Ho imparato poi che gli orari per le visite ai prematuri erano strettissimi, non più di mezz’ora al giorno e certi giorni si facevano anche due ore di attesa per poi sentirsi dire che non si poteva entrare perché c’era un caso difficile e i genitori non erano ammessi.
Il giorno dopo la sua nascita, memore della montata lattea venuta per la mia prima figlia, ho avuto un lampo e ho chiesto all’infermiera se mi stavano dando qualcosa per far andare via il latte. “Certo, signora”, mi aveva risposto tranquillamente, “ce l’ha lì sul comodino!” Era il Dostinex, quel maledetto Dostinex. “Ma come? In alcune parti del mondo per i prematuri si parla addirittura di kangaroo mother care (i bimbi vengono messi in un marsupio a contatto con la mamma e lasciati a ciucciare più che possono) e qui mi date il Dostinex senza chiedermelo?”. E l’infermiera, attonita: “Non sa nemmeno se sopravvive e vuole farsi venire il latte?” E lo pensava davvero, che io fossi impazzita.
Iniziai a darmi da fare per avviare la produzione, imparare a levare il latte, tenerlo da parte… E capivo benissimo che tutti quelli che mi stavano intorno avevano pena per me e consideravano tutto questo solo come un tentativo di patetico “risarcimento” per il mio povero Adrianino.
Avevo scoperto con sgomento che la Consulente de La Leche League non esisteva più a Genova, ma la rete di sostegno si era messa in moto in fretta, offrendomi immediata simpatia, sostegno, prontezza di aiuto. Cercai in rete il sito dei prematuri e lessi avidamente le esperienze dei genitori. Mi arrivò anche l’opuscolo de LLL sui prematuri dove c’era un paragrafo intitolato: “Se il bambino muore…”, ma lo lessi senza crederci troppo.
Devo dire che anche le operatrici del nido furono gentili e comprensive. E l’aiuto più grande me lo diede il dottor Sogliani, il responsabile del reparto prematuri. “Signora, lei DEVE farcela a mantenere la produzione, perché se noi ce la facciamo a tenere in vita il suo bambino, lei ha il dovere di avere pronto del latte buono per lui!” Che coraggio mi avevano dato quelle parole! Quantomeno mi garantivano che non ero matta!
Era previsto che per diversi mesi Adriano – sempre che fosse sopravvissuto – sarebbe dovuto rimanere in ospedale, quindi il latte materno (che non veniva dato ai prematuri) era inutile. Così incominciai la pratica terribile di levarmi il latte con il tiralatte per buttarlo via. Non ce l’ho fatta. Lo conservavo, lo mettevo in freezer, per cosa non lo so.
Il tiralatte non mi piaceva. Lo odiavo, che frustrazione: dieci gocce… un cucchiaino… Ancora non sapevo tutte le cose che so oggi, e che la modalità di suzione del tiralatte è diversa da quella della bocca del bambino. Credevo di essere io la strana, la diversa, un po’ incapace, che non riusciva a far funzionare il tiralatte. Sul sito americano de La Leche League trovai la spiegazione del metodo della spremitura manuale, per levarsi il latte con le mani, e contemporaneamente una delle puericultrici mi disse di provare a guardare una fotografia di Adriano. Brava! E chi ce l’aveva una foto di Adriano? Tutto intubato e pieno di flebo? Però in effetti le scarpine le avevo, un cappellino l’avevo, un pigiamino blu che mi avevano regalato l’avevo!
E davvero levarsi il latte con qualcosa di suo davanti divenne più ‘naturale’, più ‘logico’. Il latte arrivò, molto lentamente, però piano piano passai da tre grammi a cinque, a venti, a cinquanta, a cento…
E ci fu il giorno meraviglioso in cui un dottore del reparto (ormai tutti i medici erano amici) mi disse: “Prepàrati, perché da domani voglio il tuo latte e ne voglio almeno 500 grammi!”
“Ma io non ce la faccio, 500 grammi?!”
“Vedrai che in tre giorni, se sai che è per lui, ci riesci”.
E davvero fu così. Non so come sia stato possibile! E vedere in quel tubicino un liquido giallo chiaro e sapere che era il MIO, il mio latte, per lui… mi fece sentire che ero davvero la sua mamma, mentre prima la sua mamma era stata solo quella scatola piena di luci e “dong” dei computer.
Purtroppo la maledetta infezione polmonare che è l’incubo di tutti i reparti prematuri aspettava accovacciata nel buio. E così dopo 32 giorni, intensi come niente altro nella mia vita, Adriano è morto, in due giorni, nonostante il mio latte… Era come se fosse diventato un vecchietto, con la pelle rugosa. Infezione renale, anche. Quando lo idratarono di più e poi ancora di più, riprese peso e la pelle tornò quella di un bambino “vero”, ma il suo cervello era compromesso irrimediabilmente e dopo un paio di giorni di immobilità ci avvertirono che – nella notte – avrebbero staccato la spina.
Quella notte io e Sandro avevamo chiamato un’amica che ci tenesse Vittoria, così radiosa e solida in tutte quelle settimane di fatica sovrumana, ed eravamo andati in reparto. Ci portarono l’incubatrice, ormai inutile, con Adriano dentro, carino da morire, perfetto e piccolissimo, con la narice nella quale era stato sempre il sondino un po’ più larga dell’altra, ma per il resto era un bambino normale. Solo che era morto.
Sandro aveva chiesto la cosa che io non avrei avuto il coraggio di chiedere: “Posso prenderlo in braccio?” Era la prima volta che lo prendevamo in braccio, ma io ero stata al suo fianco quasi tutti i giorni (tranne quando non avevo potuto entrare in terapia intensiva) e per lui fu un’emozione tremenda.
Poi lo portammo nell’obitorio, lì vicino, a piedi, nel silenzio e nell’afa della notte estiva. Il giorno dopo tornammo ancora. Sentivo il bisogno di stare lì vicino al mio bambino, di chiedergli scusa e scusa e ancora scusa perché non avevo saputo tenerlo al caldo, proteggerlo, e non l’avevo difeso.
Quanti anni ho passato a fare i conti con la mia inadeguatezza… Saperlo prima, parlarne con altre donne per capire come ognuna di loro aveva affrontato questa sensazione inevitabile, così prioritaria e totalizzante, mi avrebbe forse aiutata (almeno un po’) a superarla prima.
Sandro ha fatto alcune foto di Adriano e di me che gli sono vicina, ed è un sollievo poterle riguardare, ogni tanto.
È stata dura.
Intanto prendere il Dostinex, sul serio, a quel punto. La Consulente de La Leche League mi aiutò a decidere quale fosse la cosa migliore per me. Mi spiegò che si poteva anche far andare via il latte poco per volta senza medicinali, ma non me la sentivo di continuare con quella manovra che era stata fino al giorno prima così piena di speranza. Capii che, per me, sarebbe stata una tortura inutile. Conosco altre donne che invece hanno fatto diminuire la produzione lentamente e si sono sentite in pace con se stesse. Per me non era la scelta giusta.
Poi ho dovuto fare i conti con quella scorta di latte in freezer. Terribile. L’ho messo tutto in un sacchetto di plastica e l’ho buttato via in un bidone della spazzatura vicino alla camera mortuaria dell’ospedale dove c’era Adriano. Mi sentivo un’idiota, soprattutto sola da morire (per carità, Sandro è stato il compagno che augurerei a chiunque in un momento simile, solido, caro, comprensivo, dolce… ma sapevo che non avrei potuto spiegargli una follia simile). Forse avrei dovuto seppellirla insieme a lui, chissà. Allora sì che mi avrebbero presa per matta davvero (ma credo che molte donne avrebbero capito).
Quello che una mamma prova quando il bambino è nato vivo, anche se piccolo e “imperfetto” e poi muore in seguito rasenta la tortura mentale. Prima la gioia della gravidanza, poi la disperazione dell’aborto, (cioè no, è un parto), poi la gioia della vita che riprende e infine, nuovamente, la disperazione definitiva della morte. Chi può sopravvivere a una simile doccia scozzese altalenante della vita e della morte?
E – come molte mamme hanno evidenziato nelle testimonianze inserite in questo volume – spesso le parole degli altri sono come minimo inutili, se non stupide e dannose. La gente (e spesso non è colpa sua) non ha educazione dei sentimenti e quasi sempre la cosa più utile – “Ti abbraccio, sono qui, dimmi come ti senti” – sembra un aiuto troppo poco ‘adatto’, e si preferiscono frasi più positive e consolatorie: “Hai già un’altra bambina” “Ne farai un altro” “Se la Natura (oppure Dio) ha deciso così un motivo ci sarà”…
E quando abbiamo aspettato Adriana, il sentimento più forte è stato il terrore. Terrore di perderla, ovviamente, ma soprattutto terrore di non essere di nuovo all’altezza, di fallire ancora una volta come madre, come donna,vanificando tutto lo sforzo fatto per cercare di essere una brava mamma per Vittoria e per tutti i figli che avessero voluto arrivare dopo di lei. E ancora una volta la gente mi diceva: “Chissà come sarai contenta” “Che bello” “Un altro bambino, era ora” e io li guardavo pensando che LORO erano pazzi… Come potevo essere contenta avendo davanti nove mesi di terrore? Non credo che sia stato valutato a fondo il bisogno di sostegno delle donne durante la gravidanza successiva a un aborto o a una perdita.
Se vi trovate in questa situazione, chiedete aiuto, parlatene, tirate fuori (se l’avete) la paura che sta nel fondo, in agguato, perché tantissime donne l’hanno provata e solo la solidarietà e il sostegno aiutano a uscirne. Mah, uscirne non è detto… diciamo almeno a sopravviverle.
Ricordo che quando Sandro entrava in casa e mi guardava negli occhi cercavo di fingere di stare meglio perché capivo che non avrebbe retto a lungo al mio dolore, alla mia disperazione. E gli amici, i parenti, telefonavano e chiedevano e ci invitavano a cena… E la finzione dopo un po’ prese il sopravvento. “Come va?” “Bene, grazie, meglio”.
Io non ho mai avuto dubbi sul fatto che Adriana avrebbe dovuto chiamarsi con lo stesso nome del fratello. Ma in molti mi avevano detto che sarebbe stato un errore, che la stavo caricando di una responsabilità enorme per il fatto di dover coprire un vuoto immane. Molto tempo dopo ho compreso che chi mi diceva questo non ha capito nulla del cuore di una madre. Mai Adriana avrebbe potuto essere confusa nel mio cuore con Adrianino. Mi hanno detto che i buddisti sono convinti che i bambini che muoiono presto sono gli stessi che poi tornano, quando arriva un altro figlio. Che vengono a fare una visita ai genitori, a prepararli per quello che accadrà dopo, addirittura a preparare una madre migliore e più forte. Può darsi.
Molti anni dopo la morte di Adriano ho potuto condividere con un’amica una parte della mia esperienza e ci siamo raccontate che entrambe, dopo la morte dei nostri bambini, abbiamo passato settimane se non mesi, sedute per terra a dondolarci, abbracciandoci le ginocchia e ripetendo all’infinito: “Voglio il mio bambino, voglio il mio bambino”. Avevamo il vuoto dentro, il vuoto della pancia che non c’era più, il vuoto del bambino che non c’era, il vuoto del corpo che non aveva nessuno da accudire. Parlarne ci aveva fatto sentire meno sconvolte dal dolore, meno pazze.
Però… come spiegarmi alla fine di questa tristissima storia? Mentre Adriano era ricoverato in ospedale, c’era una mamma che aveva un figlio di dodici anni che era stato operato per un’appendicite e non si era più svegliato dall’anestesia. È morto il giorno stesso di Adriano. Mi veniva da pensare: “Povera me che ho perso Adriano, ma povera tanto di più quella mamma che ha perso il suo bambino grande, che conosceva bene…”
È stata la scuola di vita più incredibile che io potessi fare, la più forte, e anche la più “bella” (tra molte virgolette). Non la augurerei a nessuno, è chiaro, ma io sono molto molto migliore da allora.
E infatti la nostra seconda bambina, Adriana, è forte e sicura, non solo perché l’ho allattata per diversi anni, ma soprattutto perché ha una mamma molto più attenta a cose che prima forse non avrei nemmeno visto, e più attenta agli altri esseri umani.
Di sicuro l’unica risposta corretta quando mi chiedono quanti figli hai è tre, e se penso anche al piccolo Bacci perso all’inizio della gravidanza, sono addirittura quattro. Ognuno di loro ha un posto nel mio cuore, e ognuno di loro mi ha dato qualcosa di gigantesco.
Carla