7 Agosto 2001
Al mio piccolino che non c’è più.
Perché tu non pensi che ti abbia dimenticato.
Due mesi di diario che ti avevo scritto, gli esami di quei tre mesi, le ecografie, i fogli del pronto soccorso: tutto strappato a pezzi e gettato via. Ora vorrei avere tutto di nuovo qui con me, per leggere di noi. Le ecografie per vederti che, seppur morto, eri il mio bambino, custodito per così poco nella mia pancia. Più di tutto, vorrei avere ancora nelle mani quel vasetto pieno di te (pieno di sangue) e trovar la forza d’animo e la lucidità che non ebbi per nasconderlo sotto i vestiti, vicino al cuore, e portarlo via di nascosto, via dall’ospedale! Per proteggerti, coccolarti, rassicurarti e prometterti di non lasciarti mai. Vorrei poi avere davanti tutti quei dottori: quello che mi disse di tornare dopo un paio di giorni, lasciandomi a domandarmi se tu, nella mia pancia, fossi ancora vivo oppure no (cosa voglia dire tornare nella casa silenziosa, da cui ero partita ancora madre, star sdraiata e trattenere le lacrime per timore di farti male, toccarmi la pancia con il presentimento gelido dell’addio e della perdita, questo il medico non lo sa) e la dottoressa che, mentre tenevo in mano il foglietto dell’istologia con gli occhi gonfi, in malo modo mi disse che non avevo fatto altro che un esame di routine, che non serviva a capire perché mai tu fossi morto. Bene, vorrei dir loro quanto io li abbia odiati per non avermi offerto neppure una spalla o un pezzo di carta per piangere in quei momenti da incubo. Vorrei, dicevo, non averti lasciato all’ospedale (nel vasetto), tanto quell’esame non ci è servito a niente. E se me l’avessero detto prima, non l’avrei fatto e ti avrei portato via.
E ora, dove sei? Sei lì che mi ascolti? Prendi, bambino mio, l’abbraccio più caldo che ho, e l’amore immenso che mille altre nascite non potrebbero darti. Ho messo da parte per te i mesi che hai perso di coccole nella mia pancia, e il latte più buono che avrei avuto. La mia voce riuscirà a riscaldarti? Così lontano dove sei? Dal mio cuore, prendi infine tutte le parole che per la carta non ho più.
Non riesco a perdonarmi le parole terribili che ti dissi quel giorno che litigai con tuo padre. La tinta sui capelli. Sono state queste cose a farti del male? Una ragazza mi ha detto che hai sentito che in quel momento non ti volevo, e così hai deciso di non nascere da me: sarebbe orribile se avesse ragione, ma so che vaneggia.
Dopo la tua partenza, ho pensato così poco a te. Faceva un male orrendo. Tanto male che, quando ti persi, ricominciai a fumare. Di nascosto da tuo padre, compravo le sigarette, andavo a casa, ne fumavo due e buttavo via il pacchetto. Mi stordivo con quell’amaro acre per sopportare lo scorrere delle ore.
Lunedì fu il giorno che mi portò l’annuncio della tua morte certa.
Ogni cosa si fece grigia, triste e priva di direzione. Ricordo quella sera una pizza a Lecco veramente assurda, senza fame né parole. Mattina: un tristissimo parco comunale, silenzio di morte, noi con facce spente. In fuga.
Venerdì ti avrei dovuto vedere durante la prima visita dal ginecologo. E invece tu, poverino, eri morto, e chissà quando.
Io seppi subito di aspettarti, sai? Ebbi le ultime mestruazioni il primo di aprile del ’99 (dicevo a tutti che mi avevi fatto lo scherzo per il pesce d’aprile). Poi mi venne un seno enorme e un dolore a destra del ventre. Andai a fare un’ecografia: una dottoressa astiosa mi disse che non si vedeva nulla, ma io SAPEVO!
Aprile. Maggio.
Credo mi lasciasti il 18 giugno (è difficile, questo paziente lavoro per ricordare le date, i giorni precisi; ma è necessario, per trovare un po’ di pace).
La mattina stetti malissimo. Chiamai tuo padre al lavoro. Di corsa all’ospedale. Ebbi contrazioni fortissime, rifiutai la puntura di antidolorifico e il medico mi chiese: “Come? Vuol sentire ancora male?”. Ma era l’anima, che sentiva male! La pancia. Il cuore.
Avevo dovuto attendere molto, due o tre settimane. Rifiutando l’operazione che ti avrebbe portato via, quando seppi che eri morto, ti tenni nella mia pancia il più a lungo possibile. Così fosti tu a scegliere il momento del commiato.
Feto mio, ti custodisco con amore immenso in un posto sacro accanto al mio cuore, così che tu possa ascoltarlo che batte, e aspettarmi.
C’è una ferita, nella mia pancia, che proteggerò in eterno dal tempo che tutto cura. Per non dimenticare.
Veronica