CAPITOLO VI

Rispetta i tuoi desideri e le tue emozioni

Tutte le mamme, ovunque partoriscano, vorrebbero essere trattate con gentilezza, amore e rispetto. Quando aspettavo Sara e Leo, mi sentivo forte, potente, al centro del mondo. Ma, a volte, mi sentivo anche fragile e insicura. Nella mia pancia stava crescendo un bambino, stavo per trasformarmi da figlia in madre. Insomma, dovevo crescere! Mi chiedevo se sarei stata capace di affrontare il dolore del travaglio, mi domandavo chi mi avrebbe assistito in quei difficili momenti. Ma anche se sarei stata una brava mamma, se avrei avuto la capacità di gestire un essere umano piccolo e indifeso, se sarei stata in grado di capire e soddisfare tutti i suoi bisogni, le sue legittime richieste. Fino a quel momento avevo soddisfatto solo le mie esigenze, ero stata l’unica protagonista della scena. Ma quando ho scoperto di essere incinta di Sara, è come se l’intero universo si fosse capovolto. In un attimo ho sentito che avrei dovuto fare un passo indietro, riposizionarmi. Insomma, mettermi al servizio di quell’esserino che stava crescendo dentro di me.


Ho sempre preso molto sul serio il mio ruolo di mamma. Non per un posticcio senso del dovere o per soddisfare le altrui aspettative, della famiglia, degli amici, della società. Più semplicemente, qualcosa mi diceva che era giusto così. Mi sentivo come una leonessa che doveva proteggere a tutti i costi i suoi cuccioli da tutto ciò che avrebbe potuto metterli in pericolo. La costanza, la pazienza e la sopportazione del dolore non erano mai stati il mio forte. Ma, attraverso le mie gravidanze e la nascita dei miei figli, dentro di me è avvenuta una sorta di rivoluzione. Dopo un percorso costellato di tante letture, di ricerca di informazioni e di ascolto dei miei bisogni più profondi, ho capito ciò che volevo: fare la scelta migliore per me e per i miei bambini. Come molte altre mamme, desideravo che il mio corpo e quello dei miei piccoli, ma anche i miei desideri, le mie emozioni e le mie paure, fossero rispettati.


Mentre della felicità del diventare mamma si parla fin troppo spesso, i timori e i dubbi che molte donne provano durante la gravidanza vengono ignorati. Le future madri vengono lasciate sole, e l’ascolto, la vicinanza, il sostegno, sono sostituiti da analisi, ecografie, monitoraggi e ricette mediche. Appena il test di gravidanza rivela che sei incinta, diventi improvvisamente una malata, e tuo figlio un paziente. Ormai a rassicurarci è la tecnologia, la scienza, la professionalità, vera o presunta, del primario di turno, l’amica che ci dice “io ho fatto il cesareo, è solo un taglietto” oppure “ho fatto un parto naturale”, per poi scoprire che di “naturale” in quel parto c’era ben poco (rottura del sacco amniotico, ossitocina, manovra di Kristeller, catetere, episiotomia). Poi però la frustrazione e l’amarezza vissute da una donna che aveva immaginato il suo parto come un’esperienza esaltante e serena, come un evento naturale e pieno di gioia, ma che poi invece si rivela essere una sequenza infinita di interventi chimici e chirurgici, tra urla, rumori, ansia, tensione e mancanza di rispetto, scompaiono regolarmente nel momento in cui gli operatori dicono “signora, è contenta? Ecco suo figlio, guardi quanto è bello!”


Ma, mi chiedo, perché ci accontentiamo di così poco?


“Quando sono rimasta incinta, avevo un grande desiderio, non avere rimpianti”, racconta Elena. “Non volevo essere una di quelle donne che poi dicono ‘ah, se lo avessi saputo…’. Ero anche disposta a un cesareo, ma se fosse stato necessario. Ma non volevo l’epidurale. Devo ringraziare mia madre che mi ha sempre trasmesso un’idea molto serena del dolore, che è qualcosa che si sopporta e che poi passa. Ho sempre pensato che se il dolore c’è, a qualche cosa serve. L’idea di fare tutti questi impicci e imbrogli, ‘epidurale sì-epidurale no’, mi hanno sempre convinto poco. Cercavo di capire tante cose, anche parlando con la mia ginecologa. E il fatto che mia sorella avesse partorito in casa mi incuriosiva molto. L’ospedale non mi faceva sentire sicura. Il fatto di non sapere chi avrei trovato mi faceva provare una sensazione di paura. Così cominciai un percorso. Andai dalla ginecologa che mi seguiva da 10 anni e le chiesi ‘perché devo fare analisi epatite B ora e fra sei mesi?’ La risposta fu ‘è la prassi’. Poi chiesi informazioni su un’altra analisi e mi rispose seccata. Parlai del parto in casa e lei commentò ‘è molto romantico, ma se viene un’atonia all’utero perdi la donna!’. Pensai ‘non tutte le donne che partoriscono in casa pensano tranquillamente di poter morire’.


Avevo programmato un viaggio alle Seychelles e chiesi un certificato di gravidanza in inglese perché così, qualsiasi cosa fosse successa, sarei stata tranquilla. La dottoressa era molto scocciata e la cosa mi infastidì molto. Sull’autobus, tornando a casa, mi montò dentro una tale rabbia… Telefonai al consultorio chiedendo se potevo essere seguita da un altro medico. Ma il mio non era un approccio così ‘fuori dai binari’. Successivamente, ho scoperto che spesso alle donne si dice ‘si fa così e così’, la donna sta zitta e fa tutto. A me non stava bene. Sentivo che in quel momento non ero malata, vivevo le analisi con tranquillità, come si fa il pap-test una volta l’anno. Insomma, alla fine partorire a casa era diventata una necessità. Volevo partorire in un luogo familiare, dove mi sentivo a mio agio, con delle persone che conoscevo. Poi ho scoperto di non essere una svalvolata, perché mi sono informata su Internet e ho visto che all’estero l’approccio è diverso. Con mio marito ci eravamo organizzati in caso fossi stata trasferita in ospedale. Volevo sapere dove sarei andata, conoscere il contesto. Si fa tanta leva sul ‘e poi se succede qualcosa?’, come se le donne che partoriscono a casa non ci pensassero. Una brava ostetrica sa riconoscere un problema, l’urgenza vera e propria non c’è. Nel momento in cui c’è un problema, o partorire in casa non è possibile, si va per tempo in ospedale”.


L’approccio di Oliva è stato completamente diverso: “Non mi sono preparata, non ho letto libri, non volevo sentire le storie di altre donne, ed è stato meglio, perché poi ho scoperto tutto alla fine. Partorire in casa era una cosa che vagamente avrebbe potuto piacermi, ma di cui non sapevo assolutamente niente. Parlando con il mio compagno avevamo pensato di fare il primo figlio in ospedale, per allenarci, e il secondo in casa. Poi è venuto a trovarci un amico che con la sua compagna aveva avuto due bimbi in casa. Lì è scattato qualcosa, ci siamo detti ‘allora si può fare’. E così è stato. Abbiamo contattato un’ostetrica specializzata, che mi ha dato assoluta fiducia nella sua professionalità. E senza aver fatto nulla, neanche il corso pre-parto, un mese prima di partorire abbiamo deciso di farlo. Ci siamo incontrati qualche volta con l’ostetrica per conoscerci. Avevamo fiducia in lei perché si occupava di questo da tantissimo tempo. Fino a quando hai dei dubbi, ti chiedi se sarà sicuro, se succede qualcosa. Poi, facendolo, scopri che lo potresti fare anche in mezzo a un bosco, senza l’ostetrica. Ma prima c’è questa ansia, perché te la infondono, tutti ti dicono che sei folle e ti viene un’ansia che non vorresti avere. Anche le persone più sciolte, super-naturali, i ‘guru della New Age’, di fronte a questa scelta si bloccano. Perché non sanno che dietro c’è tutta un’organizzazione e che quindi è una scelta che si può gestire nel migliore dei modi. Quando l’ho detto a mia madre, lei ha molto apprezzato. Molte sue amiche hanno partorito in casa, per cui anche se non me lo ha consigliato, non le è sembrata una scelta particolarmente strana”.

L’esperienza di Claudia, mamma di due bambini nati in ospedale dopo aver cercato invano un’ostetrica per partorire in casa, la dice lunga sul rispetto dei desideri e delle emozioni cui ogni futura mamma ha diritto. Un bisogno, un diritto, troppo spesso ignorati e considerati secondari dalla cultura occidentale. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità1, “a tutte le donne che partoriscono in una struttura deve venir garantito il rispetto dei loro valori e della loro cultura” e “per il benessere psicologico della neomadre deve esserle assicurata la presenza di una persona di sua scelta, familiare o non, e la possibilità di ricevere visite nel periodo neonatale”. Ma l’OMS dice anche che “l’induzione al travaglio deve essere effettuata solo in presenza di specifiche indicazioni mediche e comunque non si dovrebbe mai registrare un tasso superiore al 10%”; che “non c’è alcuna giustificazione in nessun Paese per avere più del 10 o massimo 15% di parti cesarei”, sottolineando inoltre che “non c’è nessuna prova che dopo un taglio cesareo sia richiesto un ulteriore cesareo: parti vaginali dopo un cesareo dovrebbero venir incoraggiati”. L’OMS ritiene ingiustificate molte altre procedure di routine come la rottura artificiale delle membrane, il clistere, la rasatura del pube, la somministrazione routinaria di farmaci in travaglio, la posizione supina durante il travaglio e il parto, l’uso sistematico dell’episiotomia e il monitoraggio elettronico. Oltre a definire “ingiustificata” la separazione del neonato dalla madre.


Ma torniamo a Claudia, mamma “disobbediente”, che ha lottato per restare a casa fino all’ultimo momento e, nonostante la difficoltà psicologica di accettare il parto ospedaliero, è riuscita a vivere i suoi due travagli scoprendo, e riscoprendo, la sua intimità e la sua forza. Ha una scuola di lingue, ma ha deciso di aiutare le altre future mamme. Di essere, come dice Piera Maghella, “un agente del cambiamento”. Con l’aiuto di una giovane ostetrica, ha impostato un vero programma di divulgazione scientifica, organizzando a Milano dei corsi personalizzati di preparazione al parto a domicilio2. “Ciò che ha innescato il mio interesse per il parto è stato apprendere, a poche settimane di gravidanza, che esisteva l’episiotomia. L’ho letto da qualche parte e ho subito avuto un istintivo rifiuto, viscerale, irresistibile”. Così, a differenza di altre mamme che per paura dell’episiotomia si fanno fare il cesareo (succede anche questo ), Claudia ha cominciato a cercare su internet, approdando infine a Ostetricainforma3. “Da lì”, racconta, “gradualmente mi si è aperto un mondo. La mia ignoranza in materia di gravidanze, parti e bambini era abissale ed ero già incamminata sulla solita strada: farmi consigliare una ginecologa da una conoscente medico. In rete si trova un po’ di tutto, ma se si decide di scendere nei dettagli, di cose sconcertanti se ne trovano: basta decidere di non prendere tutto per buono. Molti portali riportano racconti di parto al limite dell’horror. Io ero alla quinta settimana e, spinta dall’esigenza di evitare l’episiotomia, mi sono imbattuta in racconti sempre meno allettanti. Per fortuna, però, non mi sono rassegnata, ma ho cercato in tutti i modi di capire come avere un parto migliore. Ho fatto due corsi preparto, di cui uno molto rinomato a Milano perché “svedese, quindi naturale”. Ma, a furia di leggere, ne sapevo molto più di quello che mi raccontavano al corso, che francamente trovai approssimativo e disonesto (sponsorizzare l’epidurale come “parto naturale senza dolore” mi sembra scorretto). Stava maturando in me una mezza voglia di partorire in casa, oltre a una grande diffidenza nei confronti dell’ospedale. Non so se è stato per questo, ma quando sono arrivata in ospedale le contrazioni sono cessate all’istante. Non che ne avessi di forti quando sono uscita di casa, ma ero alla 41° settimana e le acque si erano rotte ormai da tre ore. Avevo chiamato la sala parto dicendo “ho rotto le acque ma non ho contrazioni: devo venire?” ed era già la terza volta che mi rispondevano “venga immediatamente!”. Eccomi: mi portano su in sedia a rotelle come un’invalida. Mi scappa un sorriso pieno di gioia (diamine, ero felice come una Pasqua, finalmente la mia bimba stava per nascere!).

Mi guardano storta, mi attaccano alla cinghia per ben 50 minuti, durante i quali non riesco a produrre neanche una contrazione come si deve (e quando sei in quella situazione, basta poco a sentirti un po’ fallita). Il ginecologo sentenzia: “Induzione, lei potrebbe partorire tra 24 ore”. Dice che non sono in travaglio attivo, ma ho le acque rotte. Risultato: io resto in ospedale ma mio marito va a casa. È mezzanotte. Sono a un centimetro di dilatazione. Vengo messa in camera con due degenti, che hanno appena partorito, suppongo! Nooooooo! Mi immagino da sola in un ospedale ad affrontare ben nove centimetri di dilatazione, con accanto due puerpere fresche di parto che disturberei con i miei lamenti. Non ce la posso fare. Anche il dottore lo sa, tant’è che mi dice che alle sei di mattina mi farà l’ossitocina. No. Io esco. Firmo e me ne vado, se per allora non è successo niente giuro che alle sei esatte sono qui a farmi fare ciò che vogliono. Ma io stanotte torno a casa con mio marito.


Il cuore mi batte all’impazzata mentre disobbedisco, il dottore cerca di dissuadermi elencando una serie di sciagure che pendono sulla testa di mia figlia. Ma l’unico parere che conta è quello di mio marito, che accoglie. Non faccio in tempo a salire sul taxi che mi prendono le contrazioni, sempre più forti. Ricorderò per sempre il travaglio di mia figlia come uno dei momenti più belli che io e mio marito abbiamo vissuto insieme. Il travaglio insieme sul nostro letto è stato il completamento del nostro percorso di conoscenza, amicizia, amore. Partorire è il prolungamento del sesso con cui si è concepito il figlio e non trovo le parole per spiegare l’intensità con cui lo percepivo mentre aspettavamo Elettra. Mia figlia è nata alle 5 di mattina. In ospedale (uno diverso dal precedente) sono arrivata a dilatazione completa, giusto per spingere. In 40 minuti dal mio arrivo in sala parto, la bambina è nata con 10/10 di Apgar. Tuttavia quei 40 minuti sono stati terribili: andava tutto benissimo, eppure ho dovuto rifiutare (urlando) l’elettrodo sulla testa della bambina, la manovra di Kristeller, l’episiotomia (ho sorpreso l’ostetrica con le forbici: me la stava facendo senza avvertire).


Ho partorito sotto ricatto, tipo “se non esce a questa spinta te la faccio”. Ho spinto come una matta, dimenticandomi di respirare, lacerandomi, per questo ricatto. Mi hanno praticato un inutile e dolorosissimo secondamento manuale a meno di cinque minuti dal parto. Mi hanno ricucita senza anestesia. Non hanno neanche dato ad Elettra una coperta per il postpartum, per cui anche tra le mie braccia aveva freddo. Ho voluto uscire il giorno dopo. L’ultimo pegno che ho dovuto pagare è stata la visita ginecologica, forse per constatare che i punti freschi, se toccati, dolgono. Eppure, ho sempre pensato “domani partorirei di nuovo”. Infatti, quando Elettra aveva 13 mesi, ero di nuovo incinta. Ho letto un manuale di ostetricia. Pur nella mia conoscenza da dilettante, sono rimasta incantata dalla perfezione mirabile del nostro corpo.


Ho ricominciato a interrogarmi sul parto in casa. Questa volta, però, la mia principale perplessità non era sulla sicurezza, bensì sull’intimità. Memore del primo travaglio a due, non volevo avere un’ostetrica in casa (ehm, “tra i piedi”) mentre partorivo. Ho posto la domanda nei forum, ma parlavo turco. Mi sono decisa a chiamare un’ostetrica trovata su internet, ma l’impressione fu pessima per tante ragioni. Comunque, io il terzo incomodo non lo volevo. Allora, contattai l’ostetrica del corso preparto nel primo ospedale. Volevo travagliare in casa, con mio marito, e arrivare lì solo per le spinte, sicura di trovare qualcuno senza forbice facile, che non mi proponesse l’elettrodo, che non mi facesse fretta e mi negasse il bicchiere d’acqua “perché sennò vomiti”. Non solo: non volevo la culla termica e volevo sapere che cosa avrebbero fatto a Giovanni nell’isola neonatale (eh sì, Leboyer è passato invano, molto invano). Ero disposta a pagare; infatti, l’ostetrica mi chiese una mazzetta salata. Però, pensandoci, rinunciai: a parte la pratica discutibile, a parte che in effetti le garanzie che mi dava erano molto labili (sarei comunque rientrata nei protocolli ospedalieri, e così il mio bimbo), mi sembrava di rinunciare a molta parte di libertà. Avrei fatto il travaglio aspettando il momento di andare lì come si aspetta il momento di uscire per un appuntamento. No, no, non è aspettando di uscire per un appuntamento (e preoccupandosi se l’ostetrica sia in turno) che si può travagliare come si deve.


Anche Giovanni sembrava non arrivare mai. Infatti superiamo la 40° settimana e a 40+4 fisso il primo monitoraggio del termine (presso un terzo ospedale). Quella notte sento le avvisaglie, ma ovviamente appena arrivo in ospedale il travaglio si smonta. Torno a casa, ma non riparte. Fuori nevica che Dio la manda e penso che al parco anche Milano sembrerà fatata. Mi infilo gli stivali ed esco da sola a camminare. Cammino due ore nella neve. Torno a casa con le contrazioni, lievi, ritmiche, giocose. Quando ne arriva una mi diverto a fare yoga con mia figlia. Non so se sono io che non ho più paura perché ormai so cosa mi aspetta, ma il secondo travaglio procede quasi senza dolore. Senza annaspamenti e senza drammi, ce la faccio da sola. Mi sento quasi egoista a dirlo: Giovanni l’ho travagliato da sola, nessuno mi ha recuperato dalle acque nere del dolore. Respirando, mi scrollavo via la contrazione e attendevo la successiva con fiducia. Non voglio andare in ospedale. Certo, sarebbe meglio evitare il traffico delle cinque, poi quello delle sei, con la neve che fiocca.


Infine, alle sette ci mettiamo in macchina. Giovanni si incorona a cento metri dall’entrata del reparto maternità. Escono le ostetriche e mi mettono sulla barella. Meno male che i bambini non nascono in un colpo solo! Giovanni non l’ho spinto, l’ho espirato. Nessuna lacerazione, nessun punto, tutto facile e liquido. Giovanni è stato gentile con me, certamente, e forse io ho avuto il privilegio raro (grazie a tanto studio!) di partorire semplicemente come una scimmia”.


Quella di Antonia è invece una storia che dimostra quanto le aspettative e i bisogni profondi di una futura mamma possano inesorabilmente infrangersi contro il muro di procedure e protocolli medici. Credo che sentirsi manipolata e non rispettata sia qualcosa di molto difficile da accettare e superare. La sua è un’esperienza drammatica, che ha avuto forti ripercussioni sull’allattamento e sul rapporto con il suo bambino: “Appena nato mio figlio, la felicità non mi ha nemmeno sfiorata. Come faccio a spiegare a questo bambino il mio rifiuto? Come faccio a spiegargli quanto è stato brutto e che, non è colpa sua, ma non riesco a pensare ad altro e non riesco ad andare oltre quello che mi hanno fatto? Un passo indietro. Ho avuto la fortuna di trascorrere nove mesi bellissimi, affrontati serenamente, senza complicazioni. Entro in ospedale alle 11,30 della mattina e fin da subito ho l’impressione di trovarmi in un ambiente ostile. Il ginecologo vedendomi apparire mi assale subito: “Signora cosa ci fa ancora qui? Le avevo detto che le perdite sono un fatto del tutto normale”. Questo perché, il giorno prima, perdendo il famigerato tappo, sotto consiglio della mia ginecologa privata mi ero recata nella struttura ospedaliera per un controllo. A tutt’oggi, nonostante che al telefono avessi assicurato alla mia ginecologa che stavo bene, non so spiegarmi perché mi abbia indirizzata al Pronto Soccorso. Io da lei volevo qualche consiglio; o forse volevo usarla da zingara con la palla di vetro per leggere il futuro. Non lo so. Sono tranquilla, ma essendo alla prima gravidanza ho bisogno di certezze, di chiarimenti. È stata una buona idea chiamarla, non lo è stato altrettanto quella di seguire le sue direttive, per scrupolo, e recarmi di filato all’ospedale. Lì non amano perdere tempo. Così mi rimandano a casa in malo modo, dopo una visita effettuata in modo sgradito e brutale. Ricordo di aver sentito fastidio misto a dolore fisico.


Comunque, lo stesso ginecologo mi dice seccamente: “C’è ancora tempo… non si precipiti qui per ogni striatura di sangue che vede!”. Lo rivedrò proprio il giorno dopo. “Che ci fa ancora qui?”. Mi attacca subito. A me sembra d’avere le contrazioni ogni 4 minuti. È la mia risposta. Al corso pre-parto l’ostetrica ci ha spiegato che quando si è prossime al parto le contrazioni arrivano ogni due minuti; ma mio marito è davvero molto agitato e anch’io non sono certo molto tranquilla. Cerco di cambiare posizione quando arrivano per alleviare le fitte, ma non è che stia benissimo. Lo sguardo del medico mi fa venire il dubbio che, forse, il travaglio è qualcos’altro. Lui non è tanto dell’umore giusto, però mi visita subito e per fortuna mi trova già dilatata di 7 centimetri. Sono salva. Non me lo sono inventata.


Trovo le doglie umanamente sopportabili. E forse, già da quest’accenno qualcuno avrebbe potuto accorgersi che qualcosa non andava… Andiamo subito in sala parto, mio marito, io e l’ostetrica. Lei è molto buona e umana con me; controlla e dice con sicurezza che la testa del bambino è già impegnata. Mi indica il bagno, la doccia, mi chiede se voglio usare una sorta di sgabello, se voglio mettermi accucciata sul lettino… parliamo di un sacco di cose e quasi mi dimentico delle contrazioni. Mio marito è con me, comunque ho scelto di non volerlo accanto durante il parto. Non vorrei che mi vedesse soffrire. Non vorrei che mi vedesse nessuno.


Chiedo all’ostetrica se posso usare la vasca. Mi piacerebbe partorire in acqua. Hanno detto che per il bambino è un elemento meno traumatico dell’aria e aiuta a non lacerarsi. Forse sono molto deconcentrata. Continuo a parlare con l’ostetrica, che a un certo punto mi dice che non sembro nemmeno in travaglio. Controlla, ho delle contrazioni deboli; posso tentare la vasca per il parto, ma lei non si sente di consigliarmela. Qui faccio davvero un grossissimo errore: non seguo il suo consiglio e chiedo di entrare lo stesso in acqua. È gentilissima e mi accontenta. Mio marito si accomoda fuori. Entro in vasca e mi spiega che, quando inizio a sentire la fase ascendente delle contrazioni, devo cercare di spingere come quando vado in bagno. Stesso meccanismo. Mi sforzo, mi dice di puntare i piedi, mi dà delle dritte e cerco di fare del mio meglio. Sono arrivata al Pronto Soccorso alle 11,30, mi hanno visitato alle 12,30 e sono entrata in sala parto verso l’una del pomeriggio. L’ostetrica è sempre stata con me. Però ora siamo a cavallo del suo cambio turno. Sono le 14 ed entra in azione l’altra operatrice sanitaria. Mentre lei esce, l’altra prende il suo posto. Io sono ancora in vasca, guardo l’orologio, conto le spinte, sono un po’ stanca. È dalle 23 del giorno prima che ho le doglie, non ho dormito tutta la notte, non ho mangiato, sono molto scombussolata. E nessun accenno di spinte. Dov’è quella sensazione irrefrenabile che ti spinge a sparare fuori un bambino? Dove s’è cacciata?


Mio Dio. Non ce la faccio. Spingo ma non esce nulla. Inizio anche a sentirmi un po’ strana in acqua. Non avverto neanche più una contrazione forte, mi sento o tutto un dolore o tutta un’assenza di dolori: devo decidere. Avverto solo che mi gira un po’ la testa, ho bisogno di uscire dalla vasca.


L’ostetrica mi fa stendere sul lettino e fa un tracciato. Dice di spingere. Spingo. Più forte. Spingo, evacuo pure. Me ne vergogno… me l’avevano detto che poteva succedere… è capitato. Dopo molte spinte andate a vuoto io non ce la faccio più. Quest’ostetrica chiama un’infermiera. Usano la flebo con l’ossitocina. Poi, mi infilano nel canale la garza per indurmi le contrazioni. “Non spinge. Ho bisogno di una mano”. Io cerco di spingere ma non viene fuori niente… Sono stralunatissima. Inizia a salirmi addosso un po’ di terrore: ho paura. Che succede? Sono ferma lì sul lettino. Mi dicono di spingere, controllano il tracciato. Una con l’altra si chiedono del battito del piccolo e sento che dicono che va tutto bene. Meno male.


Spingi, mi dicono. Spingo. Spingo. Spingo. Cerco di afferrarmi ai tubolari del lettino. Ho la flebo che mi dà fastidio, mentre cerco di afferrarmi a qualcosa per spingere. Voglio mettermi un po’ più seduta, ma non posso. Spingi mi dicono. Spingo. Però, ad un certo punto, una dice che useranno la ventosa. Voglio un cesareo! Le dico. Ma lei mi risponde che non si può perché ormai il bambino è incanalato. Non sento più nulla, mi sento immune ad ogni doglia. Se potessi, scenderei dal lettino e andrei a nascondermi da qualche parte. Credo di essere diventata improvvisamente illogica.


Vorrei spegnerli tutti, infermiere, ostetrica… Spingi, spingi. Poi, cavolo, un dolore assurdo lì sotto! Chiudo di scatto le gambe e l’ostetrica, tirando su le forbici tutte insanguinate, mi urla: “Signora lo vuole uccidere questo bambino?”. O mio Dio… O mio Dio… O mio Dio… Mi affievolisco come un palloncino sgonfio. Mi immobilizzo. Cerco di non muovermi mentre tagliano e usano la ventosa. Io lì completamente ferma. Spingi! Spingi! Chiamano una terza infermiera e le domandano di praticare su di me la manovra di Kristeller. “Non spinge. Aiutaci”. E l’infermiera mi chiede per l’ennesima volta di spingere quando sento una contrazione, mentre lei si butta su di me col gomito. “Devi cercare di spingere quando senti le contrazioni, hai capito?”. Continuo a dirglielo che non le sento più, che non sento più niente ma, secondo me, crede che io sia scema o improvvisamente pazza… Una botta fortissima sulla pancia, una dietro l’altra. Le imploro di smetterla, non riesco più a respirare! Ci provano per quattro volte senza risultati. Tento di respirare, ma mi arrivano colpi nello stomaco a ripetizione.


C’è moltissimo sangue. Lo ricordo perché cerco di muovermi ma mi rispediscono subito giù. Sono confusa, cosa stanno facendo? Quattro volte come se sentissi aspirare. Sangue. E pensare che ho sempre avuto un buon rapporto col mio sangue… straparlo, lo vedo lì per terra, addosso all’ostetrica. Sono un po’ scioccata da quello che mi sta succedendo perché mi convinco che potrei anche morire, per tutto quello che fanno. Ho quasi la testa da un’altra parte e straparlo. Eppure non ho in corpo nessuna anestesia… È la mia testa che cerca di scappare dal corpo, da questa situazione. Voglio che finisca tutto in fretta, mi sento una carcassa da dove si estraggono i bambini.


Chiamano una dottoressa, lei non è certo più clemente nei miei confronti. Le si legge in faccia che pensa sia una completa incapace a spingere. “Non ci riesco. Non riuscivo nemmeno a respirare” e mi vergogno così tanto perché sto piangendo tantissimo, colpa del pestaggio. La ginecologa mi minaccia a muso duro: “Facciamo entrare suo marito?”. Come ha fatto a capire che non voglio che nessuno dei miei cari mi veda soffrire? “No… non fate entrare nessuno”, prego, e piango di più. Che rabbia. Ma è rabbia? No, perché mi sembra di averla supplicata… Prego, continuate a pestare sulla mia pancia. Ce la fanno. La carcassa viene spremuta a dovere e il neonato esce.


Nato alle ore 15,45 del pomeriggio. Lo mettono sulla mia pancia ma è come se fossi con la testa da un’altra parte. Vorrei andare via. Essere da un’altra parte. Spero che il bambino non senta quello che sente la madre. Perché io in quel momento non lo vorrei lì con me.


Guardo l’infermiera della manovra di Kristeller e le stringo la mano intorno al braccio, è finita. Non so perché ma, tra le miriadi di pensieri che mi passano per il cervello, credo che vorrei anche ringraziarla, che lo ha fatto venir fuori lei questo bambino. Perché io non ero capace. Lei mi apostrofa con un “adesso cosa vuoi?” e butta letteralmente via la mia mano dal suo braccio. Esce di scena, così. Come se fossi un mostro. Inizio a piangere, singhiozzo davvero fortissimo. Un’altra infermiera, parlando all’ostetrica o a mio marito, spiega a modo suo: “Ooh… magari pensa d’aver fatto del male al bambino”. In realtà no, però è l’unica in quella stanza che forse pensa qualcosa di positivo su di me. Guardo il piccolo. Per fortuna è sano.


Ancora quel pensiero: vorrei lo prendessero e lo portassero via subito perché io voglio lasciarmi andare e precipitare nel sonno. Non voglio vedere nessuno. Voglio solo dormire. Sento un suono sordo nelle orecchie, come un fischio continuo, e le voci che attraversano un filtro di ovatta. Ho il bambino appoggiato al seno, domando a mio marito che mi è accanto se ha la testa lunga per la ventosa. Gli dico che è colpa mia perché non spingevo. Appena cerco di alzarmi svengo ma mi riprendo subito aggrappandomi al lettino. Mi portano su con la sedia a rotelle. Nei giorni che seguono, continuo a piangere. Di notte, quando non mi vede nessuno. Non riesco nemmeno ad allattare il mio bambino al seno. Mi fa male stare seduta e, in più, quando cerco di sollevarmi dal letto o devo tenere in braccio il piccolo, avverto delle fitte fortissime al torace. Devo trattenere il respiro e non riempire troppo i polmoni perché mi fa male.


In ospedale mi fanno pure le lastre, grazie a un’ostetrica… però, al momento di spiegare cos’abbia, si limitano a dire che, se ho le costole incrinate, dalle lastre non l’hanno visto. Mi sono immaginata anche questo, bene… Anche se, a distanza di qualche mese, il mio dottore ha messo in evidenza un grosso callo osseo sulla gabbia toracica, probabilmente dovuto a una frattura delle costole. Un evidente grosso consolidato rigonfiamento che si nota ad occhio nudo e al tatto. Giusto per dire che non me lo sono sognata…


Esco dall’ospedale convincendomi d’essere un fallimento completo per Madre Natura. Intanto, faccio fatica ad allattare, soffro come un cane per le fitte che non mi permettono neanche di sollevare il mio piccolo fagottino di tre chili e mezzo. Alla fine nemmeno allatto bene. Mi viene una mastite e la febbre a quaranta ogni due giorni. Sono molto provata, tutti questi stenti continui mi fanno desistere. Così smetto pure di allattare. Psicologicamente sto male, continuo a piangere perché rivedo le scene del mio parto e lo catalogo sempre di più come una vera e propria aggressione in piena regola. A tratti mi sento violentata, penso alle forbici e a quando le ho sentite tagliare.


Dopo qualche mese faccio i controlli di routine dal ginecologo: i legamenti sono stati compromessi, cosa abbastanza frequente nei parti con ventosa, e purtroppo si è verificato un prolasso dell’utero. L’ospedale dove ho partorito si fregia di incoraggiare il parto naturale, d’essere un Ospedale ‘Amico del Bambino’. Peccato che alcuni operatori sanitari, di contro, non siano tanto amici della mamma. E che archivino come parto spontaneo un epilogo di gravidanza come il mio. Sono arrivata a una conclusione: quando va male, il parto non è un ‘male’ che si dimentica. Il male è un male.


Se ho imparato qualcosa da questa esperienza è che ogni donna dovrebbe poter partorire in un ambiente che protegga anche la sua sfera personale. Sembra di profanare un terreno sacro ma per me partorire ha messo in luce un aspetto… animale. Chissà, forse l’istinto a spingere fuori il mio bambino l’avrei ritrovato se mi avessero lasciato in pace! Il mio, iniziato come parto in acqua, è finito sul lettino per abbreviare i tempi; perché in acqua il tempo tra una contrazione e l’altra si era allungato. Io, in quel momento, impegnavo la stanza della vasca ma senza utilizzarla. Chi lo sa, forse mi stavo prendendo troppo tempo…”.


Ma Antonia non si è arresa. Poco tempo fa mi ha scritto: “Lo sai che, grazie a te, mi sto guardando intorno per prendere notizie sul parto in casa? Già, non ne ho avuto abbastanza. Voglio ripetere l’esperienza, ma stavolta non sarà un salto nel vuoto. Ho tanta voglia di mettermi di nuovo alla prova. Spero di riavere indietro quello status di madre che sento mi abbiano in qualche modo tolto”.

Il parto in casa
Il parto in casa
Elisabetta Malvagna
Nascere nell’intimità familiare, secondo natura.Tanti consigli pratici e utili suggerimenti per prepararsi ad affrontare al meglio il parto in casa, in completa sicurezza. Oggi la quasi totalità dei parti avviene in ospedale, e il 40% di questi termina con un taglio cesareo. Negli ultimi tempi, però, l’approccio alla maternità sta cambiando: cresce infatti il numero delle donne che vorrebbe vivere questo momento in modo più naturale, con intorno quanto di più caro.Nel suo libro Il parto in casa, dedicato a una scelta che in Italia è ancora oggetto di resistenze, pregiudizi e tabù, Elisabetta Malvagna, con occhio attento, indaga senza preconcetti su questa pratica e ne sostiene la sicurezza, documentando le sue teorie con un’ampia letteratura scientifica e proponendo un’interessante riflessione sul rapporto tra la donna moderna e la nascita.Partendo dalla propria esperienza di mamma di due bambini nati tra le mura domestiche, l’autrice riporta dati, statistiche e numerose testimonianze di personalità del settore, operatori e mamme che hanno scelto questa opzione. Sono poi forniti numerosi e utili consigli pratici per prepararsi ad affrontare questo straordinario momento al meglio e in completa sicurezza.Non mancano, infine, un decalogo sull’allattamento e un manuale di sopravvivenza per gravidanza, parto e post parto, oltre a capitoli sulla figura dell’ostetrica e sulle Case di Maternità. Conosci l’autore Elisabetta Malvagna, giornalista Ansa, scrittrice e blogger, studia da anni il tema della nascita.Ha fondato e cura i blog partoriresenzapaura.it, ispirato all’omonimo libro uscito nel 2008 e ormai divenuto un classico del settore, e partoincasa.it.