CAPITOLO IX

I nostri punti di forza

Vivere non deve essere solo fatica e affanno;può, anzi dovrebbe anche essere danzare fra le rose1.

Noi ci siamo

Molti genitori sono in ansia e si chiedono cosa debbano fare per educare i loro figli e sostenerli nelle difficoltà e nelle sfide della vita. Si temono, soprattutto, errori per omissione. Ma i bambini hanno bisogno fondamentalmente solo di una cosa: la presenza attiva e partecipata dei genitori alla loro vita. Si tratta, alla fine, della distinzione fra due modi di concepire l’esistenza, l’essere e l’avere di cui parla lo psicologo Eric Fromm2: l’avere è l’attitudine di chi sceglie la via del controllo e del potere, mentre essere significa connessione, integrità e presenza consapevole.


Se proviamo a scomporre questa presenza attiva di cui i nostri figli hanno bisogno, troveremo elementi già noti, e potremo dire che i nostri figli hanno bisogno che noi li vediamo per quello che sono senza giudicarli, amandoli incondizionatamente; mostriamo interesse e apprezzamento per la loro unicità; ci rapportiamo a loro con onestà, condividendo i nostri pensieri, emozioni e progetti.


Alla disciplina, che implica l’idea di un intervento modellante dell’adulto, preferiamo l’educazione, che significa “portare fuori”: prendere i nostri figli per mano e accompagnarli nel mondo più vasto e, anche, rimuovere gli ostacoli per la libera espressione del loro sé più autentico.


Quindi quando parliamo di educazione esprimiamo un concetto piuttosto diverso dal modo in cui questa parola spesso viene usata nel linguaggio comune, quando si dice che un ragazzo è ben educato o maleducato.

Che significa educare? Non implica l’applicazione di mezzi di disciplina ma più questo esserci, la presenza e l’esempio come strumento formativo.


Questo modo gentile di guidare i propri figli può sembrare una scelta “debole”, rispetto all’intervento normativo e autoritario dell’adulto che vieta e ordina ai bambini i comportamenti che desidera da loro; è invece un punto di forza, perché non c’è nulla a cui il bambino aspiri di più: essere con i genitori, assomigliare a loro, assorbire da loro ogni cosa.


È uno slancio naturale, e noi genitori non dobbiamo fare altro che favorirlo, evitare di ostacolarlo e mortificarlo, ricordandoci di guardare il mondo con gli occhi dei nostri figli, in modo che quando ci rapportiamo a loro, possiamo raggiungere il loro cuore.


Conosciamo i nostri figli

Ogni bambino che nasce è un individuo unico e del tutto nuovo, e conoscerlo fa parte del processo che nel susseguirsi quotidiano dei giorni e degli anni porterà questo legame speciale a prendere forma e consolidarsi. Se “esperto” è colui che esperisce, cioè che ha esperienza di una cosa, nessuno è più esperto di bambini quanto lo sono i loro genitori, le loro figure di accudimento. Eppure il processo di conoscenza di un figlio ha una caratteristica speciale che lo rende diverso da ogni altro: i bambini crescono in fretta, e cambiano di continuo. Così questa conoscenza diviene un viaggio affascinante che dura tutta la vita.


Nessun esperto esterno può “spiegare” un bambino a sua madre o a suo padre. Perché non vive in quella casa, minuto per minuto; non ha toccato quelle manine, guardato in quegli occhi, portato il peso di quel bambino, sentito la tensione del suo corpo quando era spaventato o stanco, annusato il suo odore. Non ha condiviso con lui momenti di quiete, di sonno, di rabbia, di malattia o di gioco.


Certo, la conoscenza intima che abbiamo dei nostri figli non deve farci dimenticare che possiamo sbagliarci sul loro conto. Occorre conservare l’umiltà e saper ammettere che certe cose dei nostri figli resteranno un mistero, o verranno travisate, o comprese magari anni e anni dopo.


Per certi versi la visione adulta del bambino è lo specchio nel quale lui stesso guardandosi si identifica, dà un nome a ciò che gli succede, a quello che prova, ai suoi comportamenti. Si tratta di una grande responsabilità, perché mentre il risuonare con il bambino, verbalizzare per lui, fare eco e riflesso alle sue emozioni è una funzione importantissima nella costruzione della sua consapevolezza e comprensione, nello stesso tempo è un ruolo delicatissimo perché può contribuire alla costruzione della sua identità. Per questo il ruolo dell’adulto deve essere discreto e limitarsi a riflettere e descrivere ciò che vede, ma non a definire. E soprattutto osservare, ascoltare e accogliere.


Il compito del genitore, alla fine, non è modellare il figlio, “aggiustarlo” per conformarlo a un modello ideale, esterno o interiore. Occorre mantenere salda dentro di sé la visione del bambino nella sua interezza; abbandonare il concetto di una funzione genitoriale basata sulla prestazione, sull’esecuzione di una serie di compiti e il raggiungimento di specifici obiettivi. Il compito del genitore è prima di tutto esserci: osservare, ascoltare, restare aperti, contenere. Il bambino guida bene l’adulto, se questo riesce a ignorare i consigli che lo mettono in guardia contro presunti “vizi” e “furbizie”, e se si abbandona quindi al suo sentire, accogliendo i segnali di disagio e di benessere del bambino.


Vediamo dunque che conoscere i nostri figli non è un’acquisizione statica e definitiva o una dote naturale, ma un processo interattivo in cui l’esplorazione è reciproca e procede attraverso un dialogo continuo, fatto di rispecchiamenti ma anche di confronti.


Possiamo ridefinire il mondo intorno a noi

A un certo punto, prima di quanto ci aspettiamo, il bambino dovrà fare i conti con un mondo e una società che parla spesso la lingua della colpevolizzazione, del ricatto, della sopraffazione. Per quanto coerenti possano essere i nostri messaggi e il nostro approccio, i nostri figli dovranno confrontarsi con l’incoerenza del resto del mondo, dove molte persone comunicano in modo violento, confuso e senza empatia.


Eppure, se abbiamo coltivato la connessione armonica dentro e fuori di noi e nella relazione con nostro figlio, possiamo insieme tentare anche in questi frangenti difficili la via dell’empatia e della comprensione, ridefinendo ciò che lui, con turbamento, ci riporta da scuola, dal parco giochi, dal pomeriggio passato con i parenti.


Possiamo ridefinire e tradurre il linguaggio violento in quello della Comunicazione non violenta3 aiutando il bambino a leggere le emozioni che si muovono dietro le parole.


Con infinita pazienza, accompagniamolo a vedere con occhi empatici anche le frasi di chi comunica i suoi bisogni rozzamente. Ad esempio, poniamo come ipotesi una nonna che, al pianto del bambino, gli dica: “Non mi vuoi più bene? Se piangi la nonna va via. Ti do un regalo, ma tu fammi un sorriso”.


Possiamo così tradurre per lui: “Quando piangi la nonna si sente spaventata, perché desidera condividere con te la gioia e ha paura di perderti”.


Oppure, “Tua nonna si sente triste nel vederti piangere. Quando era piccola, le hanno insegnato a smettere di piangere minacciandola o dandole dei regali, e ora non sa che a volte basta un abbraccio per sentirsi meglio”.


Questo si può fare anche con un bimbo molto piccolo, che non parla ancora bene: la comprensione del linguaggio precede l’abilità nel parlare. Quando invece è più grande, a volte è sufficiente parlare con lui, più tardi, di quello che è successo:


“Tua nonna quando piangevi ti ha detto che pensava non le volessi più bene. Tu come ti sei sentito? Cosa ne pensi di quello che ha detto? Perché lo avrà detto secondo te?” Spesso in questo frangente i bambini cresciuti con comprensione ci stupiscono con un’incredibile saggezza e una profonda empatia.


Ridefinire le situazioni, in fondo, significa per prima cosa osservare senza giudicare, e poi restituire a ciascuno (noi compresi) la responsabilità delle proprie emozioni. Questo approccio libera ogni persona dal peso dei sensi di colpa o dall’ansia di perfezione, impedisce di farsi manipolare da messaggi fuorvianti o ricattatori, e consente di connettersi al cuore delle cose.


I nostri figli sanno autoregolarsi

Quanto tempo deve durare una poppata? Quante ore deve dormire un bambino? Come faccio a sapere se gli sto dando un assortimento adeguato di nutrienti? A che età togliergli il pannolino? Quante poppate al giorno? Come faccio a convincerlo a mettersi il golfino?


Chiunque si occupi di prima infanzia, a prescindere dalla sua area professionale, viene subissato da domande di questo tipo.


L’idea sottintesa è che i bambini non abbiano la più pallida idea di quali siano le cose di cui hanno bisogno, e quindi l’onere di “fargli fare” tutto ciò che è loro necessario per crescere e stare bene è sulle spalle dei genitori. Un compito sovrumano, poiché le variabili sono infinite, le decisioni da prendere ogni giorno e per ogni cosa innumerevoli, e per giunta in genere i bambini non collaborano affatto, anzi oppongono spesso resistenza a tutto ciò che cerchiamo di indurli a fare.


Una delle situazioni più frequenti in cui si effettuano queste prove di forza è a tavola; tuttavia questo discorso non vale solo per il cibo, ma anche per altri aspetti come la quantità di attività fisica, la termoregolazione (quanto coprirsi o scoprirsi), il sonno o la modulazione delle relazioni affettive e delle attività quotidiane.


Ecco una meravigliosa notizia che può alleggerire l’animo dei genitori: la consapevolezza che il bambino è competente, e capace di connettersi più facilmente di noi con i suoi bisogni, comunicandoli con chiarezza. Sa cosa è bene e cosa è dannoso per lui, sa quando ha una necessità e quando ne ha abbastanza.


Non c’è bisogno che facciamo tutto da soli. Basta confidare nella sua capacità di autoregolarsi, e limitarci a non interferire con essa confondendolo con imposizioni e forzature.


Il manuale delle istruzioni dei genitori esiste; ed è il loro stesso figlio.

Non servono metodi specifici per insegnare al bambino ad autogestirsi: lo fa già istintivamente.


Il nostro ruolo di adulti è quello di proteggere i bambini dalle interferenze e dalle forzature e offrire loro alternative sane fra cui scegliere, evitando loro quello che è successo a noi, e cioè perdere il senso di giustezza interna, che permette di autoregolarsi: questa capacità non va mai sminuita, e anzi va protetta, assieme ai suoi corollari che sono la competenza sociale, la capacità empatica, la coerenza degli affetti; tutte competenze che permettono al bambino di trasformarsi in un adulto capace non solo di autoregolazione, ma di adattamento flessibile dei suoi bisogni a quelli del contesto intorno, dell’ambiente, della società: in poche parole, un individuo capace di un approccio ecologico alla vita.


I nostri figli sono imprevedibili

Ma come! Non riusciamo ad avere il controllo, non possiamo pianificare nulla perché il nostro bambino scombina ogni programma, non si può prevedere da un giorno all’altro come andrà, che nuovi problemi salteranno fuori, come reagirà ai nostri approcci… e questo sarebbe un punto di forza?

Ebbene sì! La cosa davvero preziosa di ogni nuovo bambino è che porta nel mondo nuove risorse, abilità, idee, un nuovo punto di vista. Non è nella prevedibilità, ma negli imprevisti, in quel quid che non si può controllare o modellare; è nell’unicità dei nostri figli che risiede la ricchezza del futuro e anche quella del nostro presente, perché si tratta di un’occasione senza prezzo per rinnovarci, ampliare i nostri orizzonti, farci domande che non ci siamo mai poste prima, gettare via ciò che è vecchio e stantio nei nostri cuori e nelle nostre menti e diventare più flessibili e competenti, rinunciare a regole e ideali astratti che poco hanno a che fare con la spontaneità e versatilità della natura umana.

In questa luce, lo sforzo che l’educazione convenzionale compie per trasformare ogni bambino in un giovane adulto, domando e irreggimentando le sue caratteristiche infantili, è un tragico errore, una deviazione dal cammino che l’universo gli ha riservato. Già a pochi giorni di vita, la nostra società sembra impaziente di “normalizzare” il neonato, omologandolo a uno stereotipo prevedibile e appiattito su uno standard sempre uguale a se stesso. Un modello irraggiungibile, l’oscuro oggetto del desiderio con il quale ogni genitore, consapevolmente o meno, confronta suo figlio, senza mai trovare corrispondenza. I bambini reali, nel confronto, escono fatalmente perdenti. E così si perde un’occasione preziosa di godere del bambino vero, prezioso proprio per la sua unicità. Osserva Montagu:


È proprio della specie umana il fatto di essere destinati a crescere in corpo, spirito, sentimenti e comportamento, sviluppando e accentuando le nostre caratteristiche infantili invece di minimizzarle. (…) La capacità di conservare tratti fisici giovanili è una delle caratteristiche principali che differenziano gli esseri umani dagli altri animali, e quando questa capacità si estende ai modelli di comportamento, gli esseri umani possono rivoluzionare la loro vita e diventare per la prima volta, forse, quella specie di creature che secondo la loro eredità dovrebbero essere4.
I milioni di bambini che nel mondo ogni giorno nascono, e poi vivono e crescono come persone autentiche, con i loro innumerevoli particolari slanci, così unici, diversi l’uno dall’altro, sono la benedizione dei loro genitori, e offrono loro l’occasione per ritrovare il proprio bambino interiore e recuperare in se stessi queste preziose doti giovanili. Perché desiderare un bambino astratto, stereotipato, quando c’è quello reale davanti a noi? 

Teniamoci stretto il nostro bambino vero, che sfugge alle definizioni, alle previsioni, alle regole, alle tabelle, alle sentenze degli esperti, ai marchi di fabbrica… lasciamo che sia lui a insegnarci cos’è la normalità, a mostrarci cosa gli occorre, cosa lo fa star bene, a educarci a un nuovo ritmo, una nuova poesia del vivere… e speriamo che cresca altrettanto “irregolare” e che conservi negli anni ciò che di unico, nuovo e diverso ha da dire al mondo.

I nostri figli ci amano incondizionatamente…

…e hanno bisogno che noi gli restituiamo lo stesso amore incondizionato.

Quello delle aspettative è un giogo sia per i genitori (perché continuamente si confrontano con un modello di perfezione da cui non si può che uscire perdenti e inadeguati) sia per il bambino, quando a causa di queste aspettative cresce con l’idea di poter essere amato solo se corrisponde all’ideale che i genitori hanno di lui. È un fardello pesante, anche e specialmente quando questo ideale include i sentimenti (essere felice, appagato, sereno). È tempo di rinunciare a fare progetti sulla vita dei propri figli (o più in generale del nostro prossimo).


Alfie Kohn ha dedicato un intero libro a questo argomento. Egli scrive:


Non appena si ha un figlio è bene pensare al tipo di genitori che si vuol essere, più precisamente al modo di reagire quando le cose non vanno tanto lisce… alcuni si trasformano tosto in genitori perfetti, amorevoli e presenti fintanto che i figli sono gestibili. Ma l’amore incondizionato ci vuole proprio quando non lo sono. (…) Dobbiamo, in qualche modo, comunicare loro il nostro amore anche quando non siamo particolarmente entusiasti del loro comportamento5.


E quanto siamo pronti, come genitori, all’amore incondizionato che il bambino riversa su di noi? Essere amati in modo così totale, senza se e senza ma, dai nostri bambini, per alcuni di noi è un’esperienza talmente nuova da essere sconvolgente. È un’enorme responsabilità, perché i nostri figli mettono senza esitazione la loro vita nelle nostre mani. Ma è anche uno straordinario punto di forza, perché sappiamo che non ci è necessario essere perfetti per essere dei buoni genitori. Non dobbiamo avere tutte le risposte, non dobbiamo evitare di fare errori. Non dobbiamo nemmeno temere di ferire i nostri figli qualche volta, senza volerlo: ci ameranno comunque.


C’è solo una cosa che dobbiamo fare. Essere presenti e accoglienti, con la totalità di noi stessi, di fronte alla loro totalità: ragione e sentimenti, gioie e dolori, calma e rabbia, senza distinzioni e preclusioni.


Dobbiamo ricordarci che i nostri figli ci amano senza riserve. Sì, ci amano anche e ancora di più quando sono arrabbiati con noi, o ci sfuggono e sembrano chiudersi nel loro mondo. I bambini possono esprimere sentimenti o reazioni molto intense e molto schiette, che possono non piacerci o spaventarci. Noi che spesso abbiamo sperimentato l’amore condizionato, cioè subordinato al nostro conformarci alle aspettative adulte, una volta diventati genitori a volte facciamo fatica ad accettare i momenti di rabbia dei nostri bambini, quando con sincerità ci respingono o quando sembrano non ascoltarci. Questi comportamenti ci fanno diventare reattivi, entriamo in risonanza con il nostro bambino interiore, con antiche esperienze di rabbia e di rifiuto. Le ferite emotive si riaprono e reagiamo anche noi simmetricamente, con violenza, rabbia o rifiuto.


Ma siamo diventati genitori; e questo ci richiede un salto di qualità nella gestione delle emozioni. Abbiamo bisogno di praticare l’amore incondizionato, non solo con i nostri figli, ma anche con noi stessi, comprese le parti, nostre e loro, che non ci piacciono. Possiamo imparare da loro come si fa.


Siamo tutti fatti di luce e di ombra; la cosa che conta veramente non è quello che siamo, ma il modo in cui scegliamo di comportarci e di gestire ciò che siamo e ciò che sentiamo.


Ci abbracciamo spesso

Il percorso che ci riporterà al continuum perduto, a quella connessione che fa la differenza nel rapporto con i nostri figli, passa attraverso un recupero del contatto fisico. Cresciuti in una società a basso contatto, noi genitori dobbiamo reimparare quest’arte, ritrovare prima di tutto il nostro bisogno umano di abbracciare e di essere abbracciati, al di sotto della spessa corazza che ci siamo costruiti addosso per superare la sofferenza del contatto doloroso, rude, oppure dell’assenza di contatto.


Che esistano persone che dedicano parte del loro tempo a offrire “Abbracci gratis” al loro prossimo è un fatto che deve farci riflettere, ed è triste che si debba specificare che non c’è nulla da pagare in cambio. Non siamo più abituati alla gratuità di un gesto di affetto, ed è importante per prima cosa comprendere che un abbraccio, una carezza, un bacio non sono gratuiti solo per chi li riceve, ma anche per chi li offre, perché ci è stata in qualche modo instillata l’idea che offrire gentilezza e contatto sia un atto unidirezionale, una cessione di qualcosa di cui ci priviamo per donarlo all’altro. Così è, in effetti, per i gesti affettuosi ceduti nella logica di una mercificazione degli affetti, tipica dell’amore condizionato. Ma l’amore incondizionato non è scambio, non è commercio, non è soggetto a regole: è relazione, è condivisione. Sorge da una gioiosa necessità interiore di connettersi all’altro.


Il contatto, l’abbraccio, l’accoglienza e il contenimento fisico ed emotivo fanno lievitare, in noi e negli altri, la secrezione di ossitocina, l’unico ormone che invece di autolimitarsi con meccanismi di retroazione, si autoincrementa con un effetto contagioso, riverberandosi all’interno dei sistemi di relazione.

Con gli abbracci nutriamo il nostro sistema della calma e connessione, fondamentale nei processi di apprendimento, crescita e guarigione.


Non temiamo di rendere i nostri figli fragili perché li abbracciamo, accorriamo al loro pianto, li teniamo vicini a noi la notte, li allattiamo, li baciamo e li portiamo in braccio e in fascia.


Ci diranno che questo non aiuterà il bambino a costruire la sua autonomia; che lo farà sentire incapace di cavarsela da solo e che la sua autostima crollerà; ma l’autonomia non è saper fare a meno degli altri, e l’autostima non nasce dalla capacità di sopportare la solitudine.


Che autonomia ci può essere in chi rinuncia a chiedere conforto dalle persone che ama, per timore di essere deluso e abbandonato? Che autostima ci può essere in un bambino che riesce a cavarsela tagliandosi fuori dalle emozioni più dolorose, per poter sopportare la mancanza di sostegno emotivo quando ha bisogno di contatto, “spegnendosi” per rifugiarsi nel sonno?


Questa persona non è un vincente, è un sopravvissuto.

È vero, noi abbiamo affettivamente bisogno gli uni degli altri. E questo è magnifico! La spinta a cercare conforto reciproco, a condividere, a sostenerci a vicenda ci permette un arricchimento e moltiplica l’amore fra noi.


Amare è rischioso? Sì! Se perdi chi ami, se resti solo, è doloroso. Ma se il bambino che state crescendo riceve da noi tutto l’amore e la presenza di cui ha bisogno, potrà rafforzarsi e sbocciare in un essere umano capace di sopportare anche il dolore di una perdita e trovare sostegno negli altri, senza sentirsi umiliato né fragile. Si può piangere abbracciati insieme. Questa è forza, non debolezza! E una volta asciugate le lacrime, resta il calore umano della condivisione, della solidarietà, della cooperazione. Si diventa capaci a nostra volta di comprendere, sostenere e amare gli altri: quale dono più prezioso, quale migliore nutrimento per la propria autostima? Quale autonomia può esistere, se non quella di sentire di essere stati amati senza condizioni, per quello che si è, e sentirsi quindi liberi di sviluppare tutto il proprio potenziale, luci e ombre, integrarlo in un sé capace di esprimere pienamente se stesso, capace di vivere, e non solo sopravvivere?


Comprendendo la reale natura incondizionata dell’amore sapremo finalmente abbracciare davvero, e accogliere l’interdipendenza fra le nostre anime come una benedizione da troppo tempo dimenticata.


Ci ascoltiamo

C’è una diffusa credenza per cui la comunicazione non violenta, le cure prossimali, la disciplina dolce, siano un metodo opposto ai modi di comunicare e disciplinare violenti e aggressivi. Quindi se la disciplina dura e la comunicazione violenta sono alzare le mani o urlare al proprio figlio, quando ad esempio getta nel water le chiavi dell’auto, allora la disciplina dolce sarà dire con voce vellutata: “Amore, non fa niente, mamma le recupera” e con un bel sorriso infilare la mano nella tazza e ravanare sul fondo.


Questo è piuttosto ridicolo, e denota come questa cultura si fermi all’apparenza, alla tecnica, al “fare”, ma non comprenda, anzi, nemmeno sospetti che dietro al fare ci sia un “essere” e un “sentire”. La differenza non è nell’urlo (che alla mamma disperata può anche sfuggire, quando vede le sue chiavi finire lì dentro con un bel pluf), ma in come si considera il bambino che ha fatto questo gesto, che cosa ci si aspetta da lui. Le emozioni non sono tutte rose e fiori. Cruciale è il vissuto interiore: come si percepiscono e accolgono non solo i bisogni e sentimenti del bambino, ma anche i propri. Tutto deve avere spazio in uno scambio nonviolento e amorevole.


Per raggiungere questo obiettivo, spesso non è necessario fare nulla, a parte ascoltare. L’ascolto attivo è lo strumento più potente che abbiamo per attivare il potenziale e rafforzarci l’un l’altro; comunica accettazione incondizionata e reale interesse, e in questo modo consente all’altro di aprirsi con fiducia, e quindi di ascoltarsi senza ricevere giudizi, nemmeno da se stesso. Questa apertura verso l’interno e verso l’esterno consente agli individui di far emergere le proprie risorse e di generare idee originali e utili.


L’ascolto attivo è la forma più potente di empowerment a nostra disposizione. Ci consente di aprirci, sentendoci accettati, e spesso questo significa che ci si rilassa, perché consente anche a noi stessi di analizzarci senza giudizi, facendo emergere il nostro potenziale ossitocinico di salute psichica, di autoriparazione, di rigenerazione e di soluzione dei problemi.


Noi umani abbiamo il dono della consapevolezza e dell’empatia e questo fa sì che possiamo andare oltre le nostre emozioni negative, e vivere le nostre tempeste emotive e ormonali con maturità e comprensione, scegliendo coscientemente di non agire secondo il subbuglio del momento.


Questo non significa che l’obiettivo sia la pace interiore sempre e dovunque. Il mito del genitore perfetto, che non perde mai la calma e affronta tutto con dolcezza, è un’illusione e non rispecchia la vera natura dell’approccio empatico, che è fondato invece sull’autenticità e sull’accoglienza di qualsiasi sentimento. Ancora una volta, ascoltare gli altri e noi stessi resta la strada maestra per governare la nostra barca, sul mare calmo come anche nelle tempeste.


Siamo resilienti

La forza dei legami affettivi e della connessione con la vita ci dona anche la capacità di essere resilienti.


Tutti nelle nostre vite affrontiamo avversità, privazioni, conflitti e iniquità. Questo non si può evitare; ma possiamo scegliere con che animo affrontare gli eventi, scegliere di mantenere viva la luce dentro di noi, pronti a recuperare l’equilibrio quando l’emergenza è passata, e a riparare, ricostruire e riprendere la nostra strada.


La resilienza si definisce originariamente come la capacità che ha un materiale di assorbire un urto senza rompersi; cioè di deformarsi ma poi ritornare alla propria forma originaria. Il concetto è stato mutuato in psicologia per definire la capacità di un individuo di recuperare la propria integrità dopo un trauma o un evento avverso, trasformando gli ostacoli in occasioni di crescita.


Ma c’è molta confusione intorno al concetto di resilienza. Via via che i media familiarizzano con questo termine, può capitare di sentirne parlare anche a sproposito.


Questa confusione concettuale si ripercuote anche sui consigli che vengono poi dati ai genitori per crescere figli forti, autonomi e resilienti.


Un suggerimento che confonde è quello in cui si esorta il genitore a “insegnare al figlio” a sopportare le frustrazioni e saper aspettare. Ma questa non è resilienza, bensì pazienza, una capacità che matura con l’età, e che i genitori possono coltivare nel bambino rafforzando la sua autostima e dando esempi personali di autocontrollo e di gestione delle proprie emozioni negative. I genitori possono sostenere emotivamente il loro bambino nelle situazioni di frustrazione, e nello stesso tempo aiutarlo a elaborare strategie per trovare modi alternativi di soddisfare i suoi bisogni. Non si tratta di insegnare la rassegnazione e certo la resilienza non si ottiene esortando il bambino a pazientare, o addirittura creando ad arte per lui occasioni di frustrazione.


Si sostiene poi che se si dice di sì a ogni pretesa del bambino, non lo si aiuta a diventare resiliente. E possiamo essere d’accordo, dato che la resilienza si sviluppa nel confronto con le avversità.


Ma potremmo obiettare che anche se si dice sempre di no non lo si aiuta. Perché il punto non è dire di sì o di no, il punto è se si sta ascoltando veramente il bambino. Se si accolgono o no i suoi sentimenti, al di là della decisione contingente che verrà presa, di volta in volta, per andare incontro oppure no alla sua richiesta.


Qui si fa confusione fra resilienza e resistenza, altra dote preziosa ma che, se accanto alle frustrazioni manca il sostegno emotivo e la comprensione dell’adulto, può portare all’irrigidimento e alla chiusura. Se la resilienza è la capacità di affrontare le avversità mantenendo la connessione alle parti vitali di se stessi – quindi mantenere coerenza interiore e “piegarsi senza spezzarsi”, per poi riorganizzare se stessi una volta superata l’avversità –, tutto questo ha molto più a che fare con la capacità dei genitori di offrire empatia, sostegno, contenimento e di aiutare il bambino offrendo un sistema di relazioni affettive solide, che lo sostengano nei momenti difficili.


Per piegarsi senza spezzarsi, per essere flessibile, una pianta ha bisogno di nutrimento e di acqua, non di privazioni e siccità.


Crescere un bambino con amore gli dà la forza per attraversare i momenti difficili assieme ai suoi genitori, invece che in solitudine, aiutandolo ad aumentare la sua fiducia in sé e pertanto anche la sua resilienza.


Siamo pigri

È improbabile che i nostri progenitori allattassero a richiesta, portassero addosso i piccoli o dormissero con loro allo scopo di essere i migliori genitori possibili: lo facevano perché era la cosa più semplice e comoda da fare. Se i comportamenti virtuosi si reggessero su propositi di perfezione la nostra specie si sarebbe già estinta da tempo. Se il bambino piange e una fascia, una poppata, una sguazzata nel fango per un po’, oppure l’offerta di un frutto lo calma, il genitore pigro sceglie quella soluzione semplicemente perché tutti stanno meglio nel più breve tempo possibile e con il minimo sforzo. E guarda caso, quelle sono soluzioni che concordano anche con le più aggiornate posizioni del biological nurturing, cosleeping, attachment parenting, self-weaning e tutti questi paroloni che in inglese suonano più autorevoli ma che sono sempre il vecchio “latte e coccole” che senza tante storie e analisi usavano i nostri progenitori.


Il mondo dei neogenitori per fortuna è fatto anche da madri e padri affetti da una salutare pigrizia, che allattano perché è piacevole e benefico, anche se a volte ci sono difficoltà, che dormono nello stesso letto con il bimbo perché è pratico e tenero anche se è a volte un po’ scomodo, che svezzano mettendo in mano ai loro figli un pezzo di pizza, che stimolano la loro intelligenza e competenza semplicemente facendogli spazio nella loro vita adulta (portandoli con sé, facendoli pasticciare con gli oggetti quotidiani e lasciandoli gattonare per casa) e che il baby party a un anno non si sognano di farlo nemmeno con binocolo messo al rovescio. Insomma non trasformano ogni aspetto normale e anche bello della maternità in un obbligo da assolvere in un modo speciale, in genere faticosissimo.


La pigrizia unita a un approccio ad alto contatto aiuta a restare più vicini al nostro continuum biologico, aumentando il benessere di tutti. Il genitore pigro odia imboccare, e i suoi figli hanno probabilmente pasticciato a tavola con i suoi cibi; sono stati prontamente consolati quando piangevano, calmandosi più in fretta e con minore fatica da parte di tutti; hanno dormito accanto alla mamma, che poteva così raggiungerli al primo mugolio e calmarli con il seno o con il tocco di una mano; sono stati portati ovunque in una fascia, mangiando e dormendo quando e quanto volevano, senza condizionare la libertà di movimento dei loro genitori.


La pigrizia è una grande ispiratrice, che ci fa seguire la linea di minor resistenza, eliminare tutto ciò che è inutile e andare all’essenziale, e l’essenziale è esserci, includere nostro figlio nella nostra vita, e non applicarci a dedicare il nostro tempo a plasmare il mondo per renderlo a misura del bambino; si sposa molto bene con il suo bisogno di connessione.


Certo, la solitudine dei genitori oggi rende meno facile questo adattamento e questa organizzazione e a volte pone davvero un carico eccessivo sulle loro spalle. Ma come rimedio all’assenza di tessuto sociale e di una rete di solidarietà, quel che la società consumistica ci propone è un ulteriore consumo di prodotti e servizi, che dovrebbero supplire alla mancanza di sostegno, sostituendo i genitori.


La proposta dell’approccio empatico è invece quella di sfruttare le risorse naturali insite nelle pratiche prossimali di accudimento come modo per semplificarsi la vita, e non per complicarselo.


A fronte di un approccio genitoriale bambinocentrico, emerge un approccio centrato sui bisogni di tutta la famiglia. La vita degli adulti non dovrebbe ruotare intorno al bambino con una serie di impegni e comportamenti effettuati per lui, come ad esempio comprare cose apposta per lui (pappe, giochini…), preparare il cibo in modo specifico per lui, giocare con lui (nel senso di “farlo giocare”), andare a fare la passeggiata quotidiana per portarlo fuori, farlo addormentare, stimolarlo in vari modi, eccetera. Tempo, energie, denaro e attenzione del genitore che vengono spese in azioni e oggetti di contorno invece che verso il bambino stesso. E il bambino non chiede questo, ma solo che non lo escludiamo dalle nostre attività. Si accontenta di dormire con noi, mettere le mani nei nostri piatti (a volte anche in bocca a rubare proprio quel boccone che mangiamo noi!), giocare con i nostri mestoli di cucina o con la pompa del giardino o con i gomitoli di lana… divertirsi a pulire insieme a noi i vetri del salotto o magari a fare giardinaggio… svuotare o riempire la lavatrice… essere addosso a noi o comunque con noi mentre usciamo per i fatti nostri e facciamo le nostre cose… questo è il mondo di cui i nostri bambini hanno bisogno, non un mondo a parte fatto su misura per loro (e con enorme stress dei genitori), ma un mondo che li accoglie e li integra, child friendly, certo, non un mondo ostile, ma nemmeno un mondo a parte. Ed è anche un mondo lazy friendly, amico delle madri e dei padri pigri.


Siamo selvatici

I nostri figli nascono nel XXI secolo, ma provengono direttamente dalla giungla primeva. Nulla li ha preparati per il mondo civilizzato e per l’enorme distanza che separa il nostro stile di vita dalle condizioni naturali per cui è attrezzata la nostra specie. E ciò per cui siamo nati, la natura selvaggia, cioè non ordinata e piegata alle esigenze umane, possiede un’energia vitale e coerente alla quale tutti inconsciamente aneliamo, anche quando non ne abbiamo mai fatto esperienza. Un’energia e un ritmo che sono in grado di evocare la nostra identità biologica ancestrale e farci sentire “al posto giusto”. La natura può soddisfare il bisogno di nutrimento, attività, sicurezza, coerenza e connessione che sono essenziali per ogni essere umano.

Jean Liedloff illustra bene questa percezione, raccontando una sua esperienza personale in cui si è trovata all’improvviso immersa nella natura, in una radura in mezzo al bosco:


All’estremità laterale si ergeva un abete rigoglioso e un poggio al centro era coperto di muschio verde acceso, quasi luminescente. I raggi del sole pomeridiano si rifrangevano contro il verde scuro sfumato d’azzurro della pineta. Il piccolo tetto di cielo visibile era di un celeste perfetto. L’intero spettacolo possedeva una completezza, una qualità tangibile, di un’intensità tale da immobilizzarmi sui miei passi. Andai verso i bordi e poi, dolcemente, come in un luogo magico, sacro, verso il centro, dove mi sedetti, poi mi distesi con una guancia sul muschio fresco. È qui, pensai, sentendo svanire l’ansietà che tingeva la mia vita: questo era, finalmente, il luogo dove le cose erano così come dovevano essere. Tutto era al proprio posto: l’albero, la terra in basso, la roccia, il muschio (…). Sentii di aver scoperto il centro inafferrabile delle cose, la chiave dell’armonia stessa, e di dover aggrapparmi a questa consapevolezza che era così chiara in quel luogo6.


Diamo per scontate tante cose, senza consapevolezza di come il nostro stile di vita ci possa fuorviare e deprivare delle esperienze fondamentali di cui avremmo bisogno per nutrire la nostra natura umana.


Proviamo a riflettere su alcune di queste esperienze fondamentali che così spesso ci vengono a mancare:


  • Partorire e nascere in modo indisturbato, senza costrizioni, forzature, interferenze.
  • Essere toccati, portati, poppare al seno, avere esperienza di contatto pelle a pelle ogni volta che ne sentiamo il bisogno, per mesi e anni.
  • Morire nel nostro letto, con dignità, fra cure amorevoli e discrete, circondati dai nostri cari.
  • Annusare, palpare e mangiare frutti appena colti dagli alberi.
  • Esporci senza paura, anzi con piacere, alla pioggia, al vento, al sole.
  • Passare del tempo scalzi e/o senza vestiti addosso, sperimentando dal punto di vista tattile il movimento in un ambiente naturale (bosco, mare, la corrente di un fiume, un prato, una spiaggia, un viottolo fangoso).
  • Mangiare, bere e dormire quando ne sentiamo il bisogno.
  • Nutrirci di cibi non modificati, vicini al loro stato originario.
  • Correre, arrampicarci, rotolare in un prato in declivio, saltare, fare capriole.
  • Fiutare e assaggiare gli elementi naturali, l’odore naturale della nostra pelle, dei nostri bambini, delle nostre madri, senza che siano coperti dagli effluvi di fragranze sintetiche.
  • Sperimentare il silenzio punteggiato di suoni naturali: il ronzio degli insetti, il fruscio del vento in un bosco, lo scricchiolio di un passo nel sottobosco.
  • Scavare nella terra con le mani, lavorare manualmente materiali di varia consistenza.
  • Passare tempo all’aria aperta in un habitat naturale e incontaminato.
  • Cantare, gridare, ridere di cuore, piangere.
  • Dormire sotto le stelle.


Da quanto tempo non facciamo nessuna di queste cose? Quanto tempo gli dedichiamo nelle nostre giornate? Alcune di queste esperienze ci sono state negate da sempre; ad alcune non abbiamo mai nemmeno pensato; eppure fanno tutte parte del continuum naturale della nostra specie, sono tutte parte delle aspettative biologiche che il nostro corpo e la nostra anima desiderano ardentemente.


Non che si debba fare tutto quello che è elencato qui sopra per sentirsi “a posto”; ma mentre le nostre giornate scorrono fra quattro mura, dentro le automobili, davanti a uno schermo, in luoghi di ristoro, gioco, sport o svago artificiosi, non sentiamo che ci manca qualcosa di fondamentale?


La natura è là fuori che ci aspetta. Non serba rancore. Con i nostri figli, possiamo immergerci nel suo abbraccio a volte soffice, a volte ruvido, e sperimentare tutta la gamma delle esperienze sensoriali che ci fanno sentire vivi.


Molti dei nostri conflitti con i bambini, molto dello stress, dei dubbi e delle difficoltà che incontriamo per educarli, per farli comportare “come si deve”, nascono dalla disconnessione da quell’habitat e quel contesto per il quale siamo biologicamente equipaggiati. I bambini nascono già sintonizzati su queste frequenze, e soffrono moltissimo quando vengono separati dal mondo selvaggio. Passare tempo all’aria aperta, senza fretta, senza filtri e senza distrazioni tecnologiche, è un modo per placare i conflitti, rilassarci, canalizzare energie, ritrovare il nostro senso di giustezza interiore, riconnetterci alla vita e dare un significato diverso alle dinamiche che tanto ci tormentano nella nostra angusta esistenza.


Possiamo liberarci dal giogo dei giudizi

Come genitori subiamo enormi pressioni; ci fanno credere di dover continuamente intervenire per “far fare” ai nostri figli questo e quello, spesso in età troppo precoci rispetto ai loro bisogni e a quello che sono in grado di fare: farli mangiare, farli dormire da soli, farli parlare e così via. Ad ogni fallimento di queste assurde mete scatta il pensiero di aver fallito come genitori… e perciò ci arrabbiamo o ci disperiamo e vediamo cose sbagliate in noi e nei nostri figli.


In particolare l’idea che si debba insegnare ai bambini ogni cosa, che tutto sia frutto di abitudine, è un pensiero corrosivo e distruttivo per la relazione genitore-figlio. Una relazione che si dovrebbe nutrire esclusivamente di fiducia, ascolto, presenza, e invece viene avvelenata da quest’ansia di dover plasmare il comportamento del bambino per evitare il senso di sconfitta e proteggerci dal biasimo degli altri.


Di fronte alla crisi narcisistica delle nostre aspettative, veniamo assaliti mentalmente da una quantità di parole terribili: sbagliato, fallito, anormale, incapace, dovere, vergogna, colpa… un linguaggio che non ci aiuta a essere genitori efficaci. Il giudizio nasce da un sentimento di frustrazione, rammarico o risentimento causato dalla discrepanza fra le nostre aspettative e il comportamento del piccolo. Pensare che il bambino non dovrebbe comportarsi come fa, non dovrebbe sentire quello che prova, non ci aiuta a capire i motivi per cui in quel momento è così, non ci aiuta a vedere il suo potenziale di cambiamento né a restare aperti ad altre soluzioni che possano soddisfare i bisogni di tutti senza vinti e vincitori.


“Non preoccuparti di quello che gli altri pensano di te: vivrai più a lungo”, diceva Marshall Rosenberg, padre della Comunicazione non violenta. Liberarci di questi fardelli svalutanti, svincolarci dalle opinioni altrui ci permette di ascoltare i nostri figli, ascoltare noi stessi, ragionare in termini di bisogni, trovare e realizzare soluzioni che facciano stare bene tutti.


Possiamo disobbedire

L’umanità è agli inizi nel percorso di conoscenza e comprensione di questo meraviglioso viaggio, che permette alla vita di prosperare e agli individui di far sbocciare pienamente il loro potenziale creativo ed evolutivo. Siamo a un bivio e dobbiamo deciderci ad abbandonare gli schemi difensivi ai quali siamo stati aggrappati per millenni, per consentire al nostro potenziale umano di esprimersi interamente.

Lo status quo cerca di combattere con tutte le sue forze questo progresso pacifico, attraverso ostacoli concreti, pressioni sociali e pregiudizi culturali. Come osserva Joseph Chilton Pearce, pensatore e umanista che per tutta la vita si è occupato delle funzioni della mente compassionevole,


Adesso siamo in grado di riconoscere l’intelligenza stupefacente e profonda, la pianificazione attenta, l’intricato intreccio di miriadi di risposte tutte interconnesse tra loro con un sincronismo cruciale, insomma tutto ciò che la natura ha fatto evolvere lungo gli eoni del tempo e in cui ha investito per dar vita al processo della formazione del legame che ci ha affidato. Adesso più che mai siamo in grado di riconoscere fino a che punto terrificante le pratiche moderne si siano spinte nello scavalcare, compromettere o addirittura virtualmente eliminare ogni elemento del programma di questo incredibile disegno architettonico7.


Il pensiero che si possa vivere e prosperare in pace, senza violenza, costrizioni, punizioni, giudizi, colpevolizzazioni, sistemi deterrenti e azioni di forza, è un’idea destabilizzante per i detentori dello status quo e, nonostante l’accumularsi di studi che mostrano i benefici effetti di un’educazione rispettosa del bambino e di un approccio nonviolento nelle relazioni, si continua a ribadire che il controllo, le minacce e il distacco siano necessari per poter crescere individui moralmente retti e socialmente integrati.


Per fortuna, nonostante le pressioni e le manipolazioni culturali, nonostante gli ostacoli, molti genitori disobbediscono ai dettami culturali e ai consigli di presunti esperti, e continuano ostinatamente a coccolarsi i loro bambini. Non a caso tutti i manuali che pretendono di fornire ai genitori un “metodo” per disciplinare i bambini, insistono molto sul non dare ascolto alle proprie emozioni, rendersi insensibili, mantenere le distanze emotive e applicare con rigore le regole stabilite, per non “distruggere irreparabilmente” tutto il lavoro fatto… ammonimenti di cui non ci sarebbe bisogno, se l’istinto materno e paterno non fossero così forti, e la disobbedienza a tali regole non fosse così frequente e ripetuta. Abbiamo bisogno di coraggio da parte dei genitori, affinché ritrovino il proprio centro interiore, il proprio senso di giustezza interna, cominciando a sanare le ferite e a promuovere la crescita e la cooperazione.


Un figlio ti cambia la vita; ma non si tratta di un incidente da cui riprendersi, o una parentesi da superare in fretta, tornando alla “normalità” della vita di prima. I genitori per fortuna apprezzano i modi in cui l’esperienza di avere un figlio li ha cambiati; e non possono tornare alla normalità che ci si aspetta da loro, perché è il concetto stesso di normalità che, per loro, ha acquistato un nuovo significato.


Possiamo ripensarci

I cambiamenti nella vita di un bambino non sono eventi, ma processi. Il distacco dal seno, il sonno da soli, la camminata senza sostegno si snodano in un percorso non lineare, ma più simile a una spirale ascendente. Il bambino si allontana, poi si riavvicina, controlla che la mamma è lì, che i genitori lo riaccolgono nel letto, si regge al dito del papà, poi si lascia e poi rivuole la mano… e a mano a mano fa da solo e senza aiuto; ma nei momenti di difficoltà fa un passo indietro e torna cucciolo per farsi aiutare e rassicurare. Tutto questo fa parte del percorso di crescita ed è una danza a due (o a tre) del bambino con i suoi genitori. Non c’è bisogno di trasformare questo processo in un “evento” puntuale, tirare una linea netta dalla quale non si torna più indietro: non è necessario e può, di fatto, ritardare l’acquisizione di una vera autonomia, perché forzando le cose il bambino si adatta (e anche i genitori si adattano), ma mancherà loro quel percorso a spirale fatto di andate e ritorni, slanci e ripensamenti, che permette a tutti di elaborare emotivamente in modo profondo il cambiamento.


In questo andirivieni di esperienze i genitori prendono tante piccole decisioni, momento per momento: dare il seno o dire no e rimandare, provare a spostare il bambino nella sua stanza, aspettare e lasciarlo tentare da solo mentre si arrampica, senza correre subito in suo aiuto. Sono scelte fatte anche attraverso prove ed errori. La cosa importante da tenere presente è che non serve rifarsi a una regola fissa, scolpire le decisioni nella pietra, renderle irreversibili: se ciò che facciamo non va bene, il bambino ce lo farà capire e anche noi potremo tornare sui nostri passi. Non è vero che crescere un bambino significhi forzare le sue resistenze al cambiamento; vuol dire invece aver fiducia nel suo slancio evolutivo e nella sua capacità di dosare le esperienze secondo i suoi limiti. Noi genitori possiamo far sì che questi limiti si espandano, semplicemente stando al suo fianco senza opprimerlo e senza forzarlo, dando sostegno emotivo e presenza.


E se ci rendiamo conto che una strategia che stiamo sperimentando non funziona, o ci rende infelici, non c’è alcun motivo di “tenere duro”. Abbandonare una strada impervia per tornare sui nostri passi e scegliere un’altra via più praticabile è segno di saggezza e non di debolezza; non vanificherà alcuno sforzo fatto né disorienterà il bambino, al quale si può anche apertamente parlare spiegando di aver deciso di provare a fare in modo diverso. E sì, si può anche chiedere scusa al bambino se ci si accorge di aver sbagliato; questo ai suoi occhi non renderà l’adulto più fragile o debole, ma solo più amorevole e degno di fiducia.


Possiamo fare rete

Una volta messa a fuoco la direzione in cui vogliamo andare, può essere comunque molto dura mettere in atto l’approccio della gentilezza e dell’ascolto, in una società che isola i padri e le madri, li giudica secondo risultati basati sull’aderenza del comportamento dei loro figli a modelli “addomesticati”, enfatizza i rapporti di potere fra le generazioni e propone surrogati meccanici alla presenza viva degli adulti accanto ai bambini. I genitori che desiderano abbracciare un approccio empatico, e in particolare le madri, sui cui per lo più ricade questo impegno, si sentiranno sovente sopraffatte e senza sostegno né comprensione da parte del loro ambiente, con la sensazione che, per quanto facciano, non sarà mai “abbastanza”. Per questo è così importante trovare o creare intorno a sé una rete di solidarietà, una comunità di persone affini che condividano approcci e obiettivi, che possano empatizzare e rispecchiarsi gli uni negli altri, scambiarsi esperienze e scoperte, e fornire un diverso paradigma di normalità.


Gruppi di sostegno fra pari (anche virtuali, ma molto meglio se ci si incontra di persona) possono offrire sostegno collettivo e scambiarsi informazioni rilevanti che permettono di condividere al meglio le esperienze e i vissuti, senza farsi troppo scoraggiare dalle dicerie altrui.


Un gruppo di sostegno che funzioni non si porrà come nuovo modello normativo: il gruppo non è lì per giudicare o per decretare il giusto o lo sbagliato, ma solo per offrire un diverso modo di affrontare l’oggettiva difficoltà di crescere con amore un bambino in questa società così poco attenta ai bisogni di tutti, adulti compresi.


Il potere del sostegno di gruppo non sarà mai sottolineato abbastanza. Non bastano le informazioni, non basta l’aiuto di figure competenti, il gruppo di genitori ha un impatto culturale, emotivo e cognitivo immensamente più forte e soprattutto libera il potenziale di ogni madre e padre, contenendoli e affiancandoli mentre realizzano il loro progetto genitoriale: in una parola, il gruppo è il più potente strumento di empowerment.


Una funzione fondamentale del gruppo è permettere di vedere con i propri occhi la normalità del bambino che viene lasciato libero di svilupparsi secondo la sua natura e nel rispetto della fisiologia. È essenziale per i neogenitori rendersi conto di quanta mistificazione c’è rispetto a come un neonato sano e normale dovrebbe essere o comportarsi. È raro infatti disporre, nel proprio ambiente, di buoni esempi che aiutino a capire e accettare ciò che un neonato è, quello che normalmente fa, e quali sono i suoi bisogni. Frequentando un gruppo di pari i genitori potranno scoprire che c’è tutto un altro mondo reale, fatto di bambini veri che non si comportano come nelle pubblicità, ma nemmeno come in certi scenari foschi dipinti dalle teorie autoritarie. Un gruppo fra pari, inclusivo e non giudicante, permette di abbandonare la modalità del confronto con gli altri bambini per apprezzare ciò che tutti i bambini hanno in comune, ma anche la meravigliosa varietà nell’indole di ciascuno. Ritrovarsi insieme a mamme e papà in carne ed ossa, vedere come accudiscono i loro bimbi, come essi crescono e diventano grandi, scambiarsi esperienza e solidarietà, può fare veramente la differenza nel seguire la propria strada e il proprio cuore anche in un mondo culturalmente inadeguato a fornire sostegno e modelli educativi positivi.


Possiamo essere connessi

La sofferenza, i conflitti, l’incoerenza nascono tutti da uno stato di disconnessione. Si può dire che essere connessi sia la chiave di volta del benessere e dell’armonia interiore, e il presupposto irrinunciabile nelle nostre relazioni. Ma come recuperare la connessione perduta? Alcuni elementi possono essere di aiuto.


  • FARE PACE CON LA PROPRIA STORIA PERSONALE. La sofferenza legata ad alcuni aspetti dell’educazione ricevuta nella propria infanzia può costituire una barriera che impedisce di aprirsi a un approccio diverso ed entrare in contatto con i sentimenti e i bisogni del bambino. Accogliere i vissuti del nostro bambino interiore con la consapevolezza adulta, per comprenderli e assolverli, è un primo importante presupposto per connettersi con i propri figli.
  • RESTARE NEL PRESENTE. Tutti gli struggimenti, la frustrazione, le paure, la rabbia sono legate agli echi delle nostre esperienze passate e alle loro proiezioni nel futuro. Riportarsi nel qui ed ora permette di osservare senza giudizi gli eventi e restare in contatto, calmi e in ascolto.
  • SVINCOLARSI DALL’ANSIA DI PRESTAZIONE. L’ansia di “far bene” ci acceca e ci impedisce di connetterci alle emozioni e ai bisogni del bambino reale, che abbiamo di fronte. Ricordiamoci sempre che siamo responsabili verso i nostri figli, ma non siamo responsabili di loro, al loro posto. I giudizi altrui qualificano chi li fa e non chi li riceve, e quanto prima comprenderemo questa verità, tanto più facilmente potremo metterci in ascolto e in osservazione con leggerezza d’animo e con il sincero desiderio di imparare.
  • PRIVILEGIARE IL CUORE E NON TEMERNE GLI EFFETTI: ci fornisce una guida sicura verso la sintonia con i nostri figli. Come dice Jan Hunt, psicologa,

I bambini cresciuti nell’amore e nella compassione sapranno da adulti utilizzare il proprio tempo in modo costruttivo e colmo di significato, invece di esprimere le loro ferite infantili in modi che faranno male a loro stessi e ad altri8.


Alcuni approcci possono aiutarci nella ricerca della connessione. In primo luogo, osservare gli aspetti non verbali della comunicazione, cioè tutti quegli aspetti che vanno oltre il significato delle parole che si pronunciano, e che sono legati al tono della voce, la postura, le espressioni del viso, i gesti, la posizione nello spazio, gli sguardi.


La comprensione del linguaggio non verbale ci dà la possibilità di abbattere le barriere mentali ed entrare in contatto diretto con i sentimenti e i bisogni, nostri e altrui, che li sottendono. Gli aspetti non verbali forniscono informazioni immediate su come chi dialoga percepisce e definisce la relazione con il suo interlocutore; ci permettono inoltre di comunicare con efficacia sul piano dell’empatia, mantenendoci sintonizzati sull’altro.


Un altro approccio che favorisce la connessione è la Comunicazione non violenta (CNV), uno stile comunicativo messo a punto dallo psicologo Marshall Rosenberg, fondato su un approccio non giudicante e su un modo di esprimersi onesto e rispettoso. I pilastri della CNV, in breve, sono quattro:


  • descrivere ciò che si vede, senza aggiungere alcun giudizio di qualità o valore;
  • esprimere il sentimento che si prova;
  • definire il bisogno che è all’origine di quel sentimento;
  • fare una richiesta chiara e non vincolante.


Rosenberg definisce la CNV un approccio comunicativo che connette alla vita. Passare attraverso l’osservazione compassionevole e l’ascolto attivo, sia verso gli altri sia rivolto a noi stessi, ci permette di individuare con chiarezza le emozioni e riconnetterci quindi ai bisogni profondi e allo slancio vitale che si agita al di sotto di essi, permettendo l’espressione naturale dell’empatia.


Quando la CNV sostituisce i nostri vecchi schemi di difesa, rinuncia o attacco di fronte alla critica e al giudizio, arriviamo a percepire noi stessi e gli altri, così come le nostre intenzioni e le nostre relazioni, in una luce nuova. La resistenza, l’atteggiamento di difesa e le reazioni violente vengono minimizzate. Quando ci concentriamo sul fare chiarezza su ciò che osserviamo, ciò che proviamo e ciò di cui abbiamo bisogno, anziché emettere diagnosi e giudizi, scopriamo la profondità della nostra empatia. Attraverso la sua enfasi sull’ascolto profondo – sia verso noi stessi che verso gli altri – la CNV promuove il rispetto, l’attenzione, l’empatia e genera un reciproco desiderio di dare dal cuore9.


A un livello più ampio, possiamo poi connetterci all’universo intorno a noi. Non si tratta solo di un concetto filosofico, ma di un modello di descrizione della realtà che ha solide basi nello studio della fisica quantistica. Questo modello descrive l’ipotesi di un Campo Vibrazionale Unificato che connette ogni cosa: oggetti, esseri viventi, pensieri, energia, costituendo la trama spazio-temporale della nostra realtà.

Carla Hannaford lo definisce il campo che sottende e organizza tutte le matrici vibrazionali che noi sperimentiamo come realtà fisica10.

Più ci si spinge avanti nell’esplorazione di questi fenomeni, più emerge la comprensione di quanto la realtà sia intrecciata in una fitta rete di rapporti e relazioni. È tempo di abbandonare la diatriba fra dipendenza e indipendenza, e accettare l’idea che siamo tutti interdipendenti.


Il modello descrittivo del campo vibrazionale unificato è in sintonia con il modo in cui funziona il nostro sistema ossitocinico della calma e connessione. Abbracciare questa visione ci aiuta ad abbandonare l’atteggiamento distruttivo, divisivo e cinico che ci sta portando sull’orlo della catastrofe, per sostituirlo con una visione ecologica, circolare, che si espande nello spazio e nel tempo.

Siamo tutti interconnessi non da una rete virtuale ma, attraverso le generazioni, molto più concretamente dall’intreccio delle nostre scelte.

Come viene detto nel romanzo di David Mitchell Cloud Atlas,

Le nostre vite non sono nostre. Da grembo a tomba, siamo legati ad altri, passati e futuri. E da ogni crimine, e ogni atto di gentilezza, generiamo il nostro futuro11.


In noi esiste intatto il potere e la forza per scegliere la pace e la cooperazione, e ignorare i richiami e i proclami di guerra che cercano di spogliarci della nostra energia vitale e distoglierci dalla realizzazione del nostro potenziale: usiamo questa forza per restare connessi e nutrire ciò che di bello, amorevole e vitale c’è nelle nostre e nelle altrui vite.


La rivoluzione della tenerezza
La rivoluzione della tenerezza
Antonella Sagone
Crescere i figli con una guida gentile.Scegliere la via della gentilezza per accompagnare i bambini a diventare individui integri e capaci di empatia, attraverso la presenza affettuosa, l’ascolto dei loro sentimenti e bisogni, il dialogo. La guida gentile non è essere sempre perfetti e nemmeno essere sempre accondiscendenti: è porsi ai nostri bambini con onestà e rispetto della loro integrità, è scegliere di saper essere piuttosto che di saper fare, di avventurarsi nel mare tempestoso delle emozioni e attraversarlo, insieme a loro, con empatia, e usare queste emozioni come guida per comprendere e conciliare i bisogni di tutti.Confermare il bambino nei suoi sentimenti e nelle sue sensazioni, accogliere la sua percezione anche quando non collima con la nostra, aiutandolo ad ampliare la sua visione delle cose e includere quella più vasta della società, è la strada per crescere individui integri, capaci di valutare in modo critico ciò che la vita propone loro, e quindi in grado di esprimere al massimo il loro potenziale.Al di là della falsa scelta fra autoritarismo e lassismo, nell’educazione dei bambini c’è una terza via, quella della gentilezza, che Antonella Sagone presenta nel suo libro La rivoluzione della tenerezza.Attraverso la presenza affettuosa, l’ascolto dei loro sentimenti e bisogni, il dialogo onesto e rispettoso, gli adulti possono, senza rinunciare al loro ruolo di guida, accompagnare i bambini a diventare individui integri e capaci di empatia, con una base affettiva sicura e la capacità di connettersi con gli altri e con l’ambiente intorno a loro, cambiando in meglio il mondo. L’ebook di questo libro è certificato dalla Fondazione Libri Italiani Accessibili (LIA) come accessibili da parte di persone cieche e ipovedenti. Conosci l’autore Antonella Sagone, psicologa in area perinatale e consulente professionale in allattamento materno IBCLC e formatrice; da 40 anni si occupa dei processi fisiologici della maternità e paternità, e delle pratiche di assistenza e sostegno che promuovono la salute e l’empowerment della madre e di tutte le persone coinvolte nell’accudimento e nella crescita del bambino.