CAPITOLO IV

Vite altamente sensibili

Premessa

Quest’ultimo capitolo è dedicato a tutte le persone e le famiglie che in questi anni ho incontrato e avuto il piacere di conoscere grazie a questo progetto. Sono le loro testimonianze, doni preziosi che hanno arricchito non solo la mia comprensione di questa caratteristica ma anche questo libro. I loro punti di vista saranno svariati, adulti che descrivono i bambini che erano, genitori rispetto ai figli, insegnanti ed educatori.

L’invito a renderli protagonisti di questa avventura narrativa è nato dalla profonda stima che nutro per ognuno di loro, e dalla profonda convinzione che solamente facendo rete gli esseri umani possono imparare ed evolvere. Sono storie quotidiane di persone comuni che, nella loro straordinarietà, hanno cercato e cercano di rileggere le loro esperienze dell’infanzia attraverso questa nuova consapevolezza, traendone inaspettati benefici. Saranno storie diverse, con stili diversi, poiché ho scelto di mantenere inalterate le loro voci, astenendomi quindi dal correggere o alterare le loro espressioni spontanee.


Per ognuno di loro la scoperta di avere questa caratteristica è stata, come per me, una svolta di comprensione e riconoscimento verso se stessi, un modo nuovo di affrontare le sfide che la vita ci pone e nuove modalità funzionali per affrontarle.


Mi auguro quindi di cuore che questi loro sforzi generosi possano essere strumenti efficaci per tutti voi che leggete, affinché possiate riconoscervi nelle loro storie, o anche soltanto trarre spunti di confronto e riflessione. Per la tutela della loro riservatezza i nomi e i dati sensibili delle loro storie saranno modificati, ma per esprimere la mia gratitudine li citerò per nome tutti insieme nelle conclusioni di questo capitolo.

Una bambina “già grande”

La prima di questa serie di testimonianze riveste un’importanza particolare per me: è quella dei miei genitori. Chiedergli di rivedere insieme la mia infanzia, riguardando anche le fotografie, ed esporsi raccontando episodi che mi riguardano è stata un’idea improvvisa e sorprendente, e una sfida con me stessa. È stato commovente per loro, e commovente per me. Li ringrazio dal profondo del cuore, e dall’anima, per questo dono. E sono grata per la rara possibilità di poterlo inserire in un libro, dalle mie mani alle vostre.


Dopo una difficile gravidanza sei nata con un cesareo d’urgenza perché non sentivano più il tuo cuore, avevi ingerito e respirato il liquido amniotico e il cordone ombelicale arrotolato al collo. Ma poi ce l’hai fatta, eri forte, eri molto arrabbiata e avevi un sacco di capelli con la cresta neri. Sei sempre stata una bambina “già grande”, anche se eri piccola le tue reazioni erano da grande, molto decisa e ferma nelle tue cose. Hai cominciato a leggere a poco più di cinque anni, facevi domande sempre. Molte volte i nostri amici di famiglia ci facevano notare le tue capacità sorprendenti e da “bimba più grande”.


Una piccola persona. Eri curiosa rispetto a tutto, hai imparato molto presto a parlare e a scrivere, e ti divertivi a scrivere e disegnare anche sui muri di casa! Avevi uno sguardo sempre pensieroso, serio, osservavi tutto molto attentamente e facevi molti ragionamenti.


Un giorno mentre ti stavo dando da mangiare tu volevi a tutti i costi toccare il cibo e io ti ho detto che bruciava ma tu mi guardavi come per dirmi “cosa vuol dire?” e così ti ho fatto toccare: be’, hai capito cosa voleva dire “brucia”. Avevi sempre bisogno di capire le cose, e di provarle.


Sei sempre stata molto attenta agli altri bambini, e quando sentivi un bimbo piangere tu cominciavi a preoccuparti e mi chiedevi perché stesse piangendo e mi chiedevi di fare qualcosa per lui, poi ti spiegavo che era con la sua mamma e il suo papà e che ci avrebbero sicuramente pensato loro.


Una volta eravamo in un parco giochi e ad un tratto ho riso perché un bimbo era inciampato (senza farsi male) e tu mi hai rimproverata, mi hai detto che non si ride per i bimbi poverini che cadono.


Hai sempre adorato gli animali, specialmente quelli in difficoltà, te ne sei sempre presa cura. Ti sei presa cura sempre degli esseri viventi in generale, e volevi che anche noi adulti li rispettassimo. Una volta hai voluto salvare delle piccole ranocchie in campeggio, altre volte erano uccellini o altro. Mi ricordo un giorno che hai portato a casa un altro gatto, ne avevamo già tanti, “Mamma, lo hanno trovato quasi annegato in un fosso, lo dobbiamo curare”. I tuoi amici lo avevano trovato e portato a te perché ti conoscevano, sapevano che tu l’avresti aiutato sicuramente.


Mi è venuto in mente un episodio che risale a quando avevi qualche anno di vita, eravamo nel periodo delle feste natalizie, alla sera della vigilia dell’Epifania e io e la mamma ti stavamo spiegando in che cosa consisteva. Mentre ti facevamo vedere le sue immagini in un libro illustrato per bambini, ti spiegavamo che era una cara vecchina che si sarebbe messa in viaggio nella notte, a cavallo di una scopa volante, per andare a visitare le case di tutti i bambini, proprio tutti. Sarebbe poi entrata nelle case di ciascuno, attraverso il caminetto o il terrazzo, e mentre loro dormivano gli avrebbe lasciato un dono che, se erano stati buoni era un bellissimo giocattolo, mentre se avevano fatto “arrabbiare troppo” i genitori era solo del carbone.


E abbiamo aggiunto altresì che bisognava andare a letto presto, per darle modo di iniziare prima possibile i suoi giri, perché doveva andare a trovare tutti i bambini, che erano tantissimi, ed aveva bisogno di più tempo possibile perché era ormai vecchia e stanca.


A quel punto tu, dopo averci ascoltato con la massima attenzione, prima di precipitarti a letto per consentirle di arrivare a casa nostra, sei andata in cucina a prendere un piattino dalla credenza e vi hai messo una fetta di panettone, poi hai preso un bicchiere e ci hai messo un po’ di aranciata e hai depositato il tutto sulla soglia del balcone di casa nostra.


Subito dopo che ti sei girata verso di noi, che ti guardavamo incuriositi, e ci hai detto:


“Chissà quanto si affaticherà a fare tutte queste corse nel cielo la Befana, allora ho pensato di farle trovare qualcosa da mangiare e da bere così si può riposare un pochettino e riprendere forza”.


Allora ti abbiamo abbracciato e baciato, lodandoti per queste tua meravigliosa sensibilità.

Il suo modo delicato di stare nel mondo

Incontrare Marco e la sua mamma è stata un’esperienza del tutto particolare. Solo incrociando il suo sguardo così profondo, e grande, mi sono subito commossa. Sembravano occhi saggi di un adulto, ma con la delicatezza e la purezza tipiche dell’innocenza di un bambino. Il suo modo interessato ma discreto di avvicinarsi a me, la sua enorme apertura e disponibilità, e la sua capacità di scrutarmi oltre il verbale mi hanno fatto subito intuire che ero di fronte a qualcosa di straordinario. A parte l’incredibile ipersensibilità, Marco è un bambino davvero speciale. In lui si trovano unite sensibilità e intelligenza, purezza di cuore e volontà, forza e saggezza. E nella sua mamma ho trovato il magnifico esempio di un genitore che guarda il proprio figlio con occhi fieri e stupefatti, con grande sensibilità e apertura, nel perfetto giusto mezzo tra capacità di rassicurarlo e lasciarlo esprimere ed esplorare liberamente. Lei vede suo figlio come un piccolo grande essere umano speciale e unico, e lo valorizza costantemente per il suo modo speciale di vivere le cose.


Marco è un bambino molto sensibile, che ti sorprende sempre e ti fa sciogliere dalla commozione. È unico e io mi sento molto orgogliosa di lui. È molto attento ad ogni cosa che lo circonda e quando ad esempio noi adulti parliamo, anche se sta facendo altro in realtà sente sempre tutto o quasi, e una volta è arrivato ci ha abbracciato e ci ha detto: “bravi… radunatevi e parlate… parlate molto… fatelo sempre”. Ti lascia così, senza parole.


Ogni tanto chiede un fratellino, e ultimamente vedendo un bambino che è stato adottato da genitori di diversa nazionalità e carnagione, con la sua enorme delicatezza Marco ha voluto chiedermi come avvenisse questo, e dopo aver compreso l’idea dell’adozione ha esordito con: “Mamma potremmo allora andare in queste case e prendere un fratellino… secondo me loro sono tristi perché non hanno nessuno che possono chiamare mamma e papà, io voglio prenderne uno così può chiamare te mamma. E io così ho un fratellino che mi fa compagnia e che posso proteggere. Va bene di qualsiasi colore, anche neretto o cinesino è uguale.” E ti lascia senza parole.


Ha molto istinto di protezione in generale, a volte capita che lo dica anche a me: “Mamma ti proteggo io”, soprattutto dopo la separazione, ma io invece gli rispondo “No amore, sono io che proteggo te”. Perché non si devono ribaltare le cose, non mi sembra giusto. E da lì è diventato un gioco, nel farlo sentire protetto rispetto a noi come genitori lascio anche che invece protegga quelli più piccoli di lui, cosa che fa costantemente. È sempre attento ai più fragili, consola chi è triste e incoraggia chi ha paura dicendo “non preoccuparti anche se hai paura ci sono io”.


Ha anche un forte senso di giustizia, ad esempio un giorno eravamo ad un compleanno al parco, Marco aveva 5 anni, e un suo amichetto facendosi largo verso un gioco, sposta questa ragazza di colore dicendo “spostati nera”: Marco era dietro di lui e assistendo alla scena è rimasto molto male, l’ha proprio preso per i vestiti e l’ha rimproverato dicendogli di chiedere scusa alla signora “Io non dico alla tua mamma spostati bianca. È una signora”. Il bambino si è rifiutato di chiedere scusa ed è corso dal papà. Marco lo ha raggiunto, e ha ripetuto anche al papà di dirgli di chiedere scusa alla signora. Il padre stranito lo ha ascoltato e ha risposto “Hai ragione gli parlerò, ma sai tutti possono sbagliare”, e Marco “Sì certo, tutti possono sbagliare ma quando uno capisce di avere sbagliato deve chiedere scusa. È proprio perché è un mio amico che glielo dico”. Gli altri genitori intorno assistevano alla scena stupefatti e un po’ straniti, sembravano infastiditi dal suo modo di fare, forse lo vedevano come impertinente, e mi guardavano con aria interrogativa come dire “Ma non dici niente che parla così?”. Ma io non sono intervenuta, l’ho lasciato fare serenamente, perché per me era giusto quello che aveva fatto e in ogni caso io non intervengo mai pubblicamente contrariandolo. Quando sbaglia glielo faccio notare, dopo tra di noi, e lui ha sempre il coraggio di dire quando ha sbagliato lui. È profondamente onesto e corretto.


È molto sensibile anche all’ambiente, alla natura, agli animali, ma anche alle cose, a non rovinarle, alla maleducazione, come buttare per terra le cartacce, e ha la mania di raccogliere sassi e legnetti, anche fiori, ma sempre se sono già staccati. Ha paura di pestare gli insetti, e anche una pianta per lui è importante perché è viva e può crescere.


Ha una straordinaria capacità di empatia ed è sempre molto attento a non far dispiacere a nessuno, considerando sempre anche lo stato d’animo degli altri, anche prima del suo. Una mattina mi ha chiesto se ero stanca, perché lui si sveglia spesso di notte e non mi fa dormire, e si sente spesso in colpa di questo perché per riaddormentarsi ha bisogno di avermi vicino, fatica a gestire la fase di addormentamento da solo. Gli ho risposto dicendo “Mi aiuteresti molto se cercassi di riaddormentarti da solo almeno, è vero entrambi facciamo più fatica se dormiamo poco, è normale. Non sono arrabbiata con te, mi dispiace se a volte sono nervosa, sono solo stanca” e lui facendomi sciogliere mi ha risposto “No, tu non sei mai cattiva mamma” e poi mi ha messo di nascosto un biglietto nella tasca, che ho letto successivamente a lavoro: “Ti amo tanto sei una super mamma”.


Le difficoltà del sonno sono le sue maggiori da sempre, ha il sonno molto leggero, fatica a fermare i pensieri e rimugina molto, è molto riflessivo. Spero di trovare presto un modo di gestire meglio questa cosa, sia per lui che per me, ci condiziona molto quando non riusciamo a dormire.


Una sera tornata a casa mi ha fatto trovare una meravigliosa sorpresa, aveva apparecchiato la tavola per la cena e aveva messo candele accese tutte intorno, per terra, e al centro un foglio grande con scritto “Per la mamma cena speciale”, con un cuore, e mi ha detto che l’aveva fatto per farmi felice e farmi sorridere perché mi vede sempre stanca e poi all’orecchio mi ha detto “Tu sei bravissima a prenderti cura di me”. Sfido chiunque a non sciogliersi in una valle di lacrime!


Un aspetto che sempre mi colpisce è la sua attenzione ai dettagli: in quella occasione ogni candelina era poggiata su un pezzo di carta per non sporcare il pavimento. Quando disegna è impressionante la sua finezza di particolari quando rappresenta persone, animali, cose… disegna l’ombelico, le ciglia, le unghie, e ha una straordinaria capacità di disegnare le espressioni nello sguardo, nella posizione del corpo. Una volta nel disegnare “la storia della strega triste”, nelle ultime vignette di lieto fine anche se la strega non aveva più le lacrime l’aveva disegnata con gli occhi ancora segnati dal pianto.


È molto curioso e osserva tutto con grande attenzione, imparando molto in fretta. Una volta gli ho raccontato che mentre aspettavo lui nella pancia facevo yoga, si era incuriosito e poi deve aver visto qualcosa in Tv forse, e un giorno a casa di un’amica ha visto che nell’altra stanza c’era un tappetino da yoga e a un certo punto è sparito di là: stava “meditando” nella tipica posizione del loto, e quando gli abbiamo chiesto cosa stesse facendo ci ha risposto: “Mi sto rilassando”.


Spesso mi fa domande e parla di pensieri molto particolari, e mi dice spesso la sensazione di vedere le cose o provarle in maniera diversa dagli altri, e questo lo preoccupa. Una volta ad esempio in classe avevano mostrato immagini dei bambini del “terzo mondo”, e di fronte a queste immagini era rimasto molto scosso. Aveva paura di aver provato un sentimento di schifo (riferito a all’immagine di quei corpi così sofferenti), e non sapeva a cosa ricondurlo, si sentiva molto triste e nel contempo in colpa. Era imbarazzato e mi ha confidato di avere paura di essere “razzista” o “ignorante”, parole che ancora non conosceva bene ma che lo terrorizzavano. Gli ho spiegato che assolutamente non lo era, anzi, e che poteva capitare di essere impressionati da certi dettagli quando le persone stanno molto male. E allora mi ha chiesto “Anche tu da piccola avevi queste sensazioni? Ma anche gli altri bimbi sentono così?” e spesso in generale inizia domande con la frase: “Ma a tutti può succedere di…?”. Anche il papà è preoccupato del suo sentirsi “diverso”, per il timore che lo veda come “avere un problema”. Io lo rassicuro, facendogli esempi della mia infanzia, e cercando di trasmettergli che siamo tutti diversi uno dall’altro, quindi non deve avere paura di non essere “uguale”. Rispetto poi al concetto di razzismo, quando gli ho spiegato cosa volesse dire di preciso, mi ha interrotta abbassando la sguardo e alzando una mano come a proteggere il viso dicendo “basta mamma, fa troppo male”.


Ogni volta che siamo in auto Marco guarda fuori dalla macchina, chiede di mettere della musica classica o led zeppelin (son ben diversi), si isola non ascolta più nessuno, riflette, osserva in silenzio. Si perde nei suoi pensieri, lo fa sempre in macchina. Ha sempre avuto uno sguardo molto particolare quando osserva le cose, come se tutto quello che vedesse fosse estremamente importante. Da questo sguardo si coglie il suo modo delicato di stare in questo mondo.

Caro Stefano…

Sara e Matteo sono due genitori reali: non ambiscono alla perfezione né hanno la presunzione di ritenersi “modelli”, eppure per me lo sono. Lo sono perché hanno lottato da sempre per il loro bambino, nonostante le difficoltà, dimostrando a se stessi e agli altri che amore e volontà insieme vincono nonostante tutto. La volontà di mettersi continuamente in gioco e in discussione, di sfidare le convenzioni e le aspettative esterne, sia personalmente, che come coppia e come genitori. Guardano loro figlio con occhi sempre curiosi e aperti, sono innamorati delle sue caratteristiche distintive e riescono a cavarsela anche nelle situazioni difficili. Premurosi e attenti, hanno trovato nella loro consapevolezza di essere ipersensibili una nuova chiave di lettura con cui accostarsi alla vita e alla propria famiglia. Gli sono molto grata per la grande amicizia e fiducia, per aver accolto con tale entusiasmo il mio progetto e per il coraggio di mostrarsi sempre così come sono. Ma non è necessario dire altro, lo leggerete da voi nella seguente lettera che hanno scritto pensando di indirizzarla al loro bimbo Stefano. Le loro parole sono ciò che spesso ci saremmo voluti sentire dire da piccoli.


Caro Stefano,


Io e la mamma ti stiamo scrivendo questa lettera per spiegarti che essere persone ipersensibili, a volte, può essere una parte di noi che ci aiuta a vivere meglio.


Fin da quando sei nato, ad oggi, ti abbiamo visto crescere esprimendo in pieno le tue emozioni, in primis dal tuo sguardo, poi dalle tue riflessioni.


I tuoi occhi hanno sempre dimostrato di saper leggere nell’animo delle persone quando ancora non avevi l’uso della parola. Il nonno diceva che si sentiva in soggezione quando tu lo guardavi fisso, con quegli occhioni penetranti… alcune volte avevi uno sguardo serio serio e non ti sfuggiva nulla.


Eri come un anziano saggio nel corpo di un bambino.


Sei sempre stato in grado di capire come io e la mamma ci sentiamo, anche quando proviamo a nascondertelo… ad esempio ricordo che una domenica mattina mamma era uscita per andare a fare uno dei suoi corsi di formazione, era uscita tutta di corsa e nervosa non so più per cosa… quando è tornata era tutta rilassata e in pace con se stessa… le hai aperto la porta e dopo un abbraccio le hai chiesto: “Mamma sei felice?”.


Lo percepivi, lo sentivi. Eri già sintonizzato come una radio sulle sue emozioni. Io e la mamma vorremmo ricordarti qualcun altro di questi episodi.


Il primo che ci viene in mente risale a quando avevi circa due anni. Eravamo al parco, all’improvviso ti sei fermato e la mamma ti ha chiesto cosa c’era che non andava. A quel punto, hai voluto parlare con lei a quattr’occhi e mi hai chiesto di allontanarmi.


Con i tuoi tempi e le tue capacità, le stavi spiegando che avresti voluto vederla sorridere di più e che il fatto che lei spesso ti sgridasse urlando ti dava fastidio. Le hai espresso chiaramente i tuoi bisogni e i tuoi sentimenti, dicendole che ti spaventavi quando lei alzava troppo la voce e che avevi paura quando faceva così. Avevi bisogno di essere rassicurato perché troppo spesso ti sentivi dire che quello che facevi era sbagliato.


Anche mentre guardavamo la Tv spesso ci chiedevi di cambiare canale quando c’erano pubblicità che avevano “una musica troppo triste”, perché ti commuovevi.


Anche alla scuola materna sei venuto fuori piano piano, dapprima giocavi un po’ più per i fatti tuoi, in quell’ambiente cosi nuovo e pieno di bimbi grandi (che a te non piacevano tanto… preferivi più le bimbe piccole) ma poi hai preso coraggio e alla fine dell’anno avevi “centomila amici”! La maestra che urlava un po’ più spesso delle altre maestre ti faceva sempre meno paura… e non ti spaventavano più nemmeno tanto le urla della mamma (anzi, forse hai iniziato ad urlare più tu di lei… povero me!)


Spesso il mondo ti sembrava difficile da spiegare a me e alla mamma, ma poi hai preso coraggio e, anche quando le maestre ti chiedevano di fare qualcosa da solo, anche se all’inizio avevi paura di sbagliare, hai iniziato a prendere coraggio e a sbagliare. Perché, amore mio, tutti impariamo dai nostri errori e tu adesso hai diritto di sbagliare a più non posso!


Un’altra occasione che vorremmo raccontarti è stata quando eravamo al mare dalla dada Nene, avevi appena due anni ed eravamo in spiaggia, ad un certo punto hai notato una bimba che se ne stava in disparte e giocava tutta sola, ti sei dispiaciuto per lei e ci hai chiesto se potevi andare a giocare con lei. Quando lei ti ha risposto di no, ti sei rattristato anche tu per un po’, e la guardavi chiedendo a noi come mai fosse così triste e avresti tanto voluto fare qualcosa per farla sorridere.


La mamma mi ha chiesto anche di raccontarti come anche lei da piccolina fosse molto sensibile. Ci sono un paio di episodi che si ricorda in particolare.


Una mattina a scuola, era tutta concentrata a fare un disegno che non si era accorta del baccano che stavano facendo i suoi compagni, e, quando la maestra ha sbattuto la mano sulla cattedra urlando “Silenzio!”, lei ha fatto un salto improvviso sulla sedia… la maestra le ha poi chiesto cosa era successo che si era spaventata tanto, dicendole che probabilmente era un po’ troppo nervosetta… lei ovviamente è tornata a casa molto triste, e sai perché? Perché lei non si sentiva affatto nervosa, anzi! Era solo molto assorta nei suoi pensieri… ma avendoglielo detto la maestra forse un po’ ci aveva creduto di avere qualcosa che non andava.


Questa particolarità del tuo carattere spesso verrà archiviata con parole poco gradevoli come “permaloso” o “nervoso” o “pitocco”, ma in realtà solo tu sai quali emozioni stai provando e quali sentimenti guidano le tue azioni, solo tu sai cosa macina nella tua testa, non smettere mai di ascoltare ciò che provi e di chiederti come stai, perché nessuno meglio di te lo saprà mai.


Arriviamo adesso all’episodio della ninna nanna. Alla mamma non è mai piaciuta tanto la ninna nanna che le cantava la nonna quando era piccola, ma gliela cantava la sua mamma quindi in un certo senso era bella comunque. A un certo punto arrivava quella strofa che diceva così “alla mamma dài già tante pene, potrebbe creder che non le vuoi bene”. Be’, la mamma non è riuscita a non farsi scalfire da quelle parole nemmeno l’ultima volta che ha chiesto alla nonna di ricantargliela… Era talmente triste per le sue orecchie che una volta rimasta sola si è messa a piangere.


Ecco amore, non pensare mai di essere meno forte perché piangi. Le lacrime fortificano, devi solo capire come e quando farle scendere giù.


C’è anche un episodio della mia infanzia che vorrei raccontarti, per farti meglio capire cosa significa avere un carattere molto sensibile. Quando ero alle elementari, una bambina arrivava sempre in ritardo, tutte le mattine. Non era colpa sua, ma, al suo arrivo, tutti i compagni e anche la maestra, le lanciavano degli sguardi con una cattiveria difficile da spiegare. Poi la maestra usciva a sgridare anche il papà che la aveva accompagnata in ritardo e io questa cosa me la ricorderò per sempre, come lei fosse vittima del giudizio degli altri, perché la sua sofferenza in quel momento, e negli anni a venire, l’ho sempre ricordata come se fosse anche la mia.


A distanza di anni ti posso dire che quando verranno messi in discussione i tuoi sentimenti, tu sarai il primo a voler dare una spiegazione a te stesso.


La verità è che ci sono dei sentimenti che non si possono spiegare e ti faranno arrabbiare sempre se messi in discussione.


Io e la mamma discutiamo ancora oggi con i nostri genitori per far capire le nostre priorità. Di solito chi non è ipersensibile non perde tempo nella gestione dei sentimenti, tu passerai la vita cercando di dare un senso a ciò che il tuo animo percepisce.


L’empatia che proverai in certi momenti, per le sfortune che capiteranno agli altri, ti faranno sembrare un Robin Hood dei giorni nostri… tu non avere paura, sei solo un diamante che sta cercando di posare il suo cuore su chi davvero se lo merita.


Ti vogliamo bene, Mamma e Papà

Troppe sollecitazioni

Roberta è stata uno degli incontri straordinari del mio viaggio, avvicinata proprio dal tema dell’ipersensibilità ad un nuovo percorso, un nuovo modo di vivere. Di lei mi hanno sempre colpito il coraggio e l’arte: l’arte della continua ricerca e della capacità di raccontarsi in modo straordinario. Ci sarebbero infatti molte sue citazioni che varrebbe la pena condividere con voi, la sua lucida intuitività e l’inesauribile creatività sono strumenti preziosi e rari, di cui fare tesoro. Abbiamo scelto di condividere in particolare un suo recente vissuto, una dettagliata e sensoriale descrizione del momento in cui si è rispecchiata nell’esperienza di una bambina, e nella sua delicata necessità di vedere accolte le sue esigenze.


Una cascata di riccioli castani, occhiali da diva, ovali, lenti scure, solo le immagini di Minnie di Walt Disney sulle stanghette dichiarano l’età di chi li indossa.


Carlotta, due anni e mezzo, divide con la gemella un passeggino di un rosso fiammante, non riesco a distinguerle fisicamente, ma basta guardare come si comportano ed allora tutto è chiaro.


Con ostinazione Carlotta ripete: “No!”


Poggia i piedini sulla sabbia bollente della spiaggia e tutti corrono da lei. “Vuoi il succo?”, “Vuoi la merendina?”, “Vieni a fare il bagno?”, “Ti porto il secchiello?”, “Vuoi fare una passeggiata?”.


Una raffica di no.


Le manine allontanano tutti.


Porge le spalle al mare cristallino, si guarda intorno. Sono seduta a pochi passi da lei, le sorrido.


Mi guarda di sottecchi e non fiata.


Taccio.


Saltella un po’, trova un telo da bagno, si siede. Zitta. E di nuovo lancia uno sguardo a me, poi alla sua mamma che è in acqua.


Si rialza, nemmeno appoggia più i piedi sulla sabbia, resta sul telo, uno spazio rosa su cui si muove e ad un certo punto chiama: “Mamma!”


Ricominciano le mille domande a lei rivolte, ricominciano i “no”, piagnucola, vorrebbe la sua mamma ma evidentemente la distanza, l’acqua che non la attrae, la fanno sentire in difficoltà.


Troppe sollecitazioni.


Tempo.


Aspetto.


Si calma.


Di nuovo mi lancia un’occhiata, questa volta la accolgo, le sorrido, le allungo un dito, così, in silenzio.


Aspetto.


Il suo tempo.


Aspetto il suo tempo.


Due passettini, si avvicina.


Il mio dito è sempre lì, pronto, se vuole, se è pronta.


Mi guarda ancora e la manina stringe il dito. Solo allora mi alzo, le domando: “Andiamo?”


“Sì”.


Camminiamo piano piano verso quel mare meraviglioso, così invitante da far correre tutti a tuffarsi, noi camminiamo piano. Noi ci abituiamo.


Intanto tutti si sono distratti, palloni, materassini, tuffi, risate, grida.


Arriviamo all’acqua, io immergo i piedi, Carlotta no.


Guarda l’acqua, guarda le sue impronte, tiene stretto il mio dito. Ferma. Sono ferma anch’io, al suo fianco. Perché forzare? Perché chiedere? Perché spingere? Perché sovraccaricare? Perché offrire?


Tutto è lì, fruibile, se se ne ha desiderio.


Tutto è lì, ma togliamo. Togliamo domande, togliamo offerte, togliamo.


Io ci sono, aspetto.


Un passetto, un altro.


Siamo in acqua fino al suo ginocchio.


Mi metto in ginocchio, i miei occhi sono quasi all’altezza dei suoi, io mi avventuro qualche centimetro in più, mi segue.


Le allungo le mani, le prende.


Guardiamo i piccoli pesciolini che si avvicinano, indietreggio nell’acqua e Carlotta appoggia le manine sulle mie spalle.


“Facciamo i pesciolini?”


Si abbandona, galleggia, la sostengo con una mano, sorride.


Mi allontano dalla riva e nuotiamo, insieme, io la sostengo, lei si lascia andare. Ridiamo, i nostri visi sono a pochi centimetri.


“Carlotta nuota! Batti i piedini!”


Nuota felice, batte i piedi, ride, si tiene, allora comincia a guardarsi intorno, saluta la mamma che aveva cercato di raggiungere.


Gioia, rilassatezza, fiducia, abbandono, risate.


Gioia, accoglienza, rispetto, sostegno, risate.



Se ci penso ancora mi commuovo, la mattinata più bella di tutte le mie vacanze, il cuore ha gioito.

Un uomo non piange

Gabriele è un uomo fuori dal comune: il suo vissuto è sempre stato l’essere “fuori” dai contesti conosciuti, predefiniti, da ciò che forse si sarebbero aspettati da lui, dai modelli maschili in cui la sensibilità è così frequentemente fraintesa e sminuita, benché a volte paradossalmente sfruttata. Per me è stato un incontro “fuori dal comune”, per la rarità che contraddistingue la sua capacità di creare connessione, di unire le persone e le situazioni, di gravitare idee e progetti. Per la delicatezza che solo un uomo ipersensibile può imparare a conoscere, attraverso la paradossale crudezza delle esperienze vissute. Gabriele ci permette di approfondire le riflessioni circa la particolare difficoltà di essere un uomo ed essere ipersensibile insieme. Essere ipersensibile in una cultura in cui l’uomo non può piangere, non può mostrare le sue fragilità, non può emozionarsi in modo esplicito, non può essere cedevole o timoroso; in cui sentiamo ancora frasi denigratorie e ridanciane sulla confusione tra sensibilità e identità sessuale, in cui la virilità sembra esserne l’antitesi e si ritiene esclusivamente femminile tutto ciò che è delicato ed emotivo. Ci permette di riflettere su che modello di “maschile” vogliamo trasmettere ai nostri bambini, e quanto davvero riusciamo a lasciarli liberi di essere come sono, indipendentemente dai banali cliché.


Il suo lucido e difficile racconto del bambino che è stato rispecchia la sua grande generosità, e la sua rinnovata fiducia nella possibilità di essere “parte di” e non più “fuori da”.


Sono sempre stato un bambino malinconico e solitario. Ho convissuto con addosso questa sensazione di fondo, un ricordo di qualcosa che non ha forma e natura ma mi permea l’esistenza. Da bambino mi venne detto che un uomo non piange. Presi la lezione alla lettera e feci del mio meglio per rispettarla.


Sono stato un bambino ubbidiente e con la paura di dispiacere ai propri genitori. Con la sensazione che ero di troppo. Che volevano liberarsi di me. Che non c’era spazio se non mi piegavo alla volontà degli adulti. A 6 anni ho rischiato di morire annegato per una distrazione, da allora sempre ho avvertito di essere estremamente vulnerabile e in pericolo.


Nei miei momenti importanti o dolorosi ho inventato strategie autoprotettive per fare tutto questo: insicuro e facilmente preda di paure e panico, non mi sono più staccato dal modello di bimbo abbandonato a se stesso e questo ancora oggi mi fa vivere a disagio con la paura che le crisi ansiose si manifestino nei momenti più indesiderati fra persone che non possono capire e soprattutto non vogliono aiutarmi.


Ho adottato in maniera automatica ogni tipo di depistaggio del dolore, ho cercato ogni modo per evitare situazioni di scontro in famiglia o al di fuori escogitando una serie di modalità che non mi sono apparse tali fino al momento preciso in cui la montagna di detriti così costruita è crollata e mi sono sentito semplicemente svanire. Da lì è iniziata la ricerca di una motivazione. Da lì scaturisce l’analisi in queste righe.


Ripensandomi in quegli anni infantili, in cui si prendono le prime direzioni che daranno l’imprinting alla tua vita, mi rendo conto che sono stato fuori da ogni decisione: ad esempio che studi fare e quindi che lavoro avrei svolto. Ho avuto un ruolo di comparsa in molte delle cose che una persona normale sceglie per vivere appieno: ho accettato le scelte di altri per essere accettato.


Ho imparato presto a convivere con una serie di somatizzazioni, allergie alimentari, allergie da polline e incidenti: distorsioni e cadute in cui mi facevo molto male perché non mi sapevo proteggere. Cadevo e tenevo le mani puntualmente dietro la schiena.


Ho faticato e spesso rinunciato a farmi accettare nei gruppi e a scuola ero vittima di scherno e scherzi finché all’improvviso si palesava una figura tra i compagni o le autorità costituite che mi prendeva sotto la sua tutela e mi proteggeva; una volta messo alla prova nel gruppo, però, mi guadagnavo in fretta amicizia fedele.


Ho mantenuto rapporti sinceri come eredità di ogni gruppo o scuola o evento che ho frequentato: so ascoltare e faccio con entusiasmo per loro, con estrema semplicità, qualcosa che gli risolve un problema.


Ma da bambino ho dovuto adottare anche un altro automatismo salvavita: persone e situazioni passate dentro una specie di filtro, un classificatore, una scala di potenziale nocività rispetto alla mia sicurezza personale. Questo in contrasto con la mia pulsione a fare di tutto per essere amato e protetto, cosa che farebbe volentieri a meno di una scala Richter di dannosità per il mio animo.


Dai tempi della scuola elementare mi sono reso conto che mi è difficile o forse impossibile stare sotto pressione, rifuggo dagli esami di abilità parametrizzati perché penso ci sia un modo istintivo di rapportarsi e imparare le cose; essere giudicato in maniera istituzionale e codificata reprime la mia espressività e annulla buona parte della mia preparazione autodidattica.


Immaginavo di fare l’architetto: costruivo case e villaggi avveniristici con gli amati, sino a consumarli, giochi di costruzione. Poi mi venne regalata in maniera del tutto estemporanea a 13 anni una chitarra e scoprii la musica, mi si aprì il cuore.


La mia visione della vita è sostanzialmente basata sull’istinto ma sono stato costretto a fare passare ogni cosa dalla mente per paura di essere non accettato, sia dalla famiglia che dal resto del mondo.


Sono nato e ho vissuto in quella che chiamerei una cascina verticale, una casa che ripeteva la concezione rurale della cascina in altezza sui piani anziché in ampiezza come perimetro. Tutta una famiglia cresce e vive insieme aiutandosi.


Sono stato un bambino con una visione proattiva delle cose intorno. Vederne la matrice, l’essenza, usare uno sguardo diffuso avendo chiara l’idea di come avrebbero dovuto e potuto modificarsi per espandersi ed essere utili. Questa sensibilità mi ha portato complicazioni nel lavoro e nello studio e la certezza che la mia ricerca di equilibrio e sofferta serenità rappresenta un pericolo al comune senso del pensiero schierato: porto con me la notizia che c’è un altro modo, un altro mondo, e questo per la maggior parte delle persone rappresenta un pericolo al loro esibito equilibrio.


Nello stesso tempo non ho vissuto in famiglia una scuola del coraggio che mi permettesse di fare scelte autonome, per la paura di sbagliare ma soprattutto la paura di rimanere solo nella vita a causa di una scelta o di un sì/no detto a favore o contro qualcuno.


Mi porto dall’infanzia una specie di stanchezza atavica. Come una consapevolezza di lottare contro i mulini a vento ma di non poter smettere di farlo; vivo e dormo come un agente segreto, con un occhio chiuso e uno aperto. La sensazione di pericolo mi è sempre stata percettibile.


Amavo ballare, leggere, scrivere ma queste priorità dell’anima di cui avrei potuto vivere sono state da me stesso relegate al tempo libero, a un finale di giornate spese a fare in modo che tutti siano sistemati e contenti e io possa concentrarmi sulle mie passioni senza sensi di colpa. Tentativo puntualmente fallito: la testa dice che io se mi rilasso sto senz’altro trascurando qualcosa o qualcuno e questo mi sarà imputato in qualche modo.


Eppure quella era la mia strada, la creatività, l’arte, lo spettacolo. Avevo la battuta pronta e la capacità di sdrammatizzare le situazioni e spesso un agio che sembrava provenire da esperienze antiche che invece non avevo.


Amavo andare a camminare da solo, per la città come per le penombre dei boschi.


Penombra, una situazione di luce che ancora oggi tendo a ricreare in casa o nei luoghi dove mi trovo: non ho mai amato la piena luce.


Da bambino quella che era una percezione senza spiegazione alcuna, negli anni è cresciuta, l’ho studiata, l’ho fatta mia: credo fermamente che la bellezza ci salva anche quando non ce ne accorgiamo, cambia la nostra chimica corporea senza che se ne abbia coscienza. Purtroppo ci accostiamo al bello senza riconoscerlo e quindi senza gratitudine. Vedo i modelli di vita distorti, imposti, e non mi adeguo.


Nonostante la mia vita sia apparsa agli occhi del mondo piena di amore e molto seguita nella condizione famigliare di casa, sono stato un bambino lasciato solo.


Credo ormai con discreta certezza che il mio compito sia portare alla superficie o forse creare una rete di persone che possano autoaiutarsi, farsi del bene e farne agli altri intorno; quando la tua energia dispersa torna al tuo centro, impercettibilmente ne beneficia l’ambiente umano che ti circonda. Vorrei essere libero di immaginare e poi di creare l’immaginato. Vorrei non restare il visionario che sono ma un costruttore di contatti e sinergie. Vorrei essere ricordato per questo.

Scoprire talenti inespressi

Anna Carla è una di quelle persone che se entra in una stanza te ne accorgi subito. La sua energia diventa quasi palpabile, la sua modalità di approccio alle persone e alle situazioni trasmette sempre un raro senso di fiducia e possibilità. La nostra simpatia è stata istantanea e irrazionale, il senso di connessione e comprensione profonda che caratterizza il nostro rapporto è stato di grande sostegno e nutrimento. Scienziata, umanista, mediatrice, filosofa, artista e autrice, Anna Carla rappresenta l’esempio di una ipersensibile che ha trasformato la sua dote in un vero e proprio dono per sé e per gli altri.


Fin da piccola, mi ricordo di essere sempre stata molto soggetta a percepire gli stati d’animo presenti nell’ambiente circostante, avvertivo inconsapevolmente l’atmosfera psicologica nella quale ero inserita e spesso la subivo perché, senza che me ne rendessi conto, le mie emozioni venivano influenzate in maniera immediata da quelle degli altri così come tutto il mio umore. Mi sentivo senza filtro e senza pelle rispetto alle informazioni che mi arrivavano. Spesso a contatto con certe persone e certi luoghi mi veniva un’immediata tristezza, sonnolenza o pesantezza (ad esempio, all’interno degli ospedali) al contrario, ricordo benissimo la sensazione che mi dava la presenza amorevole di mia nonna, fatta di protezione e gentilezza. È sempre stata una sensibilità che si muoveva molto aldilà delle parole e quindi molto difficile anche per me da riconoscere, inquadrare e gestire. Mi sentivo spesso sopraffatta. La difficoltà nasceva dalla mia ignoranza riguardo a questa ‘antenna’, mi ‘ritrovavo’ così a sentire ed a provare emozioni e sentimenti a cui non sapevo dare un limite, un contenimento, un’origine o un nome. Non avevo ancora il confine chiaro fra le mie emozioni e quelle degli altri. Anche nei percorsi terapeutici di gruppo che ho frequentato per diventare counselor, sentivo le energie emotive ‘alzarsi’ e ‘abbassarsi’, a seconda dell’argomento trattato; questo accadeva perché potevano essere espresse delle emozioni in forma non verbale, come ad esempio il timore o al contrario, la curiosità e l’apertura verso un certo argomento trattato. Ho scoperto infatti, in seguito, che le emozioni si trasmettono non solo a parole ma anche attraverso la chimica e la fisica del corpo, è una percezione non intellettuale e più simile alla naturalezza degli animali perché è fatta di odori, di sguardi, di posture, di ritmo del respiro, di mimica facciale, ecc. Registravo molte più informazioni di quanto non fossi consapevole ed a volte mi sembrava che il mio intelletto andasse da una parte, a cercare una certa interpretazione della realtà, ed il mio piano emotivo da un’altra. Mi sentivo strana ed essendo anche molto razionale, non mi fidavo di me.


Ero anche molto toccata dalle ingiustizie e dalle disparità del mondo, quando ero piccola passavano le immagini della guerra in Bosnia durante il telegiornale e ne scrivevo spesso nei miei temi di scuola. A causa di questa sensibilità ero una bambina molto timida e introversa, facevo fatica a fare amicizia con i miei coetanei e preferivo la compagnia di persone più grandi di me. Ero sostanzialmente molto quieta e buona. Le maestre mi descrivevano nelle pagelle come una bimba matura, capace di stare in gruppo e con una logica molto sviluppata espressa attraverso i miei interventi in classe. Io invece mi sentivo poco capace e sicura di me. Pensavo di essere al disotto della media. In classe c’erano spesso dei bambini portatori di handicap e quando accadeva che la maestra di sostegno mancasse per qualche ora o per un’intera giornata, la maestra decideva di mettermi in banco con questi bambini, i quali erano spesso molto problematici: uno di loro tirava i calci e pugni, un altro soffriva di iperattività e di disturbo dell’attenzione. Io avevo una grande compassione per loro, mi ricordo che ragionavo sul fatto che se io fossi stata come loro, avrei voluto essere accettata e avrei voluto che gli altri non avessero avuto paura ad avermi vicina perché ero un po’ diversa. Rimanevo particolarmente male quando gli altri bambini li prendevano in giro o li allontanavano brutalmente rifiutando la loro vicinanza o la loro compagnia. Anche io ero molto a disagio quando ero in banco con loro ma solo perché avevano un comportamento imprevedibile e molto difficile da gestire. Le maestre dicevano ad i miei genitori che questi bambini in banco con me si calmavano. Io ricordo che cercavo di trattarli con più rispetto possibile. Più volte mi è sfiorato il dubbio che le maestre mi mettessero in banco con loro perché anche io, forse, avevo una qualche forma di disabilità ma poi questo pensiero mi è passato spontaneamente.


Ho sempre avuto problemi ad esprimere le mie emozioni perché inconsciamente mi sembravano troppe e, per ‘sopravvivere’, avevo imparato a non sentirle, a ‘chiudere i rubinetti’. Infatti quando ero sotto stress, non me ne rendevo conto e appena la situazione stressante si spegneva, mi sembrava di ‘tornare a respirare’ e sentivo improvvisamente quanto fossi esaurita ma, incredibilmente, non capivo il perché. Vivevo quasi una sensazione di paradosso: come se avessi camminato per ore ma avendo interrotto il flusso di comunicazione fra le mie gambe ed il mio cervello, mi arrivasse tutta la stanchezza solo a meta conseguita: avveniva tutto sotto la soglia del mio livello di consapevolezza. Può essere pericoloso perché, continuando la metafora del cammino, non ti dài un limite mentre percorri la strada, quindi non senti la stanchezza e non ti fermi per far recuperare i muscoli, puoi rischiare di non idratarti perché non senti la sete o non togli una scheggia da un piede, che può infettarsi, perché non registri il dolore. Infatti, siccome avevo adottato come meccanismo di difesa dalle emozioni questo abbassamento del volume del sentire, soffrivo episodicamente di depressione che, nel mio caso, era appunto simile ad un’anestesia: non vivevo la rabbia o la tristezza ma neanche la gioia e la serenità.


In generale, ho sempre apprezzato la vita in ogni sua forma, come dicevo prima, anche le persone problematiche, più che fastidio o paura, mi facevano provare un senso di dispiacere che alla fine mi muoveva ad alleviare il loro problema oppure a cercare, per come potevo, di accoglierlo. Fin da piccola percepivo una forte empatia per gli esseri viventi così pieni di bellezza nella loro essenza e complessità, che vedevo forti e fragili al tempo stesso. Tuttora continuano a destarmi un enorme senso di meraviglia e di protezione. È stato anche per questo che ho scelto di laurearmi in biologia (lo studio della vita) anche se ultimamente ho scoperto di esprimermi meglio come artista.


Intorno ai vent’anni ho sentito anche la voglia e la necessità di approfondire la conoscenza di me attraverso un percorso di terapia che mi ha permesso di conoscermi e di trovare un senso alla mia esistenza. Mi ha insegnato a piangere su certe ferite ed a gioire per la scoperta di talenti inespressi, come questo della sensibilità, che avendo imparato un po’ a gestire, lo considero come una bussola interiore che mi comunica la verità su ciò che sto provando e su ciò che sta accadendo, per cui riesco effettivamente a prendere più facilmente certe decisioni e ad avere risposte più coerenti, rispetto a prima, con me stessa e con l’ambiente circostante.


Si direbbe che il tratto di sensibilità possa portare alla confusione, alla sovrastimolazione e spesso alla sofferenza. La mia esperienza è che questo è vero fino a quando non impariamo ad accettarla, a conoscerla, ad ascoltarla e a dirigerla e questo diventa un allenamento che porta a risultati concreti, come ad esempio sentirsi capaci di vivere pienamente la vita con amore e speranza, in collegamento con gli altri, ad essere aperti, a sentirsi protetti, a sentirsi serenamente stanchi, a viversi tutta la gamma delle emozioni, a ritagliarsi dei momenti di solitudine sani: abbiamo la sensibilità di sentire di essere parte integrante della Natura, che funziona, come noi, elegantemente regolata dai suoi ritmi, dalle sue stagioni, dai suoi processi e che sembra riposare calma nel suo scopo.

La quotidiana difficoltà di gestire i limiti

L’incontro con Selene e con sua figlia Elisa è stato significativo ed illuminante nel mio cammino di approfondimento. Confrontarmi con una bimba di 9 anni con tali lucidità, intuito e capacità di connessione è stato sorprendente e anche sconvolgente a tratti. Elisa “ti mette in buca” facilmente se non sei assolutamente certo di ciò che stai dicendo, e se qualcosa non le torna ha la tenacia di affermare sempre con grande maturità e introspezione quello che prova e desidera. Fa tante domande, mette molto alla prova e nel contempo, se accolta, mostra un lato eccezionalmente comunicativo e aperto. Parla di empatia con grande semplicità, come una cosa del tutto naturale. Selene è una persona che esprime maternità, la sua grande capacità di accoglienza, connessione e cura è stato di certo un fattore determinante per la libertà della figlia di potersi esprimere, anche con caparbietà, mostrando se stessa nei lati comodi come in quelli scomodi. Questo aspetto, come leggerete in seguito, è anche difficile da gestire, e la definizione dei limiti è sempre una lotta. Ma è da questa lotta, da questi continui tentativi ed errori, dall’impegno costante e da una grande pazienza dei genitori che nasce per il bambino ipersensibile la possibilità di essere se stesso davvero.


Ecco: Elisa si è presentata subito alla nascita. Uscita da un cesareo programmato, con un pianto che mi ha immediatamente fatto dire: “Ohi ohi, povera me!”. Sensazione di lei che se ne stava tranquillamente dormiente nel suo mondo sereno e all’improvviso svegliata e strappata dal suo posto sicuro. E che quindi più che piangere per la paura, sembrava essere molto arrabbiata e frustrata dalla sua impotenza su ciò che le stava accadendo. Separata subito da me e portata a fare il bagnetto con papà e poi nella culla termica.


Circa un’ora dopo, Elisa, piangente, è di nuovo in braccio dalla mamma. L’ostetrica suggerisce di allattarla subito. Elisa come vede e sente la “titta”, si scaglia a bocca spalancata al capezzolo, con una forza e determinazione sorprendenti, per una creatura di appena un’ora di vita.


Fino ai tre mesi, neonata tranquilla, come si dice, mangia e dorme. Anche nei suoi momenti da sveglia, se ne sta tranquilla, con lo sguardo sereno e lontano. I suoi sorrisi contagiosi pieni di gioia, accompagnati da movimenti morbidi, sono piacevoli a vedersi, dandomi la percezione di una neonata in pace.


Intorno ai quattro mesi di Elisa, traslochiamo in una casa più grande. È una bifamiliare all’interno della casa dei miei genitori, con i quali insorgono inaspettate situazioni incresciose che creano attriti e discussioni accese.


Ecco che Elisa inizia a dormire poco e non si addormenta più da sola.


Ha risvegli notturni ripetuti, anche 4-5 per notte con lunghi e forti pianti inconsolabili che mettono a dura prova tutti, anche il fratello di quattro anni.


Anche durante il giorno il suo sonno è breve (circa 20 minuti) e interrotto, dorme più a lungo se qualcuno è con lei. Quando è sveglia, raramente riesce a starsene serena e tranquilla… Non usa il ciuccio, passa tanto tempo attaccata al seno, che sembra essere l’unica consolazione nei momenti più critici… Tutto ciò per tre lunghi anni.


Intorno all’anno inizia a camminare e parlare… e a mostrare la sua determinazione. Il suo dire di “no” con tanta forza inizia a metterci in difficoltà, e non è stato semplice capire come gestire nel modo giusto i limiti.


Intorno ai 20 mesi Elisa mentre mi guarda rovescia a terra un contenitore in cui ho i cotoni colorati per ricamare, le chiedo di raccogliere i cotoni e rimetterli nella scatola.


Elisa: “NO! …Mamma!”, ha chiara l’intenzione che non raccoglierà i cotoni e indica me.


Le ripeto di raccoglierli.


Di nuovo rispondendo ferma in piedi davanti alla scatola rovesciata a terra: “No!…Mamma”.


Le spiego che lei ha rovesciato, quindi lei deve riordinare, non la mamma.


È irremovibile.


Allora scatta la sfida, capisco che se lascio correre, il rischio è di non darle un limite.


La prendo per mano, l’accompagno nella stanza più vicina (il bagno) dicendole che può rimanere un po’ a pensare, se davvero non vuole raccogliere, che tornerò più tardi per sapere cosa ha pensato.


La lascio in bagno, non riesco nemmeno a chiudere la porta, che scoppia in un pianto fortissimo dei suoi, aspetto 10 secondi, riapro la porta e le chiedo se ha deciso di raccogliere i cotoni colorati.


Smette di piangere e dice: “Ti”.


Ritorniamo in sala davanti al “misfatto” e la invito a raccogliere. Siamo ancora per mano non accenna a muoversi allora le chiedo: “Allora Elisa…? Raccogli?”.


Elisa: “No!…Mamma!”.


Bene, la scena si ripete per sei volte, con questo viaggio nel bagno e pianto, fin tanto che alla sesta volta Elisa si china a raccogliere un cotonino e rimetterlo nel contenitore.


Per quella volta mi sembrava un buon compromesso, anche perché ero io quella stanca di reggere la sfida.


Quando Elisa ha circa 2 anni, è ora di cena e preparo una minestrina in brodo che le metto davanti come per tutti noi. Elisa guarda il piatto e dice: “No a voio”.


La invito ad assaggiarla dicendole che potrebbe piacerle. È irremovibile, non accenna a volerla assaggiare. Dunque da mamma preoccupata per la nutrizione della propria figlia e rispettosa del suo “no” le chiedo cosa vuole. Mi fa capire che vuole i maccheroni.


Le cucino i maccheroni le metto davanti il piatto di pasta fumante, di nuovo dice: “No a voio”.


A questo punto inizio a sgridarla che non si fa così, che la mamma ha preparato due primi, le ha permesso di scegliere, ma lei non ha comunque mangiato. Ero arrabbiata.


Elisa non si scompone dice che tanto non li vuole.


Dunque da mamma in preda a una crisi di nervi, mando Elisa a letto: “Bene! Se non hai fame… per me puoi andare a letto… e ci vediamo domani mattina!”


Elisa non vuole andare, ma sono molto infuriata e la fisso mentre lei inizia ad avviarsi sulla scala per andare in camera. Siamo ancora occhi negli occhi, i miei pieni di rabbia e i suoi fermi e fissi nei miei completamente a suo agio. Sale a metà della scala, si ferma e mentre continua a guardarmi: “Alola!??… Cosa c’è?… Pelché mi gualdi nei miei occhi?… Cosa devi tlovale?… Cosa celchi?… La paula?”.


Completamente colta alla sprovvista da queste domande, rimango furibonda di base, ma assolutamente sbalordita e sorpresa e quasi orgogliosa del cipiglio intuitivo della bambina, che sa pochissime parole ancora.


Al primo anno di nido, durante una attività condivisa con i genitori in un cerchio dove ogni mamma o papà aveva, tra le gambe incrociate, il proprio figlio per cantare insieme una canzoncina per l’occasione, Elisa è voluta rimanere in braccio alla maestra, mentre io sedevo nel cerchio di fronte a loro, dove avrei cantato piacevolmente. Era una bella situazione, ma Elisa continuamente mi faceva segno di stare zitta con il dito davanti alla naso. E molto seriamente smetteva di cantare per farmi il gesto e riprendeva a cantare solo se io smettevo. Aveva bisogno di essere lei ad occupare quel suo spazio.


Una situazione significativa accaduta di recente, riguarda l’esperienza di Elisa ad un campo estivo, con pernottamento lontano da casa per una settimana, e la voglia di nuove esperienze ma anche la difficoltà quindi a lasciare i visi e i luoghi conosciuti e rassicuranti per una situazione completamente nuova.


Nell’estate del 2015 Elisa ha nove anni, e insieme a tre compagni della sua classe decide di partecipare a questo campo, ma, dopo la prima notte, soffre molto la lontananza da casa: dorme poco, male con grande disagio. Al primo appuntamento telefonico, descrive appena le belle attività delle due giornate trascorse e poi scoppia in un pianto straziante, consolabile solo con la promessa di andare a prenderla prima della notte. Assolutamente vuole dormire a casa.


Mi confronto con l’educatrice che conferma la serenità di Elisa durante il giorno, la difficoltà ad addormentarsi, e aggiunge che rimanendole vicina con qualche coccola, si era addormentata velocemente.


Un ultimo tentativo di invitare Elisa a riprovare un’altra notte, le fa ripartire l’angoscia.


Decidiamo quindi di andarla a recuperare. Fine dell’esperienza campo estivo 2015.


Anno 2016: due dei compagni che hanno concluso il campo l’estate 2015, invitano alcuni compagni di classe, tra cui Elisa, a riguardare le foto fatte l’anno precedente. Elisa presa dall’entusiasmo del gruppo, decide che vuole riprovare.


Nonostante la mia felicità per il suo desiderio di ritornare al campo, riparliamo del suo ritiro a causa del suo grande disagio dell’anno precedente, ma Elisa ritiene che quest’anno è più grande, ci sono due bambini in più con i quali si sente molto in sintonia e crede che quest’anno può funzionare.


Come l’anno precedente prepara lei, con attenzione e cura, tutto l’occorrente per la vacanza.


La sera prima della partenza, giocando “al giornalista che intervista l’avventuriera”, improvvisando un microfono con una spazzola per capelli:


“Allora… Elisa… racconta… come ti senti la sera prima della partenza?”


Risponde: “Ma… sai mamma in questi giorni ci penso, e… durante il giorno sono tutta contenta e carica, non vedo l’ora… ma… ecco… alla sera… quando arriva la notte e penso di dormire là… lontano da casa… mhhh… ecco… non sono proprio così sicura,… mi viene un po’ d’ansia…”.


Rispondo: “Be’! Hai avuto il coraggio di riprovarci, è già tanto… vediamo come va, poi… se proprio non ce la fai… Mal che vada ti veniamo a prendere.”


A posteriori quest’ultima frase credo abbia contribuito a diminuire la sua intenzione a resistere fino alla fine della settimana.


Anche quest’anno dopo la prima notte, al primo appuntamento telefonico mi ha chiesto di andarla a prendere, perché non aveva dormito e non se la sentiva di rimanere e passare altre notti via da casa.


Tra l’altro mi parlava al telefono completamente afona, avendo perso la voce durante le attività per farsi sentire dai compagni. Faticavo a distinguere con chiarezza cosa dicesse, contribuendo ad alimentare il mio disagio nel sentirla in quello stato.


“Elisa è molto tardi… ci vogliono due ore prima di essere casa, domani io e babbo lavoriamo… resisti ancora… domani ci risentiamo… vediamo come è andata…”


Comunque la seconda notte riesce a resistere: una festa davanti al fuoco per il compleanno di un amico, la vicinanza dell’educatrice (sempre la stessa dell’anno precedente), il fatto che è già notte fonda e tutto questo riesce a farla rimanere un’altra notte.


Terzo giorno di campo: al telefono di nuovo chiede di ritornare a casa, lamentando che rimane sveglia tutta la notte, che il giorno è stanca e in più i suoi amici iniziano ad escluderla.


Ancora mi confronto con la paziente e attenta educatrice, che questa volta non conferma le parole di Elisa: Elisa si era addormentata vicina a lei, e sta bene con gli amici che in realtà la cercano. Sottolinea anche la grande unità e solidarietà tra i compagni del gruppo di cui fa parte Elisa.


Ricordo ad Elisa della sua scelta di riprovare a frequentare il campo estivo, del suo essere più grande, che può riuscirci, e che sarà contenta di ritornare a casa assieme ai suoi amici l’ultimo giorno, fare i bagagli assieme ricordando le varie avventure.


Si arrabbia, non è per niente convinta e insiste nel voler tornare a casa: “Mi avevi detto che sarei potuta tornare a casa se non ce la facevo!”


“Elisa tu hai scelto di riprovare, ora decido io anche per te, ti vengo a prendere sabato, l’ultimo giorno… Sai cosa credo?… Che se ti vengo a prendere prima della conclusione, la prossima volta che chiederai qualcosa, potrai cambiare idea senza preoccuparti di concludere, che possa servire per una prossima volta… a pensarci meglio… per fare scelte migliori”.


Con tono stizzito: “Bene! non mi iscriverò mai più!”


Mentre siamo ancora al telefono, un bambino le viene a chiedere di ritornare alla grigliata serale.


Quindi: “Elisa mi sembra che i bambini ti vogliono con loro. Può capitare qualche incomprensione anche tra amici, quando si sta così tanto tempo insieme può accadere… poi si trova l’aggiustamento… come a casa con i tuoi fratelli e con me e babbo”. Un po’ seccata ma rassicurata Elisa rimane anche per la terza notte.


Quarto giorno: di nuovo Elisa chiede di ritornare a casa lamentando più o meno le stesse problematiche, arrabbiandosi anche per il fatto che continuo a farla rimanere nonostante le avessi detto che sarei tornata a prenderla, se proprio non ce la faceva… secondo lei stava soffrendo molto per dormire poco e male. È stata dura per me.


Questa volta però, ad ascoltare Elisa c’è l’educatrice, solidale con me per aiutare la bambina a rimanere nella sua scelta di frequentare l’intera settimana e per aiutarla a portarsi a casa una vittoria e non un’altra sconfitta come l’anno precedente.


Sento che le dice: “Elisa, ieri sera ti sei addormentata subito quando sono arrivata e stamattina ti sei svegliata per il rumore dei tuoi amici che si svegliavano, come mai racconti un’altra cosa alla mamma?”.


Rinfrancata nel sentire l’educatrice, ribadisco che questa volta la torno a prendere solo all’ultimo giorno perché sono sicura che alla fine ne sarà felice. Ci salutiamo con l’appuntamento a sabato mattina.


Elisa non ha più avuto bisogno di sentirmi al telefono e ci incontriamo direttamente tranquille il sabato. I bambini vengono incontro a piccoli gruppi. Elisa è fuori nel cortile che mi aspetta, ci salutiamo e ci abbracciamo.


L’educatrice mi ha raccontato che Elisa dopo aver chiuso la telefonata con me si lamentava di quanto fossi cattiva con lei, ma la sua risposta fu: “No Elisa… tua mamma ti vuole bene… sta tenendo duro per te.”

E poi viene il giorno…

Con la delicatezza e la perspicacia del tipico maestro che tutti avremmo voluto, Michele è un insegnante entusiasta e appassionato, estremamente attento e partecipativo alla vita dei suoi piccoli alunni. Le sue doti empatiche e comunicative gli hanno permesso più volte di essere considerato da loro un super eroe e un modello da imitare, e io stessa gli sono molto grata per l’accoglienza, la creatività e l’ottimismo che mi ha sempre trasmesso. Il suo più grande merito distintivo ai miei occhi è che considera ogni suo alunno nelle sue potenzialità e nei suoi limiti, e in ogni caso persona degna di ascolto, rispetto e comprensione. Da questa particolare predisposizione e dalla consapevolezza di avere un ruolo fondamentale nello sviluppo educativo e personale dei suoi bambini, nasce la sua attenzione delicata ai bambini particolarmente sensibili, e ha ritrovato nel concetto di ipersensibilità varie esperienze nelle sue classi. Ne porta di seguito un esempio.


E poi viene il giorno in cui entri in classe e lei ti dice: “C’è qualcosa che non va? Mi sembri triste, maestro. Come stai?”


Non ci potevo credere! Io solo sapevo di avere in cuore una tristezza immensa: un pensiero cupo che tenevo nascosto “dentro” e non volevo mostrare a nessuno. Ero certo che nulla tradisse il mio malessere perché “fuori” mi mostravo quasi più allegro e solare del solito. Tra l’altro quella mattina i miei alunni erano tutti allegri e felici perché saremmo andati in gita scolastica sulla Torre degli Asinelli. Immaginate l’eccitazione! Grida, scherzi, giochi…


Così nell’allegria generale rimango di stucco quando “lei” mi si avvicina per chiedere se ho qualcosa che non va perché – dice – “lei mi vede triste”.


“Lei” è Viki, una bambina di otto anni, e da quando l’ho conosciuta, ho capito che era una persona speciale.


Viki riesce a vedere (o forse dovrei dire “sentire”) quello che altri non vedono. Il suo è un dono che a volte anche i compagni le riconoscono, perché lei sa come avvicinarsi per consolarli, ma altre volte si sente sola e fatica a sentirsi compresa.


Un giorno ho letto un articolo dal titolo “Le caratteristiche dei bambini ipersensibili; come riconoscerli?” e mi è venuto da sorridere, pensando a Viki, perché nella mia esperienza i bambini ipersensibili si vengono sempre a presentare da soli, facendosi riconoscere benissimo.

I bambini diventano più intelligenti se sono amati

Gli incontri tra persone altamente sensibili sono spesso questione di attimi: come un improvviso riconoscersi e un’intesa immediata. Anche con Emilia è stato così, sono rimasta subito colpita dalla sua capacità di connessione profonda, dalla sua consapevolezza immediata e dalla sua propensione a cogliere l’essenziale delle cose, in particolare attraverso il mondo vibrazionale e sonoro.


La sua musicoterapia parla in un linguaggio che io tecnicamente non conosco, ma che in realtà tutti conosciamo perché ci appartiene. Mi hanno molto colpito il suo approccio empatico e personale, e la sua intraprendenza nel voler contribuire a rendere migliore la vita degli altri. Un ambito in particolare di cui si è occupata è proprio la musicoterapia nell’infanzia, e le esperienze che ha descritto nel suo libro danno idea della serietà e della passione che mette nel suo lavoro.


Crescere ed educare i bambini sono compiti difficili e di immensa responsabilità; ci mette in costante confronto con le nostre debolezze, i nostri traumi, ci mette di fronte ai bambini che siamo stati e che in parte siamo ancora. Per questo crescerli ci fa crescere a nostra volta. Vogliamo il meglio per loro, vogliamo che abbiano una brillante carriera, vogliamo che siano felici; eppure talvolta non ci ricordiamo che ciò che rende felici non è uguale per tutti e soprattutto non ci ricordiamo di ciò che più di tutto rende felice un bambino (e quindi un futuro adulto): l’amore che noi proviamo e dimostriamo per loro. Siamo noi adulti il punto di riferimento, l’esempio da seguire, le parole che diciamo loro sono verità e i bambini fanno di tutto per ottenere la nostra approvazione; l’amore è la causa e il fine ultimo delle loro azioni e delle loro reazioni.


Mi è capitato sovente di imbattermi in articoli, discussioni, disquisizioni sull’educazione dei bambini; ho visto genitori e talvolta educatori pretendere tempi di attenzione e prestazioni superiori a quelle che erano nelle possibilità dei loro figli o dei loro bimbi, preoccupati che fosse troppo vivace o troppo introverso, o semplicemente troppo diverso dagli altri. Li ho visti fare a gara a chi aveva il figlio più dotato o più bravo a scuola; ho visto bambini stanchi delle tante attività extrascolastiche; ho incontrato bimbi timorosi di sbagliare ad età molto tenere o piangere perché non riuscivano a suonare il pianoforte come volevano.


Scoprire di essere altamente sensibile mi ha permesso di dare un senso a tante mie emozioni, azioni e reazioni, soprattutto di quando ero bambina; e allo stesso tempo mi ha permesso di riconoscerle e accoglierle ancora di più nei piccoli che ho incontrato nella mia vita e nel mio percorso professionale. E posso dire che tutto ciò fin qui detto per i bambini, per quelli altamente sensibili vale ancora di più, perché tutto è amplificato e ancora di più hanno bisogno di essere sostenuti per mettere ordine in quel turbinio di sensazioni che è per loro la realtà.


Ancor di più hanno bisogno di fidarsi di loro stessi e delle loro percezioni, così profonde e diverse dagli altri. Una volta mi hanno chiesto: “Ho letto che se i bambini ascoltano Mozart fin da piccoli diventano più intelligenti, è vero?”. Personalmente, penso che i bambini diventino più intelligenti se sono amati. E quindi se sono accettati, se sono apprezzati per quello che sono al di là di quello che fanno, se viene prestato loro attento ascolto, se vengono dati loro dei confini e delle regole, se vengono fatti notare i loro sbagli senza che si sentano sbagliati. Magari questo non avrà influenza diretta sulle competenze matematiche, sulle prestazioni atletiche o non assicurerà una brillante carriera nel mondo del cinema; ma di sicuro renderà i bambini, ipersensibili e non, degli adulti equilibrati e fiduciosi della vita, capaci di amare se stessi e gli altri.


Questo è il dono più bello che potete fare loro, e che noi adulti possiamo fare a noi stessi. Essere le persone di cui avremmo avuto bisogno da piccoli.


Emilia Cerri,
Musicoterapista

Il proprio scudo magico

La testimonianza di Simona mi ha molto toccata e commossa, ammiro il coraggio della sua chiarezza, la capacità di integrare diversi aspetti anche apparentemente paradossali, l’incredibile forza che emerge dalla sua storia, e insieme l’aver fatto pace con la propria vulnerabilità. Ha tratto sempre grandi spunti di miglioramento dalle sue esperienze, con l’umiltà di sentirsi sempre in cammino. Ha un modo aperto per affrontare le cose, mette sempre in discussione i preconcetti e cerca di trovare strategie sempre nuove per trarre il meglio della vita, per sé e per gli altri. La sua condivisione così generosa di questi dettagli mi fa venire in mente una massima che amo molto:


L’esperienza non è ciò che accade ad un uomo. È ciò che un uomo fa con ciò che gli accade.
A. L. Huxley

Cara Persona Altamente Sensibile, o genitore o educatore di un bambino Altamente Sensibile, ho deciso di condividere con te la mia esperienza di vita nella speranza che la mia testimonianza ti possa d’esser d’aiuto. Due anni fa sono venuta a conoscenza di essere una Persona Altamente Sensibile.


Questa consapevolezza mi ha aiutato tantissimo ad entrare in contatto con me stessa, permettendomi ogni giorno sempre di più di essere la mia vera me, togliendo con il passare del tempo le maschere che avevo addosso.


Due anni fa è iniziato un fantastico viaggio, ho iniziato a vivere più intensamente ogni emozione, ogni cosa che mi capitava ho iniziato a sentirla in maniera più profonda.


Grazie alle tecniche imparate durante i corsi per gli HSP riesco ad affrontare in maniera costruttiva le difficoltà del quotidiano, e le esperienze positive, visto che ascolto di più rispetto a prima me stessa, le percepisco molto più forte, percepisco le emozioni da dentro me stessa.


Sapere di essere HSP mi ha permesso di accogliere me stessa e di mostrarmi agli altri. Inoltre ho raggiunto una maggiore comprensione verso gli altri, diminuendo le aspettative che ho verso chi mi sta vicino.


La base del lavoro che ho fatto è rivivere la mia infanzia, e sapendo che sono una HSP mi ha fatto vedere il tutto con occhi diversi.


Ho vissuto un’infanzia dove mi sentivo dire dagli altri che cosa era meglio per me. Ad esempio mia madre spesso mi costringeva ad interrompere delle attività per me piacevoli e divertenti per fare altro, altro che secondo mia madre fosse più adeguato, più consono, ed era sbagliato che io preferissi fare ciò che mi divertiva. Non potevo mai cantare o ballare a qualsiasi ora del giorno perché i vicini si potevano lamentare del rumore, potevo fare solo giochi silenziosi perché era sbagliato disturbare le altre persone.


Quando ero in campagna dai miei nonni io volevo giocare con i gatti e con i cani, ma mio nonno disapprovava il mio comportamento perché i cani secondo lui servivano solamente per proteggere la casa dai ladri ed i gatti per uccidere i topi nella porcilaia, mentre io giocando con loro li distraevo dai loro compiti. Ed anche in quella occasione mi sentivo sbagliata agli occhi di un adulto. Ogni tanto mi veniva chiesto di andare a chiamare mio zio che era nella porcilaia, solo che io non volevo andarci perché mi rattristava molto sentire il pianto dei maialini che piangevano perché erano separati dalla loro mamma, sentire il loro pianto mi entrava dentro e restavo triste per ore.


I miei genitori facevano il paragone con mio fratello, di quattro anni più grande di me, mi dicevano “Guarda tuo fratello che fa i lavori di casa con piacere”, “Se lo avessi chiesto a lui di fare la spesa lui l’avrebbe fatta con il sorriso”. Io invece avevo 8 anni e preferivo giocare piuttosto che fare le commissioni per la famiglia…


Questi sono solo alcuni esempi che a forza di ripetersi mi facevano sentire sbagliata, sbagliate le emozioni che provavo e di conseguenza a poco a poco non mi ascoltavo più, perdendo così il contatto con me stessa. Con il passare degli anni cresceva sempre di più il disagio di non essere accettata dai miei genitori, ed essendo brava a percepire le loro aspettative su di me ho iniziato a esaudirle nella speranza di sentirmi integrata a loro; inconsapevolmente sempre di più ho messo su la maschera della “brava bambina obbediente a casa ed esemplare a scuola” perdendo il contatto con me.


Prendevo ottimi voti a scuola ed ero disponibile a fare i lavori in casa, nella speranza di sentirmi accettata da loro, senza rendermi conto che avrei perso me stessa. Ma nonostante esaudissi le loro richieste continuavo a non sentirmi accettata, perché non ottenevo praticamente mai l’approvazione per quello che facevo. Mia mamma era molto esigente con me, pretendeva la perfezione, così criticava ogni cosa che facevo, o perché la potevo fare meglio o diversamente da come l’avevo fatta (cioè come la faceva lei).


Lei agiva in quella in maniera perché pensava di spronarmi ad essere sempre una persona migliore, ma in realtà mi sentivo sempre di più sbagliata, allora facevo ancora di più quello che desideravano loro, ma di conseguenza sbagliavo di più… era un vortice vizioso senza fine.


Poco alla volta ho smesso di fare ciò che mi piaceva e sempre di più ciò che gli altri si aspettavano da me.


Quando ero piccola mi sentivo sbagliata anche quando vedevo un mio famigliare triste o preoccupato; andavo a chiedere come stava e lui mi rispondeva che stava bene. Magari loro lo facevano per non preoccuparmi, ma in realtà mettevo in dubbio me stessa, credevo di percepire gli altri in modo errato, di sfalsare la realtà.


Ci sono anche degli aspetti positivi della ipersensibilità, si percepisce più approfonditamente anche le cose belle della vita. Ad esempio ricordo quando mi rifugiavo tra gli alberi in campagna dai miei nonni, mi incantavo a guardare gli alberi, le foglie muoversi, adoravo accarezzare il salice piangente. Percepivo la meraviglia della natura e mi sentivo beata. Ricordo le risate in casa con i miei genitori o le carezze mentre guardavamo la televisione e gli abbracci infiniti con mio padre, quanto mi sentivo protetta e al sicuro grazie ad un semplice gesto. I miei genitori mi amavano tantissimo e mi hanno insegnato ad amare e a dimostrare l’amore verso gli altri, verso gli animali.


Quando sono venuta a conoscenza delle Persone Altamente Sensibili ho iniziato a guardare gli altri con gli occhi diversi e ho notato che intorno a me c’erano degli ipersensibili, tra cui mio nipote Matteo. È un bimbo che è sempre stato molto attento allo stato emotivo delle persone vicino a lui. Se assiste ad una discussione tra due persone lui si mette in mezzo ed entra in difesa della persona più debole. Invece quando si tratta di se stesso, si fa calpestare dagli altri fino ad annullare spesso se stesso e i suoi bisogni. Ad esempio all’asilo lui essendo basso di statura permetteva alle bambine più grandi di giocare con lui come se fosse un bambolotto, ma a lui non piaceva essere così trattato.


Ha dimostrato in diverse occasioni di avere paura di non farcela a fare le cose da solo, dubita molto di se stesso e delle sue capacità. Cerca molto il contatto fisico, di stare in braccio, o a sedersi sulle gambe degli altri, adora le coccole. Essere venuta a conoscenza di questa sua caratteristica mi ha da un lato aiutato a ricordare la mia infanzia ed ad elaborarla, dall’altro ha modificato il mio atteggiamento come zia nei suoi confronti.


Gli permetto di esprimere le sue emozioni, mi capita ad esempio quando fa i capricci perché vuole giocare in casa con il pallone ed io gli dico che non può farlo perché si possono rompere le cose in casa, allora lui inizia ad urlare e a battere i piedi; io lo lascio sfogare, gli dico che quando ha finito può venire da me, che lo aspetto per giocare insieme ad un altro gioco. Faccio la stessa cosa anche quando si arrabbia, lo lascio sfogare facendogli presente che quando ha finito io ci sono per lui. Tra di noi c’è una forte empatia. Quando stiamo assieme cerco di assecondare i suoi bisogni, le richieste che fa. Ad esempio un giorno eravamo ad una festa di campagna dove c’erano gli animali ed i trattori. A Matteo di vedere gli asini, cavalli, mucche, conigli non interessava, voleva andare dai trattori. E così abbiamo fatto, ha voluto una foto vicino ad ogni trattore. A volte passiamo mezz’ore in silenzio abbracciati, altre volte invece ci confidiamo le emozioni che proviamo, ad esempio lui una volta mi ha detto che ha paura dei tuoni ed ho letto nei suoi occhi un enorme sollievo quando gli confidato che anch’io ho paura dei tuoni. Non manca mai occasione per me di dire a Matteo quanto è un essere unico, gli dico cosa mi piace di lui, e non gli dico cosa fare o non fare e soprattutto non lo paragono con gli altri bambini.


Io spero che gli atteggiamenti che ho verso di lui, questo dialogo molto aperto tra di noi, gli permettano di trarre il più possibile i vantaggi di queste caratteristiche di essere un hsp e che riesca ad acquisire gli strumenti per affrontare al meglio le difficoltà della vita, di trovare il proprio scudo magico…


Sono contenta di aver condiviso con te la mia storia e ti ringrazio di avermi dedicato del tuo tempo leggendo la mia lettera.


Ti auguro il meglio.


Un abbraccio.


Simona

Il Facilitatore

La cosa che più mi ha colpito di Stefano è stata la sua evidente trasformazione: ho avuto la fortuna di conoscerlo e vederlo evolversi nel tempo: l’acquisizione di questa consapevolezza e la sua capacità di ricontattare il sé profondo e riscoprirsi come pieno di risorse e possibilità sono state straordinarie. Un diamante grezzo, nella sua delicata umiltà, che piano piano si è reso sempre più limpido e brillante, sempre più cosciente del suo valore.


Ho avuto un’infanzia felice, e fino a dodici anni ho avuto la possibilità di vivere in una zona di campagna al confine di una zona industriale nei pressi di una grande città.


Ho iniziato a parlare molto presto e facevo già discorsi complicati, che interessavano molto chi mi stava attorno, tant’è vero che i miei cugini più grandi e mia mamma volevano registrarmi, ma nella mia timidezza non appena premevano “record” sul mangianastri, l’unica cosa che dicevo era “no tattoe” ovvero “no registratore” e smettevo di parlare. Non volevo essere registrato.


All’asilo mi piaceva stare insieme agli altri bambini ma ero il più piccolino e, a causa di un piccolo incidente giocando, mia mamma decise di lasciarmi a casa con la mia dada. È stata una persona molto importante della mia vita e ancora le penso (mi viene in mente il sapore e l’odore del ragù bolognese che cucinava spesso).


Alle scuole elementari ero amico di tutti e ben accetto dai compagni della mia piccola classe, e io mi “posizionavo” sempre al centro, adattandomi da un estremo all’altro, fra il bullo ed il più bravo, o il più buono della classe. Io ero amico di tutti, indistintamente.


La mia creatività e la capacità di trovare sempre nuove strade e strategie era evidente sin da piccolo: adoravo i mattoncini di plastica, realizzavo le costruzioni contenute nelle istruzioni della confezione e poi sperimentavo altre costruzioni che inventavo. Era fondamentale per me creare e costruire qualcosa di mio, piuttosto che ripetere istruzioni di altri. E quando mi chiedevano cosa volevo fare da grande rispondevo ‘lo scienziato’.


Ricordo che avevo costruito di mia iniziativa un’astronave che era la combinazione originale di più scatole di mattoncini, un progetto molto creativo e in cui mi ero molto impegnato, con ottimi risultati, ma per via di una marachella che combinai, la mamma per punirmi la smontò completamente.


Presa dal senso di colpa dopo mi pregò di ricostruirla, e io sapevo come fare, ma non lo feci più.


Una cosa che ricordo con piacere è che fra le varie sperimentazioni, mi piaceva svuotare i tubetti di dentifricio (o di creme costose) nell’acqua del lavandino per vedere le forme che assumevano nell’acqua, formavano come delle alghe, delle piste, e tutto ciò mi interessava e affascinava molto.


Facevo a volte fatica a fare i compiti di matematica e se impiegavo più di cinque minuti per trovare la soluzione entravo in panico. Avevo difficoltà con le cose in sospeso e paura di sbagliare.


Nell’adolescenza ho combinato un po’ di disastri, amico del delinquente/spacciatore, amico del benestante/ricco ma sempre al centro, un po’ come se fossi un mediatore.


Il cammino è stato lungo per arrivare ad oggi, a scoprire me stesso, scoprire la mia ipersensibilità e acquisire la consapevolezza che sono un facilitatore (e lo sono sempre stato): agevolo relazioni, processi, amicizie, amori, tutto questo per passione, mi piace farlo, mi piace vedere le persone contente, felici, soddisfatte.


Ho una grande capacità di empatia, e l’amicizia è un valore molto importante per me, ci tengo ad esserci quando hanno bisogno del mio sostegno nei momenti difficili e della mia vicinanza nei loro momenti felici, e gioisco con loro. E sono felice che spesso me lo rimandino.


Questa mattina ad esempio un’amica, dopo una bellissima serata insieme in centro, mi ha mandato questo messaggio: ‘vivere un momento bellissimo della mia vita e vedere i miei amici felici per me, è la più grande dimostrazione di affetto che potrei mai ricevere’.


Stefano

Ci sono anch’io

“Sono arrivati,

aspettavano al cancello almeno da dieci minuti, alcuni abbronzati, altri grandissimi, certi con una faccia nuova, non solo più grande, proprio nuova, alcuni non c’erano…

Lui quando è arrivato mi ha guardato, ha preso del tempo per ritrovare l’abitudine, poi si è avvicinato e mi ha ficcato il naso nel collo.

“Ciao maestra

ci sono anch’io

…e tu profumi sempre di pane!”


Anche solo da questa breve citazione dal suo blog Maestra Piccola, credo emerga chiaramente l’enorme sensibilità e accuratezza nello sguardo di Cristina, “piccola” come i suoi bambini, piccola perché si mette al loro livello senza giudicarli come “un’insegnante” ma apprendendo con loro ogni giorno. Quello sguardo che avrei tanto voluto sentire su di me quando sui banchi ero io quella bambina, e di cui hanno bisogno tutti i bambini, specialmente se ipersensibili.


La ringrazio di cuore della sua appassionata accoglienza, devo molto anche a lei se sto scrivendo questo libro, e quando l’ho sentita dopo aver letto il suo contributo, le ho detto che praticamente era riuscita a riassumere in una pagina ciò che io ho cercato di esprimere in un intero libro, e con un’arte e un’efficacia che io non credo sinceramente di possedere.


La ringrazio quindi per questa potente testimonianza, e lascio a lei la conclusione di questo capitolo, perché leggendola mi ha risuonato dentro fortemente, la bambina che ero e la madre che spero di diventare hanno pianto, e poi gioito insieme.


Con i bambini altamente sensibili, secondo la mia esperienza, in una classe occorre avere:

più tempo

più pazienza

più presenza

più empatia.


Il tempo di aspettarli. Il tempo della calma che desiderano intorno e il tempo che serve loro per agire.


Il tempo per rallentare, per spiegare, chiarire meglio e più profondamente.


La pazienza di ascoltare le loro lunghe riflessioni complesse varie volte al giorno e la pazienza di rispondere alle infinite domande che smontano il mondo.


La presenza, nel senso di consapevolezza propria o della situazione che si sta vivendo per ricordarsi di rendere la realtà il più prevedibile possibile, non portare cambiamenti improvvisi a un programma già fissato insieme.


L’empatia, quella proprio che ci fa scambiare la pelle, per capire davvero fino in fondo cosa può voler dire avere un fastidio tremendo per l’etichetta dei pantaloni che non ti fa stare seduto nel banco o rifare mille volte i fiocchi delle scarpe affinché i lacci siano pari.


Tutti questi più investiti, proprio come in una somma che calcola il profitto di un’azienda, porta a un grandissimo risultato.


L’investimento iniziale ci ritorna enorme sia dal punto di vista personale che da quello del gruppo.


Quello in cui ci troviamo coinvolti non sarà una tradizionale relazione che già di per sé è arricchente e significativa umanamente parlando.


No, quello in cui ci si ritrova è un discorso esistenziale più ampio. Questi bimbi sono in grado di mostrarci una prospettiva diversa per guardare il mondo, gli altri e un nuovo modo di provare emozioni e sentimenti. Loro hanno la capacità di capire oltre, di guardare al di là.


Essi trovano conforto nella calma e nel silenzio e ci insegnano a coltivarli, ad abbassare la voce, a sussurrare quasi o a chiudere la bocca per notare il dettaglio apparentemente più insignificante. Laddove si nascondono cose che nessuno vede, l’increspatura di un viso, l’ultima nota di una canzone, la seconda faccia della luna, essi indugiano e si fanno domande e provano cose in fondo al cuore.


La vita così si ricompone con significati nuovi e si spalancano orizzonti di senso grazie a loro che affacciati guardano, che tremanti provano.


La vita che corre ad un passo diverso rischia di schiacciarli, di omologarli, di farli soffrire.


La loro grandissima maturità emotiva ci mette a nudo, la loro disarmante spontaneità ci fa scricchiolare e come adulti non possiamo sottrarci ad un confronto/incontro con questo meraviglioso popolo che pare uscito dalle profondità del mare per portare in terra la sua calma e la sua complessità.


Stare con loro è un’esperienza, una fatica e un’immensa gioia.


Per stare con loro occorre avere molto controllo personale, riflessione e voglia di cambiare quello che fino a quel momento è andato bene.


Il doversi rimettere in gioco è un grande regalo che questi bimbi ci fanno permettendoci di evolvere come persone, di aprirci all’ignoto e di concederci di essere diversi.


Nelle loro domande nei nostri confronti emerge una generosità intellettuale che ci riconcilia con noi stessi facendoci scoprire lati che non pensavamo di avere.


Questi bimbi non sono persone scontate, per questo emerge la fatica dell’educazione e per questo serve trovare l’approccio giusto nei loro confronti e, se serve, cambiare le abitudini di classe.


Il grande rischio è di travolgere chi non viaggia alla velocità del branco, chi porta via tempo prezioso, chi richiede investimento.


Ma è proprio qui sull’investimento che mi fermo, perché è quello che richiedono queste piccole persone e se, inizialmente si esita al loro cospetto, vuol dire che ci stiamo rapportando nel modo giusto. Dopo il primo spaesamento comincia lo stupore dei loro sguardi, dei loro sensi, delle loro parole, delle loro reazioni inaspettate e apparentemente illogiche. Lì, in questa distonia con il tuo sempre uguale presente, con il tuo vissuto di cui si va fieri si insinuano loro per crepare il noto e ricordarti che il mondo è bello perché è vario, che non c’è un giusto e uno sbagliato, che non importa chi arriva primo ma importa solo volersi bene.


E questi bimbi il bene lo dimostrano subito gratuitamente e me lo hanno insegnato perché ti spalancano il loro dentro come cosa naturale.


Con loro si comincia a capire il motivo per cui esistono i rapporti a tutti i livelli, grazie a loro non solo io conosco meglio me stessa ma letteralmente mi definisco e mi ricreo in relazione a chi sono loro. Nella misura in cui sono disposta ad accogliere loro e a vedere dentro di loro, io posso vedere anche in me.


Essi sono capaci di restituire le persone a loro stesse e questa è cosa grandiosa e rara.


Dobbiamo rovesciare il cannocchiale e quelli che sono i loro difetti provare a considerarli i loro lati migliori ma con il volume un po’ troppo alto.


Se l’educazione passa per prima cosa attraverso il bene, nostro compito è di aiutarli ad affermarsi, a credere in loro e farli essere la più meravigliosa versione di loro stessi.


A questo tendo nel mio ruolo educativo, non senza cedimenti, ma ogni volta più ricca, forte e immensamente felice per la fortuna di averli accanto.


Cristina Petit,
Insegnante, Artista, Autrice
http://blog.libero.it/maestrapiccola/

Il tesoro dei bambini sensibili
Il tesoro dei bambini sensibili
Elena Lupo
Conoscerlo, gestirlo, valorizzarlo.Un libro per aiutare genitori e operatori a riconoscere l’ipersensibilità nei bambini e a valorizzarla nel modo migliore. Le persone altamente sensibili sono quel 20% della popolazione che vive “diversamente” ciò che le circonda, in modo più profondo, emotivo, empatico.Gli studi su questo tratto del carattere sono piuttosto recenti e chiariscono dinamiche interpersonali spesso vissute male o con imbarazzo. Il libro Il tesoro dei bambini sensibili della psicologa e psicoterapeuta Elena Lupo si rivolge primariamente a genitori e operatori. Ha un taglio teorico e pratico insieme, per riconoscere l’ipersensibilità nei bambini e valorizzarla nel modo migliore. Conosci l’autore Elena Lupo è psicologa e psicoterapeuta a indirizzo Biosistemico.Persona Altamente Sensibile, nel 2014 ha fondato un progetto di diffusione su territorio nazionale delle conoscenze relative agli studi della dott.ssa Elaine Aron, con l’obiettivo di aiutare le Persone Altamente Sensibili (PAS) a comprendersi e accettarsi.È la prima psicoterapeuta italiana inserita nella lista internazionale “Licensed Therapist HSP- Knowledgeable”.