CAPITOLO III

Le esperienze fondamentali
del bambino ipersensibile

3.1 Emozioni, mente e corpo

Il corpo è il primo luogo in cui e con cui viene descritta la storia di ogni uomo e la storia fra uomini.
E. Berti

L’approccio di Psicoterapia corporea che ho incontrato lungo il mio percorso è stato un tassello fondamentale nell’acquisizione di quella consapevolezza necessaria a comprendere la mia ipersensibilità. Avevo appena terminato i cinque anni accademici di Laurea in Psicologia Clinica e, svolgendo il tirocinio professionalizzante, iniziavo a chiedermi che tipo di strada avrei voluto intraprendere per la formazione specialistica. Di solito non molti sanno che le scuole di Psicoterapia da scegliere sono davvero tante, e non è semplice orientarsi in un panorama così variopinto e disgregato di possibilità.


Le Psicoterapie classiche le sentivo troppo rigide per me, troppo procedurali e schematiche; non riuscivo a scegliere tra le scuole che avevo conosciuto all’università. Un dialogo fortuito con un’altra tirocinante che stava frequentando la Scuola di Biosistemica mi fece prendere questa decisione in un lampo, dopo mesi di riflessione: un approccio composito e integrato, fuori dagli schemi, di cui non avevo mai sentito parlare, fondato sull’esperienza concreta e la relazione, l’ascolto profondo e il lavoro sul corpo.


Lavorare con il corpo significa entrare in contatto con la parte più profonda e antica di noi, con le nostre emozioni senza maschera, con gli schemi antichi dell’infanzia, con le ferite e le cicatrici. Con i bambini il lavoro sul corpo ha l’obiettivo di potenziare delle loro risorse, il libero accesso all’espressione di sé, al benessere e alla spontaneità. Significa prevenire la formazione di quelle maschere, schemi, ferite e cicatrici.


Possiamo considerare l’espressione emotiva una fondamentale funzione della crescita di un bambino, un protendersi verso l’ambiente in vista del piacere o un ritrarsi di fronte a situazioni spiacevoli. Questi processi di espansione e contrazione regolano il metabolismo energetico del corpo umano e controllano funzioni fondamentali quali ad esempio la circolazione del sangue e il battito cardiaco, i processi digestivi, la respirazione e così via. In uno stato di salute tutti questi processi si verificano in modo ritmico e fluente, e con i bambini il nostro compito è assicurarci che questi processi avvengano nel modo più naturale possibile. Al contrario, se consideriamo le persone che nella crescita non riescono ad adattarsi, potremo osservare che essi vivono come se fossero in uno stato di perenne emergenza, attenzione, iperattività: i processi normali e naturali della persona hanno cessato di funzionare perché sono stati ostacolati e influenzati dagli stimoli esterni.


Solo eliminando i blocchi che impediscono la libera espressione di sé e i liberi movimenti queste persone possono riappropriarsi della capacità di affrontare in modo equilibrato il proprio ambiente di vita. Tutte le tensioni del corpo raccontano di costrizioni, blocchi, impossibilità, create in situazioni affettive e ambientali in cui l’espressione equilibrata di sé non è stata possibile.


Gli schemi della tensione nel corpo rappresentano infatti una sorta di storia congelata della persona e delle sue emozioni, che può essere visibile:

  • Nel viso e nei muscoli della testa conseguentemente all’inibizione del pianto, della paura o della rabbia.
  • Nella zona della gola attraverso il soffocamento delle rumorose espressioni del singhiozzo, delle urla, delle grida.
  • Nella zona del bacino in seguito alla strozzatura della vitalità e dell’espressione sessuale.
  • Nelle gambe, dove l’inibizione del movimento ha a che fare con i disturbi nel contatto con il suolo, il radicamento, la sicurezza.

Con i bambini ipersensibili questa tutela diventa una funzione fondamentale della genitorialità: siamo noi genitori che abbiamo il compito di insegnargli a non avere paura di esprimere se stessi, anche nelle emozioni più scomode, tutelando la loro libera espressione corporea e di movimento.


Solo a condizione che il corpo abbia trovato spazio agli impulsi bloccati, il bambino ipersensibile diventerà un adulto in grado di provare una profonda gioia e un funzionamento vitale ritmico e piacevole.


Berti parla di corpo come “entità bioculturale produttrice di senso e organizzatrice dell’esperienza del mondo”, un corpo che durante l’interazione con l’altro comprende, articola e amplia le proprie modalità di comunicazione, condivisione e trasformazione del mondo.


In questo senso è fondamentale la considerazione del corpo già nell’interazione tra genitore e figlio: Ajuriaguerra parla di “dialogo tonico” per indicare il primitivo dialogo fra madre e bambino, costituito da reciproci scambi e adattamenti del tutto non verbali, ed espressi attraverso il tono muscolare e la postura.


Il tono muscolare è infatti la più antica e automatica delle nostre risposte agli eventi della vita, e veicola significati emotivi e affettivi fondamentali e complessi. I significati che il bambino imparerà attraverso le variazioni nel tono muscolare della madre, si imprimeranno nei suoi muscoli e nelle sue connessioni neurali, influenzando le sue future interazioni.


Vi sono mille sorrisi possibili, mille modi di alzarsi dalla sedia, mille variazioni possibili dello stesso comportamento e ciascuno si accompagna a un diverso assetto vitale.
D. Stern

I mille modi di compiere un’azione costituiscono variazioni, modulazioni e sfumature di due parametri: il tono muscolare e il tempo. È lo stesso concetto cui facevo riferimento nel capitolo precedente parlando della sintonizzazione. Nell’accezione più specifica di Stern la sintonizzazione affettiva riguarda la condivisione profonda di stati emotivi tra madre e figlio già dai primi mesi, che costituisce la modalità privilegiata per trasferire atteggiamenti, stati d’animo e fantasie in un comportamento interattivo concreto inteso a raggiungere uno scopo comune. Riguarda la sintonizzazione del livello di intensità tra il comportamento materno e quello del bambino, in termini di variazioni di tono muscolare e vocale, di ritmo e tempo. È il canale privilegiato nella costruzione dell’identità e della socialità, svolge un ruolo fondamentale nella costruzione di stati affettivi, espressivi e relazionali.


Rispetto al bambino ipersensibile questo riguarda piuttosto…


…Far acquisire una chiara percezione dell’emozione con tutte le manifestazioni corporee che essa presenta, aiutarlo nella ricerca di un linguaggio minimo capace di descriverla adeguatamente e fargli compiere un primo passo verso la scoperta dell’oggetto di quell’emozione.
G. Downing

Il pensiero e l’emozione sono integrati attraverso la funzione espressiva della voce: quando il bambino impara a dover ingoiare le emozioni, il blocco della gola farà in modo di mantenerle represse, l’energia emotiva rimarrà intrappolata e se, nella sua ipersensibilità, avvertirà la pressione di forti emozioni non riuscirà ad esprimerle. Ciò che pensa sarà disconnesso ciò che prova.


Tutto questo contribuirà a formare il suo “carattere”, come definito da Boadella “lo stile preferito di comportamento che viene utilizzato per proteggersi da svariate forme di minaccia”, costituito dal corredo genetico e dalla risposta allo stress dell’ambiente infantile.


Il modo in cui noi sperimentiamo noi stessi nel rapporto con gli altri fornisce la struttura mediante la quale organizzare tutti gli eventi interpersonali.
D. Stern

L’equilibrio emotivo e fisiologico della persona è mediato dalle due grandi diramazioni del sistema nervoso autonomo: il sistema simpatico e quello parasimpatico.

  • Il sistema simpatico ci prepara all’azione in caso di emergenza, all’attacco alla fuga, ed è associato ad esempio con le emozioni di rabbia e paura.
  • Il sistema parasimpatico ci prepara invece ad abbandonare la lotta per “prenderci cura” del nostro organismo, attraverso il recupero delle energie; è connesso ad esempio alle piacevoli sensazioni di gioia e rilassamento o ai momenti di tristezza e dolore.

Entrambe queste unità del sistema nervoso autonomo inviano messaggi a tutti gli organi interni che metabolizzano l’energia corporea: gli occhi, le ghiandole, i polmoni, il flusso cardiaco, il fegato, lo stomaco e l’intestino, i reni, la vescica… L’alternanza di questi due stati, attivazione e rilassamento, costituisce il ritmo fondamentale della vita e della salute. Ciò che permette di sentirsi in equilibrio, di avere un adeguato tono muscolare, un appoggio solido dei piedi, e che determina il modo in cui “ci reggiamo in piedi”, ovvero come ci poniamo nel mondo, come ci sentiamo e chi siamo.


Nel bambino ipersensibile la necessità di occupare uno spazio diventa la base della sua legittimazione all’esistenza: deve sentirsi libero di muoversi, o di non muoversi, in base al suo ritmo interno, alternando fluidamente questi due sistemi, per arrivare ad assumere una postura reale e simbolica che nella vita lo aiuti a proteggere i propri confini. La persona ipersensibile ha un’alta soglia di eccitazione: piccoli segnali scatenano facilmente tensioni, che a loro volta possono bloccare sensazioni, espressioni, movimenti. La sua pelle sottile non aiuta a mantenere solidi i propri confini, e tende a sentirsi minacciata o invasa da sguardi, parole, o anche rumori, luci, stimoli improvvisi.


Alti livelli di stress possono interrompere l’integrazione tra emozione, movimento e pensiero e creare scissioni e disconnessioni nel modo di sentire e sentirsi. Ed è così che attraverso il nostro corpo e la nostra espressione possiamo essere di esempio, di sostegno, e proteggerli: attraverso il contatto visivo, il contatto della voce, l’integrazione tra linguaggio, percezione ed emozioni nella nostra interazione con loro.


Cercate quindi di assicurargli sempre il contatto profondo del semplice respirare insieme, quello fermo e delicato di una carezza, il contatto in movimento di massaggio e gioco, la libertà di avvicinarsi a voi o allontanarsi. La maggiore sfida in questi termini sarà che tutto questo dovreste cercare di offrirglielo proprio nei momenti di maggiore difficoltà, e questo implica un grande lavoro interiore sulla vostra gestione del vostro corpo e della vostra espressione emotiva.


L’obiettivo generale è cercare di mantenere più possibile una condizione di omeostasi: uno stato fisiologico interno stabile nonostante i cambiamenti che si producono nell’ambiente esterno. La risposta della vita a qualsiasi forma di lesione o malattia altro non è che uno sforzo teso al mantenimento del proprio equilibrio omeostatico contro l’intrusione o il cambiamento provenienti dal mondo esterno. L’organismo è sottoposto di continuo a sollecitazioni che modificano l’omeostasi, e risponde a tali oscillazioni ripristinando l’equilibrio alterato. Un qualsiasi stimolo crea un temporaneo disequilibrio omeostatico che induce una risposta riequilibrante: la somatizzazione non è altro che la descrizione di questi processi.


McGaugh, nei suoi studi di psicofisiologia, ha descritto come la stimolazione sensoriale produca anche una serie di ormoni associati allo stress, ma la scoperta più interessante è che tali ormoni durante i periodi di stress modulano la memoria e l’apprendimento. L’informazione e il comportamento sono legati allo stato emotivo e quindi fisiologico di quel particolare momento, e tutti i ricordi e le esperienze psicologiche sono legate a un preciso stato, cui corrisponde tutto un correlato fisiologico. Ogni esperienza è di per sé stato-dipendente, quindi ciò che noi percepiamo come consapevolezza quotidiana è costituito da modelli abituali di ricordi, associazioni e comportamenti stato-dipendenti, legati tanto alla psiche quanto alla fisiologia.


Mente e corpo sono aspetti di un unico sistema di informazione: la vita è un sistema di informazione e la biologia un processo di trasduzione dell’informazione.


I processi di memoria, apprendimento e comportamento sono stato-dipendenti, e sono i più importanti trasduttori d’informazione tra la mente e il corpo. La salute e la malattia dipendono quindi in grande parte dal funzionamento di questi sistemi.


La sconvolgente conclusione di tutto questo discorso è che i diversi sistemi del nostro organismo (psicologico, nervoso, immunitario, endocrino) sono strettamente connessi da un sistema di informazione comune e trasversale, influenzato dalla componente psicofisiologica delle emozioni. La tutela che ci compete come genitori non avrà a che fare quindi solo con l’aspetto caratteriale ed emotivo del bambino, ma anche con la tutela della sua salute psicofisica complessiva. Grazie ai nostri sforzi, alla nostra pazienza e al nostro incoraggiamento della loro libera espressione, gli permetteremo di creare un sistema più funzionante a livello psicofisiologico, contribuendo ad assicurargli un forte sistema immunitario e una maggiore resistenza psichica e fisica agli stress della vita.


Arrendersi al corpo significa sentirlo completamente dalla testa ai piedi. Significa sentire le tensioni muscolari croniche nel corpo, capire la loro storia e la loro funzione nel presente.Significa sentire il proprio dolore, la tristezza e il pianto. Significa essere capaci di protestare per la perdita di innocenza e di gioia e la capacità di essere arrabbiati per questo. Infine significa accettare il fallimento di tutti gli sforzi per superare i propri problemi, per farcela, per riuscirci. Significa aver fede nel corpo perché è la dimora di Dio e fidarsi delle sue sensazioni perché esprimono la nostra verità.
A. Lowen

3.2 I bisogni e le esperienze di base

Le esperienze basilari del sé sono quelle esperienze che assumono un’importanza determinante nello sviluppo del bambino, quelle esperienze che, se attraversate pienamente e positivamente più volte, con l’aiuto dei genitori e dell’ambiente circostante, diventano poi vere e proprie capacità stabili nella vita di ciascuno.
L. Rispoli

Il neonato organizza la propria relazione con l’ambiente attraverso l’utilizzo di tutte le funzioni del sé. Egli costruisce un modello del mondo attraverso il quale poter intervenire. Impara a riconoscere quegli elementi che nelle varie esperienze rimangono costanti, che riguardano ad esempio le modalità caratteristiche con cui la madre lo allatta, lo cambia o gli fa il bagnetto, le variazioni nel suo tono di voce, nel suo tono muscolare e nei suoi atteggiamenti. Il bambino già da neonato riesce a cogliere le parti sottili e invariabili dell’esperienza, e le incamera come apprendimento su cosa potrà aspettarsi dal mondo e dalla vita in termini relazionali.


Il sé è infatti “un insieme organico e organizzato di funzioni che determinano l’identità e la complessità della persona” (Rispoli). È l’organizzazione interna del mondo, che fornisce continuità al mare di esperienze, all’eterogeneità degli eventi e degli stimoli.


Le esperienze di base sono in effetti i modi attraverso i quali si concretizzano i bisogni fondamentali, sono esperienze concrete di vita e di relazione in cui i bisogni del bambino si incarnano.


La conoscenza di queste esperienze è un importante tassello per costruire quell’atteggiamento di accoglienza fondamentale affinché un bambino ipersensibile impari a conoscere, accettare e valorizzare questa sua caratteristica. Molte delle persone altamente sensibili che ho conosciuto ad oggi non hanno avuto un clima familiare che ha consentito loro di sperimentare in modo positivo la loro sensibilità, e vivono con molto disagio e scarsa accettazione, rincorrendo il desiderio di essere diversi da come sono.


Non è l’ipersensibilità in sé a produrre conseguenze fastidiose, bensì la lotta contro la percezione di se stessi e l’adeguamento agli altri.
R. Sellin

Luciano Rispoli nel suo libro Esperienze di base e sviluppo del sé elenca con molti particolari tutte queste funzioni, e relative declinazioni, secondo il suo approccio funzionale. In questa sede approfondirò quelle che ritengo legate in maggiore misura allo sviluppo dei bambini altamente sensibili.


Essere tenuti e contenuti, poter lasciare, poter stare, abbandonarsi a, il contatto, l’essere visti, l’essere considerati, la tenerezza sono condizioni ben note alla letteratura ed essenziali per la vita del bambino. Ma anche aprirsi, prendere, dare, l’assertività, la scelta. Un attraversamento non pieno e positivo di tali esperienze impedisce il consolidamento delle proprie capacità di vita, e si manifesta con alterazioni di una o più funzioni o su uno o più piani del sé. Se una bambina viene continuamente fermata nei suoi slanci vitali, finirà per avere una voce soffocata, flebile o troppo acuta e senza la potenza piena e gioiosa che dovrebbe avere.


La stessa funzione “voce” però può assumere altri condizionamenti negativi, che influenzeranno la capacità di affrontare l’altro, dire “no”, esprimere opinioni diverse, mostrare la propria rabbia o disappunto e usare la forza piena e calma per sostenere le proprie ragioni. Le funzioni hanno una andamento alternato tra due polarità opposte: movimenti piccoli/movimenti grandi, tristezza/gioia, tenerezza/durezza, fragilità/forza, ipertonia/ipotonia, controllo/perdita del controllo. Più complete e intatte sono le gamme a disposizione del bambino e più potenzialità egli avrà nella vita.


L’aspetto interessante è che l’obiettivo non si trova nel giusto mezzo tra i due poli, ma nella possibilità di raggiungere l’intensità sia dell’una che dell’altra posizione, poiché entrambe danno un significato profondo all’esistere. Una persona ipersensibile ha bisogno di integrare la capacità di accogliere l’altro e quella di ritirarsi, la capacità di sostenere ma anche la sensazione di essere sostenuto, la profonda connessione umana ed emotiva ma anche la cura di sé e i momenti di pace, ha bisogno di imparare a chiedere e prendere, di imparare a stare ma anche ad andare senza sopportare troppo.


Per sviluppare tutte queste funzioni giocherà un ruolo basilare un rapporto genitoriale positivo e attento a tutelare i bambini dagli impatti negativi che li porterebbero a chiudere questi canali, capacità e movimenti. Ne esploreremo una alla volta.

1. Accettazione incondizionata
Quando una persona sente di essere sinceramente accettata per quella che è, si sente libera di prendere in considerazione un possibile cambiamento, di pensare ad una possibile crescita, a cosa vorrebbe diventare, a come realizzare maggiormente il proprio potenziale. L’accettazione è come il terreno fertile che permette ad un seme minuscolo di trasformarsi nel bel fiore che può diventare. Il terreno si limita a facilitare lo sviluppo del seme. Sprigiona la sua capacità di crescere, ma tale capacità è interamente in seno al seme.
T. Gordon

Ho scelto di iniziare a descrivere questa funzione di base perché la ritengo la più essenziale, profonda, importante esperienza che un bambino ipersensibile deve fare nella propria infanzia per riuscire a conoscere ed accettare questa sua natura. Accettazione è un termine che da dizionario ha come sinonimi ricevimento, accoglienza, ammissione, consenso, approvazione, gradimento. Incondizionata significa letteralmente senza alcuna condizione, senza se o ma. Ti accetto perché sei mio figlio, così come sei, ti accetto in ogni caso, in ogni situazione, in ogni condizione. Accetto come sei, la tua libertà di esistere ed essere anche diverso da me, diverso da come ti immaginavo e da come mi piacerebbe che fossi. Accetto ciò che sei come essere umano, per le tue potenzialità e i tuoi limiti, per ciò che provi e per chi diventerai un giorno. Accetto di te anche quello che mi è scomodo, anche quello che non comprendo o non condivido. Ti accetto anche se non prendi dei bei voti, anche quando sbagli, o quando mi dài dei dispiaceri, o quando litighiamo. Ti accetto in modo incondizionato perché ti amo senza se e senza ma, perché ogni tipo di persona vorrai essere e diventerai, io sarò con te.


Accettare qualcuno incondizionatamente non significa dargli sempre ragione, minimizzare eventuali comportamenti scorretti o diventare permissivi: significa che sebbene possiamo essere in disaccordo, nonostante tu possa sbagliare (e sia mio compito aiutarti a capire di avere sbagliato), malgrado tu possa tenere comportamenti che disapproverò e che ti aiuterò a modificare, ti accetterò sempre per come sei, come persona e come essere umano. È legato al concetto di esistenza, e di sé profondo. I bambini che sperimentano questa sensazione profonda e insostituibile creano le basi esistenziali che permetteranno loro di diventare un adulto sicuro, solido, in grado di compiere le proprie scelte con consapevolezza e di accogliere le differenze con tolleranza. L’accettazione incondizionata è la base del proprio diritto all’esistere. “Io esisto”, e quindi occupo uno spazio, ho dei diritti, posso pensare, parlare e scegliere per come io sono e sento.


Le situazioni in cui questa condizione rischia di venire meno sono tutte quelle in cui un genitore vorrebbe un figlio ipersensibile diverso da come è. Magari lo vorrebbe meno emotivo, meno fragile, più tranquillo, meno pigro, più veloce, più sportivo, più intelligente, meno vivace, più socievole, più resistente, meno suscettibile, più adattivo… In una marea di situazioni e da un’infinita gamma di punti di vista rischiamo innumerevoli volte di venire meno a questa funzione fondamentale trasmettendogli senza volerlo che lo vorremmo differente da come è, inconsapevoli dell’assurdità alla base di questa pretesa e delle imprevedibili conseguenze sul suo senso del sé. Moltissimi ipersensibili che ho incontrato provano un senso di rifiuto verso se stessi e verso questa caratteristica, un desiderio di essere diversi, più simili agli altri, “come mio fratello, come i miei compagni…”, e questa sensazione di base non permette loro di vivere bene, e li fa costantemente lottare con sé stessi. In questo senso come genitori, educatori e insegnanti avete un ruolo decisivo, potrete davvero fare la differenza e permettere ai bambini così sensibili di non sentirsi sbagliati, “alieni”, e di accettare e valorizzare la loro sensibilità come un dono.


Dietro la buona prestazione si riaffaccia (nella terapia) il bambino, piccolo e solo, che si domanda: come sarebbe andata se di fronte a voi ci fosse stato un bambino cattivo, rabbioso, brutto, geloso, confuso? Dove sarebbe finito in tal caso il vostro amore? Eppure io ero anche tutto questo.
A. Miller
2. Movimento

Il tono muscolare è il canale privilegiato nella formazione della soggettività e nella costruzione dell’intersoggettività, e ha una funzione di sintonizzazione, affettività e comunicazione di importanza pari a quella del linguaggio verbale. Il bambino si crea schemi di movimento e di interazione a partire dal riconoscimento e dall’imitazione degli schemi motori di chi lo circonda, e attraverso questa imitazione condivide significati, valori e regole. I movimenti, il tono e le azioni assumono un ruolo fondamentale nelle funzioni psicologiche e relazionali, e l’esperienza motoria ha un ruolo centrale e ormai comprovato nell’organizzazione complessiva del cervello.


Tutto ciò che viene agito attraverso un’azione concreta viene immagazzinato nel cervello sotto forma di memoria motoria o “procedurale”, che creerà degli schemi di funzionamento psicomotori che incideranno anche sulla sua salute, psicologica e fisica. La funzione del linguaggio è inoltre strettamente connessa a quella del movimento organizzato, che a sua volta è collegato allo sviluppo del pensiero e alla capacità di creare sequenze di passi concatenati di causa-effetto. Rimane quindi essenziale lasciare ai nostri bambini maggiori tempi possibili di movimento, giocare con loro attraverso l’azione, cercare di non reprimere la loro vivacità in nome di uno “stare composti” o “non fare confusione”. Il compromesso fondamentale, a mio avviso, riguarda la creazione di spazi e tempi in cui permettere al piccolo di muoversi in libertà, uno spazio che offra la maggiore sicurezza possibile ma anche svariate possibilità di sperimentare i propri movimenti. Ad esempio una camera con tappeti a terra, fogli grandi sulle pareti perché possa esprimersi, cuscinoni e palle di gommapiuma su cui rotolare e sdraiarsi, tubi di gomma da battere sui cuscini per sfogarsi, uno stereo per la musica, un area morbida (anche eventualmente il letto) dove poter anche saltare, buttarsi per terra… per il resto, come molti di voi già sanno, è davvero efficace farli correre e scatenare all’aperto, nella natura. L’indicazione principale rimane di cercare di seguire i bisogni fisiologici, che i bambini sanno esprimere a modo loro: quando li vediamo agitati, non ci ascoltano e non riescono a stare fermi, potremmo sentirci spinti a reprimere questo eccesso obbligandoli ancora di più a fermarsi. In realtà risulterà forse più efficace scendere a compromesso e dargli un momento di sfogo, in cui possano liberare l’energia accumulata, e solo dopo chiedere di fermarsi e stare “dove e come” noi abbiamo bisogno che stiano.


Cito a tale proposito un esempio riferito alle scuole primarie. Come sanno bene gli insegnanti, ci sono giorni in cui i bambini “stanno buoni” e giorni in cui “non si tengono”. Nei giorni in cui sono particolarmente faticosi, con grande prova di pazienza degli insegnanti, è in realtà ancora più importante lasciarli muovere e sfogare, piuttosto che tenerli in punizione seduti in aula.


Alcuni bambini ipersensibili in particolare si agitano in risposta a situazioni di tensione emotiva, in famiglia o in classe, ed esprimono con l’iperattività il nervosismo che sentono intorno a loro. Altri invece al contrario possono immobilizzarsi e chiudersi, in base al carattere, ma in ogni caso noterete un cambiamento nei loro movimenti e nelle loro azioni. In quelli di tipo introverso e chiuso è importante incentivare il movimento stimolandoli con attività e giochi, perché imparino a sentire il corpo e l’energia e a incanalarla nel movimento. Nei miei lavori corporei di gruppo in momenti di particolare intensità invito i partecipanti a fare alcuni movimenti di sfogo con mani, piedi, o tutto il corpo, proprio per ridistribuire l’accumulo di energia che altrimenti potrebbe anche far insorgere mal di testa, tensioni alle spalle o al collo, o mal di schiena.


Nei bambini di solito l’interazione basata sul movimento è inoltre molto più rapida ed efficace e nel mio studio in diversi casi ho scelto di utilizzare questo canale in prima battuta per aprire un dialogo con loro: mentre giocavamo, ci muovevamo, iniziavamo ad interagire ad un livello che gli permetteva di costruire la fiducia necessaria in modo più rapido. Il movimento è il punto di partenza per lo sviluppo della relazione, ma anche delle funzioni mentali e della conoscenza del mondo: insomma fate muovere più possibile i vostri bambini, nei modi che preferiscono, e quando potete muovetevi con loro, farà bene ad entrambi.


La parola emozione significa muoversi verso l’esterno (“ex” “motus”) ed è quindi strettamente connessa al tema del movimento. Quando un movimento abbraccia tutto il corpo in modo unitario il risultato è una espressione emotiva che viene avvertita dall’individuo come espressiva di se stesso.

3. Essere tenuti e contenuti

Già nell’esperienza dell’utero materno si rivela appieno la condizione dell’essere contenuti, che genera quel senso di tranquillità di sicurezza che spesso ricerchiamo anche nella vita. È l’esperienza di sentirsi all’interno, parte, avvolti, e la sensazione che i bambini piccoli continuano spesso a ricercare attraverso il contatto con la madre o anche con le cose e gli oggetti: si divertono a costruire cantucci protetti, ad esempio sotto le lenzuola quando si ha paura. È la stessa sensazione di sicurezza e pace che ritroviamo da adulti nel dormire abbracciati, nel potersi lasciare andare grazie alla presenza calorosa e rassicurante del corpo dell’altro. Essere tenuti in braccio è un’esperienza importante che si ripete a lungo nell’infanzia, e che riconferma nel bambino ogni volta la sensazione vitale di non doversi occupare di se stesso poiché delle mani premurose e salde lo stanno tenendo e lui può lasciarsi andare completamente. Anche da più grande queste sensazioni rimangono importanti, per esempio nel bisogno di essere sostenuti in una decisione, nel bisogno di delegare qualche responsabilità, nel bisogno di farsi accompagnare a una visita medica che ci preoccupa. In termini tecnici questa sensazione viene definita “holding”, e a che fare con la capacità del genitore di trasmettere solidità e serenità nel tenere il bimbo in braccio, e poi nell’abbracciarlo, nello stargli accanto, nel consolarlo e sostenerlo. Con i bambini ipersensibili lavorare sulla propria solidità nell’holding è fondamentale per trasmettergli la possibilità di abbandonarsi in sicurezza, di sentirsi tranquillizzato quando le sue emozioni saranno forti, di ritornare tra le nostre braccia nell’alternanza tra esplorazione e attaccamento. Sentire delle mani premurose e salde che mi stanno tenendo, che mi tranquillizzano e mi permettono di lasciarmi andare del tutto, riconferma ogni volta la sensazione vitale di non dovermi occupare di me stesso, almeno in quel momento, e di poter assaporare senza responsabilità la vita circostante.


A livello corporeo quest’esperienza è legata alla fondamentale funzione del tono muscolare che lascia, che si rilassa, che non ha bisogno di attivarsi e si può abbandonare perché non c’è niente da fare di cui ci sia bisogno in quel momento. Lo stato d’animo è di serena tranquillità, i movimenti possono essere assenti, i pensieri fluttuano senza soffermarsi, il respiro profondo: non c’è nessun pericolo, non c’è bisogno di mantenere l’attenzione se non verso se stessi.


Un mezzo prezioso di tranquillità e contenimento è il contatto: nel contatto non si dà né si prende, ma semplicemente si scambia. Il contatto non ha altri scopi se non quello di una profonda vicinanza con l’altro. Nel contatto si sciolgono i confini tra i due, e in questo flusso si fa esperienza di una comprensione reciproca profonda. E spesso funziona bene anche con un animale, perché l’animale non è preoccupato per il padrone, si prende carezze e piacere nel contatto, proprio come il padrone non si preoccupa in quel momento di cosa stia dando al suo animale, o come lo dà, o se ricambierà, o se amerà qualcun altro. Come invece può avvenire tra esseri umani. Come già accennato in precedenza, il contatto fisico, anche con un animale, è un’esperienza importante per i bambini ipersensibili.


Tendenzialmente l’ipersensibile sente la spinta a sostenere gli altri, ad essere lui o lei a offrire holding all’altro. Molto spesso già da piccoli sono loro a “tenere” gli altri, e rischiano di perdere contatto con il loro bisogno di sentirsi tenuti, di sospendere il loro senso di responsabilità verso il mondo e assaporare la vita circostante, permettendo all’altro di occuparsi di loro.


Il bambino ipersensibile corre un rischio maggiore di non riuscire a fermarsi di tanto in tanto, di starsene un poco senza dover fare niente di speciale, senza inseguire indefinitamente desideri impossibili, in preda a una continua eccitazione di fondo. Da adulto potrebbe rendersi adattivo per continuare a rincorrere senza sosta sostegni esterni, senza riuscire a colmare il suo profondo bisogno inappagato. Potrebbe diventare incapace di lasciare andare, delegare, rilassarsi. Tenere e contenere significa anche dare dei limiti precisi e chiari, con naturalezza, fermezza e costanza, per insegnare al bambino quando fermarsi senza andare al di là delle proprie forze e delle proprie possibilità.


Il rischio opposto sta nell’essere trattenuto e bloccato oltremisura, con una compressione della sua vitalità che ne arresta i movimenti: emozioni come la rabbia tenderanno allora ad uscire con esplosioni di oppositività e intolleranza.


Connesso all’essere tenuti e contenuti c’è per il bambino la sensazione di essere portato, nel lasciare ogni tanto che l’altro si prenda la responsabilità di condurre e scegliere. I sentimenti di fiducia e tranquillità sono indispensabili per affidarsi veramente all’altro, e cedere il controllo.


Riguarda la difficoltà a fidarsi e soprattutto ad affidarsi, piuttosto comune nell’ipersensibile. “Se non sono io a condurre, come so dove mi porterà l’altro? Saprà condurmi?” Ma anche “Saprà vedere le mie esigenze, rispettarmi, senza condurmi dove vuole lui/lei?”. Qui mi tornano in mente varie situazioni in cui i genitori rimanevano sorpresi allorché i figli consideravano ciò che io dicevo, mentre rispetto alla medesima questione a loro “non avevano mai dato retta”. In molti casi aveva a che fare con il sospetto da parte del figlio, a volte fondato, che la richiesta del genitore non fosse per il suo bene, ma per puro gusto o desiderio personale. È molto importante con bambini così sensibili differenziare in modo chiaro i momenti in cui davvero stiamo comunicando qualcosa per il loro bene, e gli altri in cui comunichiamo un nostro desiderio. Ad esempio quando un genitore ha necessità di mandare in vacanza il figlio con i nonni, per lavoro oppure per fare contenti i nonni, e cerca di convincerlo sottolineando quanto si divertirà e che è il meglio per lui: il bambino ipersensibile si sentirà ferito e offeso, protesterà e dubiterà. Il bambino ipersensibile di certo preferirà che voi gli diciate con chiarezza come stanno le cose, quali sono i vostri bisogni e perché, e delle due sentirsi partecipe come vostro alleato, piuttosto che spostato come una “pedina”.


Una delle caratteristiche della vitalità è il fatto di essere in contatto. Potrete chiedervi: in contatto con che cosa? In contatto con tutto ciò che si trova nel raggio e alla portata delle percezioni sensoriali. Essere in contatto significa essere consapevoli di ciò che accade dentro di voi e intorno a voi. È qualcosa di completamente differente dal conoscere, che è un’attività più intellettuale che percettiva. Ogni percezione sensoriale ha inizio con una percezione del sé, cioè del proprio corpo. Per mezzo di questo si percepisce ciò che accade nell’ambiente poiché l’ambiente investe i corpi e i sensi. Più vitali si è, più acute sono le percezioni.
A. Lowen
4. Lasciare, lasciare andare, lasciarsi andare

I bambini in genere hanno spesso bisogno di momenti di pausa in cui interrompere l’attività e permettersi il riposo, come semplice assenza di attività, uno stare semplicemente, senza dover fare nulla e sospendendo l’essere vigili e attivi. La funzione del lasciare è anche connessa alla sensazione dell’addormentamento, e alla profondità del sonno. Nel lasciare sono in particolare i muscoli a riposarsi, gli occhi spesso si incantano, il respiro rallenta e tutto il corpo recupera ossigeno ed energia. Mi è capitato spesso di incontrare momenti in cui l’inattività di un bambino venisse fraintesa come una mancanza di volontà, di pigrizia, di vuoto, di inutilità: in questa società si mal tollerano i ritmi lenti, i momenti di inattività, l’assenza di stimoli e tutto questo peggiora l’arduo compito del bambino ipersensibile che già deve elaborare molte più stimolazioni della media. Riguarda l’esigenza di alternare con efficiacia quello che in precedenza abbiamo definito sistema simpatico (di attivazione) e quello parasimpatico, ovvero lo stato fisiologico di riposo e recupero. Per i bambini ipersensibili non è semplicissimo entrare in modo autonomo in uno stato di rilassamento e sospensione del pensiero; sono più spesso concentrati ad elaborare informazioni e stimoli, sono naturalmente più vigili, motivo per cui spesso faticano a dormire, per cui avranno bisogno di imparare strategie per lasciare, per fermare i pensieri. E anche in questo caso possiamo offrirci come esempio, scoprendo quanto può essere utile a entrambi abituarci quotidianamente (o quasi) a prenderci qualche momento di pausa da tutto, da qualsiasi stimolo: Tv, telefono, lavori di casa.. e stare soltanto insieme, magari respirando profondamente all’unisono. Rimarreste stupiti dalla reazione di questi bambini quando gli viene proposto di respirare insieme, quando li si invita a prestare attenzione al respiro e rallentarlo, come succede ad esempio nello yoga per bambini. Una volta una delle bimbe che seguivo mi ha riferito di essere stata lei ad invitare la mamma a respirare in un momento in cui era agitata.


Legata alla funzione di lasciare si sviluppa quella di lasciare andare, ovvero la capacità di distinguere ciò per cui continuare a lottare e ciò che dobbiamo accettare e lasciar stare. È una funzione che ha a che fare con il controllo degli eventi e del mondo esterno, e che se non esperita positivamente può determinare nel bambino ipersensibile un aumento del suo senso già naturale di responsabilità rispetto ciò che gli accade intorno, rischiando inoltre di arrivare al senso di onnipotenza “tutto dipende da me, senza di me come fanno, ci devo necessariamente pensare io”. Per poter lasciare andare un bambino ipersensibile ha bisogno di percepire argini molto solidi nel genitore, di fidarsi del fatto che in ogni caso e comunque andrà, sarà sostenuto ed eventualmente “perdonato”. Può sembrare paradossale, ma i bambini hanno bisogno di poter sbagliare e scoprire che non è un dramma. Il nemico più ostico del lasciare andare per l’ipersensibile è il perfezionismo e il senso di responsabilità: l’intolleranza per gli sbagli, le perdite, i ritardi, le mancanze, i sensi di colpa… Alcuni genitori mi hanno riferito di quanto possa essere difficile gestire l’errore o la colpa per i loro figli: reagiscono agitandosi, innervositi e delusi, a volte con scoppi di rabbia o autopunizioni insensate. In questi casi è essenziale prima di tutto l’esempio: siate più tolleranti prima di tutto con i vostri errori. Non sarete genitori perfetti come nessuno lo è, o non sarete sempre insegnanti impeccabili e pronti, ci saranno giorni migliori di altri, e già da lì sarà importante trasmettere di essere in pace con i propri limiti, ammettere senza colpa di essere stanchi, affaticati, pensierosi… sbagliare non è fallire. Fallire significa farsi abbattere senza riprovarci, mentre uno errore serve non tanto per imparare a fare meglio la prossima volta (che sarebbe comunque una tendenza al perfezionismo), ma soprattutto per tenere a mente che siamo umani. “Hai sbagliato? Non ti preoccupare, capita a tutti, anche a me”.


Nell’accezione lasciarsi andare il controllo ha a che fare con l’interno, invece che con l’esterno: se il bambino ipersensibile impara a lasciarsi andare riuscirà a vivere momenti in cui poter mollare il proprio autocontrollo, evitando di reprimere le proprie emozioni e sensazioni. Per lasciarsi andare un bambino ipersensibile ha bisogno di sentire in questo caso la solidità emotiva del genitore, ovvero la sua capacità di gestire e contenere le proprie emozioni rispetto al figlio. Se un bambino sente la fragilità di una mamma che si è lasciata andare in un momento di tristezza non riuscirà a sentirsi libero di essere triste a sua volta, ma cercherà di essere forte e consolarla. Questi momenti ovviamente possono capitare, l’importante è che lo teniamo presente e cerchiamo – quando ce la sentiamo – altri momenti in cui invece lasciare a loro “lo spazio emotivo”, trasmettendogli che in quel momento siamo lì per ascoltare e accogliere anche la loro preoccupazione e sofferenza, o rabbia, perché siamo in grado di occuparci della nostra e non ne abbiamo paura.


I bambini reprimono gran parte delle loro emozioni per adattarsi alle condizioni dell’ambiente familiare. Cominciano col trattenere le espressioni di paura, rabbia, tristezza e di gioia perché pensano che i loro genitori non siano in grado di confrontarsi con questi sentimenti. Di conseguenza diventano sottomessi o ribelli; né l’uno né l’altro di questi due atteggiamenti rappresenta una espressione genuina di sentimento. La ribellione è spesso la copertura di un bisogno, mentre la sottomissione è spesso la negazione della rabbia e della paura.I sentimenti sorgono come impulsi o movimenti spontanei dal centro vitale dell’individuo. Per reprimere un sentimento bisogna smorzare e limitare la vitalità e motilità del corpo. Così lo sforzo per reprimere un sentimento diminuisce necessariamente tutto il sentire…I sentimenti sono la vita del corpo così come i pensieri sono la vita della mente.
A. Lowen
4. Essere Considerati, Visti, Compresi

In queste esperienze di base, dice Rispoli, “risiede gran parte delle possibilità di una crescita felice e piena del bambino”; sono in stretta connessione con il riconoscimento sereno della propria necessità dello sguardo dell’altro. Il bambino ha bisogno di percepire se stesso non solo dal proprio interno ma anche per come appare dall’esterno. Lo sguardo dell’adulto e il suo ascolto assumono un’importanza profonda per accrescere il senso positivo di se stesso, trasmettendo protezione, incoraggiamento e approvazione. Se questo è vero per tutti i bambini, per quelli ipersensibili è di importanza vitale: il sentirsi considerati in senso positivo per la propria sensibilità, sentirsi visti nella loro empatia per gli altri, sentirsi compresi nelle proprie difficoltà rispetto alla gestione dell’emotività e del sovraccarico. A livello psicocorporeo è interessante ad esempio notare in alcuni adulti l’imbarazzo nel sentirsi osservati, nel sostenere lo sguardo o nel parlare assumendo un tono e una postura sciolti, segni che indicherebbero invece l’abitudine a sentirsi visti e considerati.


Mi è stato spesso riferito da adulti altamente sensibili di aver avuto di rado la percezione che gli adulti che li circondavano fossero interessati ad ascoltare l’espressione profonda delle loro emozioni e dei loro pensieri, così articolati e complessi rispetto agli altri bambini, difficoltà che molto spesso riscontriamo in generale anche nelle altre relazioni della nostra vita: essere considerati e compresi nel nostro modo di vedere e di ragionare, anche se complesso o difficile da sostenere per chi non lo condivide.


“Mamma, guarda, faccio la capriola! Papà, guarda, ho fatto un disegno! Maestra, guarda, ho scritto una poesia!”. Ogni azione che il bambino fa tendenzialmente avrà bisogno di essere sostenuta e incoraggiata dallo sguardo adulto. Potrete immaginare come però cambi la questione se ciò che viene bene ai bambini ipersensibili riguarda abilità molto più sottili, come “Guarda, mamma, ho consolato la nonna; sai, papà, ho fatto fare pace a due miei compagni; guarda, mamma, mi sono occupato del mio fratellino più piccolo”. È difficile che un bambino di sua spontanea volontà ponga sotto il nostro sguardo questi tipi di abilità, quindi avrà maggiore bisogno di un nostro sforzo per riconoscerle e valorizzarle. Mi viene molto naturale farlo quando parlo con i bambini nel mio studio perché, da esterna, mi sento davvero colpita dalle loro abilità di empatia e intuizione, e dalla loro tendenza così naturale ad agire per migliorare le cose, e glielo comunico in modo molto diretto. Vi invito a fare altrettanto, cercando di guardarli sempre con occhi curiosi e meravigliati.


Un aspetto importante per i bambini ipersensibili con cui avrete a che fare sarà proprio il fatto che vi stiate informando su questa caratteristica, anche leggendo questo libro, che sentiate l’esigenza di capirci qualcosa di più, e di fare qualcosa per aiutarli. La continua ricerca da parte di genitori, insegnanti ed educatori è il presupposto più importante: il tratto dell’ipersensibilità è ancora così sconosciuto qui in Italia rispetto ad altri Paesi, che voi stessi in questo momento state già contribuendo a creare quella cultura necessaria per costruire un contesto sociale in cui questi bambini non si sentano più “alieni”, incompresi, strani.


L’essere considerati ha molto a che vedere con la necessità di considerare i loro bisogni: sarà molto importante che vagliate le loro richieste cercando di distinguerle tra capricci o reali necessità. Porto l’esempio della ragazzina che da anni chiedeva un cagnolino, perché nel suo malessere sentiva che avrebbe potuto farla sentire meno sola e aiutarla a superare le sue difficoltà di socializzazione. I genitori sono arrivati a portarla a me, coscienziosi e attenti, ma non avevano compreso l’importanza del suo desiderio. Nell’offrirle questa possibilità hanno potuto riscontrare il valore di questo gesto, riconoscendo il suo bisogno profondo di avere un contatto affettuoso non verbale e una vicinanza così intima, e questa esperienza le ha permesso di “uscire” da uno stato di profonda solitudine interna. Veicolato da questa scelta inaspettata dei suoi genitori, le è anche passato un messaggio importante: i suoi bisogni potevano essere ascoltati e considerati, anch’io avevo cercato di aiutarla a realizzarli, e questo l’ha portata a fidarsi ed aprirsi con speranza.


Se vengono considerate “eccessive/sbagliate” le sue sensazioni, il bambino ipersensibile corre il rischio di disconnettersi completamente da ciò che sente. Percependo invece con estrema precisione ogni reazione o malessere di chi lo circonda, per garantirsi il loro amore e il senso di sicurezza e appartenenza, sceglie di disconnettersi dalle sensazioni del corpo e della propria pancia.Tra il proprio intuito e le aspettative altrui viene generalmente scelto l’adattamento, e un orientamento sempre più verso la visione degli altri a discapito della propria, perdendo fiducia nel proprio punto di vista, nelle proprie percezioni e valutazioni.
R. Sellin
5. Autoaffermazione, Assertività, Scegliere

L’autoaffermazione ha a che fare con la funzione di crearsi spazio e riconoscimento, ed è connessa alla sensazione di essere consistenti. Influenzerà i bambini rispetto alla determinazione con cui raggiungeranno i loro traguardi, sia di tipo sociale che lavorativo, permettendogli di sentire legittimato il loro spazio di azione. Subito conseguente a questa funzione emerge quella dell’assertività che è associata alla fiducia nelle proprie ragioni, alla convinzione di non dover sempre subire scelte altrui o conformarsi a giudizi di altri, e che ci si può far ascoltare ed esprimere le proprie ragioni “a testa alta”. Come preannunciato già da questo modo di dire, l’assertività è veicolata innanzitutto dalla postura e dal portamento, e riguarda anche la capacità di trasmettere i propri confini in senso non verbale ed energetico. Come abbiamo già visto la capacità di gestire i confini è una delle prime strategie che abbiamo bisogno di insegnare ai bambini ipersensibili, a partire già dai loro tentativi iniziali di occupare lo spazio e compiere movimenti forti e decisi, assumendo atteggiamenti che esprimano la loro determinazione in modo libero. Un’importante distinzione a questo punto rimane da fare tra affermazione/assertività e competizione: la competizione ha a che fare con la volontà di superare i propri limiti e dimostrare di essere superiore a qualcuno; l’affermazione di sé e l’assertività sono invece due funzioni che rimangono all’interno della consapevolezza dei propri limiti e non riguardano il confronto con le prestazioni altrui. Nei bambini ad esempio non significa essere per forza sempre al centro dell’attenzione, vincere ad ogni costo, fare capricci, o diventare provocatori. Significa invece avere la possibilità sin da piccoli di esprimere i propri pareri, di avere uno spazio di espressione, abituandosi a spiegare sempre le proprie ragioni anche quando sono diverse dalle nostre. Per le persone ipersensibili queste funzioni possono davvero fare la differenza nella loro vita e nel loro accostarsi agli altri e alle cose; è un pilastro fondamentale per il loro sviluppo. In caso contrario si assisterà a una lotta incessante per la sopravvivenza esistenziale e psicologica rispetto alle opinioni e alle esigenze degli altri. Al concetto di autoaffermazione e assertività è legata anche la capacità di scegliere e di portare avanti le proprie scelte, anche difendendole dagli attacchi esterni, laddove scegliere significa valutare con intelligenza le situazioni reali, considerare le molteplici alternative e scegliere quelle che sono più adatte a sé e ai propri progetti. L’entusiasmo e la passione sono i punti cardine dello sviluppo di questa capacità, motivo per cui invito sempre i genitori, insegnanti ed educatori a cercare di valorizzare nei bambini quelle potenzialità e capacità che mostrano spontaneamente e per cui sentono entusiasmo, ed educarli a sviluppare le proprie passioni.


La parola educare deriva dal termine “ex-ducere”, che significa letteralmente “tirare fuori”, ovvero aiutare il bambino a prendere coscienza di ciò che già ha per natura dentro di sé, non “mettere dentro” in base a ciò che secondo noi dovrebbe avere. Il bambino mostra già da piccolo le proprie preferenze, i propri slanci, le proprie direzioni, e spesso non sono corrispondenti a quelli che si aspetterebbero gli adulti. In genere però risulta più efficace, ai fini di assicurargli una vita serena e soddisfacente, assecondare ciò per cui già sentono una passione innata. Che siano scelte riguardo lo sport, riguardo le amicizie, riguardo le attività del tempo libero, risulterà più funzionale semplicemente seguire i loro slanci spontanei e assecondarli nel miglior modo possibile, compatibilmente con le nostre possibilità ovviamente, piuttosto che cercare di deviare le loro idee in base a ciò che noi riteniamo migliore per loro. Dobbiamo tenere a mente che se li abituiamo a svalutare le loro scelte e le loro predisposizioni, e a scegliere di assecondare le nostre, sarà il loro stile anche nelle altre situazioni della loro vita da adulti. In termini tecnici non li aiuteremo a costruirsi una motivazione interna, ovvero la fondamentale motivazione delle persone nell’affrontare scelte, percorsi, situazioni, cambiamenti. Se li abituiamo a una motivazione esterna il mandato che gli trasmetteremo sarà “devo fare come dicono gli altri o perché lo dice qualcun altro, perché vale di più di ciò che credo io”. Incentivando al contrario una motivazione interna, nonostante questo implichi la nostra fatica per i continui compromessi e discussioni, ciò che gli trasmetteremo in realtà sarà per loro molto più utile perché avrà a che fare con “io scelgo in base a come io sento, come io credo sia meglio per me, indipendentemente da ciò che pensano gli altri”. Per l’ipersensibile questa è davvero la base della felicità.


Ci sono ipersensibili che percepiscono i bisogni altrui ancor più dei propri, che non si prendono cura di sé e poi ne pagano le conseguenze e sono scontenti.Quelli che evitano il conflitto e non sono capaci di difendere la propria posizione, finendo per vivere in conflitto con gli altri tutta la vita.
R. Sellin
6. Autonomia, Opposizione, Separarsi

La parola autonomia deriva da autòs-nòmos che significa “darsi la legge”, ovvero riuscire a costruire, definire e regolare se stessi. In senso relazionale essere autonomi significa stare bene con se stessi, non avere necessariamente bisogno dell’altro, riuscire a bastarsi. È strettamente collegata al senso della propria consistenza, e dipende in parte dall’esperienza psicocorporea del bambino che, riferendoci allo psicologo infantile Donald Winnicott, possiamo definire “presenza silenziosa”, ovvero la situazione di calma e sicurezza che sente un bambino mentre gioca o esplora per conto suo, ma nel contempo sentendo la presenza fisica del genitore. Condividere uno spazio e un momento in cui ciascuno fa le sue cose ma si è presenti insieme è un’esperienza alla base dell’esplorazione del bambino. Il bambino ha bisogno di sentirsi libero di esplorare ma nella sicurezza di poter contare sull’intervento del genitore in caso di necessità o paura. “Stai lì, guardami, stai attento a me, ma non interferire, non mi condurre, lascia fare a me, ti chiamerò se avrò bisogno”.


Questa è anche la metafora dell’accompagnamento del genitore nella vita dei figli: un mio docente la rappresentava come un porto, da cui la nave parte e poi attracca se fuori c’è tempesta.


Una nave nel porto è al sicuro ma non è per questo che le navi sono costruite. Ma ogni nave ha bisogno di un porto, che sia sempre lì ad aspettarla e la accolga quando finalmente tornerà a casa.
John Augustus Shedd

Il nostro compito principale è esserci, semplicemente. E il genitore efficace è colui “che vede le spalle del figlio”, ovvero che lo guarda mentre si allontana verso il mondo. Ma a volte questo può mettere un genitore molto in difficoltà, e la tendenza automatica potrebbe essere di interferire, impedire, deviare… Il problema è che potremmo correre il rischio di continuare a farlo tutta la vita dei nostri figli, con le migliori intenzioni ma senza accorgerci che così facendo limitiamo la loro capacità di essere autonomi e di scegliere per sé. Nel bambino ipersensibile la sfida è resa più ardua dal fatto che rischieremo di condizionarlo anche sul piano non verbale e implicito, potrà adattarsi alle nostre esigenze e aspettative ancora prima che gliele espliciteremo e considererà ogni nostro commento, anche nei confronti degli altri, per guidare il suo comportamento. Una ragazza ricorda di come da adolescente temeva di prendere determinate scelte in base a commenti che aveva sentito dire dalla madre rispetto ad altri coetanei. Il timore di dare una delusione diventa imperante, e l’ipersensibile rischia di ritrovarsi da adulto con una grande confusione tra “ciò che voglio – ciò che vogliono gli altri da me”, limitando in modo deleterio la propria autonomia. Chi non impara a gestirsi in autonomia potrà avere maggiori difficoltà nel gestire inoltre le relazioni amorose, rischiando rapporti eccessivamente fusionali e simbiotici, rischiando di dipendere dal giudizio e dalle richieste del partner, e di non riuscire a scegliere davvero il meglio per sé per paura della solitudine. Rinunciare all’autonomia significa lasciare agli altri il potere di “definirmi”, e questo inciderà molto anche sulla mia autostima.


Nella pratica, il bambino conquista pian piano la sua autonomia attraverso le difficili esperienze di opposizione e separazione, che mettono sicuramente a dura prova ogni genitore, ma che sono tappe fondamentali di costruzione della propria identità. L’opporsi all’altro è una manifestazione di autonomia, non necessariamente conflittuale, in cui la persona esprime con determinazione i propri bisogni, desideri e limiti, anche nel momento in cui sono contrastanti rispetto all’altro. Tradotto in termini concettuali, non è “Io sono contro di te”, ma “Io sono io, tu sei tu, non sono te”. È un’esperienza importante perché è legata alla legittimazione della propria identità, e quindi della propria diversità e unicità. La sfumatura importante è la necessità di viverla senza che venga minacciato l’amore, o il legame: “Mi oppongo ma continuo a volerti bene”, “Sono diverso da te ma ti sono vicino”. Può capitare che noi adulti ostacoliamo questa funzione attuando involontarie manipolazioni: se nei loro momenti di opposizione li reprimiamo e li costringiamo a pensarla come noi, essere come noi vorremmo, magari minacciandoli di allontanarli o allontanarci, essi collegheranno l’opposizione alla rabbia, all’odio, al rancore, e all’angoscia, e da adulti avranno molte difficoltà a gestire i conflitti. Non è l’opposizione di per sé ad essere distruttiva e angosciante, ma le eventuali minacce affettive che vi sono collegate, e che impediscono al bambino di esercitare con serenità la sua funzione di opposizione.


Nelle storie dei bambini ipersensibili può essere rilevante come l’opposizione risulti connessa alla minaccia della perdita, e alla paura della distruttività, e diventa evidente nella loro difficoltà a dire di no. “Se dico di no perderò l’amore, l’amicizia, il legame”, questo è l’implicito più comune. La difficoltà a dire no per non ferire, per non ricevere rabbia, per non essere allontanati e abbandonati. Un bambino ipersensibile impara a non percepire il proprio corpo e i propri bisogni, coglie piuttosto con estrema precisione ogni reazione dei genitori, ogni irritazione, malessere, e ogni contatto negato, ogni dubbio o il minimo accenno di rifiuto. Quando cercherà di opporsi, ponendo dei limiti all’altro, proverà dentro di sé una profonda paura di perdere l’affetto, l’apprezzamento e il senso di appartenenza alla comunità. Il senso di colpa e la paura per quelle che saranno le conseguenze della sua presa di distanza lo fanno sentire debole, sotto pressione, e rimane bloccato. Se è stata vissuta nell’infanzia l’esperienza di vedersi esclusi quando si dice “no”, affetto e opposizione/autonomia sono infatti stati vissuti come due polarità in reciproca esclusione: da una parte veniva offerto affetto, sicurezza, appartenenza, dall’altra la possibilità di sentirsi autonomi, indipendenti e liberi. E l’indipendenza è diventata sinonimo di esclusione, isolamento, anaffettività, minaccia dell’esistenza.


Molto legato al concetto di opposizione risulta quindi quello di separazione, ovvero della necessaria esperienza di ogni figlio di sentirsi “separato-diverso-disgiunto” dal proprio genitore, di essere un’entità distinta e autonoma. Per riuscire a separarsi il bambino ipersensibile ha bisogno di sentire che il genitore sarà in grado di tollerarlo e di gestire il distacco, e che continuerà a volergli bene ed esserci, se avrà bisogno. Essendo assai ricettivo alle manipolazioni, anche implicite e involontarie, dovrà imparare a gestire il senso di colpa, e riuscire a difendersi, inibendo la sua automatica tendenza a sacrificarsi. La manipolazione attraverso il senso di colpa è infatti molto frequente nei rapporti familiari, e di fatto il genitore che non accetta la presa di distanza del figlio la può esternare accusandolo di suoi difetti, mancanze, insuccessi, arrivando a volte anche a minacciare che, se non si farà come vuole, si perderà l’amore, la casa, ci si ammalerà o si morirà addirittura. Un esempio molto fine di quotidiana manipolazione è la reazione di “muso” di alcuni genitori dopo una discussione con i figli: “Non mi rivolge la parola per giorni, finché non vado io a cercare di fare pace o chiedere scusa”. Togliere la parola equivale a dire “tu non esisti per me, io non esisto per te”, e mi rendo conto di essere perentoria quando affermo che non è affatto una buona modalità di gestire le discussioni con i figli. In termine tecnico si definisce “disconferma”: né ti accolgo né controbatto, semplicemente ti ignoro, come a dire che tu non esisti, ed è ben diverso dall’ opposizione. Possiamo discutere, anche litigare, magari può capitare di alzare la voce qualche volta, ma dobbiamo sempre essere lì, essere presenti. Non ci sono mai buoni motivi per creare nel figlio una tale angoscia di perdita e abbandono, e credo sia fondamentale tenerlo sempre a mente. Possiamo dirgli che abbiamo bisogno di tempo per pensare o calmarci, e quindi sospendere la discussione, ma mai togliere del tutto la parola. Possiamo rimanere contrariati, nervosi, irritabili, rimanere sulla nostra posizione, ma mai togliere del tutto la parola, perché è fondamentale che anche (e anzi, soprattutto) nelle più aspre differenze di opinione i nostri figli sentano che li amiamo, che li rispettiamo e che siamo con loro in ogni caso.


“I vostri figli non sono vostri.
Sono i figli e le figlie della vita.
Essi non vengono da voi, ma attraverso di voi,
e non vi appartengono benché viviate insieme.
Potete amarli, ma non costringerli ai vostri pensieri,
poiché essi hanno i loro pensieri.
Potete custodire i loro corpi, ma non le anime loro,
poiché abitano case future, che neppure in sogno potrete visitare.
Cercherete di imitarli, ma non potrete farli simili a voi,
poiché la vita procede e non si ferma su ieri.
Voi siete gli archi da cui i figli, le vostre frecce vive, vengono scoccati lontano.
L’arciere vede il bersaglio sul sentiero infinito,
e con la forza vi tende,
affinché le sue frecce vadano rapide e lontano.”
K. Gibran
7. Forza morbida, Calma

L’esperienza della forza ha un’origine molto antica nello sviluppo della vita dell’uomo. Il bambino già da molto piccolo sente spontaneamente come incanalare le sue forze. Lo sperimenta attraverso le spinte con i piedini, le azioni con le mani di avvicinare o allontanare, anche tirare oggetti, o quando agita fortemente le gambe in momenti di agitazione e frustrazione. È legata alla sensazione spaziale, motoria e corporea di spingere, avvicinare o distanziare, distanziarsi, farsi spazio. Se immaginate un neonato in braccio alla mamma, vi verrà semplice immaginare o ricordare un momento in cui il neonato si stanca di essere tenuto e inizia ad usare la sua forza per svincolarsi dalle braccia che lo trattengono, semplicemente perché vuole sentirsi libero di muoversi nel suo spazio. Ma la forza non è legata soltanto a movimento o attività, è anche riferita alla forza di stare, resistere, sopportare, esprimere, confrontarsi senza giudizi, rimanere calmi. Si definisce forza morbida la funzione di sperimentare la propria capacità nei confronti degli oggetti e delle persone circostanti, ed è molto legata alla possibilità di scegliere. Per l’ipersensibile la capacità di scegliere è spesso ostacolata dalla mancanza del senso di libertà necessario per sentirsi legittimati a stare o andare, esprimere, avvicinare, farsi spazio, prendere distanza.


Per il bimbo ipersensibile è fondamentale poter esplorare l’esperienza, ad esempio di poter tirare a sé gli oggetti o lanciarli, trattenerli finché sente di volerlo fare, e senza doverli dividere per forza con altri bambini, neanche se sono suoi fratelli o sorelle. Se lo abituiamo a dover interrompere le sue esplorazioni libere per accontentare quelle di un altro bambino, potrà acquisirlo come schema di riferimento riguardo alla necessità di sacrificarsi sempre per gli altri, e da adulto avrà molte difficoltà a scegliere per sé. Può ad esempio essere importante permettergli di vivere gli oggetti come preferisce, nei margini della sua sicurezza, anche quando questi oggetti non ci sembrano adeguati o quando ci sembra che indugi in maniera eccessiva sullo stesso oggetto. Non meravigliamoci quindi se un momento prima vorrà esplorarlo e tenerlo in mano, e quello subito dopo lanciarlo con forza per terra, per poi ritirarlo su e trattenerlo nuovamente tra le mani. La nostra seppur comprensibile ipotetica reazione del tipo “Lo vuoi o non lo vuoi? Se lo tiri ancora non te lo dò più” di fatto ostacolerebbe questa sua sperimentazione.


La forza aperta ha invece a che fare con il contatto e il rapporto con l’altro, come ad esempio esercitarsi nella lotta, fare gare di prove fisiche, e confronti di capacità. È una forza di relazione, che implica l’ulteriore passaggio di dimostrare all’altro che si è capaci di agire portando a termine i propri movimenti, e non ha nulla a che vedere con l’aggressività o la distruttività. Nella lotta il bambino sperimenta la possibilità di mettere la sua forza nei movimenti senza trattenerla, ma senza esplodere. La forza risiede in primo luogo nel corpo, ma rappresenta un aspetto simbolico della propria capacità di agire nel mondo; ha origine nei muscoli, nel tono della voce, nelle posture, nello sguardo, come nella saldezza delle proprie convinzioni e dei propri valori, nella lucidità della propria espressione e comunicazione e nella resistenza ad essere troppo influenzati dall’esterno.


Di solito il rischio più comune di quest’esperienza è che spaventa noi adulti, che quindi tendiamo a disapprovare e bloccare, ovvero trasmettere l’idea che sia pericolosa e distruttiva, e che in ogni caso cerchiamo di bloccare esercitando la nostra autorità. Molto spesso la forza dei bambini viene mutilata, soffocata, attraverso una continua demolizione, a volte anche molto sottile, soprattutto nei confronti delle bambine: “Stai composta, non fare il maschiaccio, stai calma, stai ferma, non muoverti, daglielo, non tirare, non fare resistenza”. Ovviamente, come ripeto spesso, ci saranno situazioni in cui sarà necessario il nostro ruolo di contenere questa forza, ma l’importante è che teniamo in considerazione il fatto che non può essere sempre così. Soprattutto con i bambini molto sensibili, quando esercitano la loro forza, sarebbe utile cercare di evitare frasi come “da te questo non me lo aspettavo, non ti riconosco, come mai oggi fai così, non è da te, torna in te”, poiché veicolerebbero il messaggio “vai bene solo se non eserciti mai la tua forza”.


All’estremo opposto potremmo trovare difficoltà nell’arginare un eccesso di forza, vale a dire proprio i suoi aspetti aggressivi, violenti e distruttivi. Se vediamo che la forza non si limita a difendere il proprio spazio, i propri movimenti o l’esplorazione dei propri oggetti, ma è al contrario rivolta proprio a limitare un altro nei suoi movimenti, rubargli oggetti e spazio, o disturbarlo con scoppi aggressivi ingiustificati, allora è bene intervenire. L’ipersensibile ha diritto di esercitare la propria forza in difesa delle proprie scelte, del proprio spazio, dei propri movimenti, rispetto alle esigenze e invasioni dell’altro. Ciò non significa, all’opposto, legittimare la forza nel pretendere, strappare, rubare, aggredire. La ben conosciuta massima del “vivi e lascia vivere” riassume in modo sintetico l’accezione della forza che qui intendiamo.


Durante una passeggiata, davanti a me camminava una giovane coppia, accanto a loro trotterellava un bambino di circa due anni che piagnucolava. I due si erano comprati un ghiacciolo al vicino chiosco e lo leccavano con gusto. Il piccolo avrebbe voluto avere il suo gelato. La madre, consapevole che un intero effettivamente non lo avrebbe mangiato, gli diceva amorevolmente di dare un morsicino al suo, ma non è questo che il bambino voleva, tendeva la mano verso il gelato e subito la madre glielo sottraeva.Il bambino allora piangeva disperatamente. E la situazione si ripeteva anche con il padre “Prendine un po’ del mio – no no!” gridava il bambino. Fece qualche passo per cercare di distrarsi, ma subito tornava indietro e guardava pieno di invidia e di tristezza su in alto, verso i grandi che si godevano soddisfatti e complici il gelato. Ripetutamente i due gli offrivano un assaggio, allora la manina del bambino si protendeva speranzosa ad afferrare finalmente il gelato intero, ma quella dell’adulto si ritraeva con il suo tesoro. Non si è compreso che egli voleva semplicemente avere il gelato in mano, come gli altri, il suo movimento era stato frainteso e bloccato.”
A. Miller
8. Condividere, Aprirsi

Sin da bambini nasciamo immersi in una rete sociale, percepiamo l’esistenza di più persone e il nostro collegamento con loro attraverso le relazioni. L’essere umano è un animale da “branco”, che necessita di relazioni vitali per la sopravvivenza, e che ha per natura bisogno di condividere con gli altri vissuti, emozioni, idee, progetti. La predisposizione all’apertura è quindi qualcosa di innato e naturale, ma può venire compromessa dalle esperienze di relazione durante l’infanzia.


Il bambino ipersensibile avverte questa rete sociale in modo più sottile e dettagliato, ne sentirà il bisogno e l’appartenenza, e tenderà a ritenere l’armonia del gruppo un suo obiettivo di vita e una condizione fondamentale della sua esistenza. Il senso sociale in un ipersensibile sovente supera il senso individuale, a volte purtroppo a suo discapito. Per mantenere la predisposizione all’apertura, imparando però a regolarla, il bambino ha bisogno di sentire fiducia nel suo contesto, di sentirsi accolto in tutte le sue espressioni e di ricevere spiegazioni sulle dinamiche delle persone che lo circondano, perché impari a gestire e riconoscere le sue percezioni rispetto all’ambito sociale.


Le persone ipersensibili registrano in modo più intenso quanto gli altri dicono e pensano nei loro riguardi e quanto si aspettano da loro. Percepiscono in modo più profondo l’atteggiamento altrui nei loro confronti, le aspettative, i giudizi, i rifiuti, e le incongruenze tra linguaggio verbale e non verbale. La maggior parte degli ipersensibili prova un profondo desiderio di rendere il mondo più umano. Sono infatti i primi a riconoscere mancanze e ingiustizie, e spesso a intuire le conseguenze di un agire poco corretto.
R. Sellin

L’ipersensibile percepisce se stesso sempre insieme agli altri, o rispetto agli altri, anche quando sta da solo, attraverso ricordi, pensieri, sensazioni e immagini. Ha maggiori difficoltà a considerarsi isolato, e spesso soffre della sensazione di non essere approvato o accettato dagli altri, senza riuscire a farsene una ragione. In un certo senso dipende molto dal giudizio esterno, e fatica ad affrontare eventuali rifiuti e preferenze. Molto spesso io stessa mi sono sentita ripetere sin da bambina “Cosa ti importa di quello che pensa questa persona? Perché su dieci persone che ti apprezzano ti concentri così tanto solo su quell’unica che ti respinge?”. Facciamo più fatica a “infischiarcene” delle opinioni degli altri, delle loro reazioni, del loro giudizio e della loro approvazione. Abbiamo molto bisogno di condividere, di confrontarci, di sentirci parte, e spesso in giovane età tendiamo ad aprirci, con più o meno persone, in modo molto “esposto”, ingenuo.


Nel contesto familiare la difficoltà quindi è gestire l’equilibrio fra trasmettere la necessaria fiducia e accoglienza affinché si sentano ben voluti e accettati, e insegnare come non essere dipendenti dal giudizio e dall’approvazione dell’altro. Alla base rimane la strategia più importante: scegliere le persone con cui aprirsi, discriminare le situazioni e i momenti in cui è opportuno condividere, “è legittimo il tuo bisogno di condividere e sentirti accolto, e nel contempo è meglio farlo solo in momenti e con persone in cui ti senti al sicuro, e che sono in grado di ascoltarti”. Non si può pretendere di essere ascoltati, compresi e accolti da tutti, anche da quelli a cui non è evidentemente possibile, per loro disposizione o situazione. Ma si può sperimentare la condivisione con qualcuno che vi è predisposto, cercando magari anche un contesto “protetto”, come uno psicoterapeuta o un percorso di gruppo. Nei miei incontri ho sperimentato in prima persona la potenza della condivisione tra ipersensibili, così abituati a sentirsi “soli e isolati, diversi” nei loro abituali contesti, allorché si trovano in uno spazio e in un tempo adeguati per comunicare spontaneamente, confrontarsi e riflettere insieme sulle loro emozioni, i loro vissuti, le loro difficoltà. Cito testualmente uno dei partecipanti:


Ritengo che sia molto utile fare un’esperienza di gruppo tra HSP, in quanto sentirsi totalmente capiti e accettati e poter esplorare altri modi di vivere l’ipersensibilità attraverso le esperienze altrui rappresenta una crescita personale notevole, determinando un netto miglioramento della consapevolezza di sé e del proprio modo di essere. Questo percorso nella conoscenza di sé è fondamentale, perché una volta raggiunto un certo grado di consapevolezza e una certa capacità di gestire l’ipersensibilità, ho scoperto che se riusciamo a concentrarci sull’amplificazione delle emozioni positive (anziché subire eccessivamente quelle negative) diventa una condizione assolutamente straordinaria e bellissima.”


Noi ipersensibili ci percepiamo in quanto tali.Se descrivo le nostre caratteristiche essenziali nel corso di una conferenza, tra il pubblico molti individui nella mia stessa condizione tirano un respiro di sollievo.Si sentono riconosciuti e compresi e si rendono conto di non essere soli.
R. Sellin
9. Benessere, Interezza, Piacere
Chi percepisce con maggiore sensibilità di altri è potenzialmente in grado di trarre dalla vita più gioia, più piacere e più ricchezza interiore.
E. Aron

Il benessere il bambino piccolo lo raggiunge con la sazietà, il contatto e la soddisfazione dei bisogni. Lo avverte quando sperimenta la sua unitarietà e completezza, l’armonia e l’equilibrio delle sue funzioni, non solo nei pensieri, ma soprattutto nella pienezza delle sensazioni psicocorporee. Nel benessere l’organismo raggiunge uno stato di funzionamento ottimale, che condiziona tutti i sistemi vitali: il respiro, il colorito, il tono muscolare, il battito cardiaco, la cognizione, il funzionamento degli organi interni. Benessere non è quindi assenza di sensazioni corporee spiacevoli, ma piuttosto presenza di meccanismi profondi e importanti che agiscono in sinergia, che sono intimamente connessi alla possibilità del bambino di vivere tutte le sue espressioni e sensazioni in sicurezza, senza tensioni o repressioni.


Molte psicoterapie corporee si fondano su questo presupposto, con l’obiettivo di ripristinare nell’individuo l’equilibrio delle sue funzioni psicofisiche. Rispoli sottolinea come la società attuale spinga molto presto i bambini verso un blocco della loro mobilità, privilegiando di solito le forme di espressione verbale rispetto al non verbale, il cognitivo rispetto al motorio, giacché è una società in cui vige la supremazia del pensiero rispetto alle sensazioni. A circa sei anni tutti i bambini d’un tratto iniziano a trascorrere svariate ore al giorno seduti al banco, ad usare molto di più la testa che il corpo, e questo inibisce in maniera drastica la loro connessione tra pensiero, sensazione e mobilità. Per percepire la propria interezza in questo senso avranno bisogno di altri contesti in cui ritrovare nel movimento, soprattutto di tipo spontaneo e non prestazionale, una piena e integrata espressione di sé (non intendiamo quindi attività di tipo strutturato o competitivo).


Il benessere si fonda infatti sul senso di interezza e integrità delle proprie funzioni psicofisiche, ed è una condizione necessaria per provare le sensazioni di piacere che ci sono necessarie per vivere appieno. I bambini ipersensibili in questo ambito sono avvantaggiati, in quanto la loro particolare sensibilità agli stimoli non è, come detto in precedenza, esclusivamente rispetto a quelli negativi, ma anche a quelli positivi. Sapranno quindi in maggior misura trarre benessere anche dalle piccole cose della quotidianità, da momenti di pace e contatto, momenti nella natura o con gli animali, situazioni familiari di armonia e soddisfazione dei propri risultati. La Aron nel suo film documentario afferma “Sentiamo molto più intensamente anche la gioia e l’amore; la bellezza, la musica, l’arte, stare nella natura, tutto ci smuove profondamente”.


Gli studi hanno evidenziato come la felicità non dipenda tanto da variabili anagrafiche come l’età o il sesso, né in misura rilevante dalla bellezza, ricchezza, salute o cultura. Al contrario sembra che le caratteristiche maggiormente associate alla felicità siano quelle relative alla personalità quali ad esempio apertura, fiducia in se stessi, sensazione di controllo sulla propria persona e il proprio futuro (nel senso di “empowerment”). Coltivare appieno la serenità della loro interezza e personalità contribuisce quindi in modo diretto alla loro felicità, e nonostante gli enormi sforzi che ci saranno costati ne sarà valsa la pena.

10. Chiedere, Prendere
Solitamente gli ipersensibili decidono di servirsi quando ormai della torta non è rimasto più molto. Solo una volta che gli altri sono soddisfatti e noi siamo rimasti a mani vuote sentiamo avanzare le nostre pretese e il bisogno di equità e giustizia. E ci sentiamo delusi perché sotto sotto speravamo che gli altri si comportassero nel nostro stesso modo.
R. Sellin

Durante la presentazione dei partecipanti a un laboratorio, uno di essi si commosse dicendo che non riusciva a sentirsi in diritto di chiedere mai, finché una persona non gliel’ha fatto notare e si è accorto di quanto poco si era dato questa possibilità per il timore di apparire egoista. L’ipersensibile che chiede di solito può sentirsi in colpa o in debito subito dopo, sente in modo intenso la gratitudine e il senso di reciprocità, e molto di rado toglierà qualcosa a qualcun altro senza preoccuparsi o dare altro in cambio. In una classe il bambino ipersensibile in genere è quello a cui rubano le matite dall’astuccio, non quello che va a rubarle agli altri. È quello che presta con candore le cose e rimane deluso quando non gli vengono restituite. Non che non abbia il senso di proprietà, tiene alle sue cose come è suo diritto, e ci saranno ipersensibili più generosi e altri meno, ma se il contesto familiare non lo aiuterà a proteggere questo diritto l’ipersensibile crederà di non averlo e si metterà sempre da parte, arrivando sempre quando la torta è finita, servendo prima gli altri.


Riguardo a questo tema mi pare utile a questo punto spendere due parole per chiarire la differenza tra egoismo e amor proprio, troppo di frequente frutto di una pericolosa confusione: l’egoismo consiste nel pretendere dall’altro di darci qualcosa, o toglierglielo. Io credo che se avete due o più figli vi sarà capitato di notarlo ogni tanto tra fratelli e sorelle. In questi casi spesso chi risponde di “no” ad una richiesta del fratello o della sorella viene ingiustamente accusato di non voler condividere, di essere egoista. Non si fa tanto caso all’egoismo della richiesta, quanto alla indisponente risposta negativa. L’amor proprio consiste nel dire no difendendo il proprio spazio e il proprio diritto. Per un ipersensibile è importante ogni tanto imparare a dire questo “no”, quando altri ci fanno richieste eccessive, come anche invece a chiedere e prendere, quando l’altro ci offre aiuto e ha più risorse in quel momento di noi per gestire le cose. Quando insegniamo ai bambini ad essere altruisti stiamo attenti a non spingerli a distribuire tutto quello che hanno a tutti, ma piuttosto a valutare le disparità di risorse e ristabilire la giusta parità tra chi ha di più a chi di meno. Egoismo significa avere tanto e volere di più, amor proprio significa legittimarsi di avere dei limiti e dei bisogni e, coscienti della piena libertà dell’altro di dire di “no”, provare ad esprimerli. Vuol anche dire che teniamo per noi almeno quel minimo di risorse necessarie, e che impariamo a delegare ogni tanto quando non ce la facciamo più. Con i bambini particolarmente sensibili, dovremo aiutarli noi a sentire questo diritto, nelle difficoltà quotidiane, a non trasmettergli che sono egoisti se chiedono aiuto, se non regalano cose ad altri o non accontentano le loro richieste a loro discapito. In alcune situazioni la difficoltà a “chiedere/prendere” si manifesta in senso più simbolico, ad esempio riguardo le aspettative e la gestione del tempo: bambine e bambini abituati ad esaudire le richieste dei genitori o degli insegnanti la maggior parte della loro giornata, a discapito delle proprie sensazioni e scelte, e che diventeranno adulti che faranno molta fatica a prendersi del tempo per sé, occuparsi di se stessi, chiedere delle pause (ferie ad esempio). “Non posso chiedergli di…”, quanto spesso sento questa frase. La realtà è che noi possiamo sempre chiedere, abbiamo tutta la libertà di chiedere, proprio come l’altro ha tutta la libertà di risponderci con un sì o un no. Ma se non chiediamo mai non possiamo poi lamentarci di ciò che ci manca. Imparare a chiedere è importante per assumerci la responsabilità di ciò che vogliamo, senza dare la colpa all’altro perché ci aspetteremmo che desse quanto noi senza che venga richiesto. È solo una trappola. Rispetto ai bambini pare superfluo specificare che non si tratta di chiedere/prendere in senso consumistico “Mamma mi prendi quel gioco”, ma piuttosto “Mamma giochi con me? Posso riposarmi prima dei compiti? Posso raccontarti la mia giornata?”. Chiedere significa esprimere i propri bisogni, e nel contempo quindi mostrare le proprie vulnerabilità, e questo è un altro aspetto che potrà ostacolarli da adulti. Se colleghiamo involontariamente l’idea che chiedere-avere bisogno sia legato a debolezza-mancanza rischieremo di trasmettergli l’impossibilità di mostrarsi “bisognosi”. In realtà una persona che impara a sentire ed esprimere in modo lucido i propri sentimenti e bisogni diventa molto più forte, perché paradossalmente solo chi è davvero sicuro di sé può sentirsi tranquillo nel mostrare le proprie fragilità.


In conclusione, in quanto ipersensibile mi dispiacerà se tutto ciò che avete letto fino ad ora vi sarà sembrato pretenzioso e poco realizzabile, oppure se vi ha fatto in qualche modo sentire a disagio come genitori o educatori; ci tengo di cuore a sottolineare che io non credo di avere nulla da insegnare a nessuno. L’intento non è mai far sentire inadeguati ma, al contrario, dare spunti di riflessione soggettiva, per cui ciò che mi auguro è che qualcosa vi sia risuonato in modo particolare, che spero vi possa essere utile in futuro, ciascuno nel suo modo, nel suo contesto, secondo le sue risorse e i suoi limiti. La riflessione finale che fa da cappello a quanto detto si può riassumere quindi in una frase: non sarà importante solo amarli, sarà importante che loro sappiano di essere amati.


Un bambino normalmente non si preoccupa se è o non è amato. Ha la certezza di esserlo. Ma se l’amore non giunge puntuale, se non giungono comprensione, tenerezza, calore, attenzione amorevole ai suoi bisogni profondi, allora egli si convincerà a dubitare di essere veramente amato. Ciò che doveva essere naturale e scontato diventa fonte di preoccupazione: qualcosa che manca, di cui sente acutamente il bisogno e che si deve in qualche modo procacciare. E si stabiliscono nell’adulto che sarà domani mille fantasie di paure, dubbi, ragioni per cui dubiterà di non essere davvero amato.
L. Rispoli
I CONSIGLI PRATICI DELLA DOTTORESSSA ARON

– Per parlare con i bambini della loro sensibilità

  1. Ogni discorso possibile sul loro temperamento varierà in base alla loro età.
  2. Siate chiari sul fatto che è uno dei tanti tratti che lo caratterizzano.
  3. Spiegate che ciascuno ha qualche tratto che spicca di più, e la sensibilità potrebbe essere tra questi.
  4. Quando emerge una difficoltà relativa a questo tratto, focalizzatevi sulle possibili soluzioni pratiche.
  5. Quando certe situazioni gli richiederanno sforzi maggiori, non utilizzate questo tratto come una giustificazione per non tentare o riuscire.
  6. Non utilizzate questo tratto come un’arma nei conflitti tra voi.
  7. Se ci saranno volte in cui questa caratteristica gli dispiacerà, ricordategli le occasioni in cui si è dimostrato un vantaggio.
  8. Siate chiari rispetto agli aspetti che egli potrà migliorare di sé, e invece quelli che imparerà ad accettare.
  9. Identificate persone intorno a loro che stimano e apprezzano e che sono ipersensibili, come esempio.

– Per aiutarli a ridurre lo stress

  1. Abituate il vostro bambino ad avere frequenti pause, momenti di ritiro quotidiano e settimanale.
  2. Siate molto nutritivi, attraverso il contatto fisico, l’ascolto, il contenimento, la natura.
  3. Salvaguardare il suo sonno, garantendogli le giuste ore e condizioni (luce, rumori…).
  4. Avere sempre oggetti e rituali familiari, mantenere le routine.
  5. Ridurre la confusione nelle decisioni, ad esempio proponendo alternative.
  6. Abituarsi a programmare e preannunciare loro le cose in anticipo nei dettagli.
  7. Alternare i suoi momenti di ritiro ad altri di socialità e condivisione, fare cose insieme.
  8. Mantenere la natura al centro delle vostre vite.
  9. Condividere e parlare spesso delle possibili strategie per affrontare le cose nella vita.
  10. Quando non potete evitargli un forte stress, cercate di parlarne e cogliere l’occasione di confronto.

Il tesoro dei bambini sensibili
Il tesoro dei bambini sensibili
Elena Lupo
Conoscerlo, gestirlo, valorizzarlo.Un libro per aiutare genitori e operatori a riconoscere l’ipersensibilità nei bambini e a valorizzarla nel modo migliore. Le persone altamente sensibili sono quel 20% della popolazione che vive “diversamente” ciò che le circonda, in modo più profondo, emotivo, empatico.Gli studi su questo tratto del carattere sono piuttosto recenti e chiariscono dinamiche interpersonali spesso vissute male o con imbarazzo. Il libro Il tesoro dei bambini sensibili della psicologa e psicoterapeuta Elena Lupo si rivolge primariamente a genitori e operatori. Ha un taglio teorico e pratico insieme, per riconoscere l’ipersensibilità nei bambini e valorizzarla nel modo migliore. Conosci l’autore Elena Lupo è psicologa e psicoterapeuta a indirizzo Biosistemico.Persona Altamente Sensibile, nel 2014 ha fondato un progetto di diffusione su territorio nazionale delle conoscenze relative agli studi della dott.ssa Elaine Aron, con l’obiettivo di aiutare le Persone Altamente Sensibili (PAS) a comprendersi e accettarsi.È la prima psicoterapeuta italiana inserita nella lista internazionale “Licensed Therapist HSP- Knowledgeable”.