Mi guardano storta, mi attaccano alla cinghia per ben 50 minuti, durante i quali non riesco a produrre neanche una contrazione come si deve (e quando sei in quella situazione, basta poco a sentirti un po’ fallita). Il ginecologo sentenzia: “Induzione, lei potrebbe partorire tra 24 ore”. Dice che non sono in travaglio attivo, ma ho le acque rotte. Risultato: io resto in ospedale ma mio marito va a casa. È mezzanotte. Sono a un centimetro di dilatazione. Vengo messa in camera con due degenti, che hanno appena partorito, suppongo! Nooooooo! Mi immagino da sola in un ospedale ad affrontare ben nove centimetri di dilatazione, con accanto due puerpere fresche di parto che disturberei con i miei lamenti. Non ce la posso fare. Anche il dottore lo sa, tant’è che mi dice che alle sei di mattina mi farà l’ossitocina. No. Io esco. Firmo e me ne vado, se per allora non è successo niente giuro che alle sei esatte sono qui a farmi fare ciò che vogliono. Ma io stanotte torno a casa con mio marito.
Il cuore mi batte all’impazzata mentre disobbedisco, il dottore cerca di dissuadermi elencando una serie di sciagure che pendono sulla testa di mia figlia. Ma l’unico parere che conta è quello di mio marito, che accoglie. Non faccio in tempo a salire sul taxi che mi prendono le contrazioni, sempre più forti. Ricorderò per sempre il travaglio di mia figlia come uno dei momenti più belli che io e mio marito abbiamo vissuto insieme. Il travaglio insieme sul nostro letto è stato il completamento del nostro percorso di conoscenza, amicizia, amore. Partorire è il prolungamento del sesso con cui si è concepito il figlio e non trovo le parole per spiegare l’intensità con cui lo percepivo mentre aspettavamo Elettra. Mia figlia è nata alle 5 di mattina. In ospedale (uno diverso dal precedente) sono arrivata a dilatazione completa, giusto per spingere. In 40 minuti dal mio arrivo in sala parto, la bambina è nata con 10/10 di Apgar. Tuttavia quei 40 minuti sono stati terribili: andava tutto benissimo, eppure ho dovuto rifiutare (urlando) l’elettrodo sulla testa della bambina, la manovra di Kristeller, l’episiotomia (ho sorpreso l’ostetrica con le forbici: me la stava facendo senza avvertire).
Ho partorito sotto ricatto, tipo “se non esce a questa spinta te la faccio”. Ho spinto come una matta, dimenticandomi di respirare, lacerandomi, per questo ricatto. Mi hanno praticato un inutile e dolorosissimo secondamento manuale a meno di cinque minuti dal parto. Mi hanno ricucita senza anestesia. Non hanno neanche dato ad Elettra una coperta per il postpartum, per cui anche tra le mie braccia aveva freddo. Ho voluto uscire il giorno dopo. L’ultimo pegno che ho dovuto pagare è stata la visita ginecologica, forse per constatare che i punti freschi, se toccati, dolgono. Eppure, ho sempre pensato “domani partorirei di nuovo”. Infatti, quando Elettra aveva 13 mesi, ero di nuovo incinta. Ho letto un manuale di ostetricia. Pur nella mia conoscenza da dilettante, sono rimasta incantata dalla perfezione mirabile del nostro corpo.
Ho ricominciato a interrogarmi sul parto in casa. Questa volta, però, la mia principale perplessità non era sulla sicurezza, bensì sull’intimità. Memore del primo travaglio a due, non volevo avere un’ostetrica in casa (ehm, “tra i piedi”) mentre partorivo. Ho posto la domanda nei forum, ma parlavo turco. Mi sono decisa a chiamare un’ostetrica trovata su internet, ma l’impressione fu pessima per tante ragioni. Comunque, io il terzo incomodo non lo volevo. Allora, contattai l’ostetrica del corso preparto nel primo ospedale. Volevo travagliare in casa, con mio marito, e arrivare lì solo per le spinte, sicura di trovare qualcuno senza forbice facile, che non mi proponesse l’elettrodo, che non mi facesse fretta e mi negasse il bicchiere d’acqua “perché sennò vomiti”. Non solo: non volevo la culla termica e volevo sapere che cosa avrebbero fatto a Giovanni nell’isola neonatale (eh sì, Leboyer è passato invano, molto invano). Ero disposta a pagare; infatti, l’ostetrica mi chiese una mazzetta salata. Però, pensandoci, rinunciai: a parte la pratica discutibile, a parte che in effetti le garanzie che mi dava erano molto labili (sarei comunque rientrata nei protocolli ospedalieri, e così il mio bimbo), mi sembrava di rinunciare a molta parte di libertà. Avrei fatto il travaglio aspettando il momento di andare lì come si aspetta il momento di uscire per un appuntamento. No, no, non è aspettando di uscire per un appuntamento (e preoccupandosi se l’ostetrica sia in turno) che si può travagliare come si deve.
Anche Giovanni sembrava non arrivare mai. Infatti superiamo la 40° settimana e a 40+4 fisso il primo monitoraggio del termine (presso un terzo ospedale). Quella notte sento le avvisaglie, ma ovviamente appena arrivo in ospedale il travaglio si smonta. Torno a casa, ma non riparte. Fuori nevica che Dio la manda e penso che al parco anche Milano sembrerà fatata. Mi infilo gli stivali ed esco da sola a camminare. Cammino due ore nella neve. Torno a casa con le contrazioni, lievi, ritmiche, giocose. Quando ne arriva una mi diverto a fare yoga con mia figlia. Non so se sono io che non ho più paura perché ormai so cosa mi aspetta, ma il secondo travaglio procede quasi senza dolore. Senza annaspamenti e senza drammi, ce la faccio da sola. Mi sento quasi egoista a dirlo: Giovanni l’ho travagliato da sola, nessuno mi ha recuperato dalle acque nere del dolore. Respirando, mi scrollavo via la contrazione e attendevo la successiva con fiducia. Non voglio andare in ospedale. Certo, sarebbe meglio evitare il traffico delle cinque, poi quello delle sei, con la neve che fiocca.
Infine, alle sette ci mettiamo in macchina. Giovanni si incorona a cento metri dall’entrata del reparto maternità. Escono le ostetriche e mi mettono sulla barella. Meno male che i bambini non nascono in un colpo solo! Giovanni non l’ho spinto, l’ho espirato. Nessuna lacerazione, nessun punto, tutto facile e liquido. Giovanni è stato gentile con me, certamente, e forse io ho avuto il privilegio raro (grazie a tanto studio!) di partorire semplicemente come una scimmia”.
Quella di Antonia è invece una storia che dimostra quanto le aspettative e i bisogni profondi di una futura mamma possano inesorabilmente infrangersi contro il muro di procedure e protocolli medici. Credo che sentirsi manipolata e non rispettata sia qualcosa di molto difficile da accettare e superare. La sua è un’esperienza drammatica, che ha avuto forti ripercussioni sull’allattamento e sul rapporto con il suo bambino: “Appena nato mio figlio, la felicità non mi ha nemmeno sfiorata. Come faccio a spiegare a questo bambino il mio rifiuto? Come faccio a spiegargli quanto è stato brutto e che, non è colpa sua, ma non riesco a pensare ad altro e non riesco ad andare oltre quello che mi hanno fatto? Un passo indietro. Ho avuto la fortuna di trascorrere nove mesi bellissimi, affrontati serenamente, senza complicazioni. Entro in ospedale alle 11,30 della mattina e fin da subito ho l’impressione di trovarmi in un ambiente ostile. Il ginecologo vedendomi apparire mi assale subito: “Signora cosa ci fa ancora qui? Le avevo detto che le perdite sono un fatto del tutto normale”. Questo perché, il giorno prima, perdendo il famigerato tappo, sotto consiglio della mia ginecologa privata mi ero recata nella struttura ospedaliera per un controllo. A tutt’oggi, nonostante che al telefono avessi assicurato alla mia ginecologa che stavo bene, non so spiegarmi perché mi abbia indirizzata al Pronto Soccorso. Io da lei volevo qualche consiglio; o forse volevo usarla da zingara con la palla di vetro per leggere il futuro. Non lo so. Sono tranquilla, ma essendo alla prima gravidanza ho bisogno di certezze, di chiarimenti. È stata una buona idea chiamarla, non lo è stato altrettanto quella di seguire le sue direttive, per scrupolo, e recarmi di filato all’ospedale. Lì non amano perdere tempo. Così mi rimandano a casa in malo modo, dopo una visita effettuata in modo sgradito e brutale. Ricordo di aver sentito fastidio misto a dolore fisico.
Comunque, lo stesso ginecologo mi dice seccamente: “C’è ancora tempo… non si precipiti qui per ogni striatura di sangue che vede!”. Lo rivedrò proprio il giorno dopo. “Che ci fa ancora qui?”. Mi attacca subito. A me sembra d’avere le contrazioni ogni 4 minuti. È la mia risposta. Al corso pre-parto l’ostetrica ci ha spiegato che quando si è prossime al parto le contrazioni arrivano ogni due minuti; ma mio marito è davvero molto agitato e anch’io non sono certo molto tranquilla. Cerco di cambiare posizione quando arrivano per alleviare le fitte, ma non è che stia benissimo. Lo sguardo del medico mi fa venire il dubbio che, forse, il travaglio è qualcos’altro. Lui non è tanto dell’umore giusto, però mi visita subito e per fortuna mi trova già dilatata di 7 centimetri. Sono salva. Non me lo sono inventata.
Trovo le doglie umanamente sopportabili. E forse, già da quest’accenno qualcuno avrebbe potuto accorgersi che qualcosa non andava… Andiamo subito in sala parto, mio marito, io e l’ostetrica. Lei è molto buona e umana con me; controlla e dice con sicurezza che la testa del bambino è già impegnata. Mi indica il bagno, la doccia, mi chiede se voglio usare una sorta di sgabello, se voglio mettermi accucciata sul lettino… parliamo di un sacco di cose e quasi mi dimentico delle contrazioni. Mio marito è con me, comunque ho scelto di non volerlo accanto durante il parto. Non vorrei che mi vedesse soffrire. Non vorrei che mi vedesse nessuno.
Chiedo all’ostetrica se posso usare la vasca. Mi piacerebbe partorire in acqua. Hanno detto che per il bambino è un elemento meno traumatico dell’aria e aiuta a non lacerarsi. Forse sono molto deconcentrata. Continuo a parlare con l’ostetrica, che a un certo punto mi dice che non sembro nemmeno in travaglio. Controlla, ho delle contrazioni deboli; posso tentare la vasca per il parto, ma lei non si sente di consigliarmela. Qui faccio davvero un grossissimo errore: non seguo il suo consiglio e chiedo di entrare lo stesso in acqua. È gentilissima e mi accontenta. Mio marito si accomoda fuori. Entro in vasca e mi spiega che, quando inizio a sentire la fase ascendente delle contrazioni, devo cercare di spingere come quando vado in bagno. Stesso meccanismo. Mi sforzo, mi dice di puntare i piedi, mi dà delle dritte e cerco di fare del mio meglio. Sono arrivata al Pronto Soccorso alle 11,30, mi hanno visitato alle 12,30 e sono entrata in sala parto verso l’una del pomeriggio. L’ostetrica è sempre stata con me. Però ora siamo a cavallo del suo cambio turno. Sono le 14 ed entra in azione l’altra operatrice sanitaria. Mentre lei esce, l’altra prende il suo posto. Io sono ancora in vasca, guardo l’orologio, conto le spinte, sono un po’ stanca. È dalle 23 del giorno prima che ho le doglie, non ho dormito tutta la notte, non ho mangiato, sono molto scombussolata. E nessun accenno di spinte. Dov’è quella sensazione irrefrenabile che ti spinge a sparare fuori un bambino? Dove s’è cacciata?
Mio Dio. Non ce la faccio. Spingo ma non esce nulla. Inizio anche a sentirmi un po’ strana in acqua. Non avverto neanche più una contrazione forte, mi sento o tutto un dolore o tutta un’assenza di dolori: devo decidere. Avverto solo che mi gira un po’ la testa, ho bisogno di uscire dalla vasca.
L’ostetrica mi fa stendere sul lettino e fa un tracciato. Dice di spingere. Spingo. Più forte. Spingo, evacuo pure. Me ne vergogno… me l’avevano detto che poteva succedere… è capitato. Dopo molte spinte andate a vuoto io non ce la faccio più. Quest’ostetrica chiama un’infermiera. Usano la flebo con l’ossitocina. Poi, mi infilano nel canale la garza per indurmi le contrazioni. “Non spinge. Ho bisogno di una mano”. Io cerco di spingere ma non viene fuori niente… Sono stralunatissima. Inizia a salirmi addosso un po’ di terrore: ho paura. Che succede? Sono ferma lì sul lettino. Mi dicono di spingere, controllano il tracciato. Una con l’altra si chiedono del battito del piccolo e sento che dicono che va tutto bene. Meno male.
Spingi, mi dicono. Spingo. Spingo. Spingo. Cerco di afferrarmi ai tubolari del lettino. Ho la flebo che mi dà fastidio, mentre cerco di afferrarmi a qualcosa per spingere. Voglio mettermi un po’ più seduta, ma non posso. Spingi mi dicono. Spingo. Però, ad un certo punto, una dice che useranno la ventosa. Voglio un cesareo! Le dico. Ma lei mi risponde che non si può perché ormai il bambino è incanalato. Non sento più nulla, mi sento immune ad ogni doglia. Se potessi, scenderei dal lettino e andrei a nascondermi da qualche parte. Credo di essere diventata improvvisamente illogica.
Vorrei spegnerli tutti, infermiere, ostetrica… Spingi, spingi. Poi, cavolo, un dolore assurdo lì sotto! Chiudo di scatto le gambe e l’ostetrica, tirando su le forbici tutte insanguinate, mi urla: “Signora lo vuole uccidere questo bambino?”. O mio Dio… O mio Dio… O mio Dio… Mi affievolisco come un palloncino sgonfio. Mi immobilizzo. Cerco di non muovermi mentre tagliano e usano la ventosa. Io lì completamente ferma. Spingi! Spingi! Chiamano una terza infermiera e le domandano di praticare su di me la manovra di Kristeller. “Non spinge. Aiutaci”. E l’infermiera mi chiede per l’ennesima volta di spingere quando sento una contrazione, mentre lei si butta su di me col gomito. “Devi cercare di spingere quando senti le contrazioni, hai capito?”. Continuo a dirglielo che non le sento più, che non sento più niente ma, secondo me, crede che io sia scema o improvvisamente pazza… Una botta fortissima sulla pancia, una dietro l’altra. Le imploro di smetterla, non riesco più a respirare! Ci provano per quattro volte senza risultati. Tento di respirare, ma mi arrivano colpi nello stomaco a ripetizione.
C’è moltissimo sangue. Lo ricordo perché cerco di muovermi ma mi rispediscono subito giù. Sono confusa, cosa stanno facendo? Quattro volte come se sentissi aspirare. Sangue. E pensare che ho sempre avuto un buon rapporto col mio sangue… straparlo, lo vedo lì per terra, addosso all’ostetrica. Sono un po’ scioccata da quello che mi sta succedendo perché mi convinco che potrei anche morire, per tutto quello che fanno. Ho quasi la testa da un’altra parte e straparlo. Eppure non ho in corpo nessuna anestesia… È la mia testa che cerca di scappare dal corpo, da questa situazione. Voglio che finisca tutto in fretta, mi sento una carcassa da dove si estraggono i bambini.
Chiamano una dottoressa, lei non è certo più clemente nei miei confronti. Le si legge in faccia che pensa sia una completa incapace a spingere. “Non ci riesco. Non riuscivo nemmeno a respirare” e mi vergogno così tanto perché sto piangendo tantissimo, colpa del pestaggio. La ginecologa mi minaccia a muso duro: “Facciamo entrare suo marito?”. Come ha fatto a capire che non voglio che nessuno dei miei cari mi veda soffrire? “No… non fate entrare nessuno”, prego, e piango di più. Che rabbia. Ma è rabbia? No, perché mi sembra di averla supplicata… Prego, continuate a pestare sulla mia pancia. Ce la fanno. La carcassa viene spremuta a dovere e il neonato esce.
Nato alle ore 15,45 del pomeriggio. Lo mettono sulla mia pancia ma è come se fossi con la testa da un’altra parte. Vorrei andare via. Essere da un’altra parte. Spero che il bambino non senta quello che sente la madre. Perché io in quel momento non lo vorrei lì con me.
Guardo l’infermiera della manovra di Kristeller e le stringo la mano intorno al braccio, è finita. Non so perché ma, tra le miriadi di pensieri che mi passano per il cervello, credo che vorrei anche ringraziarla, che lo ha fatto venir fuori lei questo bambino. Perché io non ero capace. Lei mi apostrofa con un “adesso cosa vuoi?” e butta letteralmente via la mia mano dal suo braccio. Esce di scena, così. Come se fossi un mostro. Inizio a piangere, singhiozzo davvero fortissimo. Un’altra infermiera, parlando all’ostetrica o a mio marito, spiega a modo suo: “Ooh… magari pensa d’aver fatto del male al bambino”. In realtà no, però è l’unica in quella stanza che forse pensa qualcosa di positivo su di me. Guardo il piccolo. Per fortuna è sano.
Ancora quel pensiero: vorrei lo prendessero e lo portassero via subito perché io voglio lasciarmi andare e precipitare nel sonno. Non voglio vedere nessuno. Voglio solo dormire. Sento un suono sordo nelle orecchie, come un fischio continuo, e le voci che attraversano un filtro di ovatta. Ho il bambino appoggiato al seno, domando a mio marito che mi è accanto se ha la testa lunga per la ventosa. Gli dico che è colpa mia perché non spingevo. Appena cerco di alzarmi svengo ma mi riprendo subito aggrappandomi al lettino. Mi portano su con la sedia a rotelle. Nei giorni che seguono, continuo a piangere. Di notte, quando non mi vede nessuno. Non riesco nemmeno ad allattare il mio bambino al seno. Mi fa male stare seduta e, in più, quando cerco di sollevarmi dal letto o devo tenere in braccio il piccolo, avverto delle fitte fortissime al torace. Devo trattenere il respiro e non riempire troppo i polmoni perché mi fa male.
In ospedale mi fanno pure le lastre, grazie a un’ostetrica… però, al momento di spiegare cos’abbia, si limitano a dire che, se ho le costole incrinate, dalle lastre non l’hanno visto. Mi sono immaginata anche questo, bene… Anche se, a distanza di qualche mese, il mio dottore ha messo in evidenza un grosso callo osseo sulla gabbia toracica, probabilmente dovuto a una frattura delle costole. Un evidente grosso consolidato rigonfiamento che si nota ad occhio nudo e al tatto. Giusto per dire che non me lo sono sognata…
Esco dall’ospedale convincendomi d’essere un fallimento completo per Madre Natura. Intanto, faccio fatica ad allattare, soffro come un cane per le fitte che non mi permettono neanche di sollevare il mio piccolo fagottino di tre chili e mezzo. Alla fine nemmeno allatto bene. Mi viene una mastite e la febbre a quaranta ogni due giorni. Sono molto provata, tutti questi stenti continui mi fanno desistere. Così smetto pure di allattare. Psicologicamente sto male, continuo a piangere perché rivedo le scene del mio parto e lo catalogo sempre di più come una vera e propria aggressione in piena regola. A tratti mi sento violentata, penso alle forbici e a quando le ho sentite tagliare.
Dopo qualche mese faccio i controlli di routine dal ginecologo: i legamenti sono stati compromessi, cosa abbastanza frequente nei parti con ventosa, e purtroppo si è verificato un prolasso dell’utero. L’ospedale dove ho partorito si fregia di incoraggiare il parto naturale, d’essere un Ospedale ‘Amico del Bambino’. Peccato che alcuni operatori sanitari, di contro, non siano tanto amici della mamma. E che archivino come parto spontaneo un epilogo di gravidanza come il mio. Sono arrivata a una conclusione: quando va male, il parto non è un ‘male’ che si dimentica. Il male è un male.
Se ho imparato qualcosa da questa esperienza è che ogni donna dovrebbe poter partorire in un ambiente che protegga anche la sua sfera personale. Sembra di profanare un terreno sacro ma per me partorire ha messo in luce un aspetto… animale. Chissà, forse l’istinto a spingere fuori il mio bambino l’avrei ritrovato se mi avessero lasciato in pace! Il mio, iniziato come parto in acqua, è finito sul lettino per abbreviare i tempi; perché in acqua il tempo tra una contrazione e l’altra si era allungato. Io, in quel momento, impegnavo la stanza della vasca ma senza utilizzarla. Chi lo sa, forse mi stavo prendendo troppo tempo…”.
Ma Antonia non si è arresa. Poco tempo fa mi ha scritto: “Lo sai che, grazie a te, mi sto guardando intorno per prendere notizie sul parto in casa? Già, non ne ho avuto abbastanza. Voglio ripetere l’esperienza, ma stavolta non sarà un salto nel vuoto. Ho tanta voglia di mettermi di nuovo alla prova. Spero di riavere indietro quello status di madre che sento mi abbiano in qualche modo tolto”.