto va su e giù, come se fosse incerto sul da farsi… La testa in modo particolare è sottoposta a una forte pressione e quando la cervice non si dilata ci sbatte contro, come se fosse un muro o una porta che non si apre. Questo dà al bambino la sensazione di essere trattenuto, sensazione che potrà sperimentare poi di nuovo nel corso della sua vita. Inoltre la testa è posizionata contro il promontorio dell’osso sacro e le ossa del cranio possono subire una compressione in questa fase. A seconda di come è posizionato il bambino rispetto al sacro vi è un lato della testa che subisce maggiormente compressioni e trascinamenti ed è chiamato lato di nascita: spesso è riconoscibile anche in età adulta.


Il tema associato a questa fase del parto è dunque la pressione, sia da un punto di vista fisico che emotivo. Il modo in cui abbiamo vissuto lo stadio uno influenzerà la nostra relazione con le situazioni di pressione che incontreremo nella nostra vita e anche con la modalità di inizio di un progetto o la gestione delle fasi di transizione. Per esempio, se abbiamo avuto difficoltà nello stadio uno potremo avere problemi quando ci sentiamo pressati dalla folla o da scadenze di lavoro, insomma da chi in qualche modo ci mette fretta. Un’altra sensazione in questo caso è quella di essere in un vicolo cieco, di perdere la speranza e farsi prendere dalla depressione. Problemi come emicrania, dolori alla schiena e alle articolazioni e claustrofobia da adulti possono essere la conseguenza di difficoltà in questa prima fase del travaglio.


Lo stadio uno termina quando la dilatazione della cervice è completata e il bambino può iniziare a scendere nel canale del parto. In genere questo passaggio si accompagna a una sensazione di sollievo e di potenza: finalmente si aprono nuove possibilità… Ma anche qui non è finita. Come ci ricorda Appleton, le contrazioni possono essere vissute in modo completamente diverso da bambino a bambino: c’è chi ne cavalca il ritmo come un esperto surfista, chi approfitta delle pause per spostarsi, chi si sente schiacciato da esse e chi abbandonato dalla loro assenza… E poi ecco che un nuovo ostacolo si presenta sul percorso: l’incontro con le tuberosità ischiatiche materne (più ristrette se la mamma è sdraiata)! Il bambino si sente di nuovo incastrato e può provare rabbia, senso di tradimento e poi rassegnazione, come se pensasse “Qualunque cosa io faccia non serve a nulla perché le cose vanno di male in peggio”. Quanti di noi non hanno provato una sensazione del genere almeno una volta nella vita?…

Stadio Due

A questo punto della discesa, per poter procedere nel canale del parto, il bambino deve ruotare la testa da una posizione iniziale trasversa a una posizione antero-posteriore, che è quella che avrà all’uscita dallo stretto pelvico. Questa fase è influenzata anche dalle dimensioni e dalla forma della pelvi materna. È lo stadio più breve ma anche il più difficile perché a questo punto il bambino non può più tornare indietro. Come rileva Appleton, questa è un’esperienza unicamente umana in cui succede qualcosa di molto profondo: per la prima volta nella nostra esistenza perdiamo l’asse, l’allineamento testa-cuore. E poiché il cuore è sentito spesso come il centro della nostra connessione con il Divino girarsi dal nostro cuore è come voltarsi in un’altra direzione rispetto al Divino e ciò può comportare la sensazione di un’intensa perdita. I bambini che non volevano incarnarsi sentono molto di più questa fase, si percepiscono spinti verso una direzione che non hanno chiesto e voluto e, credendo di non avere più il collegamento col Cielo, si sentono completamente persi e abbandonati. Un tema psicologico associato a questa fase è l’orientamento: “In che direzione vado?”. La capacità di trovare la strada, di prendere decisioni per il futuro e la fiducia nel proprio intuito sono legate al vissuto relativo a questo stadio del parto. Una difficoltà a questo livello può tradursi in problemi di disorientamento, confusione e paura di perdersi. Se poi a questo punto la madre chiede l’anestesia la situazione peggiora ulteriormente perché la consapevolezza, in seguito all’introduzione in circolo del farmaco, si annebbia e il bambino all’improvviso si sente solo: senza più terra sotto i piedi (la mamma che dorme ma che per lui è come morta) e senza più la connessione con l’Alto si sente completamente sperduto e abbandonato e può andare incontro al panico. Che si rinnovellerà ogni volta nella vita in cui da adulto il nostro eroe si ritroverà a vivere una situazione del genere: una separazione o anche semplicemente una decisione da prendere.

Stadio Tre

Questa è la fase terminale del parto, in cui sia la mamma sia il bambino sono in genere esausti. Il feto usa le gambe per spingersi giù. Il bambino si trova con la faccia contro il sacro e lo sterno contro il promontorio lombo-sacrale e l’occipite deve passare sotto l’arco della sinfisi pubica. Come dice Sri Nathamuni: “La posizione in cui esce il bambino sembra una prosternazione davanti al Signore”[37]. Ognuna delle aree corporee coinvolte può essere influenzata negativamente in questo stadio. Il cordone ombelicale in questa fase può essere compresso tra il corpo del bambino e le ossa del bacino materno. Ciò può portare a una sensazione di soffocamento e mancanza di risorse. In alcuni casi il cordone può attorcigliarsi intorno al collo del bambino e la sensazione di soffocamento è ancora più intensa. In altri casi sono le spalle a rimanere incastrate. Ci sono poi, in un 15% dei casi, le presentazioni di schiena, con il bambino che guarda l’osso pubico invece che il sacro, che sono più dolorose sia per il bambino che per la mamma. I temi psicologici associati a questa fase sono: la resistenza (“dopo tutto questo sforzo e dolore non è ancora finita?”) e quindi come gestiamo la fatica quando siamo sotto pressione (tema dello sfinimento), il senso di completezza, cioè come completiamo i progetti, e anche come ci presentiamo al mondo (tema del sentirsi esposti). Quest’ultimo sarà molto influenzato dal vissuto prenatale della scoperta della gravidanza intorno alla terza settimana di gestazione.

Stadio Quattro

Lo stadio quattro conclude il processo del parto. Il bambino fuoriesce dal ventre materno impegnando prima la testa e poi le spalle (che a volte possono rimanere incastrate) e viene accolto dalle mani degli operatori della nascita e sottoposto a tutta una serie di interventi e trattamenti. Il quarto stadio comprende anche il taglio del cordone ombelicale e il primo respiro; qui termina se il parto avviene in casa, mentre se avviene in ospedale si considera concluso solo con il ritorno a casa della famiglia. Di conseguenza per i bambini ricoverati in neonatologia o messi in incubatrice il quarto stadio può essere molto lungo. Il tema associato a questa fase del processo di nascita è l’accoglienza: “Come vengo accolto nel mondo?”.


Il passaggio dall’ambiente intrauterino a quello esterno è brusco e potente, tutto cambia in un istante: la temperatura si abbassa enormemente, l’oscurità del grembo viene sostituita da una luce accecante, ai suoni ovattati dell’utero si contrappongono i rumori della sala parto. Di solito il cordone viene reciso prima del tempo, procurando quello che viene chiamato “shock ombelicale”: il neonato viene separato dalla madre per essere lavato, pesato, visitato e vestito o ancora, nei casi peggiori, per essere ricoverato in rianimazione. L’essere invasi e separati sono i temi centrali dello stadio quattro della nascita e influenzeranno il nostro modo di toccare e essere toccati, di relazionarci con gli altri, di vivere l’intimità, di sentirci visti e accolti nel mondo. Per i bambini di sesso “sbagliato” l’essere esposti può rappresentare un momento critico e far riemergere sensi di vergogna e di colpa instauratisi durante la vita prenatale al momento della scoperta. Se tutto va bene invece questo è il momento del bonding, in cui mamma e bambino imparano a conoscersi e stabiliscono le basi del loro legame, in modo particolare attraverso il contatto visivo: specchiandosi negli occhi della mamma il neonato ritrova la connessione col Divino che credeva di aver perso per strada e si sente di nuovo “a casa”.


Non così per i bambini messi in incubatrice: per loro non c’è tocco, non c’è sguardo (se non di ansia e apprensione), non c’è parola, non c’è alcun tipo di contatto. Essi vivono in uno stato di completa deprivazione sensoriale, in una condizione di totale isolamento: il loro vissuto è non solo “non c’è nessuno qui per me” ma anche “non c’è niente qui per me”. Tutto ciò che arriva dal mondo esterno è doloroso (prelievi e manovre invasive). Quella dei bambini prematuri è una delle sofferenze più acute che un essere umano possa provare ed è un dramma che passa inosservato.

Interferenze nella nascita

C’è una fessura in ogni cosa. È così che entra la luce.

L. Cohen


Per la mia primogenita avevo programmato un parto in casa, con tanto di vasca gonfiabile per il travaglio in acqua, e invece venni portata di corsa in ospedale per un taglio cesareo d’emergenza… Non sempre le cose vanno come vorremmo. A volte il travaglio non parte e il parto viene indotto con farmaci chimici oppure al momento della fase espulsiva il bambino non esce e deve essere tirato fuori col forcipe o la ventosa. Per quanto sia stata scrupolosa e attenta la nostra preparazione all’evento nascita, il parto, come ogni fenomeno naturale, rimane sempre un grande mistero. Ecco perché nei corsi di accompagnamento alla nascita sono solita raccomandare alle mamme di rimanere aperte e flessibili ad ogni possibile evenienza: per evitare di viverla poi come un fallimento difficile da accettare e digerire. Quando abbiamo fatto tutto il possibile per prepararci al meglio possiamo solo affidare alla Vita il corso degli eventi, consapevoli che qualunque esperienza ci verrà chiesto di vivere avrà un senso per noi, che magari scopriremo col tempo, e un dono nascosto da offrirci.


Ma vediamo ora in che modo il bambino vive la nascita allorché il parto non è più un processo naturale ma medicalizzato, sia per motivi di salute del feto o della madre (per esempio placenta previa, eclampsia, prolasso del cordone, sproporzione cefalopelvica, presentazione trasversa, gravidanze multiple con più feti) sia, purtroppo, per un ingiustificato interventismo. È il caso per esempio di tagli cesarei programmati per via di precedenti parti cesarei.


Il parto cesareo viene di solito considerato come un parto più facile per il bambino ma in realtà non è affatto così: gli esseri umani sono programmati per vivere il processo del parto e non per essere estratti meccanicamente dal ventre materno… In caso di taglio cesareo il processo naturale della nascita è interrotto.


Il taglio cesareo può essere programmato o di emergenza.

Nel primo caso il travaglio non incomincia nemmeno. Questo priva il bambino dell’esperienza delle contrazioni, che rappresentano “il tocco finale” per la maturazione dei polmoni, per l’eliminazione del liquido al loro interno e per la stimolazione del primo respiro del neonato, ma anche il primo tocco, il primo massaggio corporeo. Di conseguenza i bambini nati con taglio cesareo programmato presentano problemi respiratori con maggiore frequenza rispetto agli altri. Spesso poi questi bambini hanno una relazione problematica e ambivalente con il tocco: o cercano disperatamente il contatto tattile mancato o lo evitano del tutto come fosse fonte di pericolo e di indebita intromissione.


Sovente poi i bambini non sono ancora pronti a lasciare l’utero e avvertono il parto cesareo come una forzatura con cui vengono strappati dal loro territorio: un vero e proprio shock da spaesamento.


Nel secondo caso invece il travaglio inizia ma poi sopraggiunge qualche problema che richiede l’estrazione d’urgenza del feto. In questa situazione l’ansia è grande sia per gli operatori sia per la madre, e di conseguenza anche per il bambino che riceve attraverso il cordone gli ormoni dello stress materno. In entrambi i tipi di cesareo il bambino vive una serie di esperienze traumatiche, vediamole una per una.


Innanzitutto c’è l’esperienza dell’anestesia: qualsiasi farmaco somministrato alla madre passa al bambino attraverso il cordone. Il dosaggio è in base al peso corporeo della madre e non del bambino, per cui ha su di lui un impatto potente. Durante il travaglio mamma e bambino lavorano insieme, il loro è un lavoro di squadra… Ma quando è necessario un taglio cesareo d’urgenza, ecco che all’improvviso la madre scompare per il bambino perché energeticamente lui non la sente più. I sensi del feto diventano nebulosi, in quanto l’anestetico sta arrivando anche a lui, e la sensazione è di panico. “Mi risveglierò?” si chiede il bambino; il corpo non riesce a reagire, a fare quello che avrebbe bisogno di fare, il bambino si sente disorientato, perduto, come se stesse sprofondando nell’abisso, nel vuoto. Un profondo senso di abbandono lo pervade e anche il bonding dopo la nascita risulterà molto più difficoltoso per lui e per la madre a cui l’anestesia può provocare un’ottundimento anche delle emozioni, e privarla così di quell’esperienza di gioia e di estasi che ogni incontro con il proprio neonato dovrebbe dare. Non per nulla i farmaci somministrati durante il parto alla madre sono anche una delle cause di depressione post-partum. Gli adulti spesso riportano sogni di sabbie mobili da cui non riescono a scappare, di invasioni di alieni, a volte di insetti o di qualcosa di estraneo che entra nel corpo. Ciò può determinare anche paura nell’assunzione di farmaci e problemi di addormentamento (per il timore di ricadere nello spavento dell’obnubilamento dei sensi dovuto all’anestesia). I bambini che hanno vissuto un’anestesia durante la vita prenatale o al momento del parto amano molto la fiaba della Bella addormentata nel bosco, che per loro si rivela terapeutica.


Ma c’è un altro elemento da tenere in considerazione: essendo stato bloccato il naturale processo del travaglio, i bambini nati con taglio cesareo non sanno come andare avanti nella vita, hanno difficoltà da adulti a iniziare o concludere un progetto, hanno la tendenza a voler essere soccorsi o al contrario a non volere l’aiuto di nessuno: “Lasciami in pace, ce la faccio da solo!”, “Avrei potuto farlo ma è venuto qualcuno che mi ha bloccato”. I piccoli nati con taglio cesareo sovente hanno difficoltà a gattonare, avanzano da seduti. Il bambino invece che riesce senza aiuto a spingersi fuori dall’utero sente la potenza nelle sue gambe e ha la sensazione di avercela fatta da solo, il che rafforza la sua autostima.


L’intervento chirurgico poi è una vera e propria invasione dell’utero, dello spazio sacro in cui il bambino vive in simbiosi con la madre. I bambini nati con taglio cesareo hanno una speciale sensibilità per i confini, nel senso che ne hanno bisogno più degli altri perché i confini danno contenimento e sicurezza. Il taglio con il bisturi può trasformarsi in una paura dei coltelli o in un senso di colpa per aver ferito la madre. Oltre a ciò il bambino nato da parto cesareo viene scaraventato da un ambiente all’altro molto velocemente: mentre in un normale travaglio ci vogliono alcune ore per nascere, qui tra incisione ed estrazione del bambino passano cinque minuti, per cui non c’è tempo per integrare l’esperienza. Inoltre la forte differenza di pressione tra l’ambiente intrauterino e quello esterno può essere fonte di shock per il feto. Questo è il motivo per cui tali bambini sono molto sensibili alle transizioni e agli spostamenti – che dovrebbero essere i minori possibili – e crescendo possono poi presentare problemi legati al tempo e al ritmo. Oltre a ciò, al momento dell’uscita c’è molta compressione sul cranio perché il bambino viene afferrato per la testa e tirato fuori dalle spalle, nelle quali rimane molta tensione. Il primo contatto esterno è con la luce accecante della lampada scialitica. Anche la relazione con la madre viene spezzata in modo molto brusco, il cordone ombelicale viene tagliato immediatamente e in genere il neonato viene separato subito dalla mamma, la cui ferita chirurgica dev’essere richiusa e ricucita, e sottoposto a un immediato controllo pediatrico e a un temporaneo soggiorno in termoculla. Solo in alcuni casi viene affidato alle braccia del papà che lo rassicurano e con cui instaura un più profondo legame. In questo caso il processo di attaccamento tra il bambino e la mamma risulta quindi più faticoso e il recupero post-partum per quest’ultima più lungo e ritardato. Infine, last but non least, il bambino nato con parto cesareo può sentire di aver fatto soffrire la madre, che per farlo nascere è stata sottoposta a un intervento chirurgico, e sentirsi in colpa e meritevole di punizione.


La frequenza di tagli cesarei è aumentata in modo irragionevole negli ultimi decenni, e questo intervento, che in alcune situazioni si rivela un vero e proprio salvavita, è diventato spesso una pratica di routine, specie in alcuni Paesi. In realtà noi non sappiamo ancora bene quali possano essere i suoi effetti a lungo termine sulla salute fisica, neurologica e psichica dei bambini, per cui dovremmo essere cauti rispetto a un suo utilizzo indiscriminato e, nei casi di reale necessità, cercare di renderlo il più “dolce” e meno traumatico possibile, attraverso un approccio consapevole e amorevole, come raccontato in Nato prima del tempo.


Un’altra situazione, sempre più frequente, è quella del parto indotto con gel o flebo di ossitocina. Anche qui il bambino viene forzato a nascere quando ancora non è pronto per farlo e, come sottolinea Appleton, sperimenta la sensazione di una figura autoritaria che è come se gli dicesse: “Devi farlo! Quello che fai non basta!”, e questa sorta di ingiunzione si trasforma in una voce interiore che genera ansia e rabbia nel bambino ogni qual volta nella sua vita si sentirà pressato dall’esterno a compiere scelte non decise da lui. In genere ho osservato che i bambini nati con parto indotto sono molto intolleranti alla contraddizione e si arrabbiano enormemente quando i genitori mettono loro fretta, per esempio al mattino per vestirsi, uscire e andare a scuola.


Una conseguenza abbastanza abituale dei parti indotti è la comparsa di reflusso gastroesofageo, una patologia sempre più in aumento nei lattanti. L’omeopata Didier Grandegeorge spiega la comparsa di questo fastidioso sintomo (peraltro curabile con rimedi omeopatici) come una reazione del bambino al trauma da parto indotto: il piccolo la esprime sotto forma di un rigetto, a volte violento, di ciò che gli è stato imposto con la forza.


Negli adulti è stata notata una correlazione tra induzione del parto e l’uso di droghe o sostanze eccitanti.


Nel parto assistito con forcipe o ventosa sembra, secondo uno studio recente pubblicato sul “Lancet” (gennaio 2000), che vi sia nei bambini la massima produzione di cortisolo, l’ormone dello stress. Il forcipe in modo particolare può essere vissuto come uno strumento pericoloso e fonte di dolore. La compressione che esso esercita sul cranio e le tempie può essere la causa di cefalee croniche, nevralgie e dolori cervicali nella vita adulta di cui non si riesce a capire l’origine. Da un punto di vista emotivo invece ci sarà la sensazione e la paura di essere manipolati, forzati, obbligati a fare. Secondo Matthew Appleton può essere utile far giocare i bambini, nati col forcipe, con le pinze del camino o quelle per l’insalata: l’utilizzo di questo strumento metallico che ricorda molto il forcipe può servire a sdrammatizzare l’esperienza vissuta al momento della nascita. A volte a questi bambini piace giocare con i cucchiai sbattendoli l’uno contro l’altro.

Traumi… e resilienza

La nostra gloria più grande non sta nel non cadere mai, ma nel risollevarci sempre dopo una caduta.

Confucio


La parola “trauma” deriva dal greco e significa “ferita, buco” ma è interessante notare come la radice sanscrita “tarami” abbia invece il significato di “movimento”, di “passare al di là”. Ed ecco allora il messaggio che il trauma contiene e ci porta: se noi riusciamo a curare la ferita lacerata, se riusciamo a chiudere il buco rimasto aperto abbiamo la possibilità di andare oltre, di varcare una soglia e di passare in un’altra dimensione.


Esistono traumi del corpo e traumi dell’anima: i primi sono facilmente visibili, i secondi un po’ meno, ma ancora più dolorosi e difficili da sradicare. Esistono poi delle vere e proprie sindromi da stress post-traumatico che si verificano anche a distanza di tempo dall’insorgenza del trauma (per esempio sotto forma di attacchi di panico), quando circostanze esterne (come freddo, calore, pressione, separazione ecc.) fanno riemergere il ricordo dell’esperienza dolorosa che era stata repressa perché impossibile da affrontare in quel momento.


Chi ha vissuto esperienze particolarmente dolorose ha paura di ripeterle e cerca in tutti i modi di evitare le circostanze che possono favorirne lo scatenamento; come dice il proverbio “Chi si è scottato col fuoco ha paura anche della cenere”…

Di fronte a un trauma esistono solo due possibilità: o la fuga o l’immobilità. Come scrive Laborit nel suo Elogio della fuga: “Quando non può più lottare contro il vento e il mare per seguire la sua rotta, il veliero ha due possibilità: l’andatura di cappa che lo fa andare alla deriva, e la fuga davanti alla tempesta con il mare in poppa e un minimo di tela”[38]. La seconda reazione è la più sana ed efficace. “La fuga è spesso, quando si è lontani dalla costa, il solo modo di salvare barca ed equipaggio. E in più permette di scoprire rive sconosciute che spuntano all’orizzonte delle acque tornate calme. Rive sconosciute che saranno per sempre ignorate da coloro che hanno l’illusoria fortuna di poter seguire le rotte dei carghi e delle petroliere, la rotta senza imprevisti imposta dalle compagnie di navigazione.”[39]

Quando però il trauma è molto intenso e improvviso e ci si sente schiacciati la reazione più comune è bloccarsi. Il trauma congela. Il bambino si ritira in se stesso e soffoca le emozioni perché non è in grado di gestirle.


È per questo che i bambini fortemente traumatizzati tendono a essere calmi, tranquilli e facilmente gestibili. A volte dormono molto o hanno lo sguardo perso nel vuoto e non si riesce a stabilire con essi un contatto visivo. Non sempre però è facile per i genitori distinguere questo stato da quello normale di buona salute. Così molte “regressioni” (come le chiamava Maria Montessori) passano del tutto inosservate. Durante la terapia – che si tratti di sedute di craniosacrale o somministrazione di rimedi omeopatici – quando si cominciano a togliere gli strati superficiali di “ghiaccio” le emozioni più profonde iniziano a emergere, e il bambino fino ad allora placido può diventare all’improvviso rabbioso e agitato e iniziare a piangere in modo inconsolabile come non aveva mai fatto prima. È bene sapere che si tratta di un processo transitorio che indica un passaggio verso la guarigione: finalmente il bambino può tirar fuori ciò che era rimasto bloccato e sciogliere a poco a poco ciò che si era congelato per ragioni di sopravvivenza. Fino a che non si è risolto, il trauma rimane nel corpo influenzando la fisiologia e la psicologia dell’individuo man mano che cresce.


Una delle principali scoperte che ho fatto durante il mio corso con Matthew è stata che “durante il trauma si perde il contatto con il Divino”. Questa è, in ultima istanza, la vera ferita che ci segna per la vita, quella più profonda, quella originaria, la vera causa di tutti i nostri problemi. Questo contatto può però essere ripristinato, per esempio attraverso lo sguardo o il tocco amorevole, e allora, in questi momenti magici di connessione anima ad anima, ci rendiamo conto che in realtà non lo abbiamo mai perso, abbiamo solo creduto di perderlo…


Il termine “resilienza” viene oggi molto utilizzato in psicologia per indicare la capacità di adattarsi e riprendersi da una situazione traumatica proprio come i metalli riacquistano la loro forma dopo aver subito una percussione.


Ebbene, la buona notizia è che il feto è resiliente: riesce a vivere anche senza una presenza emotiva della madre sufficientemente buona; crede di morire ma in realtà può sopravvivere perché è la Vita, la nostra vera madre, che lo tiene: lui è immerso nel grembo di Dio, nel grembo dello Spirito.

Come ci ricorda la psicanalista Clarissa Pinkola Estès: “L’anima e lo spirito hanno risorse sorprendenti. …Riescono a crescere vigorosi con poco, addirittura nulla e per lunghi periodi. …Anche se la madre in un certo senso cade, anche se non ha nulla da offrire, la progenie si sviluppa e cresce indipendententemente, e continua a fiorire”[40].

Non è facile parlare di temi di questa portata e descrivere esperienze così sacre a chi non ne serba il ricordo, ma forse condividerle può essere utile.


Io posso dire di aver provato per la prima volta l’esperienza dell’energia materna durante una sessione di craniosacrale in un momento particolarmente critico della mia vita. Quando la mia amica terapeuta mi ha descritto l’effetto della cosiddetta “Marea lunga” come quello di una potente energia guaritrice e di trasformazione che fluiva nel mio essere e portava via le tracce del trauma, io ricordo di essermi stupita perché non avevo mai sentito nulla del genere… Mai avevo sperimentato la sensazione rassicurante dell’energia materna. Non certo perché io sia stata un’orfana, ma perché ho vissuto, durante la mia vita prenatale, al terzo mese di gestazione, l’esperienza traumatica di un intervento con anestesia, che mi ha fatto perdere il contatto con la mamma, e quella altrettanto destabilizzante di una madre che, da quando ricordo, è sempre stata voltata a guardare la morte, ovverossia il bambino che aveva perso neonato un anno prima della mia nascita… Ma io avevo molta voglia di vivere e ho tirato fuori tutte le mie risorse per poterlo fare, come è emerso durante un’altra seduta di craniosacrale, la più divertente e istruttiva che io abbia mai sperimentato, in cui ho assistito a un vero e proprio film di cui voglio raccontare alcune scene perché penso possano esprimere cosa intendo per “resilienza fetale”.


Ero una bambina piccina picciò dentro una grande palla trasparente che rimbalzava elasticamente. Pur essendo così piccina avevo già una penna in mano (e qui mi immagino il sorriso dei miei lettori…). A un certo punto questa grande bolla è diventata un cubetto di ghiaccio e io mi sono ritrovata dentro a una specie di igloo. Per nulla spaventata, senza darmi per vinta, ho cominciato a tirare fuori una ad una le mie risorse: berretto, sciarpa e maglione di lana, calzettoni e coperta per proteggermi dal freddo glaciale. Poi, illuminata dalla luce di un lumino a olio, mi sono messa a scrivere…


A un certo punto però ho pensato di sciogliere un po’ di neve dalle pareti di quella caverna e con essa ho creato una piccola piscina di acqua calda: insomma mi sono fatta una piccola “spa” e, sprofondata su una sedia a sdraio, mi sono messa a sorseggiare una bibita con la cannuccia…(a questo punto della seduta non ho potuto trattenere una risata). Mi sono addormentata e quando mi sono svegliata avevo voglia di uscire da quella prigione ghiacciata, così mi sono messa a cercare una possibile via di fuga ma non ne ho trovata nessuna: il tunnel di uscita era troppo stretto e basso perché io ci potessi passare. Così mi sono rassegnata ma proprio in quel momento ho sentito una voce che mi diceva: “Tu riposa, ci pensa qualcun altro”. E allora mi sono fidata e affidata. Fuori dall’igloo è comparso il sole, un grande e meraviglioso papà-Sole che con il calore dei suoi raggi, a poco a poco, ha cominciato a sciogliere la neve dell’igloo, fino a quando io mi sono ritrovata, adulta, seduta sulla stessa sdraio su un bellissimo prato verde, con un Angelo al mio fianco.


Non avete idea di quanto questa visualizzazione spontaneamente emersa durante la seduta di craniosacrale mi abbia aiutata nel tempo e nei momenti di criticità a rassicurarmi sulle mie risorse, sulla mia capacità di resistenza e resilienza, oltreché a darmi la fiducia in quel Grembo dello Spirito che sempre ci sostiene e mai viene meno.


Un altro esempio di resilienza fetale è quello descritto da Emerson, emerso durante una regressione di un suo paziente, nato gemello: quando i genitori in gravidanza litigavano e si aggredivano anche fisicamente lui e il gemello si abbracciavano e si cullavano, trovando conforto l’uno nell’altro. In questo modo riuscivano a creare una distanza rispetto all’esperienza traumatizzante dell’aggressività genitoriale. Questo fa comprendere anche come possa essere difficile la vita in utero per un gemello che ha perduto il suo compagno di viaggio e non può contare su altri che se stesso, sentendosi completamente solo e abbandonato in balìa degli eventi e del dolore.


Da un punto di vista fisico, se pensiamo che in un campione di sangue ombelicale sono state trovate circa 36 tossine chimiche provenienti dall’ambiente, possiamo renderci conto di quanto siamo resilienti di fronte alle sfide della vita fin da piccolissimi…

Baby body language

Ti prego, impara a leggere il silenzio del mio cuore, è intelletto sottil d’amore intendere con gli occhi.

W. Shakespeare


“I neonati parlano una lingua poetica. Raccontano storie senza usare parole”; è stata questa frase, trovata un giorno su una pagina web, che mi ha convinto in un istante a iscrivermi al corso di formazione craniosacrale pediatrica, tenuto da Matthew Appleton. La sentivo risuonare in me in maniera potente.


Da tanto tempo mi dedicavo a interpretare il linguaggio dei neonati e a cercare di tradurlo ai genitori, spesso smarriti e disorientati di fronte al pianto dei loro piccoli. Questo percorso formativo era proprio su misura per me! E infatti si è rivelato provvidenziale non solo da un punto di vista della mia crescita professionale ma anche perché mi ha permesso l’elaborazione e il rimodellamento della mia personale storia prenatale e neonatale, condizione indispensabile per poter lavorare in modo efficace con quelle altrui. Insomma, senza questo fortunato incontro il capitolo che state leggendo non sarebbe mai stato scritto…

Un neonato non sa parlare e non è in grado pertanto di esprimere il suo dolore e la sua sofferenza se non attraverso il linguaggio corporeo fatto di gesti e pianti. È così che ci può raccontare il suo trauma di nascita. Per esempio, i bambini possono toccare aree specifiche della loro testa per indicare dove è avvenuta la compressione contro la pelvi materna durante il travaglio, possono scuotere la testa lateralmente per indicare il movimento a zig zag che hanno compiuto durante la fase due del parto oppure possono toccarsi la zona del cuore per parlarci del momento della scoperta, o l’area intorno all’ombelico per dirci qualcosa che riguarda i loro “affetti ombelicali”. Ecco come Ray Castellino racconta la sua scoperta del baby body language: “Stare seduto con i miei figli in braccio, appena nati, mi ha dato l’opportunità di osservare che il loro modo di muovere il corpo sembrava mostrare il modo in cui erano nati. La stessa cosa succedeva con altri neonati […]. I neonati si muovevano e si comportavano nel modo in cui erano venuti alla luce. A volte facevano suoni simili a quelli che le loro mamme avevano fatto durante il travaglio”[41].

Ecco perché l’osservazione, così tanto raccomandata anche da Maria Montessori, è strategia fondamentale sia per i terapeuti che lavorano con i bambini sia per i genitori. Ma purtroppo nessuno la insegna… I terapeuti craniosacrali esperti di processi di nascita sanno individuare esattamente la fase del parto in cui un neonato ha avuto un problema semplicemente intrepretando i suoi movimenti corporei.


Un giorno mi hanno portato due gemelline nate premature: sembravano sole e luna, tanto erano diverse come carattere, una molto vivace, sempre in movimento, l’altra tranquilla e concentrata. La prima, che chiameremo Marta, gattonava sicura e cercava di mettersi in piedi aggrappandosi ai mobili; la seconda, che chiameremo Maria, stava soltanto in posizione seduta e questo preoccupava molto la mamma. Marta per raggiungere un oggetto passava perfino sopra ai giochi o alla sorella, Maria invece, se non riusciva ad arrivarci, si arrendeva e rinunciava. Appena ho messo Maria sulla pelle d’agnello che ho sul lettino delle visite ha cominciato a strofinarci sopra i piedini con piacere ma poi, appena ho poggiato la mia mano sulla pianta degli stessi, mi ha subito allontanato la mano, mostrandomi di non gradire il contatto e a un secondo tentativo da parte mia ha ritirato del tutto i piedini. “È come se avesse subìto un trauma ai piedi”, ho detto allora alla mamma e lei mi ha risposto “Tutte le mattine in ospedale le bucavano il tallone per i prelievi!”. Anche Marta era stata sottoposta allo stesso trattamento, ma essendo ricoverata in un altro reparto aveva incontrato un’infermiera più amorevole che la avvolgeva in una coperta e le dava del saccarosio al momento del prelievo e pertanto aveva vissuto la medesima situazione in modo completamente diverso rispetto alla sorella. Questo è un chiaro esempio, non solo di come sia possibile evitare un trauma con qualche piccolo accorgimento e un atteggiamento di amorevole gentilezza, ma anche di come i piccoli, attraverso i loro gesti, anche di rifiuto, ci parlino dei loro traumi e dei loro problemi. Uno degli strumenti più potenti che essi hanno per comunicare è il pianto…

C’è pianto e pianto…

È così misterioso il paese delle lacrime.

A. de Saint-Exupery


Un neonato piange, la mamma lo prende tra le sue braccia e comincia a cullarlo. Ma il piccolo non smette di strillare, diventa tutto rosso, si agita e si contorce. La mamma si sente impotente e non sa più che fare per consolarlo. È una scena comune, che è capitata a tutti i genitori prima o poi. Comprenderne il significato può aiutarli ad affrontarla con più serenità, senza farsi prendere dal panico o dalla disperazione.


I neonati esprimono il loro trauma di nascita anche attraverso il pianto. Esistono due tipi di pianto nel neonato: il pianto di bisogno (need crying) e il pianto di memoria (memory crying) che è importante imparare a distinguere. Il primo è legato a una momentanea sensazione di disagio, dovuta a fame, stanchezza, iperstimolazione o al fastidio provocato da pannolini sporchi e bagnati. In questo caso, una volta eliminata la causa e soddisfatto il bisogno, il pianto cessa.


Il pianto di memoria invece è associato al ricordo del trauma della nascita, a momenti in cui il bambino si è sentito sopraffatto. Questo secondo tipo di pianto è molto più intenso emotivamente e difficilmente consolabile anche se il bambino viene preso in braccio e cullato. È un pianto che ha bisogno di essere espresso affinché lo stress venga eliminato. Come evidenzia Appleton, in genere si associa a movimenti ripetitivi del corpo: le gambe che spingono, la testa che oscilla, un orecchio che viene tirato più e più volte. Questi gesti spesso esprimono un impulso che è stato bloccato durante il travaglio, un movimento incompiuto che vuole trovare realizzazione, oppure possono indicare un punto del cranio in cui c’è stata una particolare compressione da parte di un osso della pelvi materna. Ci sono momenti durante il parto in cui i bambini si sentono disorientati e persi, e non sanno se riusciranno a sopravvivere. Ci sono momenti in cui si sentono schiacciati dall’intensa pressione delle contrazioni uterine, inondati dal flusso degli ormoni dello stress o dai farmaci che arrivano loro attraverso il cordone ombelicale, soffocati dalla mancanza di ossigeno dovuta alla compressione del cordone stesso durante le contrazioni. Vivono quindi emozioni di rabbia, paura e disorientamento che hanno bisogno di esprimere e scaricare. Se il pianto di memoria non viene compreso ma zittito, magari con un ciuccio, il bambino impara a non esprimere le emozioni negative e a tacere, sapendo di non poter ricevere empatia da chi lo accudisce. Questo stato di rassegnazione può essere scambiato dai genitori o da chi se ne prende cura per “bonarietà” dal momento che il piccolo appare calmo, ma in realtà il problema non è affatto risolto, è solo occultato… La maggior parte dei pianti da “coliche” è in realtà dovuta a memorie dolorose che i neonati cercano di elaborare e scaricare. Quasi tutte le coliche sono in realtà traumi prenatali o di nascita non risolti.


Come si può far fronte a un pianto di memoria? Innanzitutto riconoscendolo e poi assumendo nei confronti del bambino un atteggiamento di empatia e di ascolto attento. Per esempio si può imitare il pianto o i movimenti del bambino in un processo che i craniosacralisti chiamano “mirroring”, ovverossia “rispecchiamento”, il quale può essere sia vocale che gestuale, oppure si può cercare di esprimere a parole quello che il bambino sta sentendo, cioè dirlo per lui, al suo posto: “Sembri veramente triste in questo momento” o “Sento che sei molto arrabbiato ora”.


Come dice Appleton, “i bambini hanno bisogno di sentire che abbiamo riconosciuto quello che ci stanno mostrando. Il riconoscimento del tema permette di rilasciare ciò che si era dovuto sopportare, e questo porta a un sollievo perché non è tanto l’evento in sé che traumatizza quanto il non avere la possibilità di raccontarlo, di narrare e condividere la propria esperienza”.


“I neonati sentono se noi abbiamo la consapevolezza del mondo da cui provengono”, era solito dirci Matthew durante le sue lezioni e io posso confermare questa affermazione perché ne ho avuto riscontro tante volte durante il mio lavoro. Il bambino ha bisogno di raccontare la sua storia, di dirci come lui ha vissuto l’esperienza prenatale e il processo del parto, e ci chiede solo di ascoltarlo con attenzione e comprensione. I neonati vogliono che le loro storie vengano onorate. Ecco perché io sono solita durante le mie visite soffermarmi a lungo sul racconto della gravidanza e del parto e mentre ascolto la mamma che parla a volte con le lacrime agli occhi, osservo il bambino che tiene tra le braccia: quante volte mi è capitato di notare nei punti più critici del racconto un pianto improvviso o colpi di tosse ripetuta… Il piccolo esprime a suo modo la risonanza con ciò che la mamma va dicendo della sua storia. Allora in genere la fermo un attimo e parlo al neonato dicendogli che lo capisco, che deve aver molto sofferto ma che ora è tutto passato e può stare tranquillo insieme alla sua mamma. Spesso come risposta il bambino si calma e sorride… A volte questo purtroppo non è sufficiente e c’è necessità di un trattamento più specifico, allora consiglio ai genitori qualche sessione di terapia craniosacrale presso operatori esperti. Così le memorie del trauma della nascita possono lasciare definitivamente il corpo e si possono evitare spiacevoli conseguenze a lungo termine.

Intreccio di cuori

Quando tu comprendi il bambino, il bambino comprende te.

Osho


Nel linguaggio della terapia craniosacrale si chiama “campo”: è quell’atmosfera che si crea quando più persone si trovano insieme nello stesso spazio. Per un bambino è molto importante la qualità dell’ambiente in cui si trova a vivere.


Oggi la scienza ci spiega il perché di quanto da sempre in fondo sappiamo: un neonato si calma e sta bene tra le braccia di chi lo ama, in un ambiente rilassato e armonioso… Si tratta di una questione di frequenze magnetiche.

Si è visto che il cuore genera il campo energetico più esteso e potente del corpo umano: la sua componente elettrica è circa 60 volte più potente di quella cerebrale, la sua componente magnetica è addirittura cinquemila volte più intensa di quella del cervello e può essere misurata tramite uno strumento a Superconduzione di Interferenze Quantiche (SQUID) basato su magnetometri. Questo campo crea una sagoma a forma di ciambella che si estende ben oltre il corpo e che è stata rilevata a distanze comprese fra 1,5 e 3 metri circa dal cuore fisico. L’energia emanata dal cuore è percepibile anche da altre persone che si trovino entro la distanza sopra indicata. Quando energie simili, che vibrano sulla frequenza dell’armonia, la pace e l’amore si incontrano è come se si generasse un “intreccio di cuori”: è quanto succede per esempio tra due innamorati o a una mamma o a un papà in sintonia col suo bambino. Se invece il campo “amorevole” del bambino incontra un campo che emette frequenze ansiogene, ecco che ne risulta influenzato e per esempio il piccolo si mette a piangere. Questo è il motivo per cui ognuno di noi, fin da piccino, sta bene insieme ad alcune persone e non con altre… Un classico esempio di “intreccio di cuori” è l’allattamento: “è il momento in cui il neonato tenta di riconnettersi con l’energia vitale in modo nuovo: lo fa attraverso il latte materno. Il centro nell’ombelico non è più in connessione con la madre e l’energia che il feto riceveva attraverso l’ombelico ora è ricevuta attraverso la bocca. Egli è di nuovo unito alla madre; si è creato un altro circuito di connessione”[42]. “La sua seconda fonte di energia vitale è la connessione con il cuore della mamma.”[43] Ecco perché, secondo Osho, “per il bambino è fondamentale rimanere attaccato al seno materno per tutto il tempo necessario perché la sua crescita mentale, fisica, e psicologica possa avvenire nel modo giusto. In caso contrario il suo centro del cuore non si svilupperà correttamente: rimarrà immaturo, non sviluppato, bloccato”[44]. E aggiunge: “Una mamma non dovrebbe separare il figlio dall’allattamento al suo seno, dovrebbe permettere al bambino di allontanarsi spontaneamente; a un certo punto il figlioletto lo farà. Una mamma che costringe il figlio a separarsi dal suo seno è come se togliesse il feto dal suo utero dopo quattro o cinque mesi dal concepimento, anziché permettergli di vedere la luce dopo nove mesi”[45]. Ancora una volta, scienza e spiritualità si incontrano per offrirci una visione comune…

Solo dopo aver ascoltato le lezioni sul “campo” tenute da Matthew Appleton ho compreso perché i miei piccoli pazienti spesso non vogliono più andare a casa dopo la visita… o perché le mamme mi dicono stupite “Qui lui è diverso, è tranquillo, di solito non è così” o ancora perché i neonati si attaccano al seno e succhiano beati mentre li guardo con infinito amore e tenerezza, salvo ricominciare ad aver problemi una volta tornati a casa… Una volta una mamma venuta appositamente da Perugia per un problema di allattamento mi disse: “Se potessi metterei il camper sotto casa sua… Mio figlio mangia solo qui da lei”. Un’altra volta un piccolino di due anni recalcitrava e si dibatteva tra le braccia della mamma che lo spingeva a farsi visitare: dolcemente lo presi per mano e gli dissi con complicità: “Vieni, ce la vediamo tra di noi” e lui, placido come un agnellino si sdraiò sul lettino e si fece spogliare tranquillo. Prima di andare via lo abbracciai per salutarlo e lui con un gran sorriso mi disse “Ti voglio bene”…


Quando visito un neonato o un bambino prima di tutto stabilisco con lui un contatto visivo. Mi centro e cerco di irradiare la luce che ho dentro di me attraverso i miei occhi. Per dirla più semplicemente lo guardo con amore. La risposta è immediata: il pianto si placa, spesso il sorriso affiora. Per me è il segno che ci siamo capiti. Allora comincio a parlare al bambino che ho davanti e gli spiego cosa sto per fargli chiedendogli prima il permesso di poterlo fare: “Posso ascoltarti il cuore e i polmoni?”. Gli mostro il fonendoscopio dicendogli che è un microfono che serve per ascoltare come batte il suo cuoricino e come respirano i suoi bronchi, e se mi accorgo che lui è spaventato glielo faccio toccare, prendere in mano e provare a usare per esempio su un orsacchiotto. In genere con queste manovre anche i più timorosi si tranquillizzano e si lasciano visitare.


Una volta una bimba mi chiese di poter ascoltare il cuore della sua mamma. Naturalmente acconsentii. La madre mi aveva appena raccontato la storia della sua nascita avvenuta con un taglio cesareo. Mi apparve immediatamente chiaro che la piccola voleva rassicurarsi che la madre stesse bene perché durante l’intervento sotto anestesia aveva temuto che fosse morta. Un sogno fatto dalla bambina mi aveva confermato questo vissuto. Così le dissi quanto lei avrebbe voluto sentirsi dire nel momento della sua nascita: “Hai avuto molta paura che la tua mamma non stesse bene, vero? Ma lei dormiva soltanto, poi si è svegliata e ti ha preso nelle sue braccia”. Questo è ciò che gli operatori craniosacrali chiamano “mirroring”. Quando lo scoprii al corso con Matthew mi resi conto che io lo facevo già da tempo…


Quando si presta attenzione alla storia del bambino i ricordi emergono perché lui si sente ascoltato. In fondo non è ciò che ognuno di noi desidera dal più profondo del cuore?


Ma non sempre è facile ascoltare… In genere la reazione degli adulti di fronte alla sofferenza del bambino è o la fusione, che non permette di differenziare il proprio dolore da quello del piccolo, o la fuga: “Se tu mi dimostri il tuo dolore io me ne vado” è come se dicesse il genitore e il bambino impara a tirare giù la serranda e a reprimere le emozioni perché l’adulto non è in grado di gestirle per lui.


Il problema è che se non siamo stati ascoltati da piccoli facciamo fatica ad ascoltare i bambini perché il farlo ci tira fuori la nostra antica sofferenza…


Ecco perché è fondamentale, per chi lavora o sta a contatto con i bambini, lavorare sulla propria storia personale e imparare l’arte della centratura e la pratica dell’ascolto profondo, quella che oggi viene chiamata “mindfulness” o presenza mentale e che può essere definita come “uno stato mentale che si raggiunge portando attenzione al presente, mentre con calma si riconoscono e si accettano i sentimenti, i pensieri e le sensazioni corporee”. Solo se sappiamo ascoltarci senza giudizio, riconoscendo l’esperienza del momento presente, sia essa fisica o emotiva, siamo in grado di ascoltare allo stesso modo gli altri e di sostenerli nel momento della sofferenza.


“L’ascolto profondo con il cuore aperto genera spontaneamente compassione”, afferma Appleton e questo è proprio il messaggio che cercano di trasmettere maestri come il monaco vietnamita Thich Nhat Han o lo story-teller nativo americano Manitonquat.


“Quando il cuore è aperto e la mente è chiara io sono libero”, dice una canzone di Plum Village e in poche parole ci regala una grande Verità.


All’interno del cuore vi è uno spazio sacro, una “camera segreta”, una dimensione senza tempo della coscienza in cui tutte le cose sono possibili. Nelle Upanishad, gli antichi testi sacri indiani, è scritto: “Vasto come questo spazio esterno è il minuscolo spazio dentro al nostro cuore: in esso si trovano il cielo e la terra, il fuoco e l’aria, il sole e la luna, la luce che illumina e le costellazioni, qualunque cosa quaggiù vi appartenga e tutto ciò che non vi appartiene, tutto questo è raccolto in quel minuscolo spazio dentro al vostro cuore”.


Ecco perché, come ci ricorda Castaneda, in ogni situazione o scelta dovremmo sempre chiederci “Questa via ha un cuore?”. Se la risposta è sì, sapremo con certezza che è la direzione giusta da seguire.

Ricapitolazione e repatterning: come darsi un’altra possibilità…

Tutto ciò che non sale a livello di coscienza diventa destino.

Carl Jung


Ed eccoci quindi arrivati alla fine del nostro mitico viaggio. È giunto il momento di tirare le somme e parlare un po’ di terapia…


Innanzitutto però vi riassumo in poche parole l’essenza di quanto detto finora, che è anche la grande scoperta di questi miei ultimi anni di cammino:

Tutto ciò che viviamo dopo la nascitanon è altro che una ripetizione di ciò che abbiamo vissutodurante il concepimento, la vita prenatale, il parto e il periodo neonatale.

Ho scelto appositamente il carattere corsivo per questa frase per sottolinearne l’importanza. È questo il messaggio che voglio offrirvi e lasciarvi con questa edizione aggiornata di Sono qui con te.

Come dice Delassus “Noi adulti non siamo altro che il prolungamento dei feti che siamo stati”[46].


La verità è che noi stiamo nel mondo nel modo in cui siamo stati in utero e in cui siamo nati. I vissuti di quello che ora sappiamo essere il periodo in assoluto più importante della vita di un individuo hanno un’enorme influenza sui nostri atteggiamenti, sul nostro modo di comunicare con gli altri, sul nostro modo di vivere le relazioni. Ma nella maggior parte dei casi noi non ne siamo consapevoli… Quanti sanno infatti che il nostro rapporto con i soldi, con il sesso, con il cibo, con i viaggi, con le droghe sono influenzati dalla nostra vita prenatale e dal modo in cui siamo venuti al mondo?

Eppure nella nostra vita quotidiana, senza accorgercene, continuamente ricreiamo e riviviamo le nostre esperienze precoci non risolte, siamo cioè imprigionati in una sorta di coazione a ripetere con lo scopo di darci un’altra possibilità per uscirne fuori definitivamente.


Ci sono due modi specifici in cui mettiamo in atto questo processo: la ricapitolazione diretta e l’evitamento della ricapitolazione (detta anche “ricapitolazione evitante”).


Nel primo caso ci attiriamo situazioni che ci costringono a mettere in campo le medesime strategie che abbiamo dovuto applicare nei momenti di stress prenatale. Facciamo un esempio: se nel corso del parto ho avuto un problema durante lo stadio uno, quello cioè in cui la testa subisce una forte pressione contro la cervice uterina, mi troverò spesso in situazioni in cui mi sento “sotto pressione” sia da un punto di vista fisico (per esempio stipato nella folla), sia da un punto di vista emotivo (per esempio in vista di una scadenza di lavoro). Oppure se durante la vita prenatale ho dovuto prendere solo il minimo indispensabile di nutrimento perché mia mamma non aveva abbastanze risorse, ho imparato a sopravvivere con poco (il che può essere positivo) ma mi sono abituato anche a chiedere poco agli altri e alla vita e posso far fatica, per esempio, a farmi pagare adeguatamente pur lavorando tantissimo… Per quanto riguarda le relazioni con gli altri accade esattamente lo stesso: una persona che ha subìto un tentativo di aborto in utero da parte della madre spesso e volentieri troverà partner che cercheranno di schiacciarla, di distruggerla psicologicamente; chi ha subìto la perdita di un gemello si troverà a confrontarsi con la scomparsa improvvisa del compagno di viaggio, sia esso un partner o un amico; chi ha vissuto un lutto materno durante la vita prenatale attirerà più facilmente un marito o una moglie che guardano verso la morte e rivivrà così la penosa sensazione di sentirsi completamente solo e isolato, come se fosse totalmente invisibile… Il simile attira il simile anche nella patologia.


Nel secondo caso, quello della ricapitolazione evitante, cerchiamo di evitare di vivere le esperienze che ci ricordano il trauma primario vissuto in utero. Per riprendere gli esempi precedenti eviteremo le scadenze di lavoro o i luoghi affollati se abbiamo vissuto un problema durante il primo stadio del parto o tutto ciò che può ricordarci la sensazione di mancanza intrauterina se abbiamo avuto un problema ombelicale, per cui cercheremo di comprare cibo in abbondanza e di guadagnare sempre di più…


Chi come me per esempio ha vissuto il trauma di una temperatura troppo elevata in incubatrice andrà in crisi appena il termometro supera i 30° gradi…

Questo meccanismo di evitamento limita però enormemente la nostra vita e ci impedisce di goderla appieno.


Il processo di ricapitolazione viene attivato in genere nei momenti di transizione della nostra vita: la nascita di un figlio, un nuovo lavoro, una separazione, un intervento medico chirurgico. La famosa “crisi di mezza età” non è altro che una riattivazione dei nostri traumi primari.


Quando iniziamo a lavorare su di noi da adulti ben presto ci rendiamo conto che se siamo governati dalle esperienze inconsce della nostra vita prenatale e perinatale, cioè ne siamo in balia, viviamo una vita estremamente limitata e siamo di continuo costretti a mettere in atto delle strategie di sopravvivenza che abbiamo dovuto imparare precocemente per proteggerci. Le nostre difficili esperienze prenatali ci rafforzano, è vero, ma è importante che non siano loro a guidare la nostra vita perché altrimenti perdiamo il timone del comando e ci lasciamo travolgere da quello che ordinariamente definiamo “sfortunato destino”… Come ci ricorda Boris Cyrulnik, la resilienza permette di sopravvivere al trauma ma non lo guarisce. Non si tratta dunque di cancellare i nostri vissuti (cosa che non sarebbe nemmeno possibile) ma di affrontarli e aprire nuove possibilità che allora non erano realizzabili e ora invece sì.


Diceva Jung che non c’è presa di coscienza senza dolore. Ed è proprio così. Diventare consapevoli è un processo che comporta sofferenza ma questo non significa che nella sofferenza dobbiamo rimanere impantanati: anzi, se essa continua a bussare alla nostra porta è proprio perché vuole spingerci a liberarci della sua scomoda presenza. Come dice il protagonista del film È colpa delle stelle “È questo il problema del dolore: esige di essere sentito”.


Come afferma Appleton “Dobbiamo guardare il dolore e attraversarlo per superarlo. Nella nostra cultura non si vuole farlo e allora devono farlo i bambini, loro devono prendersi il carico”. In una parola, devono lavorare al posto dei genitori.


Dopo aver scoperto, nelle pagine precedenti, come l’embrione e il feto vivono gli eventi prenatali e quelli relativi alla nascita non dobbiamo scoraggiarci, ma anzi riconoscere che abbiamo delle risorse in più per far fronte alle situazioni difficili. Tutti noi, chi più chi meno, abbiamo un bagaglio di traumi sulle spalle ma anche, insieme ad esso, un bagaglio di risorse di cui spesso siamo inconsapevoli. Dobbiamo solo tirarle fuori. Come sono solita dire ai miei pazienti, problema e soluzione stanno insieme nella stessa confezione…


Si tratta quasi sempre di uscire dalla prigione che ci siamo creati con le nostre stesse mani: la gabbia virtuale delle nostre credenze errate. E renderci conto che se una volta è andata storta non è detto che sarà così per sempre… La Vita ci offre un’altra possibilità, sta a noi coglierla o meno. Come suggerisce un esercizio di psicosintesi “Allora ho dovuto…oggi posso…”


Come ci ricorda Osho, noi siamo sempre e comunque in grado di uscire da qualsiasi trappola ci sia stata costruita attorno. Proprio come il mago Houdini, possiamo sgusciare fuori e liberarci dalle catene e dai bavagli… Basta volerlo con tutto il nostro essere.


Ho compreso per la prima volta qual è veramente lo scopo della terapia al seminario esperienziale sulla nascita in cui, dopo averci fatto rivivere l’esperienza del venire al mondo, il nostro insegnante ci ha dato la possibilità di vivere anche un “repatterning” ovvero una “riprogrammazione” del nostro circuito neuronale, un po’ come quella che si fa quando si resetta il computer… Ognuno di noi poteva scegliere l’evento che voleva “riprogrammare”: io scelsi il soggiorno in incubatrice che era emerso come trauma primario nel processo del giorno prima e che io avevo vissuto come una reclusione in prigione, in una vera e propria cella d’isolamento. Il repatterning nel mio caso consisteva quindi nel poter scegliere il posto dove volevo stare e le persone con cui starci. Fu così che mi ritrovai esattamente con la compagna di corso verso la quale sentivo un istintivo feeling, nell’angolo che più mi piaceva di tutta la sala, in un morbido “nido”, fatto di un materasso con tanti cuscini, proprio sotto un’ampia vetrata da cui si potevano vedere gli alberi e il cielo. Insomma finalmente avevo trovato il mio posto! Quando Manuela mi si sedette accanto dicendomi “Ti posso guardare?”, a me non sembrava vero. Da una vita intera aspettavo che qualcuno me lo chiedesse… Così un po’ alla volta mi avvicinai pian piano e le chiesi se poteva anche darmi la mano e in quel momento, con le lacrime agli occhi, mi resi conto di quanto poco basta a un neonato per superare le difficoltà e sentirsi “a casa”: una presenza empatica e centrata accanto a lui, uno sguardo amorevole, il verde della natura, la luce del cielo… Tutti elementi che gli ricordano il mondo appena lasciato ma ancora così vivo dentro al suo cuore, quella dimensione divina da cui tutti noi proveniamo…


Nelle parole di Matthew Appleton “La vera guarigione avviene nel contatto, attraverso il contatto e solo nel momento presente”. E Ray Castellino aggiunge: “Nel profondo di ognuno di noi, non importa che età abbiamo, c’è la saggezza per cercare livelli di salute sempre più alti. Tenendo la presenza, si fa appello alla saggezza profonda, innata nel bambino o nell’adulto, e le si dà sostegno. Quando un operatore inizia a lavorare con un nuovo bambino e ha un po’ di empatia con lui, il bambino si apre a mostrargli la sua storia”.


E allora ecco che gli si può offrire l’opportunità di riprogrammare ciò che in qualche momento della sua biografia è andato storto.


Durante i casi clinici illustrati al corso avevo avuto modo più volte di osservare come per esempio i bambini nati con taglio cesareo avessero bisogno di compiere le rotazioni del travaglio che non avevano avuto modo di sperimentare o di completare al momento della loro nascita. Perché sempre nella vita ciò che è rimasto interrotto reclama a gran voce di essere completato e ciò che è rimasto incompiuto grida il suo desiderio prorompente di compiersi!


Vi ricordate la storia delle due gemelline, Marta e Maria? Mi pare un bell’esempio di ricapitolazione e riprogrammazione, per cui lo utilizzerò per concludere questo paragrafo. Ebbene, la mia intuizione riguardo all’immobilità di Maria era che lei si portasse dietro la convinzione di non farcela, come se a lei non fosse stato dato il dono del movimento che sembrava essere prerogativa esclusiva della sorella. Mentre condividevo questo pensiero con i genitori, la mamma delle gemelle mi riferì che in effetti Maria in utero aveva poco spazio, era sotto la sorella e quindi più “compressa” e con poche possibilità di muoversi… Ennesima conferma del fatto che i nostri comportamenti nella vita non sono altro che una ripetizione degli schemi intrauterini e dei pattern di nascita… Allora misi Maria sulla pelle d’agnello a pancia in giù, sostenendole i piedini con la mia mano e lei cominciò piano piano a darsi qualche piccola spinta in avanti mentre io la incoraggiavo dicendole “Ora ce la puoi fare, Maria! Brava, continua così!”. La piccola aveva bisogno di sentire che la vita le dava ora un’altra possibilità. Un adeguato rimedio omeopatico e qualche fiore di Bach le avrebbero dato la spinta necessaria a farcela da sola e a riprogrammare il suo software…


E ora è il momento dell’inevitabile domanda: “Che cosa possiamo fare noi come genitori per ridurre il più possibile e prevenire i traumi pre e perinatali dei nostri figli?”.


Ecco, a mio avviso, le 7 strategie che possiamo adottare:

  1. Lavorare su di noi per risolvere i nostri vissuti traumatici: essere consapevoli delle dinamiche di ricapitolazione della nostra vita e delle risonanze che abbiamo con i nostri traumi prenatali e perinatali; riviverli dandoci un’altra possibilità attraverso, per esempio, terapie corporee come quella craniosacrale.

  2. Parlare al nascituro e al neonato, spiegargli tutto quello che sta succedendo, rassicurandolo che andrà tutto bene e che non è solo ma noi siamo lì con lui in ogni momento per aiutarlo e confortarlo.

  3. Adottare durante la gravidanza uno stile di vita consapevole.

  4. Scegliere una modalità di parto il più possibile secondo natura.

  5. Compensare ciò che è eventualmente andato storto durante la gravidanza e il parto con un buon maternage, ad alto contatto.

  6. Mantenere un atteggiamento di centratura, di ascolto e di empatia nei confronti del nostro bambino, permettendogli di esprimere le proprie emozioni e legittimandole.

  7. Chiedere aiuto a terapeuti competenti e in sintonia con la nostra visione quando non siamo in grado di risolvere i problemi con le nostre sole risorse e nei momenti di crisi (ricoveri, manovre medico-chirurgiche, difficoltà durante il parto, traumi post-natali); utilizzare per sé e per il proprio bambino la formula d’emergenza del Dott.Bach (Rescue remedy).


In modo particolare vorrei soffermarmi sull’importanza del parlare al bambino, sia esso un embrione nel ventre materno o un neonato attaccato al suo seno. Il bambino non è mai troppo piccolo per capire.


Per esempio, in caso di una gravidanza all’inizio non voluta e accettata solo in un secondo momento, magari anche solo perché si desiderava un bambino di un altro sesso, come suggerisce Appleton, si può dirgli quanto segue: “So che non sono stata capace di accoglierti prima ma ora ti voglio. Mi dispiace che non sono stata lì per te prima ma ora ci sono”.


Inutile negare o far finta di niente. Il bambino sa e sente. Il non detto è per lui la peggiore delle punizioni e distrugge la fiducia nel suo proprio intuito. Se il feto percepisce di non essere voluto ma gli viene detto che non è così o è testimone di un segreto della madre che viene tenuto nascosto e quindi smentito, pensa di essere sbagliato o addirittura pazzo: “È vero quello che sento io o quello che dicono gli altri?”, e si porta dietro nella vita un senso di scarsa autostima e poca fiducia nelle proprie capacità intuitive. Naturalmente c’è modo e modo di dire e bisogna anche saper cogliere il momento giusto per farlo. L’importante è ricordarsi di parlare sempre a partire dal cuore.

Elogio delle mamme…

Il Paradiso sta sotto i piedi delle madri.

Detto islamico


Vorrei concludere questa edizione aggiornata di Sono qui con te con un elogio alle mamme. È una promessa che ho fatto loro e che voglio mantenere.


In tanti anni di lavoro come pediatra ne ho incontrate molte… Di solito sono loro a portarmi i bambini, solo in alcuni casi vengono accompagnate dai papà. Per lo più arrivano con i piccoli nelle fasce o nei marsupi, oppure in braccio. Arrivano stanche, a volte addirittura sfinite, preoccupate per la salute dei loro cuccioli, piene di sensi di colpa se qualcosa non va per il verso giusto, come se tutto dipendesse da loro perché così viene loro fatto credere… Perché se il bambino ha un problema si pensa sempre che sia colpa della mamma o dell’allattamento al seno?


Non è facile il mestiere di madre, lo so bene, anzi penso sia uno dei più difficili al mondo: non retribuito (sebbene sia a tempo pieno), non considerato, poco apprezzato… Richiede flessibilità, pazienza, resistenza, forza fisica ed emotiva, senso dell’umorismo, concentrazione, calma e centratura…


Ammiro molto le mamme che vengono da me in cerca di aiuto per i loro bambini e provo a sostenerle per quanto mi è possibile perché le capisco e mi rivedo in loro…


Sono mamme coraggiose, determinate, che lottano per ciò in cui credono, che non si arrendono di fronte allo scetticismo di coloro che le attorniano, siano essi i genitori o i coniugi o anche amici e conoscenti.


Sono mamme che si informano, che leggono, che cercano il meglio per i loro figli.

Sono mamme che lavorano giorno e notte per i loro bambini, per essere lì, vicino a loro quando piangono e si sentono soli o disperati.


Sono mamme pronte a mettersi in discussione, a lavorare su di sé per non passare ai propri cuccioli carichi non loro. Mamme che trovano il tempo, dopo una giornata di lavoro, di mettersi in cucina a fare i biscotti o a giocare e a leggere fiabe…


E quando le sento raccontare le sofferenze indicibili dei loro parti, dei loro allattamenti, portati avanti nonostante tutto e tutti, le notti in bianco, i turni di lavoro in orari impossibili per poter stare di più con i bambini, mi commuovo ogni volta e penso al detto africano “Se le donne abbassano le braccia cade il cielo”.


Sì, è proprio così, perché le donne non si arrendono mai, resistono ad oltranza perché sono custodi della Vita e sanno che dopo ogni inverno arriva sempre la primavera… Le donne non abbandonano mai la speranza.


Molte mamme in questi anni mi hanno scritto raccontando che i miei libri le hanno accompagnate durante la gravidanza e il periodo del maternage, infondendo loro fiducia nelle proprie capacità di madri “responsabili”, cioè abili a rispondere alle richieste dei propri bambini. Ebbene questo è il segno che l’obiettivo dei miei scritti è stato raggiunto.


Sono qui con te non è infatti solo il titolo del volume che tenete tra le mani: è il messaggio che ho voluto e voglio arrivi a tutte le mamme che lo leggeranno, proprio come se io fossi lì, vicino a ognuna di loro, a sostenerla e accompagnarla nel grande viaggio della maternità consapevole, sussurrandole all’orecchio queste poche, semplici, essenziali parole, che abbiamo sempre desiderato sentirci dire… “Dài che ce la fai, non sei sola, io sono qui con te, al tuo fianco”…

… e dei papà

Non è difficile diventar padre; essere un padre, questo è difficile.

Wilhelm Busch


Più volte durante le presentazioni dei miei libri sono stata ripresa dai papà, che si sono lamentati di non essere stati nominati nei miei discorsi se non di sfuggita…


Non posso dar loro torto, ma se concentro la mia attenzione sulle mamme è perché la gravidanza, il parto e il maternage sono eventi che riguardano essenzialmente la sfera femminile. Gli uomini non restano incinti, non partoriscono e non allattano…


È vero però che oggi, in misura sempre maggiore, si occupano dei loro figli in modo davvero ammirevole e amorevole, sostenendo le loro compagne in tutto e per tutto nelle scelte innovative e pionieristiche che decidono di intraprendere e spesso sostituendosi ad esse in modo impeccabile in caso di necessità.


Quando parlo al telefono con mio fratello che abita in Colorado faccio sempre fatica a dirgli quello che vorrei perché siamo continuamente interrotti dalle vocine dei suoi due meravigliosi bambini… Eppure, nonostante questo, una volta lui è riuscito ad aiutarmi via skype a risolvere un problema al computer mentre in contemporanea imboccava la piccolina di pochi mesi. Altre volte mi racconta di quando le fa il bagnetto o dei pranzetti che prepara per i suoi due cucciolotti. Insomma fa quello che di solito fanno le mamme: un occhio ai bambini, uno ai fornelli, uno al telefono che squilla per motivi di lavoro…


Ecco perché anche i papà si meritano un elogio… Di papà così non ce ne sono molti, ma sono sicuramente in aumento. Sono quelli che accompagnano le mogli dal pediatra, a volte sono addirittura loro a fissare gli appuntamenti o a scrivere le mail quando i bimbi hanno dei problemi. Sono attenti, premurosi, amorevoli, in una parola “materni”.


Ma anche loro avrebbero bisogno di sostegno perché chi li aiuta a contenere le mamme con tutte le loro ansie e le loro angosce? Ogni tanto qualcuno si fa coraggio e mi chiede “C’è un fiore anche per me?”.


Così sempre più sto pensando di offrire ai miei pazienti un “pacchetto famiglia” in cui l’attenzione non sia più rivolta soltanto al bambino ma a tutto il nucleo familiare all’interno del quale il bambino vive, cioè alle sue relazioni.

Come dice Ray Castellino parlando del suo lavoro, “una crescita sana del bambino dipende dalla qualità delle relazioni con le persone che si occupano di lui, come pure dalla qualità delle relazioni che le persone che si occupano di lui hanno fra di loro. Negli anni ’90, è stato provato scientificamente che il sistema nervoso del neonato, la sua fisiologia e la sua crescita dipendono dalla qualità dell’energia di queste sue relazioni primarie. Sono queste relazioni che organizzano il corpo del bambino relativamente a come egli funzionerà nel futuro dal punto di vista fisiologico e psicologico – non solo durante la crescita, ma anche da adulto. In questo contesto si crea lo spazio perché i bambini possano mostrare la loro storia e guarire nella relazione con le persone che li crescono e si prendono cura di loro.”[47]
Diceva Winnicott che non esiste un bambino senza una madre ma potremmo aggiungere che non esiste un bambino senza una famiglia, piccola o grande che sia, perché è all’interno di questa e delle sue dinamiche che egli cresce e si sviluppa. Per cui facciamo posto ai papà innanzitutto e poi, perché no, ai nonni e alle nonne di buona volontà…

Epilogo

Per poter scrivere oggi questo capitolo mi ci sono voluti più di cinquant’anni di duro lavoro… Non è stato facile ricostruire la mia storia, riviverla e rielaborarla per poter offrire a voi quanto ho imparato lungo il cammino. Ha richiesto decisamente una buona dose di coraggio. Ho letto centinaia di libri, in svariate lingue, ho seguito corsi, partecipato a seminari, ho scavato nei recessi più profondi della mia anima per trovare la Verità che non mi era stata raccontata. Mi sono scoraggiata tante volte ma non mi sono fermata mai. Ciò che mi conforta è che tutta questa fatica non è stata vana se ha permesso di trasmettervi un po’ di amore e di consapevolezza, affinché riusciate sempre meglio a comprendere i vostri bambini e ad aiutarli a crescere in bellezza, saggezza e salute, in una parola a crescere felici. Questo, come avevo scritto nel prologo della prima edizione di questo libro, è e rimane il mio più grande desiderio, il motivo per cui un giorno ho detto sì alla Vita…

Sono qui con te - Seconda edizione
Sono qui con te - Seconda edizione
Elena Balsamo
L’arte del maternage.Uno sguardo nuovo e rivoluzionario sulla vita perinatale, per affrontare gravidanza, parto e primi mesi con il bambino con serenità e consapevolezza. Elena Balsamo offre uno sguardo nuovo e rivoluzionario sulla vita prenatale e sulla nascita.Nella prima parte l’autrice mira a esplorare le pratiche di maternage nelle diverse culture, mentre nella seconda offre al lettore un vero e proprio strumento terapeutico per rivedere la propria vita alla luce dell’esperienza intrauterina e del parto.Basato su un’accurata documentazione scientifica, Sono qui con te si rivolge ai genitori, nonché agli operatori socio-sanitari che desiderano comprendere meglio l’universo del maternage. Conosci l’autore Elena Balsamo, specialista in puericultura, si occupa di pratiche di maternage e lavora a sostegno della coppia madre-bambino nei periodi della gravidanza, del parto e dell'allattamento.Esperta di pedagogia Montessori, svolge attività di formazione per genitori e operatori in ambito educativo e sanitario.