CAPITOLO X

Praticare la gioia

Dobbiamo corteggiare l’Utopia, perché il corteggiamento è la fase che precede l’amore, che prelude a qualcosa che si svilupperà e continuerà per tutta la vita1.

Che cos’è la gioia? Esistono ricerche che possano illuminarci sulla sua natura e la sua funzione? Può realizzarsi una scientificazione della gioia, cioè lo sviluppo di una branca di ricerca scientifica che esplori questo sfuggente stato dell’essere? Perché no, ci si dovrebbe rispondere, visto che fiumi di inchiostro e miliardi vengono investiti da decenni nello studio dei sentimenti di infelicità, come rabbia, disperazione, odio, depressione. Eppure, nulla di più difficile. Michel Odent racconta la sua difficoltà a reperire studi su questo argomento:


Nonostante numerosi stati emozionali siano stati studiati da fisiologi, psicologi, epidemiologi e altri scienziati, il concetto di gioia non era stato considerato affatto. Se si prova ad esplorare banche dati specializzate, scientifiche o mediche, le parole chiave ansia, stress, depressione, difficoltà psicologiche o paura rimandano a migliaia di referenze bibliografiche, mentre gioia è una parola chiave sterile, senza referenze2.


In un mondo in cui le energie migliori sembrano essere assorbite dall’analisi delle negatività, di ciò che non funziona, forse vale la pena di chiedersi perché – nonostante si spendano tante parole per promuovere i buoni sentimenti e tante energie per ricercare un utopico benessere – tutta questa promozione della felicità sembra essere così poco efficace. Forse piuttosto che studiare come combattere l’infelicità sarebbe meglio impegnarsi per capire quali approcci favoriscono la gioia, promuovono la pace, fanno fiorire la vita. Non tanto un vuoto elogio del bene, quanto un lavoro per comprenderlo. Ecco perché l’Utopia non va soltanto sognata, ma anche corteggiata.


Ciò di cui la scienza tace è però cantato dai poeti, raffigurato dagli artisti e narrato dai mistici. Ne emerge in modo ricorrente un collegamento fra la gioia e gli stati estatici, il che ci riporta al cocktail di ormoni orchestrati dall’ossitocina: endorfine, dopamina, melatonina, benzodiazepine naturali.

La gioia viene anche sistematicamente associata al rigoglio dell’energia vitale: alla primavera, all’infanzia, al sorgere del sole. Ecco riemergere dunque quelle connessioni alla vita che sono generate dall’empatia e dalla coerenza degli affetti, dalla condivisione delle emozioni e dal “contagio” ossitocinico.


L’attivazione dell’asse dell’ossitocina è un’efficace antagonista degli ormoni dello stress e, alla luce dell’epigenetica, potrebbe avere un impatto addirittura intergenerazionale sulla salute psichica degli individui. Come osserva sempre Michel Odent,


Se la gioia è il contrario dell’ansia, della depressione e del disagio psicologico, si può ragionevolmente pensare che sia associata a un tasso basso di cortisolo. Possiamo quindi suggerire che la funzione della gioia durante la gravidanza sia quella di proteggere il nascituro dagli effetti dannosi degli ormoni dello stress. Poiché effetti a lungo termine possono ancora essere riscontrati in età adulta, possiamo addirittura comprendere che la gioia durante la gravidanza sia necessaria per trasmettere, di generazione in generazione, la capacità di essere felici3.


Praticare la gioia, allora, diviene in quest’ottica ben più che un obiettivo edonistico, ma anzi è una scelta che nasce dal desiderio di voler attivamente contribuire a rendere il mondo un luogo migliore e scegliere di essere il cambiamento che vogliamo vedere nella futura umanità.


La Compagnia dei Guastafeste

C’erano una volta un bambino e una mamma felici. Godevano della vicinanza l’uno dell’altro, condividevano tutto, il sonno e la veglia, il bimbo prosperava grazie al latte della mamma e alle coccole che non gli erano mai mancate, la mamma si sentiva sicura e fiduciosa, e tutto funzionava a meraviglia.


Poi arrivarono un giorno alcune persone, che con autorevolezza spiegarono ai due che la loro felicità era sbagliata, che anzi il bambino soffriva a dover stare così attaccato alla sua mamma invece che andarsene autonomo nel mondo, che dormire separati è più sicuro, che il latte materno dopo i primi mesi è superfluo e che è impossibile che un bimbo così enormemente grande, che mangia, parla e cammina, possa volere davvero poppare ancora al morbido seno, sicuramente non ne ha veramente voglia ma lo fa per far contenta quell’egoista della mamma, che vuole solo trastullarsi con il bambino come fosse un neonato.


Ed ecco che quei genitori sereni subirono il tarlo del dubbio. Si mostrarono loro esempi reali o immaginari di bambini “regolarizzati” che dormivano da soli, si facevano imboccare senza protestare, stavano tranquilli nel loro box senza cercare piangendo i loro genitori, come se quella fosse la più grande conquista, anzi il più grande regalo che un adulto potesse fare al proprio figlio.


Come proseguirà questa storia?


Un grande ostacolo alla tenerezza e all’amore è la paura della felicità. Sembra assurdo, ma nella nostra cultura siamo cresciuti con alcune convinzioni che ci intrappolano in una gabbia di infelicità impedendoci di esprimere la gioia, seguire il nostro cuore e tutto ciò che ci fa stare bene, e alla fine rendendo difficile goderci i nostri bambini con semplicità.

Siamo stati educati all’idea che per raggiungere i nostri obiettivi dobbiamo soffrire, e che la sofferenza è la misura dell’importanza delle nostre mete e del valore delle nostre conquiste.


Le soluzioni gradevoli, che semplificano, facilitano, rendono felici tutti, sembrano essere in odio a una nutrita compagnia di guastafeste, che ritengono sospetto tutto ciò che è piacevole e gratificante (ad esempio, coccolarsi senza limiti), secondo una mitologia del bene che arriva solo attraverso il sacrificio, la sofferenza, dolorose lezioni di vita, e si esprime attraverso la massima “Non sempre le vie più facili sono le migliori da seguire”. Si insinua l’idea corrosiva che non si possa meritare di essere felici, o che qualsiasi momento di felicità richieda il pagamento di un prezzo uguale e contrario di sfortuna o di dolore. Si è creata una mistica della sofferenza che trova consensi in tradizioni religiose, filosofiche, psicologiche, ma che non è mai, di fatto, il messaggio più vero di tali tradizioni, bensì una distorsione.


I costrutti antifelicità sono numerosi, assiomi che ci sono stati ripetuti fin dalla più tenera età avvelenando le nostre gioie e smorzando i nostri entusiasmi. Spesso questi costrutti si presentano in coppie del tutto contraddittorie fra loro: si tratta delle cosiddette ingiunzioni paradossali, cioè quelle esortazioni (richieste, imposizioni) che contengono una contraddizione e quindi sono impossibili da seguire perché “come fai, sbagli”. Il terapeuta Thomas D’Ansembourg descrive diversi di questi binomi impossibili, come ad esempio:


  • Non puoi essere felice quando al mondo tanti soffrono / non puoi lamentarti quando al mondo tanti soffrono più di te. Questo costrutto fa leva sul senso di colpa, come se la felicità fosse una risorsa limitata e, se ne usufruisci, ne stai togliendo a qualcun altro. Tende a farci sentire responsabili dei sentimenti degli altri, in particolare dei sentimenti di coloro che sentono di aver ricevuto poco nutrimento affettivo o fisico nella loro vita.
  • Devi sempre essere il migliore / quello che fai non sarà mai abbastanza. È un’incitazione al perfezionismo accompagnata dalla tragica certezza che la perfezione non esiste. Questa trappola emotiva fa perno sul bisogno di essere apprezzato e si fonda sul proprio vissuto di amore condizionato, cioè essere stato amato solo “a condizione di…”.


Al primo binomio appartiene ad esempio l’idea che parlare dei benefici dell’allattamento o della bellezza di un parto indisturbato sia in qualche modo crudele nei confronti di chi non ne ha potuto godere.


Applicate all’esperienza genitoriale, queste trappole antifelicità risultano particolarmente corrosive. Per esempio, possiamo cadere vittime della visione sacrificale della maternità e paternità, e sentirci in colpa quando cerchiamo di bilanciare i bisogni del bambino con i nostri, perché ci è stata appunto inculcata l’idea che la felicità è concessa solo se tutti gli altri intorno a noi sono stati accuditi e appagati. Inoltre impedisce ai genitori – se si trovano a disagio con un approccio o una modalità educativa – di cercare qualcosa di più adatto a loro, poiché suggerisce che dovrebbero essere già contenti di ciò che hanno e non lamentarsi di ciò che manca o non va bene. Tipiche a questo proposito sono certe frasi pronunciate nel puerperio: “Non importa quanto brutto sia stato il tuo parto, l’importante è che tua figlia stia bene”, oppure, “Di che ti lamenti? Hai un figlio meraviglioso, tuo marito è bravissimo, e tu sei un’ottima madre”.


Anche nei confronti dei figli può succedere che si ripetano le stesse ingiunzioni, e quindi il loro modo di essere non venga accettato così com’è, pretendendo o aspettandosi da loro che diano sempre il massimo, oppure che si mostrino grati e appagati delle cure che i genitori gli forniscono, senza lamentarsi o chiedere “troppo”.

Il bisogno di essere accettati e apprezzati spinge a compiacere gli altri, e porta a temere o nascondere la propria felicità per timore di non essere più amati o di suscitare invidia. È vero, la vista di una persona felice può suscitare davvero nelle persone infelici reazioni difensive, di imbarazzo, minimizzazione, irritazione. L’intensità dell’emozione positiva può spaventare. Dice tuttavia D’Ansembourg:


Questi atteggiamenti non sono contro di voi, sono semplicemente l’espressione del modo in cui il sistema ha paura dei cambiamenti e si aggrappa alla continuità. Ricordate solamente, per aumentare la vostra empatia, che non siete al mondo per confermare il sistema nelle sue certezze. Siete al mondo per essere o diventare felicemente voi stessi; è il dono di gioia e di verità di cui il mondo, spesso triste e confuso, ha bisogno4.


In questa riflessione viene suggerita una via per svincolarci dall’ansia dei giudizi altrui: la pratica dell’empatia. Ascoltando in modo empatico i giudizi e le critiche degli altri, possiamo intuire le emozioni e i bisogni che li muovono e riusciamo ad andare oltre le loro parole, comprendendo che queste riguardano la loro storia, e non la nostra. Possiamo quindi smettere di essere reattivi o di sentirci responsabili per i loro sentimenti, e permetterci finalmente di godere di tutta la felicità a cui aspiriamo.


La felicità ha bisogno di essere praticata per crescere e per essere mantenuta; non è un premio da conquistare con fatica e sofferenza, ma semplicemente lo stato di grazia che si raggiunge tutte le volte in cui ci si connette al proprio sé autentico e si cammina in direzione della piena realizzazione del proprio potenziale. Questa pratica della gioia è sia fattiva sia interiore: da un lato fare scelte che tengano conto dei nostri bisogni ci dimostra che la felicità è possibile, incoraggiandoci lungo questo percorso; dall’altro mantenere una disposizione interiore basata sull’empatia e la compassione è un risultato che si migliora con la pratica, e che ci permetterà di mantenerci più a lungo in questo stato di grazia.


Nutrire il lupo giusto

Dove vogliamo investire le nostre energie? Perché esse non sono illimitate. Occorre una valutazione che permetta di fare una scala di priorità e investire tempo e risorse emotive laddove vogliamo che la nostra vita si espanda.

È nota a tutti la leggenda indiana dei due lupi. 


Un vecchio capo indiano spiega a suo nipote che dentro ciascuno di noi si svolge un’eterna battaglia fra due lupi. Uno è gioioso, pacifico, sincero, gentile, amorevole e generoso; l’altro è feroce, arrogante, risentito, bugiardo, pieno di rabbia e rancore. “Quale lupo vince?” chiede il ragazzo. “Quello che tu scegli di nutrire”, risponde il saggio Cherokee.


Nella nostra vita frenetica, sovraccarica di informazioni, stimoli, sollecitazioni, incombenze e relazioni, ci può capitare facilmente di rispondere in modo reattivo agli eventi, con automatismi che ci fanno intervenire nei confronti di ciò che è più violento, rumoroso, dissonante, o semplicemente più immediato.

Ci troviamo allora a nutrire il lupo sbagliato. È come se dessimo per scontate e garantite per sempre tutte quelle cose che nella nostra vita funzionano, e quindi ci accanissimo a cercare di “aggiustare” quello che non funziona, con un’energia proporzionalmente tanto più grande quanto più intenso è l’elemento di disturbo, senza la capacità di riconoscere le cause perse e quelle che non meritano veramente la nostra attenzione. Questo distoglie tempo ed energie che potremmo ben dedicare a nutrire invece ciò che c’è di buono e funzionante nelle nostre vite.


Sembra che lasciar perdere le battaglie vane sia uno dei compiti più difficili da imparare nella vita. Io lo chiamo il Potere della disfunzione. Lo vediamo spesso all’opera nelle relazioni: più una persona agisce in modo sgradevole, disfunzionale, negativo, aggressivo, manipolatorio, inibente, squalificante, deprimente, diffamatorio, e più finiamo per dedicargli tempo ed energie, trascurando invece ciò che nelle nostre vite è buono, bello, positivo, creativo, incoraggiante, entusiasmante, rispettoso, vero. Come se ciò che è buono non richiedesse il nostro impegno e le nostre cure.


Ma il bello e il buono non stanno lì ad aspettarci, nutrendosi da sé. Hanno bisogno delle nostre energie per radicarsi in noi, per crescere e sbocciare.

Nutrire il lupo buono significa abbandonare il narcisismo che ci fa accanire per soddisfare il nostro orgoglio ferito, cercando il riconoscimento di essere dalla parte della ragione. Ma viene un momento in cui si deve prendere atto della verità che non avremo mai tutti dalla nostra parte; non potremo mai ottenere il consenso unanime e l’apprezzamento di tutti.


Nutrire il lupo buono vuol dire interrompere il circuito adrenalinico che ci mantiene legati allo schema di attacco o fuga, e scegliere consapevolmente la via ossitocinica della calma e della connessione. Smettere di essere reattivi e cominciare a essere proattivi.


Diciamo semplicemente no al potere della disfunzione. Scegliamo a chi e a cosa dedicare le nostre energie, attenzione, tempo, intelligenza ed emozioni, perché ne abbiamo in quantità limitate. Scegliamo cosa far radicare e sbocciare dentro di noi.


La gioia: il nostro navigatore

Come genitori, più volte ci chiediamo quale sia “la cosa giusta da fare”. Cresciuti spesso senza esempi viventi dell’arte di accudire, molti cercano nei libri, negli esperti, nel web un “libretto delle istruzioni”. Raccogliere informazioni può arricchire la nostra prospettiva, però dobbiamo sempre tenere presente che deve essere la nostra. Abbiamo a disposizione una guida eccellente: il nostro bambino. Per la precisione, i sentimenti del nostro bambino. E naturalmente, anche i nostri sentimenti.


Il senso di giustezza interna è un navigatore fantastico, una bussola interiore che può aiutarci a fare le scelte più benefiche per noi e per i nostri cari. Una risorsa che ogni bambino possiede alla nascita e che è nostro compito proteggere, evitando di forzarlo in direzioni che vanno contro il suo senso di coerenza e la sua integrità, e soprattutto evitando di disconfermare le sue sensazioni, insinuando il dubbio che ciò che prova sia in qualche modo “sbagliato” e ciò che lo fa soffrire sia invece benefico per lui.


C’è da tenere a mente, come sempre, che non stiamo parlando di un metodo, ma di un approccio. Di un saper essere, non di un saper fare. Si tratta di prendere sul serio i nostri sentimenti e scegliere di farci ispirare dalla gioia, e non dalla paura. Quando ci troveremo a guidare con gentilezza i nostri figli, anche quando i momenti di conflitto, le avversità o semplicemente le necessità della vita quotidiana ci porteranno a decidere se soddisfare o meno le loro richieste, potremo in ogni caso prenderli sul serio, empatizzare con loro ed elaborare insieme a loro una soluzione che tenga conto anche dei loro bisogni.


Lasciarci guidare dalla gioia, andare “dove ci porta il cuore” ci permette di innescare un circolo virtuoso di fiducia reciproca. Ci spinge a credere in noi e nei nostri figli, così come spinge loro a confidare in noi e nell’efficacia e nella giustezza delle loro azioni e sentimenti.


Questo senso di sicurezza, sapere che la gioia è possibile e lecita e che funziona, ci può dare il coraggio, la forza e la spinta per superare i momenti difficili: ci può dare la speranza.


L’importante è ricordarsi di consultare il nostro navigatore, seguendo le sensazioni di gioia e i pensieri felici: sono quelli che ci fanno volare.


La libertà di rinunciare al controllo

Ci sono due equivoci che ricorrono sulla disciplina dolce: uno, che significhi accondiscendere sempre alle richieste esplicite dei bambini, e proteggerli da qualsiasi aspetto negativo; un altro, che significhi un metodo per far loro accettare di buon grado ciò che pretendiamo, in modo che si modellino secondo le nostre aspettative.


Nessuna di queste cose è vera, ma pensandoci, le due aspettative sono legate assieme dal bisogno di controllare: la situazione, la vita dei nostri figli, la pianificazione delle nostre giornate, i nostri e i loro sentimenti.


Scegliere di rinunciare a questo controllo significa imboccare una strada magari più incerta e più impegnativa, ma più flessibile, in cui la bussola non è più fissa, data dal nord magnetico, ma come la famosa bussola di Capitan Sparrow è guidata dal nostro cuore e da ciò che per esso conta davvero. Impegnativo, certo; ma anche così liberatorio! Perché ci solleva dalla responsabilità, che poi diventa colpa e rimpianto, di farci carico di ogni azione dei nostri figli, di ogni loro stato emotivo; e in séguito, di ogni loro scelta.

D’Ansembourg sottolinea che il senso di colpa non è un sentimento, ma un giudizio che noi operiamo nei confronti di noi stessi:


Non ci sentiamo colpevoli: ci giudichiamo colpevoli. Secondo i nostri usi, le nostre tradizioni morali e il nostro sistema giudiziario, i colpevoli vanno messi in prigione. Così, la parte di noi che giudichiamo colpevole è agli arresti! Non mi stupisce che la nostra vita sia ostacolata, immobilizzata. Siamo al tempo stesso prigionieri e carcerieri della nostra colpa5.


Dobbiamo rassegnarci a non poter controllare i sentimenti: né i nostri né quelli dei nostri figli.


Presupposto della guida gentile è accettare che non sempre i nostri figli saranno felici. Ci saranno cose che li contrarieranno o causeranno loro timore, ansia, dispiacere. Accettare i loro sentimenti senza riserve è il primo presupposto per una comunicazione senza violenza. Non si tratta di metodo ma di approccio. E anche nei nostri confronti dobbiamo accogliere i nostri sentimenti negativi in modo compassionevole, altrimenti comunicheremo in modo violento con noi stessi, censurandoci: e come possiamo poi riuscire ad astenerci con i nostri figli? Questo in certi casi può voler dire lavorare anche su noi stessi, sulla nostra storia personale.


A quel punto saremo capaci anche di imporci, quando è necessario, senza per questo sentirci in colpa verso i nostri figli o temere di non rispettarli.

Occorre fare pratica, cominciando a non giudicare, a essere gentili per prima cosa con noi stessi, e imparare a valutare il nostro operato basandoci sul senso di integrità interiore, su quanto noi e i nostri figli riusciremo a muoverci verso un’espressione coerente del nostro sé più autentico.


Non possiamo controllare gli eventi della nostra vita; ma possiamo scegliere come affrontarli. Rinunciare al controllo non significa lasciare il timone e abbandonare la barca in balìa dei venti: significa imparare a conoscere il mare, i venti, e orientare saggiamente le vele.


Il coraggio dell’incertezza

Facciamo rete, ricreiamo il villaggio, troviamo la nostra tribù. Ma nel mondo “là fuori”, inutile negarlo, la vita è dura per i genitori che scelgono la strada di un approccio gentile. Al posto del consenso sociale e del riconoscimento per tutto il lavoro che stanno facendo, ricevono spesso critiche, incomprensioni, reazioni perplesse o sprezzanti. Vengono etichettati come genitori deboli, egoisti, pigri, abdicanti. Il che è un paradosso, poiché seguire un approccio basato sull’empatia e il rispetto richiede un impegno e un coinvolgimento maggiore di chi applica semplicemente un sistema fisso di regole da far rispettare con premi e punizioni.


Si tratta di ragionare ogni volta, su ogni situazione, contestualizzare, riflettere sui perché delle cose, impegnarsi ad ascoltare bisogni ed emozioni proprie e dei propri figli; mantenersi flessibili, essere pronti a mettersi in discussione, a mettersi in gioco, a ridefinire ciò che si pensava ormai acquisito e definito per sempre. Significa concedere spazio al dubbio e all’incertezza, navigare a vista con la sola guida del proprio cuore e della propria legge morale.

Tutti deprecano a parole la guerra, ma poi la si pratica. “La guerra è precisa. La pace, invece, è imprecisa”6, diceva il grande commediografo e poeta Cesare Zavattini. Più che auspicare la pace, osservava Zavattini, dovremmo comprenderla.


La nostra cultura ci ha trasmesso l’icona dell’uomo eroico e coraggioso perché duro come la roccia, dotato di volontà indistruttibile, sempre certo su dove tirare la linea del bene e del male, pronto per la guerra. Ma ci vuole molto più coraggio a muoversi in questa terra di confine dei sentimenti umani, con morbidezza, con l’umiltà e la consapevolezza di poter sbagliare, mettendosi nei panni degli altri, guidati dalla comprensione e dall’empatia, senza certezze su dove ci porteranno le nostre scelte, pronti a un abbraccio, ad accogliere il riso o le lacrime nostre e del nostro prossimo.


Non sottovalutiamo la forza del nostro modo di essere. Più è buio, più una piccola luce sarà visibile. Anche quando ci muoviamo in una cultura o in un gruppo sociale apparentemente ostile, indifferente o chiuso alle nostre filosofie, non possiamo sapere quanto una nostra parola, un gesto, un piccolo atto di gentilezza possa cambiare una vita, lasciare una traccia e raggiungere l’animo di altre persone, evocando in un cuore una risonanza a lungo taciuta.

Altre persone, magari mortificate e indurite a loro volta da una società che ha svalutato i loro sentimenti, o incattivite (che, ricordiamolo, significa prigioniere) a causa delle trappole emotive in cui sono vissute, oppure inaridite per mancanza d’amore incondizionato, potranno sentirsi, grazie al nostro messaggio, rincuorate, vivificate, liberate e nutrite; potranno intravedere una speranza, una via diversa, e conservare quel seme per farlo poi germogliare, magari non subito, ma quando si sentiranno pronte al cambiamento.

Diceva Gandhi:


Noi non siamo altro che lo specchio del mondo. Tutte le inclinazioni presenti nel mondo esterno sono da ricercare nel mondo del nostro corpo. Se riusciamo a cambiare noi stessi, anche le inclinazioni del mondo esterno cambiano. Quando cambiamo la nostra natura, anche l’atteggiamento del mondo verso di noi cambia. Questo è il mistero divino supremo. È una cosa straordinaria, è la fonte della felicità. Non abbiamo bisogno di aspettare di vedere cosa fanno gli altri7.


L’invito di Gandhi è non solo a essere, ma anche a testimoniare ciò in cui crediamo con il nostro agire. Per Gandhi i buoni pensieri non sono che “perle false” finché non vengono trasformate in azioni.

Coltivare in sé e verso gli altri l’amore incondizionato è un ottimo punto di partenza… forse è proprio qui quel centro di gravità permanente che può tenerci a galla e orientati anche mentre attraversiamo le acque dell’incertezza.


La forza della tenerezza

Coltivare la gentilezza è diventata oggi una necessità irrinunciabile per realizzare quell’intelligenza ecologica di cui parla Daniel Goleman8, cioè l’applicazione dell’empatia non solo a sé stessi e agli altri, ma anche in modo più estensivo agli altri esseri senzienti del nostro pianeta, e infine all’ambiente nella sua totalità, ambiente al quale le nostre vite sono così strettamente intrecciate.


Osserva la psicologa Alessandra Bortolotti:


Agire dando valore alle relazioni e alle emozioni significa diffondere nell’ambiente in cui viviamo una rivoluzione affettiva, capace di valorizzare le risorse intrinseche presenti in ogni persona in relazione alle varie tappe del ciclo vitale. Solo partendo da questa consapevolezza, solo accettando che il bisogno di cure prossimali basate sulla vicinanza e sul contatto fra adulti e bambini è un bisogno primario, potremo promuovere e assistere a una svolta sociale nella quale gli individui daranno il giusto valore alle relazioni9.


La tenerezza e la gentilezza hanno un tipo di forza diverso da quello dell’uso violento del potere, ma non per questo meno intenso. Ricordiamo che il concetto gandhiano di nonviolenza non è affatto legato a un’idea di remissività o di passività. La nonviolenza è una pratica attiva che richiede coraggio, impegno, energie, determinazione e azioni concrete. Richiede coerenza, e ha a che fare con la resilienza, con l’elasticità del giunco che si flette sotto le raffiche di vento senza spezzarsi, e non con la rigidità della pietra.


Essere gentili e compassionevoli, coltivando la sincerità e l’amore, è una questione etica fondamentale. L’empatia, il rispetto dell’altro, il rispetto per la propria integrità hanno una loro forza intrinseca che va oltre gli strumenti di coercizione usati dai violenti. La forza dell’empatia attinge al nostro nucleo vitale più profondo, al nostro senso di giustezza interiore, e grazie a questa sorgente inesauribile ci rifornisce costantemente di energia e di coraggio.


La forza della tenerezza sta anche nella connessione che ne scaturisce, che ci permette di attingere all’energia collettiva dell’amore e risparmiare le forze tanto spesso sacrificate sull’altare dei conflitti e della disfunzione.


Per i nostri figli, crescere in un mondo che, purtroppo, non ha la nonviolenza fra i suoi valori centrali, non è un processo indolore; esiste il bullismo ed esiste l’omertà, fra i bambini come fra gli adulti. Ma con i genitori sempre a fianco, empatici e presenti, si cresce insieme e si superano i momenti difficili. Invece di aderire alla filosofia del “rispondere con la stessa moneta”, si può scegliere che moneta usare nella vita, scegliere di non essere né bulli né vittime: questa è la vera forza.


Contatto, comprensione, gentilezza: è tutto qui!


Abbracci, latte, pelle a pelle. Non serve altro per mesi e, per alcuni versi, per anni.


Posso affermare con cognizione di causa che le differenze si vedono: io che mi occupo di questi temi da 40 anni ho avuto il privilegio di vedere individui che sono stati cresciuti con un approccio empatico e rispettoso, e sono a loro volta diventati adulti gentili, empatici, rispettosi e anche socialmente attivi e integrati. Questo non significa che non si possa arrivare a essere gentili e socievoli anche con un’infanzia infelice… ma con quanta più sofferenza e travaglio interiore!


Ad ogni modo, un approccio rispettoso non ha bisogno di venire giustificato in base a obiettivi pedagogici speciali, risultati migliori, maggior efficacia educativa, adesione a questa o a quella teoria o visione pedagogica. Non è un metodo finalizzato a ottenere esseri umani di un certo tipo. Quando ci relazioniamo con gentilezza e comprensione lo facciamo perché ci sembra la cosa giusta da fare. Perché farlo ci fa sentire bene, in armonia con noi stessi e con chi ci è vicino. Perché le persone vanno trattate con rispetto e gentilezza sia che abbiano 90 anni sia che abbiano 9 ore di vita.


La guida gentile non è un sistema per far comportare i bambini come si vuole: i bambini sono persone e a volte si comporteranno come piace a noi, altre volte no. Il punto è: come vogliamo che sia la nostra relazione con loro? Su che cosa vogliamo che sia fondata? A che tipo di energia vogliamo che attingano i nostri figli, di fronte alle sfide della vita? Da cosa vogliamo che traggano forza? Dal rispetto e dall’amore, dalla comprensione e dall’ascolto? Oppure dal timore, dal senso di colpa, dall’opportunismo? Se oltre al modo in cui si comportano i nostri figli abbiamo a cuore il perché lo fanno, non possiamo che scegliere con il cuore.


Stiamo cambiando il mondo

Perché la tenerezza, la comprensione, la gentilezza e l’amore incondizionato fanno così paura? Per quale motivo vengono così fieramente combattuti?

Il motivo è che di fronte al pensiero omologato della nostra cultura narcisistica, distaccata, competitiva, controllante, scissa dai propri sentimenti, un approccio basato sulla tenerezza è pura eversione. Volenti o nolenti, siamo dei rivoluzionari. Stiamo mettendo in atto coraggiosamente uno scardinamento di valori, dimostriamo con i fatti che un’altra strada è possibile; con la sola forza di un sorriso o di un gesto di tenerezza facciamo crollare muraglie costruite sull’odio, sul sospetto e sulla paura. Non è una strada facile o comoda quella del rivoluzionario, non ci sono molti applausi; la comprensione e il riconoscimento verranno forse con il tempo ma più spesso ci sono la derisione o lo scetticismo; tuttavia si continua per la nostra strada, semplicemente perché non potremmo fare altrimenti. Non è una passeggiata, ma nemmeno una guerra, è una rivoluzione gentile che si compie a piccoli passi, giorno dopo giorno, e ha come scopo consegnare nelle mani dei nostri figli – mani, si spera, più solide e amorevoli che in passato – un mondo migliore e più degno di essere abitato.


Il muro di Berlino è crollato in pochi giorni. E sembrava impensabile fino a poche settimane prima. Ma il cambiamento si stava maturando da molti anni, anche se non era così visibile in superficie. Ogni rivoluzione è preceduta da un lungo periodo fatto di trasformazioni invisibili, di piccole cose; quando il terreno è pronto, però, nulla può impedire al cambiamento di germogliare.

Durante la fase invisibile può essere frustrante vedere così poco riscontro e riconoscimento dei nostri sforzi. Ma dobbiamo mantenere viva la nostra visione interiore.


Non si può negare che l’attuale generazione al potere, e quelle che l’hanno immediatamente preceduta, non hanno fatto un buon lavoro. L’umanità, e con essa tutta la biosfera terrestre, stanno andando incontro a una crisi senza precedenti, a livello climatico, energetico, economico, alimentare, ecologico. Lo stile predatorio degli ultimi secoli ci ha lasciato depauperati di risorse vitali e stremati da continui conflitti. A questo i governi hanno reagito nel modo consueto, e cioè secondo l’asse adrenalinico della lotta e della fuga. I problemi di fondo, che ci hanno condotto a questo punto, sono stati più che mai messi in ombra e ignorati.


Sgomenta più di ogni altra cosa, a fronte di una crescente presa di coscienza delle nuove generazioni, l’apparente scarsa sensibilità, cinismo o atteggiamento fatalistico degli individui al potere, riguardo all’emergenza ecologica del nostro pianeta: come se si trattasse di fastidiosi contrattempi da sistemare con ulteriore investimento di energie, denaro e tecnologia, oppure come si avesse a che fare con dicerie dalle quali difendersi attraverso la negazione.


Riflettiamo tuttavia sul fatto che tutti gli individui attualmente nelle posizioni chiave, di potere, queste persone ciniche, spaventate, arroccate, indurite, sono un tempo stati bambini. Tutti, nessuno escluso, sono stati partoriti, e hanno a loro tempo avuto (oppure no) accudimento e cure. Proviamo per un attimo a immaginarli fra le braccia dei loro genitori. Che tipo di trattamento hanno ricevuto? In che clima affettivo sono stati cresciuti? Che risposte sono state date ai loro bisogni fondamentali?


Proprio in quel luogo e in quel tempo, fra le braccia delle madri dei potenti di oggi, si stava giocando il nostro presente!


Allo stesso modo, i nostri figli, i bambini che ci stringiamo oggi al seno, sono destinati a ereditare e a prendersi cura del nostro domani.

Abbiamo fra le braccia il futuro del mondo!


Sta a noi decidere come vogliamo che sia il mondo dei nostri nipoti. Se sarà un tempo di pace o di guerra. Se prevarrà paura e odio oppure gentilezza. Se l’umanità sarà ancora aggrappata ai vecchi paradigmi, lottando per sopravvivere, o sarà capace di flessibilità, resilienza, creatività e compassione, mentre prende fra le mani un mondo duramente provato dalle azioni predatorie dei suoi predecessori, e cerca di riattivare i processi di guarigione e recuperare la connessione e l’armonia.


Allattare, abbracciare, curare, accogliere con amore sono azioni potenti. Come genitori, oggi possiamo sentirci criticati e svalutati mille volte mentre compiamo questi semplici gesti di compassione e di amore, ma ricordiamoci che, con buona pace di chi è scettico o scandalizzato dalla tenerezza, noi stiamo facendo la rivoluzione!


Il cambiamento che desideriamo nel mondo può davvero essere realizzato adesso, qui ed ora, da noi stessi. Possiamo realmente fare la differenza, e non sono necessari grandi gesti, scelte radicali, azioni sovrumane. Possiamo scegliere di essere la piccola farfalla che battendo le ali provoca, moltiplicando gli effetti, un benefico uragano di compassione e di empatia. Realizziamo questa utopia ogni giorno, con i nostri piccoli gesti, a partire da noi stessi, con amore e fierezza, cambiando il mondo, una mamma, un bambino, una persona alla volta, raggiungendo così la massa critica che innescherà un processo di risanamento bio-psico-sociale, la reazione a catena che farà finalmente crollare i muri e costruire i ponti.


La rivoluzione della tenerezza
La rivoluzione della tenerezza
Antonella Sagone
Crescere i figli con una guida gentile.Scegliere la via della gentilezza per accompagnare i bambini a diventare individui integri e capaci di empatia, attraverso la presenza affettuosa, l’ascolto dei loro sentimenti e bisogni, il dialogo. La guida gentile non è essere sempre perfetti e nemmeno essere sempre accondiscendenti: è porsi ai nostri bambini con onestà e rispetto della loro integrità, è scegliere di saper essere piuttosto che di saper fare, di avventurarsi nel mare tempestoso delle emozioni e attraversarlo, insieme a loro, con empatia, e usare queste emozioni come guida per comprendere e conciliare i bisogni di tutti.Confermare il bambino nei suoi sentimenti e nelle sue sensazioni, accogliere la sua percezione anche quando non collima con la nostra, aiutandolo ad ampliare la sua visione delle cose e includere quella più vasta della società, è la strada per crescere individui integri, capaci di valutare in modo critico ciò che la vita propone loro, e quindi in grado di esprimere al massimo il loro potenziale.Al di là della falsa scelta fra autoritarismo e lassismo, nell’educazione dei bambini c’è una terza via, quella della gentilezza, che Antonella Sagone presenta nel suo libro La rivoluzione della tenerezza.Attraverso la presenza affettuosa, l’ascolto dei loro sentimenti e bisogni, il dialogo onesto e rispettoso, gli adulti possono, senza rinunciare al loro ruolo di guida, accompagnare i bambini a diventare individui integri e capaci di empatia, con una base affettiva sicura e la capacità di connettersi con gli altri e con l’ambiente intorno a loro, cambiando in meglio il mondo. L’ebook di questo libro è certificato dalla Fondazione Libri Italiani Accessibili (LIA) come accessibili da parte di persone cieche e ipovedenti. Conosci l’autore Antonella Sagone, psicologa in area perinatale e consulente professionale in allattamento materno IBCLC e formatrice; da 40 anni si occupa dei processi fisiologici della maternità e paternità, e delle pratiche di assistenza e sostegno che promuovono la salute e l’empowerment della madre e di tutte le persone coinvolte nell’accudimento e nella crescita del bambino.